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Autore Discussione: RODOTA'. -  (Letto 20942 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Giugno 13, 2010, 12:14:38 pm »

L'ANALISI

Privacy, trasparenza e diritto di sapere

di STEFANO RODOTA'

QUALE governo ha drasticamente ridotto la privacy dei dipendenti pubblici, modificando addirittura il primo articolo del Codice che regola questa materia?
Quale governo ha messo nelle mani delle società di marketing la privacy telefonica delle persone, capovolgendo le regole che proprio gli interessati avevano mostrato di gradire? Quale governo ha incentivato il diffondersi della sorveglianza capillare sulle persone? Quale governo ha abbandonato ogni iniziativa sulla tutela della libertà su Internet, che aveva dato all'Italia un significativo primato internazionale? Quale maggioranza ha sfornato e continua a sfornare proposte di legge e emendamenti volti a limitare la privacy di chi naviga in rete? Proprio governo e maggioranza che ora innalzano il vessillo della privacy, invocano l'art. 15 della Costituzione e ricorrono al voto di fiducia.

Questi fatti, incontestabili, non mettono soltanto in luce una contraddizione clamorosa. Consentono di cogliere quale sia l'obiettivo vero dell'improvviso entusiasmo per la riservatezza. Mentre viene sacrificata senza batter ciglio la privacy di milioni di persone, si fanno le barricate proprio là dove la riflessione culturale e l'evoluzione legislativa inducono a ritenere che, per alcune categorie di persone e in situazioni particolari, le "aspettative di privacy" debbano essere drasticamente ridotte. Si tratta delle "figure pubbliche", delle persone indagate, delle attività economiche.

Questi non sono argomenti inventati oggi per dare sostegno a chi polemizza contro "la legge bavaglio". Quando, nel 2003, con una significativa convergenza tra il Garante per la privacy e il Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti, si misero a punto le regole sul diritto d'informare, l'articolo 6 del Codice di deontologia venne scritto così: "La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilevo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica". Parole chiarissime, così come è chiara la ragione di questa ridotta "aspettativa di privacy" per tutti quelli che hanno ruoli pubblici.

In democrazia non bastano i controlli istituzionali (parlamentari, giudiziari, burocratici), serve il controllo diffuso di tutti i cittadini, dunque la trasparenza.
Si era consapevoli della necessità di non far divenire la privacy uno strumento che, invece di tutelare le sacrosante ragioni dell'intimità, serva a coprire attività che devono essere sempre sottoposte al giudizio di una opinione pubblica adeguatamente informata. Si seguiva così il filone inaugurato nel 1964 da una celebre sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso New York Times contro Sullivan, quando si riconobbe il diritto della stampa di pubblicare addirittura notizie false e diffamatorie riguardanti "figure pubbliche", salvo nel caso in cui ciò fosse fatto con "actual malice".

Questa linea è stata seguita in moltissimi paesi e, in un caso riguardante uno stretto collaboratore del Presidente Mitterrand, la Corte europea dei diritti dell'uomo è andata oltre, affermando che, in un sistema democratico, è legittima persino la pubblicazione di notizie coperte dal segreto, per consentire il controllo su come viene esercitato il potere. Diritto di sapere, esercizio del controllo democratico e trasparenza sono strettamente intrecciati, e neppure il segreto e l'eventuale falsità della notizia possono interrompere questo circuito virtuoso, impedire la circolazione delle informazioni.

Una pur minima cultura della privacy dovrebbe essere provvista di questo bagaglio, che ci avrebbe risparmiato quell'impasto di ignoranza e malafede che ci affligge in questi giorni. Ma la regressione culturale, con conseguente pessima politica, ci avvolge da ogni parte, sì che ogni volta si è costretti a ricominciare dall'abc. Ricordando, anzitutto, che è falso sostenere che la legge appena approvata dal Senato abbia come obiettivo quello di frenare il gossip, di impedire la pubblicità di informazioni irrilevanti o intime.

Ripeto quello che è stato detto mille volte, scritto in disegni di legge: questo è un fine, sacrosanto, che si può agevolmente raggiungere, con il consenso di tutti, stabilendo la cancellazione di questi brani delle intercettazioni, irrilevanti per le indagini. Poiché non ci si è fermati a questo punto, ma si è voluto imporre il silenzio totale su notizie rivelatrici di malefatte politiche o amministrative e persino su ammissioni di mafiosi, allora è evidente che l'obiettivo è un altro, quello di mettere a punto una rete protettiva di un ceto che del disprezzo delle regole ha fatto la propria regola. La sintonia tra questo atteggiamento e l'assalto alla legalità costituzionale è del tutto evidente.

E diventa chiarissimo che cosa si avvia ad essere il sistema di tutela della privacy, in un totale stravolgimento del rapporto tra pubblico e privato. Trasparenza crescente per l'inerme persona "comune"; opacità crescente di un ceto per il quale l'esercizio del potere non è più fonte di responsabilità, ma di immunità. Si mette a disposizione di poteri politici, economici, tecnologici la vita quotidiana d'ogni persona, scrutata in ogni momento, "profilata", ridotta ad oggetto di cui si può impunemente disporre. Si sottrae alla democrazia, come "governo in pubblico" una delle sue ragion d'essere, allungando l'ombra dove la trasparenza dovrebbe essere massima. È questa la logica che dev'essere capovolta, restituendo alla privacy l'onore che le spetta come elemento essenziale della libertà dei contemporanei.


(13 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/13/news/privacy_trasparenza_e_diritto_di_sapere-4799093/
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« Risposta #16 inserito:: Luglio 01, 2010, 11:56:55 am »

LE IDEE

La battaglia del post-it

di STEFANO RODOTÀ


LA MANIFESTAZIONE di oggi, che da piazza Navona a Roma si diramerà in tante piazze italiane, assume un significato politico e una forza simbolica che la proiettano al di là di altre iniziative di opposizione al disegno di legge sulle intercettazioni. In quelle piazze si parlerà di tre bavagli: al lavoro della magistratura, al diritto all'informazione, alla cultura.

È ormai chiaro, infatti, il legame stretto che unisce gli attacchi alla legalità, all'esistenza stessa di un'opinione pubblica vigile, alla formazione del sapere critico. Una strategia che va avanti da tempo e che si vuol far arrivare al suo momento finale, ad una conclusione che negherebbe alcuni dei fondamenti che consentono ad un Paese di poter continuare a definirsi democratico. Il presidente del Consiglio non ha mai nascosto la sua ostilità a qualsiasi forma di controllo del potere. E ora, dopo aver messo il Parlamento nella condizione di non nuocere, vuole liberarsi in un colpo solo dell'odiata magistratura, di un sistema dell'informazione contro il quale aizza i cittadini, delle istituzioni culturali (università, in primo luogo) affamate con i tagli ai bilanci.

Ma qualcuno si è messo di traverso, e oggi tornerà a dire in pubblico che intende continuare a farlo. Non è il caso di abbandonarsi all'autocompiacimento, o a un ottimismo superficiale. Registriamo i fatti. Centinaia di migliaia di persone hanno firmato documenti contro la legge bavaglio promossi da gruppi assai diversi. Su Internet, nelle università, da parte delle più diverse associazioni si insiste in una attività di analisi e denuncia degli aspetti gravemente repressivi di quel testo. Questa opposizione sociale non si è rintanata in qualche nicchia, ma ha coinvolto l'intero mondo dell'informazione, al di là degli steccati politici, ha diviso la stessa maggioranza. Segno evidente che quel disegno di legge è stato vastamente percepito come un inaccettabile sopruso.

Questo è un fatto politico. In alcune materie non esiste la controprova, ma si può ragionevolmente ritenere che né le divisioni della maggioranza, né le inusuali durezze dell'opposizione sarebbero emerse con tanta chiarezza se vi fosse stata anche in questo caso quella acquiescenza di troppa parte dell'opinione pubblica che ha reso possibile le scorrerie di cui stiamo misurando i guasti e alle quali si vorrebbe continuare a garantire l'impunità nell'ombra. Ma il tempo dei silenzi è finito, si è individuato un nuovo terreno di lotta politica e non sarà facile per nessuno tentare di recintarlo.

Questo è un monito anche per coloro i quali, proprio in questo periodo, stanno mettendo in discussione diritti fondamentali garantiti dalla prima parte della Costituzione. Proprio la Costituzione, infatti, è stata impugnata come arma pacifica da tutte le persone che hanno protestato, firmato e oggi torneranno in piazza. La Costituzione ha trovato i suoi nuovi difensori, e non sarà facile scippargliela.

E la privacy? Queste settimane hanno mostrato pure l'ipocrisia e la doppiezza di coloro i quali si sono messi al riparo dell'articolo 15 della Costituzione e della garanzia lì prevista per la libertà di comunicazione. Proprio ieri, nella sua relazione al Parlamento, il Presidente dell'Autorità garante per la protezione dei dati personali ha messo in evidenza quante e quali siano le violazioni quotidiane della privacy delle persone, previste, favorite, ignorate dal Governo e dalla sua maggioranza. In questi casi, che davvero toccano la vita quotidiana di milioni di persone, nemmeno un briciolo di quell'attenzione che invece scatta, sensibilissima, appena ci si avvicina ai centri di potere e alle figure pubbliche. Si ignora che già esiste una norma chiarissima in questa materia, consegnata all'articolo 6 del codice deontologico dell'attività giornalistica: "La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo e sulla loro vita pubblica".

 Qui il confine difficile tra diritto d'informazione e tutela della privacy è tracciato con assoluta chiarezza. Non vi è alcuna aspettativa di privacy da tutelare quando i fatti riguardano figure pubbliche e hanno rilevanza pubblica, perché forniscono elementi in base ai quali l'opinione pubblica può controllare l'esercizio del potere e l'affidabilità di politici, burocrati, imprenditori.

Vogliamo uscire da questo brutto e non nuovo esercizio di strumentalizzazione delle istituzioni, dal loro pericoloso uso congiunturale? Vi è una via molto semplice per farlo, che converrà riproporre all'attenzione di quelli che saranno in piazza e, tramite loro, a quanti hanno responsabilità direttamente politiche e hanno finalmente compreso quale sia il pendio scivoloso che si sta imboccando con quel disegno di legge. Uno stralcio. Si abbandonino le pretese di rendere più difficile o addirittura impossibile l'attività d'indagine di magistratura e polizia e di bloccare le possibilità di impedire ai cittadini di veder legittimamente soddisfatto il loro diritto ad essere informati. Si presenti una proposta che vieti la pubblicazione di quanto è segreto, di quel che riguarda informazioni irrilevanti o riguardanti persone del tutto estranee alle indagini. E ci si fermi qui. Una proposta del genere troverebbe certamente larghissimo consenso, garantirebbe la genuina esigenza di privacy, eviterebbe gli abusi di cui tanto, e giustamente, ci si è lamentati.

Prepariamoci, altrimenti, a mantenere aperti spiragli di democrazia nella malaugurata ipotesi che il disegno di legge venga approvato. È già emersa una strategia di disobbedienza civile che va dalla pubblicazione di notizie rilevanti anche in casi vietati dalla legge alla impugnativa davanti alla Corte costituzionale e, eventualmente alla Corte europea dei diritti dell'uomo; ad accordi che consentano la pubblicazione delle stesse notizie su siti Internet stranieri, ai quali gli italiani potrebbero accedere, ed essere così informati; alla lettura alle Camere delle pagine vietate che, entrando negli atti parlamentari, diverrebbero immediatamente pubblicabili. Ma oggi nelle piazze si celebra un successo già raggiunto, sì che speriamo che di questa strategia non vi sia bisogno.

(01 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/07/01/news/la_battaglia_del_post-it-5293888/?ref=HREA-1
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« Risposta #17 inserito:: Luglio 01, 2010, 05:14:50 pm »

IL COMMENTO

L'eversione quotidiana

di STEFANO RODOTA'


I FATTI di questo periodo obbligano a concludere che l'attuale fase politica e istituzionale deve essere pure definita come quella dell'"eversione quotidiana". Questo nuovo dato di realtà può essere colto se si riflette su una domanda che molti hanno fatto negli ultimi tempi: vi è una differenza tra il tempo di Mani pulite e la nuova ondata corruttiva che è davanti ai nostri occhi?

Questa differenza esiste, ed è profonda. Non siamo soltanto di fronte al prepotente ritorno di una corruzione alla quale l'azione giudiziaria aveva cercato di porre un argine. E che aveva sostanzialmente le sue radici in un bisogno della politica di "approvvigionarsi" di risorse finanziarie, con ovvie contiguità con il mondo degli affari e arricchimenti privati che accompagnavano il flusso di denaro verso i partiti. Oggi le cose sono diverse, e il caso Brancher, ultimo tra i tanti, lo illustra nel modo più eloquente.

Si è nominato un ministro soltanto per provvederlo di uno "scudo istituzionale", che potesse sottrarlo all'accertamento delle sue eventuali responsabilità penali. Ecco il cambiamento. Mentre i comportamenti del passato rimanevano comunque nell'area dell'illegalità, ora si costruisce una "legalità speciale" che serve a far rientrare in un'area lecita quel che dovrebbe invece rimanerne fuori. Si distorce così il significato del ricorso alla legge, non più garanzia ma scappatoia. E all'ombra di questa legge distorta si pratica l'eversione quotidiana, uno stillicidio di comportamenti che stravolgono il funzionamento delle istituzioni e dell'intera vita pubblica. Certo, si è evitata almeno la conseguenza più scandalosa dell'affare Brancher, il ricorso al legittimo impedimento per sottrarsi al processo, grazie alle proteste dell'opinione pubblica e di una parte del mondo politico, accompagnate in modo decisivo dai potenti anticorpi istituzionali prodotti dall'azione del Presidente della Repubblica. Ma proprio l'intera ricostruzione dei fatti rivela altri aspetti inquietanti, che mettono radicalmente in dubbio la possibilità che Brancher rimanga al suo posto di ministro. Inoltre, questo caso non è isolato, né rappresenta una eccezione, visto che trova la sua origine in una delle più clamorose leggi fatte per la persona di Silvio Berlusconi, appunto quella sul legittimo impedimento.

Ma il fondamento della nuova eversione non è qui soltanto, come testimonia tutto quello che è emerso intorno alla protezione civile, alle grandi opere, alla gestione di vere o presunte emergenze, alla privatizzazione del pubblico perseguita attraverso la creazione di società per azioni. Le vicende scandalose non sono l'effetto esclusivo di "deviazioni" personali. Sono rese possibili proprio dall'esistenza massiccia di una legalità speciale, di leggi congegnate per far crescere l'opacità dei comportamenti pubblici, oltre che di ordinanze sottratte a ogni controllo, che hanno sconvolto il sistema delle fonti del diritto, che hanno creato sacche di oscurità e di arbitrio, denunciate istituzionalmente nelle ultime settimane in particolare dalla Corte dei conti e dall'Autorità di vigilanza sui lavori pubblici.

Dalla lotta alla corruzione si è passati alla manipolazione istituzionale, che ha come fine proprio quello di legittimare formalmente comportamenti che ogni giorno cancellano ogni confine tra pubblico e privato, che fanno apparire superflua la moralità pubblica, che consentono tranquille e stupefacenti ammissioni di uso privato del potere da parte di personalità pubbliche. È questa l'eversione quotidiana, che corrompe istituzioni e costume, e così fa venir meno quella fiducia dei cittadini che è un carburante indispensabile per il buon funzionamento della macchina democratica. Mentre ai tempi di Mani pulite si tentava almeno di bonificare il terreno sul quale era fiorita la corruzione, oggi invece il terreno istituzionale viene pazientemente concimato perché comportamenti nella sostanza illeciti possano essere praticati legittimamente e alla luce del sole. Proprio la trasparenza impudica, che sfida con la sua esibizione legalità e rispetto dei cittadini, attribuisce a queste vicende un carattere eversivo.

È così nato un nuovo "mostruoso connubio" tra politica, amministrazione e affari che fa impallidire quello denunciato nel 1880 da Silvio Spaventa, del quale vale la pena di citare alcune parole. "La protezione giuridica e la protezione civile, chiamando così tutti gli altri beni che i cittadini hanno diritto di chiedere allo Stato, oltre alla tutela del diritto, dev'essere intera, eguale, imparziale, accessibile a tutti, anche sotto un governo di parte. L'amministrazione dev'essere secondo la legge e non secondo l'arbitrio e l'interesse di partito; e la legge deve essere applicata a tutti con giustizia ed equanimità verso tutti". La maggior gravità della situazione di oggi, rispetto ai tempi di Spaventa e di Mani pulite, sta nel fatto che l'eversione quotidiana fa sì che neppure la legge possa essere invocata, non avendo la funzione di perseguire giustizia e eguaglianza, ma quella, opposta, di offrire impunità e privilegio.

È evidente che con l'eversione quotidiana la democrazia non può convivere. E troppi guasti italiani derivano sempre di più dal fatto che questa convivenza è durata troppo a lungo. 

(28 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/28/news/l_eversione_quotidiana-5207377/?ref=HRER2-1
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« Risposta #18 inserito:: Settembre 08, 2010, 09:11:18 am »

IL COMMENTO

Le regole calpestate

La vicenda Fini richiama una tecnica ben conosciuta in politica. Quella di inventarsi un nemico interno o esterno per distogliere l'attenzione dalle difficoltà reali. La maggioranza sfugge alla resa dei conti politici e dirige il fuoco mediatico sul presidente della Camera, concentrato di tutti i mali

di STEFANO RODOTA'


IN UNA ben ordinata repubblica la bagarre istituzionale montata intorno al Presidente della Camera dei deputati sarebbe impensabile. Ma dalle nostre parti si inventa ogni giorno una qualche "costituzione materiale", sì che siamo obbligati non solo a richiamare i dati costituzionali corretti, ma soprattutto a segnalare le forzature e i rischi grandi delle pretese di questi giorni, che tendono, una volta di più, ad eliminare persone e istituzioni che sono percepite come intralci sulla strada sempre più accidentata della ormai sconquassata (ex?) maggioranza di governo. La prima considerazione, allora, richiama una tecnica ben conosciuta in politica, quella di inventarsi un nemico interno o esterno per distogliere l'attenzione dalle difficoltà reali. Prigioniera di scandali gravi, falcidiata dalle inevitabili dimissioni di due ministri, sconfitta in Parlamento su questioni come quella della legge bavaglio, incrinata nel collante finora rappresentato dal potere assoluto di Berlusconi, la maggioranza uscita vittoriosa dalle elezioni del 2008 sfugge alla resa dei conti politici e dirige il fuoco mediatico su Gianfranco Fini, concentrato di tutti i mali, sì che, una volta caduta la sua testa, si tornerebbe nel migliore dei mondi.

Ma questa non è soltanto una impostazione palesemente pretestuosa. Com'è altre volte avvenuto in questa sciagurata stagione politica, l'interesse di breve periodo di una persona o di un gruppo non esita di fronte alle spallata istituzionale, proseguendo in una strategia che sta riducendo il nostro sistema ad un cumulo di macerie. Elementari regole di diritto parlamentare dovrebbero insegnare che il presidente del Senato o della Camera non possono essere sfiduciati o essere costretti alle dimissioni. La ragione di questa regola è evidente. Solo così l'alta funzione di dirigere una assemblea parlamentare, nell'interesse dell'assemblea stessa e non di una sua parte, può essere sottratta a pressioni, non dirò a ricatti, tendenti proprio a distorcere la funzione di garanzia, che esige distacco in primo luogo dai gruppi che lo hanno eletto. Il potere di questi gruppi si esaurisce nel momento dell'elezione. Lo sanno benissimo quelli che, all'interno della stessa maggioranza, mantengono senso dello Stato e rispetto delle istituzioni, come Giuseppe Pisanu, che non a caso ha liquidato ieri con poche parole la tesi delle dimissioni necessarie del presidente della Camera. E, invece, in questi giorni è stata sostenuta la tesi, francamente eversiva, secondo la quale il presidente della Camera sarebbe "il garante dell'attuazione del programma di governo", tramutando così una carica istituzionale di garanzia in un semplice terminale della volontà governativa. Non v'è bisogno d'invocare la separazione dei poteri per accorgersi dell'improponibilità di questa tesi, che conferma la voracità proprietaria di un Berlusconi che vuole ingoiare tutte le istituzioni. Peraltro, anche i precedenti evocati con molta approssimazione, come le dimissioni di Sandro Pertini dopo la fine dell'unità socialista, provano se mai il contrario, visto che, respingendo quelle dimissioni, la Camera ribadì proprio l'irrilevanza delle vicende successive al momento dell'elezione del presidente.

A questa forzatura se ne è aggiunta una seconda, gravissima, con l'annuncio di Berlusconi e Bossi di recarsi dal presidente della Repubblica per chiedere appunto le dimissioni di Fini. Solo una sgrammaticatura istituzionale, l'ennesima? Molto peggio. I due nominati, per quanto abbiano dato infinite prove di totale insensibilità istituzionale, sanno benissimo che mai un presidente rigoroso come Giorgio Napolitano potrebbe dare il pur minimo ascolto ad una richiesta del genere. E allora? Quell'annuncio era rivolto all'opinione pubblica, per dar ad intendere che, se lo volesse, il presidente della Repubblica potrebbe porre fine a questa vicenda. Una volta divenuto chiaro che non è possibile alcun intervento di Napolitano, rimarrebbe comunque un fondo torbido, una sorta di sciagurato ammiccamento che allude ad un filo che lega presidente della Repubblica e presidente della Camera.

Non sarebbe una novità. In modo sfrontato, e di nuovo ignorante d'ogni regola istituzionale, Berlusconi accusò pubblicamente Napolitano di non essere intervenuto sulla Corte costituzionale per impedire che fosse dichiarato illegittimo il Lodo Alfano. Anche il presidente della Repubblica è percepito come un intralcio, al quale possono essere rivolte richieste "irrituali" o vere e proprie minacce, come ha fatto Bossi evocando un milione di persone che arriverebbe a Roma per imporgli lo scioglimento delle Camere.

La vicenda Fini dimostra una volta di più quanto sia profondo il malessere istituzionale. Per questo nessuna compiacenza è possibile. Non si tratta di difendere una persona, ma di recuperare quel po' di senso delle istituzioni senza il quale la democrazia muore. Siamo ancora in tempo.

(08 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/08/news/rodota_fini-6852123/?ref=HREA-1
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« Risposta #19 inserito:: Dicembre 29, 2010, 10:45:06 am »

L'ANALISI

Quando il fango cancella la politica

di STEFANO RODOTÀ

In una bene ordinata repubblica si dovrebbe riflettere in primo luogo su una crisi che sta distruggendo l'intero tessuto istituzionale, senza farsi ogni giorno depistare da questa o quella microfibrillazione.

In uno Stato non immemore di quelli che ancora sono suoi compiti, si dovrebbe riflettere sulla crescente rifeudalizzazione dei poteri, che quotidianamente lo svuota e ne cambia la natura. In un sistema politico non perduto nell'autoreferenzialità si dovrebbe riflettere su quanto sopravviva della rappresentanza e reagire coralmente alla sostituzione dell'intera politica con una macchina del fango sempre in funzione che contribuisce alla decomposizione sociale. Mai, nella storia della Repubblica, gli scontri istituzionali erano stati così violenti, ripetuti, quotidiani, emblematicamente riassunti dagli attacchi continui del Presidente del consiglio a tutte le istituzioni di garanzia. Mai s'era avuta una legge elettorale che, come quella attuale, consegna la selezione dei parlamentari ad oligarchie ristrettissime e manipola la rappresentanza. Mai s'era vissuto un periodo di sostanziale instabilità come quello cominciato nel 2006, che sembra aver fissato in due anni la durata possibile d'una legislatura. Mai la vita pubblica era stata attraversata da tanti "mostruosi connubi", dalla riduzione d'ogni cosa all'interesse privato, con irrisione palese di moralità e legalità.

Si potrebbe continuare. Ma quel che più deve far meditare è l'apparire congiunto di tutti questi fattori. La novità della situazione,
il reale mutamento qualitativo, derivano dal loro irrompere tutti insieme sulla scena pubblica, da una saldatura che ha cambiato faccia alle istituzioni e alla società, diventando così il vero connotato della cosiddetta Seconda Repubblica, il cui fallimento è certificato dal fatto che già se ne invoca una Terza.

Com'è potuto accadere tutto questo? La riflessione politica s'arresta. E le spiegazioni centrate sull'antiberlusconismo si rivelano inadeguate. E non perché non siano grandissime le responsabilità di chi ha dato nome a questa fase. Ma perché lo stesso fenomeno Berlusconi ha potuto espandersi in un contesto rivelatosi propizio. Di questo si dovrebbe parlare, e non lo si fa. Con danno grandissimo per la stessa progettazione politica. L'ostacolo a una riflessione adeguata, il tabù da rimuovere, si chiama bipolarismo. Il dommatismo fa sempre male, soprattutto in politica, dove una delle regole da osservare è proprio la valutazione di ogni iniziativa secondo le conseguenze che produce. Ed è indubitabile che la via scelta per il bipolarismo all'italiana si sia rivelata disastrosa, anche perché, in un impeto fideistico, non si volle tener delle cautele a suo tempo suggerite. V'erano molti modi di arrivare al bipolarismo nel contesto storico e istituzionale italiano, e invece si è scelto quello che apriva la strada al populismo e alla concentrazione dei poteri.

La riflessione politica deve partite dalla diagnosi critica della drammatica situazione attuale. Solo un'analisi impietosa può ricreare le condizioni per una politica di rinnovamento, che significa in primo luogo liberarsi del populismo e ripristinare le condizioni minime della stessa democrazia formale. E segnalo altre tre questioni che mi sembrano ineludibili.

La vicenda Fiat Mirafiori si presenta come un caso esemplare di quello che viene chiamato "neomedievalismo istituzionale". Proprio perché viviamo in un mondo senza centro, si dice, il governo dei processi, e la creazione delle regole che li accompagnano, sono ormai appannaggio degli specifici soggetti che agiscono in presa diretta nelle situazioni considerate. Questo legittimerebbe la Fiat, come ogni altro soggetto transnazionale, ad essere insieme imprenditore e legislatore, giudice non solo delle convenienze ma pure dei diritti, a Chicago come a Torino. La domanda è: l'indubbia crisi della sovranità nazionale, determinata dalla globalizzazione, può legittimare il ritorno ad una logica feudale, ad una società delle appartenenze e degli status, dove la pienezza della cittadinanza in fabbrica, ad esempio, è subordinata all'appartenenza a un sindacato? Non è un ritorno agli anni '50 quello che si vuol realizzare, è un tuffo profondo in età lontane, prima della rivoluzione dei diritti dell'uomo. A molti tutto questo appare come innovazione, così come lo stesso Berlusconi viene presentato come l'incarnazione di un tempo di novità. Ma davvero non hanno nulla da dire le modernizzazioni autoritarie del secolo passato, e le diverse strade che seppero trovare le democrazie?

La Seconda Repubblica ci consegna gli attacchi allo stesso Presidente della Repubblica; alla Corte costituzionale, descritta come un manipolo di reduci della sinistra che viola le prerogative del popolo sovrano; ad una magistratura all'interno della quale si troverebbe una vera "associazione per delinquere"; al Parlamento in sé, volta a volta considerato come un intralcio o come luogo di spregiudicati reclutamenti. Ora siamo all'assalto finale. Questo hanno colto gli studenti, e il Presidente della Repubblica che, ascoltandoli, ha visto l'elemento che differenzia il movimento di oggi da quelli del passato, la volontà di essere protagonisti e, insieme, interlocutori delle istituzioni, nelle quali si riconoscono attraverso la Costituzione. Questo ha colto Daniel Baremboin quando ha aperto la stagione della Scala leggendo l'articolo 9 della Costituzione. Questo dovrebbero cogliere le forze politiche: la Costituzione sta di nuovo incontrando il suo popolo, com'era avvenuto nel 2006, quando 16 milioni di persone dissero no alla riforma costituzionale berlusconiana. Le forze di opposizione non hanno saputo, o voluto, amministrare quel patrimonio. Anche da una riflessione su questo punto può partire un rinnovamento della politica.

(29 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/29/news/rodota_commento-10670644/?ref=HREA-1
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« Risposta #20 inserito:: Febbraio 15, 2011, 10:49:34 am »

L'ANALISI

La bandiera della dignità

di STEFANO RODOTÀ


È tempo di liberarsi dello spirito minoritario che, malgrado tutto, continua a lambire anche qualche parte della stessa opposizione. È questa l'indicazione (la lezione?) che viene dai molti luoghi che da molti mesi vedono la presenza costante di centinaia di migliaia di persone che, con continuità e passione, rivendicano libertà e diritti: un fenomeno che non può essere capito con gli schemi, invecchiati, del "risveglio della società civile" o di qualche partito "a vocazione maggioritaria". Non sono fiammate destinate a spegnersi, esasperazioni d'un giorno, generiche contrapposizioni tra Piazza e Palazzo. Non sono frammenti di società, grumi di interesse. È un movimento costante che accompagna ormai la politica italiana, e a questa indica le vie per ritrovare un senso. È l'opposto delle maggioranze "silenziose" che si consegnano, passive, in mani altrui.

Donne, lavoratori, studenti, mondo della cultura si sono mossi guidati da un sentimento comune, che unifica iniziative solo nelle apparenze diverse. Questo sentimento si chiama dignità. Dignità nel lavoro, che non può essere riconsegnato al potere autocratico di nessun padrone. Dignità nel costruire liberamente la propria personalità, che ha il suo fondamento nell'accesso alla conoscenza, nella produzione del sapere critico. Dignità d'ogni persona, che dal pensiero delle donne ha ricevuto un respiro che permette di guardare al mondo con una profondità prima assente.

Proprio
da questo sguardo più largo sono nate le condizioni per una manifestazione che non si è chiusa in nessuno schema. Le donne che l'hanno promossa, le donne che con il loro sapere ne hanno accompagnato la preparazione senza rimanere prigioniere di alcuni stereotipi della stessa cultura femminista, hanno colto lo spirito del tempo, dimostrando quanta fecondità vi sia ancora in quella cultura, dove l'intreccio tra libertà, dignità, relazione è capace di generare opportunità non alla portata della tradizionale cultura politica. È qui la radice dello straordinario successo di domenica, della consapevolezza d'essere di fronte ad una opportunità che non poteva essere perduta e che ha spinto tanti uomini ad essere presenti e tante donne a non cedere alla tentazione di rifiutarli, perché non s'era di fronte ad una generica "solidarietà" o alla pretesa di impadronirsi della parola altrui.

Chi è rimasto prigioniero di se stesso, delle proprie ossessioni, è il Presidente dal consiglio, al quale era offerta una straordinaria opportunità per rimanere silenzioso, una volta tanto rispettoso degli altri. E invece altro non ha saputo trovare che le parole logore della polemica aggressiva, testimonianza eloquente della sua incapacità di comprendere i fenomeni sociali fuori di una rozza logica del potere. La vera faziosità è quella sua e di chi lo circonda, privi come sono di qualsiasi strumento culturale e quindi sempre più votati al rifiuto d'ogni dimensione argomentativa. Dignità, per loro, è parola senza senso, parte d'una lingua che sono incapaci di parlare.

Nelle diverse manifestazioni, invece, si coglie la sintonia con le dinamiche che segnano questi anni. Le grandi ricerche di Luis Dumont ci hanno aiutato nel cogliere il passaggio dall'homo hierarchicus all'homo aequalis. Ma nei tempi recenti quel cammino si è allungato, ha visto comparire i tratti l'homo dignus, e proprio la dignità segna sempre più esplicitamente l'inizio del millennio, costituisce il punto d'avvio, il fondamento di costituzioni e carte dei diritti. Sul terreno dei principi questo è il vero lascito del costituzionalismo dell'ultima fase. Se la "rivoluzione dell'eguaglianza" era stato il connotato della modernità, la "rivoluzione della dignità" segna un tempo nuovo, è figlia del Novecento tragico, apre l'era della "costituzionalizzazione" della persona e dei nuovi rapporti che la legano all'innovazione scientifica e tecnologica.

"Per vivere  -  ci ha ricordato Primo Levi  -  occorre un'identità, ossia una dignità". Solo da qui, dalla radice dell'umanità, può riprendere il cammino dei diritti. E proprio la forza unificante della dignità ci allontana da una costruzione dell'identità oppositiva, escludente, violenta, che ha giustamente spinto Francesco Remotti a scrivere contro quell'"ossessione identitaria" che non solo nel nostro paese sta avvelenando la convivenza civile. La dignità sociale, quella di cui ci parla l'articolo 3 della Costituzione, è invece costruzione di legami sociali, è anche la dignità dell'altro, dunque qualcosa che unifica e non divide, e che così produce rispetto e eguaglianza.

Le manifestazioni di questi tempi, e quella di domenica con evidenza particolare, rivendicano il diritto a "un'esistenza libera e dignitosa". Sono le parole che leggiamo nell'articolo 36 della Costituzione che descrivono una condizione umana e sottolineano il nesso che lega inscindibilmente libertà e dignità. Più avanti, quando l'articolo 41 esclude che l'iniziativa economica privata possa svolgersi in contrasto con sicurezza, libertà e dignità umana, di nuovo questi due principi appaiono inscindibili, e si può comprendere, allora, quale lacerazione provocherebbe nel tessuto costituzionale la minacciata riforma di quell'articolo, un vero "sbrego", come amava definire le sue idee di riforma costituzionale la franchezza cinica di Gianfranco Miglio. Intorno alla dignità, dunque, si delinea un nuovo rapporto tra principi, che vede la dignità dialogare con inedita efficacia con libertà e eguaglianza. Questa, peraltro, è la via segnata dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Qui, dopo aver sottolineato nel Preambolo che l'Unione "pone la persona al centro della sua azione", la Carta si apre con una affermazione inequivocabile: "La dignità umana è inviolabile".

 Proprio questo quadro di principi costituisce il contesto all'interno del quale i diversi movimenti si sono concretamente mossi, individuando così quella che deve essere considerata la vera agenda politica, la piattaforma comune delle forze di opposizione. Diritti delle persone, lavoro, conoscenza non si presentano come astrazioni. Ciascuna di quelle parole rinvia non solo a bisogni concreti, ma individua ormai pure forze davvero " politiche", che si presentano con evidenza sempre maggiore come soggetti attivi perché quei bisogni possano essere soddisfatti.

Viene così rovesciato le schema dell'antipolitica, e si pone il problema della capacità dei diversi gruppi di opposizione di trovare legami veri con questa realtà. I segnali venuti finora sono deboli, troppo spesso sopraffatti dalle eterne logiche oligarchiche, dagli egoismi identitari di ciascun partito o gruppo politico. Si lamenta che ai problemi reali non si dia il giusto risalto. Ma chi è responsabile di tutto questo? Non quelli che con quei problemi si sono identificati, sì che oggi la responsabilità di farli entrare nel modo corretto nell'agenda politica ufficiale dipende dalla capacità dei partiti di trovare il giusto rapporto con i movimenti presenti nella società, di essere per loro interlocutori credibili.

Torna così la questione iniziale, perché proprio questo è il cammino da seguire per abbandonare ogni spirito minoritario e ridare vigore ad una vera politica di opposizione. Le manifestazioni di questi mesi, infatti, dovrebbero essere valutate partendo anche da un dato che tutte le analisi serie sottolineano continuamente, e cioè che Berlusconi non ha il consenso della maggioranza degli italiani, non avendo mai superato il 37%. Il bagno di realtà di domenica, che ne accompagna tanti altri, dovrebbe indurre a volgere lo sguardo verso la vera maggioranza, perché solo così un vero cambiamento è possibile.
 

(15 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #21 inserito:: Aprile 22, 2011, 05:04:38 pm »

IL COMMENTO

I cittadini calpestati

di STEFANO RODOTÀ

Ogni giorno ha la sua pena istituzionale.
Davvero preoccupante è l'ultima trovata del governo: la fuga dai referendum. Mercoledì si è voluto cancellare quello sul nucleare.

Ora si vuole fare lo stesso con i due quesiti che riguardano la privatizzazione dell'acqua. Le torsioni dell'ordinamento giuridico non finiscono mai, ed hanno sempre la stessa origine. È del tutto evidente la finalità strumentale dell'emendamento approvato dal Senato con il quale si vuole far cadere il referendum sul nucleare. Timoroso dell'"effetto Fukushima", che avrebbe indotto al voto un numero di cittadini sufficiente per raggiungere il quorum, il governo ha fatto approvare una modifica legislativa per azzerare quel referendum nella speranza che a questo punto non vi sarebbe stato il quorum per il temutissimo referendum sul legittimo impedimento e per gli scomodi referendum sull'acqua. Una volta di più si è usata disinvoltamente la legge per mettere il presidente del Consiglio al riparo dai rischi della democrazia.

Una ennesima contraddizione, un segno ulteriore dell'irrompere continuo della logica ad personam. L'uomo che ogni giorno invoca l'investitura popolare, come fonte di una sua indiscutibile legittimazione, fugge di fronte ad un voto dei cittadini.

Ma, fatta questa mossa, evidentemente gli strateghi della decostituzionalizzazione permanente devono essersi resi conto che i referendum sull'acqua hanno una autonoma e forte capacità di mobilitazione. Fanno appello a un dato di vita materiale, individuano
bisogni, evocano il grande tema dei beni comuni, hanno già avuto un consenso senza precedenti nella storia della Repubblica, visto che quelle due richieste di referendum sono state firmate da 2 milioni di cittadini, senza alcun sostegno di grandi organizzazioni, senza visibilità nel sistema dei media. Pur in assenza del referendum sul nucleare, si devono esser detti i solerti curatori del benessere del presidente del Consiglio, rimane il rischio che il tema dell'acqua porti comunque i cittadini alle urne, renda possibile il raggiungimento del quorum e, quindi, trascini al successo anche il referendum sul legittimo impedimento. Per correre questo rischio? Via, allora, al bis dell'abrogazione, anche se così si fa sempre più sfacciata la manipolazione di un istituto chiave della nostra democrazia.

Caduti i referendum sul nucleare e sull'acqua, con le loro immediate visibili motivazioni, e ridotta la consultazione solo a quello sul legittimo impedimento, si spera che diminuisca la spinta al voto e Berlusconi sia salvo.

Quest'ultimo espediente ci dice quale prezzo si stia pagando per la salvezza di una persona. Travolto in più di un caso il fondamentale principio di eguaglianza, ora si vogliono espropriare i cittadini di un essenziale strumento di controllo, della loro funzione di "legislatore negativo".

L'aggressione alle istituzioni prosegue inarrestabile. Ridotto il Parlamento a ruolo di passacarte dei provvedimenti del governo, sotto tiro il Presidente della Repubblica, vilipesa la Corte costituzionale, ora è il turno del referendum. Forse la traballante maggioranza ha un timore e una motivazione che va oltre la stessa obbligata difesa di Berlusconi. Può darsi che qualcuno abbia memoria del 1974, di quel voto sul referendum sul divorzio che mise in discussione equilibri politici che sembravano solidissimi. E allora la maggioranza vuole blindarsi contro questo ulteriore rischio, contro la possibilità che i cittadini, prendendo direttamente la parola, sconfessino il governo e accelerino la dissoluzione della maggioranza.

È resistibile questa strategia? In attesa di conoscere i dettagli tecnici riguardanti i quesiti referendari sull'acqua è bene tornare per un momento sull'emendamento con il quale si è voluto cancellare il referendum sul nucleare. Questo è congegnato nel modo seguente: le parti dell'emendamento che prevedono l'abrogazione delle norme oggetto del quesito referendario, sono incastonate tra due commi con i quali il governo si riserva di tornare sulla questione, una volta acquisite "nuove evidenze scientifiche mediante il supporto dell'agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza, tenendo conto dello sviluppo tecnologico e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea". E lo farà entro dodici mesi adottando una "Strategia energetica nazionale", per la quale furbescamente non si nomina, ma neppure si esclude, il ricorso al nucleare. Si è giustamente ricordato che, fin dal 1978, la Corte costituzionale ha detto con chiarezza che, modificando le norme sottoposte a referendum, al Parlamento non è permesso di frustrare "gli intendimenti dei promotori e dei sottoscrittori delle richieste di referendum" e che il referendum non si tiene solo se sono stati del tutto abbandonati "i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente". Si può ragionevolmente dubitare che, vista la formulazione dell'emendamento sul nucleare, questo sia avvenuto. E questo precedente induce ad essere sospettosi sulla soluzione che sarà adottata per l'acqua. Di questo dovrà occuparsi l'ufficio centrale del referendum che, qualora accerti quella che sembra essere una vera frode del legislatore, trasferirà il referendum sulle nuove norme. La partita, dunque, non è chiusa.

Da questa vicenda può essere tratta una non indifferente morale politica. Alcuni esponenti dell'opposizione avrebbero dovuto manifestare maggiore sobrietà in occasione dell'approvazione dell'emendamento sul nucleare, senza abbandonarsi a grida di vittoria che assomigliano assai a un respiro di sollievo per essere stati liberati dall'obbligo di parlar chiaro su un tema così impegnativo e davvero determinante per il futuro dell'umanità.

Dubito che questa sarebbe la reazione dei promotori del referendum sull'acqua qualora si seguisse la stessa strada. Ma proprio l'aggressione al referendum e ai diritti dei cittadini promotori e votanti, la spregiudicata manipolazione degli istituti costituzionali fanno nascere per l'opposizione un vero e proprio obbligo. Agire attivamente, mobilitarsi perché il quorum sia raggiunto, si voti su uno, due, tre o quattro quesiti. Si tratta di difendere il diritto dei cittadini a far sentire la loro voce, quale che sia l'opinione di ciascuno. Altrimenti, dovremo malinconicamente registrare l'ennesimo scarto tra parole e comportamenti, che certo non ha giovato alla credibilità delle istituzioni.

(22 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #22 inserito:: Aprile 27, 2011, 02:44:26 pm »

L'ANALISI

Sull'imbroglio decida la consulta

di STEFANO RODOTÀ


Sia lode al presidente del Consiglio. Con la disinvoltura istituzionale che lo contraddistingue ha svelato le vere carte del governo sul nucleare, carte peraltro niente affatto coperte. La frode legislativa, già evidente, diviene ora conclamata. Berlusconi è stato chiaro. Un tema tanto importante come il nucleare non può essere affidato a cittadini "spaventati" da quanto è avvenuto in Giappone, che debbono "tranquillizzarsi". Meglio, dunque, non far votare un popolo emotivo, disinformato. Gli abbiamo scippato con uno stratagemma un referendum che avrebbe reso impossibile per anni il nucleare, e ora abbiamo le mani libere per tornare in pista già tra dodici mesi. Gabbati i cittadini, ma rassicurati gli imprenditori, poiché il presidente del Consiglio si è premurato di dire che i rapporti tra Enel e Electricité de France andranno comunque avanti.

Un governo e una maggioranza senza dignità accantonano uno dopo l'altro gli strumenti della democrazia, non hanno neppure il pudore della reticenza, teorizzano il silenzio dei cittadini. Ma si può davvero restare passivi davanti a questo gioco delle tre carte istituzionali? Il famigerato emendamento approvato dal Senato diceva chiaramente quale fosse l'obiettivo che si voleva perseguire. Le parole di Berlusconi confermano l'interpretazione dei tanti che avevano sottolineato come la formale abrogazione delle norme sulle centrali nucleari fosse un espediente, anzi un imbroglio, per far sì che la politica nuclearista potesse continuare e per impedire che la partecipazione al voto di cittadini emotivi facesse raggiungere il quorum, consentendo così anche il successo del temutissimo referendum sul legittimo impedimento.

È bene ricordare i fatti. Quell'emendamento si presenta formalmente come una abrogazione delle norme oggetto del quesito referendario. Ma il primo e l'ultimo comma dicono il contrario. Si comincia con lo stabilire che il governo si riserva di tornare sulla questione, una volta acquisite "nuove evidenze scientifiche mediante il supporto dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza, tenendo conto dello sviluppo tecnologico e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea". E alla fine si dice che lo farà entro dodici mesi adottando una "Strategia energetica nazionale", per la quale furbescamente non si nomina, ma neppure si esclude, il ricorso al nucleare, di cui peraltro si parla esplicitamente all'inizio dell'emendamento. Il Parlamento ha trangugiato senza batter ciglio questa brodaglia, ennesimo esempio dell'incultura politica e istituzionale che ci circonda.
Una volta che il decreto nel quale è stato infilato l'emendamento sarà stato convertito in legge, la parola passerà all'Ufficio per il referendum della Corte di Cassazione, che ha il compito di accertare se la nuova legge va nella direzione voluta dai promotori. Se la sua valutazione è positiva, il referendum non si tiene. Nel caso contrario, il referendum è "trasferito" sulle nuove norme e si va al voto. Dopo la clamorosa confessione pubblica del presidente del Consiglio, è dichiarato l'obiettivo di impedire il rispetto della volontà dei promotori.

A questo punto, però, le cose si complicano assai. Che cosa accadrebbe, infatti, se la Cassazione, prendendo atto della frode ai danni dei cittadini, decidesse di far tenere il referendum facendo votare pro o contro l'abrogazione dell'emendamento-imbroglio? Se gli elettori votassero sì all'abrogazione, cancellerebbero certamente le norme con le quali il governo ha voluto riservarsi di riprendere la politica nucleare a proprio piacimento. Ma cancellerebbero pure la parte dell'emendamento che abroga le attuali norme sul nucleare. Queste tornerebbero in vigore, ridando al governo, da subito, il potere di procedere sulla strada della costruzione delle centrali nucleari.

Come uscire da questo pasticcio? Facciamo un passo indietro. Nel 1978 la Corte costituzionale dovette affrontare appunto il problema di norme che, abrogando le disposizioni alle quali si riferiva il referendum, non rispettavano la volontà dei promotori. La soluzione fu trovata dichiarando l'incostituzionalità della norma della legge sul referendum che non prevedeva questa eventualità, e prevedendo il trasferimento del referendum sulle nuove norme. Ma, di fronte all'imbroglio attuale, questa strada non è praticabile, poiché produrrebbe l'esito paradossale di un voto referendario che si ritorce ancora di più contro l'intenzione dei proponenti. La Cassazione, allora, potrebbe sollevare la nuova questione, investendone la Corte costituzionale che, come nel 1978, dovrebbe cercar di porre riparo all'ennesima torsione alla quale il governo attuale sottopone le istituzioni.

Una parola sul modo in cui Berlusconi considera i cittadini, ai quali sarebbe precluso il diritto di votare in situazioni di emotività, di sostanziale incompetenza. Già in occasione del referendum sulla legge sulla procreazione assistita, nel 2005, uno degli argomenti adoperati per indurre all'astensione fu quello che sottolineava la complessità tecnica di taluni quesiti, che avrebbe impedito ai cittadini di esprimere una valutazione adeguata. Tutti questi sono argomenti pericolosissimi dal punto di vista democratico, perché subordinano la possibilità di votare al giudizio che qualcuno esprime sulla competenza di ciascuno di noi e mettono così "sotto tutela" la stessa sovranità popolare. In questi casi la via non è quella del silenzio forzato, ma dell'informazione adeguata, quella che produce lo "scientific citizen", il "cittadino biologico", cioè persone dotate dei dati che le mettono in condizione di formarsi una opinione critica. È un caso che la Commissione di vigilanza della Rai non abbia ancora approvato il regolamento sulle trasmissioni per i referendum, precludendo ai cittadini proprio quell'accesso all'informazione che li riscatterebbe dall'emotività?

(27 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #23 inserito:: Gennaio 18, 2013, 12:33:01 am »

Il grande deserto dei diritti
   
di Stefano Rodotà, la Repubblica, 3 gennaio 2013

Si può avere una agenda politica che ricacci sullo sfondo, o ignori del tutto, i diritti fondamentali? Dare una risposta a questa domanda richiede memoria del passato e considerazione dei programmi per il futuro.

Ma bilanci e previsioni, in questo momento, mostrano un’Italia che ha perduto il filo dei diritti e, qui come altrove, è caduta prigioniera di una profonda regressione culturale e politica. Le conferme di una valutazione così pessimistica possono essere cercate nel disastro della cosiddetta Seconda Repubblica e nelle ambiguità dell’Agenda per eccellenza, quella che porta il nome di Mario Monti.
Solo uno sguardo realistico può consentire una riflessione che prepari una nuova stagione dei diritti.

Vent’anni di Seconda Repubblica assomigliano a un vero deserto dei diritti (eccezion fatta per la legge sulla privacy, peraltro pesantemente maltrattata negli ultimi anni, e alla recentissima legge sui diritti dei figli nati fuori del matrimonio). Abbiamo assistito ad una serie di attentati alle libertà, testimoniati da leggi sciagurate come quelle sulla procreazione assistita, sull’immigrazione, sul proibizionismo in materia di droghe, e dal rifiuto di innovazioni modeste in materia di diritto di famiglia, di contrasto all’omofobia. La tutela dei diritti si è spostata fuori del campo della politica, ha trovato i suoi protagonisti nelle corti italiane e internazionali, che hanno smantellato le parti più odiose di quelle leggi grazie al riferimento alla Costituzione, che ha così confermato la sua vitalità, e a norme europee di cui troppo spesso si sottovaluta l’importanza.

La considerazione dei diritti permette di andare più a fondo nella valutazione comparata tra Seconda e Prima Repubblica, oggi rappresentata come luogo di totale inefficienza. Alcuni dati. Nel 1970 vengono approvate le leggi sull’ordinamento regionale, sul referendum, il divorzio, lo statuto dei lavoratori, sulla carcerazione preventiva. In un solo anno si realizza così una profonda innovazione istituzionale, sociale, culturale. E negli anni successivi verranno le leggi sul diritto del difensore di assistere all’interrogatorio dell’imputato e sulla concessione della libertà provvisoria, sulla delega per il nuovo codice di procedura penale, sull’ordinamento penitenziario; sul nuovo processo del lavoro, sui diritti delle lavoratrici madri, sulla parità tra donne e uomini nei luoghi di lavoro; sulla segretezza e la libertà delle comunicazioni; sulla riforma del diritto di famiglia e la fissazione a 18 anni della maggiore età; sulla disciplina dei suoli; sulla chiusura dei manicomi, l’interruzione della gravidanza, l’istituzione del servizio sanitario nazionale. La rivoluzione dei diritti attraversa tutti gli anni ’70, e ci consegna un’Italia più civile.

Non fu un miracolo, e tutto questo avvenne in un tempo in cui il percorso parlamentare delle leggi era ancor più accidentato di oggi. Ma la politica era forte e consapevole, attenta alla società e alla cultura, e dunque capace di non levare steccati, di sfuggire ai fondamentalismi. Esattamente l’opposto di quel che è avvenuto nell’ultimo ventennio, dove un bipolarismo sciagurato ha trasformato l’avversario in nemico, ha negato il negoziato come sale della democrazia, si è arresa ai fondamentalismi. È stata così costruita un’Italia profondamente incivile, razzista, omofoba, preda dell’illegalità, ostile all’altro, a qualsiasi altro. Questo è il lascito della Seconda Repubblica, sulle cui ragioni non si è riflettuto abbastanza.
Le proposte per il futuro, l’eterna chiacchiera su una “legislatura costituente” consentono di sperare che quel tempo sia finito?

Divenuta riferimento obbligato, l’Agenda Monti può offrire un punto di partenza della discussione. Nelle sue venticinque pagine, i diritti compaiono quasi sempre in maniera indiretta, nel bozzolo di una pervasiva dimensione economica, sì che gli stessi diritti fondamentali finiscono con l’apparire come una semplice variabile dipendente dell’economia.
Si dirà che in tempi difficili questa è una via obbligata, che solo il risanamento dei conti pubblici può fornire le risorse necessarie per l’attuazione dei diritti, e che comunque sono significative le parole dedicate all’istruzione e alla cultura, all’ambiente, alla corruzione, a un reddito di sostentamento minimo. Ma, prima di valutare le questioni specifiche, è il contesto a dover essere considerato.

In un documento che insiste assai sull’Europa, era lecito attendersi che la giusta attenzione per la necessità di procedere verso una vera Unione politica fosse accompagnata dalla sottolineatura esplicita che non si vuole costruire soltanto una più efficiente Europa dei mercati ma, insieme una più forte Europa dei diritti. Al Consiglio europeo di Colonia, nel giugno del 1999, si era detto che solo l’esplicito riconoscimento dei diritti avrebbe potuto dare all’Unione la piena legittimazione democratica, e per questo si imboccò la strada che avrebbe portato alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Questa ha oggi lo stesso valore giuridico dei trattati, sì che diviene una indebita amputazione del quadro istituzionale europeo la riduzione degli obblighi provenienti da Bruxelles a quelli soltanto che riguardano l’economia. Solo nei diritti i cittadini possono cogliere il “valore aggiunto” dell’Europa.

Inquieta, poi, l’accenno alle riforme della nostra Costituzione che sembra dare per scontato che la via da seguire possa esser quella che ha già portato alla manipolazione dell’articolo 41, acrobaticamente salvata dalla Corte costituzionale, e alla “dissoluzione in ambito privatistico” del diritto del lavoro grazie all’articolo 8 della manovra dell’agosto 2011. Ricordo quest’ultimo articolo perché si è proposto di abrogarlo con un referendum, unico modo per ritornare alla legalità costituzionale e non bieco disegno del terribile Vendola. Un’agenda che riguardi il lavoro, oggi, ha due necessari punti di riferimento: la legge sulla rappresentanza sindacale, essenziale strumento di democrazia; e il reddito minimo universale, considerato però nella dimensione dei diritti di cittadinanza. E i diritti sociali, la salute in primo luogo, non sono lussi, ma vincoli alla distribuzione delle risorse.

Colpisce il silenzio sui diritti civili. Si insiste sulla famiglia, ma non v’è parola sul divorzio breve e sulle unioni di fatto. Non si fa alcun accenno alle questioni della procreazione e del fine vita: una manifestazione di sobrietà, che annuncia un legislatore rispettoso dell’autodeterminazione delle persone, o piuttosto un’astuzia per non misurarsi con le cosiddette questioni “eticamente sensibili”, per le quali il ressemblement montiano rischia la subalternità alle linee della gerarchia vaticana, ribadite con sospetta durezza proprio in questi giorni? Si sfugge la questione dei beni comuni, per i quali si cade in un rivelatore lapsus istituzionale: si dice che, per i servizi pubblici locali, si rispetteranno “i paletti posti dalla sentenza della Corte costituzionale”, trascurando il fatto che quei paletti li hanno piantati ventisette milioni di italiani con il voto referendario del 2011.

Queste prime osservazioni non ci dicono soltanto che una agenda politica ambiziosa ha bisogno di orizzonti più larghi, di maggior respiro. Mostrano come un vero cambio di passo non possa venire da una politica ad una dimensione, quella dell’economia. Serve un ritorno alla politica “costituzionale”, quella che ha fondato le vere stagioni riformatrici.

(4 gennaio 2013)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-grande-deserto-dei-diritti/
« Ultima modifica: Gennaio 19, 2013, 04:11:19 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #24 inserito:: Aprile 30, 2013, 11:51:48 am »

Sono e resto un uomo di sinistra


di STEFANO RODOTA'

CARO direttore, non è mia abitudine replicare a chi critica le mie scelte o quel che scrivo. Ma l'articolo di ieri di Eugenio Scalfari esige alcune precisazioni, per ristabilire la verità dei fatti. E, soprattutto, per cogliere il senso di quel che è accaduto negli ultimi giorni. Si irride alla mia sottolineatura del fatto che nessuno del Pd mi abbia cercato in occasione della candidatura alla presidenza della Repubblica (non ho parlato di amici che, insieme a tanti altri, mi stanno sommergendo con migliaia di messaggi). E allora: perché avrebbe dovuto chiamarmi Bersani? Per la stessa ragione per cui, con grande sensibilità, mi ha chiamato dal Mali Romano Prodi, al quale voglio qui confermare tutta la mia stima. Quando si determinano conflitti personali o politici all'interno del suo mondo, un vero dirigente politico non scappa, non dice "non c'è problema ", non gira la testa dall'altra parte. Affronta il problema, altrimenti è lui a venir travolto dalla sua inconsapevolezza o pavidità. E sappiamo com'è andata concretamente a finire.

La mia candidatura era inaccettabile perché proposta da Grillo? E allora bisogna parlare seriamente di molte cose, che qui posso solo accennare. È infantile, in primo luogo, adottare questo criterio, che denota in un partito l'esistenza di un soggetto fragile, insicuro, timoroso di perdere una identità peraltro mai conquistata. Nella drammatica giornata seguita all'assassinio di Giovanni Falcone,
l'esigenza di una risposta istituzionale rapida chiedeva l'immediata elezione del presidente della Repubblica, che si trascinava da una quindicina di votazioni. Di fronte alla candidatura di Oscar Luigi Scalfaro, più d'uno nel Pds osservava che non si poteva votare il candidato "imposto da Pannella". Mi adoperai con successo, insieme ad altri, per mostrare l'infantilismo politico di quella reazione, sì che poi il Pds votò compatto e senza esitazioni, contribuendo a legittimare sé e il Parlamento di fronte al Paese.

Incostituzionale il Movimento 5Stelle? Ma, se vogliamo fare l'esame del sangue di costituzionalità, dobbiamo partire dai partiti che saranno nell'imminente governo o maggioranza. Che dire della Lega, con le minacce di secessione, di valligiani armati, di usi impropri della bandiera, con il rifiuto della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, con le sue concrete politiche razziste e omofobe? È folklore o agire in sé incostituzionale? E tutto quello che ha documentato Repubblica
nel corso di tanti anni sull'intrinseca e istituzionale incostituzionalità dell'agire dei diversi partiti berlusconiani? Di chi è la responsabilità del nostro andare a votare con una legge elettorale viziata di incostituziona-lità, come ci ha appena ricordato lo stesso presidente della Corte costituzionale? Le dichiarazioni di appartenenti al Movimento 5Stelle non si sono mai tradotte in atti che possano essere ritenuti incostituzionali, e il loro essere nel luogo costituzionale per eccellenza, il Parlamento, e il confronto e la dialettica che ciò comporta, dovrebbero essere da tutti considerati con serietà nella ardua fase di transizione politica e istituzionale che stiamo vivendo.

Peraltro, una analisi seria del modo in cui si è arrivati alla mia candidatura, che poteva essere anche quella di Gustavo Zagrebelsky o di Gian Carlo Caselli o di Emma Bonino o di Romano Prodi, smentisce la tesi di una candidatura studiata a tavolino e usata strumentalmente da Grillo, se appena si ha nozione dell'iter che l'ha preceduta e del fatto che da mesi, e non soltanto in rete, vi erano appelli per una mia candidatura. Piuttosto ci si dovrebbe chiedere come mai persone storicamente appartenenti all'area della sinistra italiana siano state snobbate dall'ultima sua incarnazione e abbiano, invece, sollecitato l'attenzione del Movimento 5Stelle. L'analisi politica dovrebbe essere sempre questa, lontana da malumori o anatemi.

Aggiungo che proprio questa vicenda ha smentito l'immagine di un Movimento tutto autoreferenziale, arroccato. Ha pubblicamente e ripetutamente dichiarato che non ero il candidato del Movimento, ma una personalità (bontà loro) nella quale si riconoscevano per la sua vita e la sua storia, mostrando così di voler aprire un dialogo con una società più larga. La prova è nel fatto che, con sempre maggiore chiarezza, i responsabili parlamentari e lo stesso Grillo hanno esplicitamente detto che la mia elezione li avrebbe resi pienamente disponibili per un via libera a un governo. Questo fatto politico, nuovo rispetto alle posizioni di qualche settimana fa, è stato ignorato, perché disturbava la strategia rovinosa, per sé e per la democrazia italiana, scelta dal Pd. E ora, libero della mia ingombrante presenza, forse il Pd dovrebbe seriamente interrogarsi su che cosa sia successo in questi giorni nella società italiana, senza giustificare la sua distrazione con l'alibi del Movimento 5Stelle e con il fantasma della Rete.

Non contesto il diritto di Scalfari di dire che mai avrebbe pensato a me di fronte a Napolitano. Forse poteva dirlo in modo meno sprezzante. E può darsi che, scrivendo di non trovare alcun altro nome al posto di Napolitano, non abbia considerato che, così facendo, poneva una pietra tombale sull'intero Pd, ritenuto incapace di esprimere qualsiasi nome per la presidenza della Repubblica.
Per conto mio, rimango quello che sono stato, sono e cercherò di rimanere: un uomo della sinistra italiana, che ha sempre voluto lavorare per essa, convinto che la cultura politica della sinistra debba essere proiettata verso il futuro. E alla politica continuerò a guardare come allo strumento che deve tramutare le traversie in opportunità.

(22 aprile 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/04/22/news/lettera_rodot-57201730/?ref=HREC1-1
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« Risposta #25 inserito:: Agosto 02, 2013, 11:00:50 am »

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Costituzione stracciata, continuano le adesioni. Rodotà: “Una riforma di parte”

Studiosi, giuristi, intellettuali e moltissimi cittadini non vogliono che questo Parlamento cambi la norma fondamentale in modo parziale e non condiviso.

Barbara Spinelli: "Uno scopo sbagliato"

di Redazione Il Fatto Quotidiano | 31 luglio 2013


Stefano Rodotà: “Una riforma di parte”
A parte le indubbie ed evidenti forzature costituzionali, questo tentativo di revisione della Carta propone difficili questioni politiche. La prima riguarda il fatto che la revisione è parte del cosiddetto “cronoprogramma” di governo. Così si associa la modifica costituzionale alla maggioranza più debole, contraddittoria e precaria della storia della Repubblica e la si fa diventare una questione di parte, dunque oggetto di conflitto e non di condivisione. Ricordiamo che la scrittura della Costituzione fu resa possibile anche da quello che fu chiamato “l’isolamento della Costituente” rispetto al governo, sicché i costituenti riuscirono a lavorare insieme anche dopo che De Gasperi fece cadere il governo tripartito.

Le due revisioni costituzionali generali degli ultimi anni sono state un fallimento proprio perché condotte all’insegna del conflitto e identificate con una maggioranza precaria: mi riferisco alla riforma del Titolo V che ha provocato più problemi di quanti volesse risolvere e alla “costituzione berlusconiana” bocciata da 16 milioni di cittadini nel 2006. Condivido, poi, quanto dice Salvatore Settis a proposito del fatto che la revisione costituzionale non può essere affidata a un parlamento di nominati. Aggiungo che si tratta di un Parlamento eletto sulla base di una legge viziata di incostituzionalità, argomento che mostra come sia stata imboccata una strada politicamente pericolosa.

L’iniziativa del Fatto, che si collega a tante altre, è particolarmente importante perché di fronte a questi rischi è indispensabile una mobilitazione sociale che dia forza e legittimazione a chi in Parlamento ha deciso di fare opposizione. Conferma la necessità di insistere perché in seconda lettura il Parlamento non approvi la legge con la maggioranza dei due terzi, consentendo così ai cittadini di potersi esprimere anche sulla procedura di revisione. E infine prepara le condizioni perché, qualora la sciagurata revisione venga approvata, i cittadini possano organizzarsi e agire – come nel 2006 – per scongiurare una profonda distorsione del nostro sistema.

Barbara Spinelli: “Uno scopo sbagliato”
Doveva essere un governo breve, che abolisse il Porcellum e ci portasse senza traumi economici eccessivi a nuove elezioni. Invece abbiamo un esecutivo che crede di minimizzare quando si dice “di scopo”, e infatti uno scopo grande e incongruo ce l’ha: durare il tempo necessario per cambiare la Costituzione, senza subito darci, come dovrebbe a seguito del giudizio della Cassazione, una nuova legge elettorale. Risultato: un Parlamento di nominati, costituzionalmente screditato, nomina ristretti comitati incaricati d iriscrivere la Carta scavalcando regole e tempi che la Costituzione prescrive.

Dove sia lo scopo è chiaro: fissare e affrancare un governo che – una volta definito “senza alternative” – diviene per forza di cose onnipotente, incontrollato, auto-perpetuantesi. La Costituzione, fatta di regole rigide per proteggerci con le sue mura, deve essere edulcorata, deve diventare presidenziale, e rompere i ponti con l’esperienza antifascista. Lo ha decretato la JP Morgan in un rapporto del 28 maggio scorso. In passato lo decretò il piano della P2. Adesso i governi di larghe intese eseguono.

da Il Fatto Quotidiano del 31 luglio 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/07/31/costituzione-stracciata-continuano-adesioni-rodota-riforma-di-parte/672412/
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« Risposta #26 inserito:: Dicembre 14, 2013, 10:43:36 am »

I forconi e la politica dei diritti
   
di Stefano Rodotà, da Repubblica, 13 dicembre 2013

Sapevamo che la povertà si estendeva, che dilagavano le diseguaglianze, che la percentuale della fiducia dei cittadini nelle istituzioni era precipitata al 2%. Eppure questi dati venivano considerati come pure registrazioni statistiche.
Valutate alla stregua di variazioni di sondaggi e non come lo specchio di una situazione reale che rivelava quanto la coesione sociale fosse a rischio. Ora quel momento è arrivato, e bisogna chiedersi come una situazione così difficile possa essere governata democraticamente. È problema capitale per le istituzioni, che non possono ridurlo ad affare di ordine pubblico. Ma è compito pure delle forze politiche che non possono trasformare le critiche legittime nella tentazione di raccogliere consensi nella logica della spallata al sistema, della tolleranza di metodi violenti.

I cittadini si sono sentiti privati della rappresentanza, affidati alle pure dinamiche economiche, amputati dei diritti. Da qui bisogna ripartire. La provvida decisione della Corte costituzionale mette di fronte alla necessità di una legge elettorale centrata non solo sulla governabilità, ma sul recupero della rappresentanza. E la dimensione dei diritti è quella dove si fa più evidente l’intreccio tra le varie questioni.

Torniamo per un momento a Prato, dove la drammatica morte dei cinesi non è stata causata da un semplice incendio, ma proprio alla negazione dei loro diritti. Se ad essi fossero stati garantiti un lavoro legale e la sicurezza, il diritto alla salute e quello all’abitazione, dunque il rispetto minimo della dignità della persona, nessuno di loro sarebbe morto. Questo non è un caso eccezionale, ma la testimonianza di una separazione sempre più diffusa dell’economia dai diritti, che trascina con sé anche quella tra politica e diritti, causa non ultima della disaffezione dei cittadini. L’azione del Governo è in grado di colmare questa distanza?

Oggi la risposta non può che essere negativa. L’attuale maggioranza ha come sua componente essenziale il Nuovo Centrodestra, apparso a qualcuno come una sorta di destra moderna e che, al contrario, al posto dei diritti civili pone i “valori non negoziabili”, ribaditi come irrinunciabile segno di identità. Al posto dei diritti del lavoro ha insediato una logica che ha fatto deperire le garanzie. Al posto del rispetto dell’altro ha collocato il reato di immigrazione clandestina e l’ostinato rifiuto di allargare la cittadinanza. Al posto della legalità costituzionale vi è ancora la coda lunga delle norme che hanno distorto la legge in custode di interessi privati. Ognuno di questi casi ha nomi e cognomi, corrispondenti esattamente a quelli di esponenti della nuova forza politica. E questo è un ostacolo che continua ad impedire una esplicita strategia di uscita dalla non politica dei diritti che ci affligge da anni.

Cominciamo dalle clamorose inadempienze del Parlamento. Fin dal 2010, prima la Corte costituzionale, poi la Corte di Cassazione hanno riconosciuto che le persone dello stesso sesso, unite in una convivenza stabile, hanno «il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia». Parole che non hanno trovato ascolto nelle aule parlamentari, sì che un diritto fondamentale continua ad essere ignorato. Il silenzio, che riguarda anche il riconoscimento delle unioni tra persone di sesso diverso, è destinato a continuare? Non meno scandaloso è quanto sta accadendo a proposito dell’accesso alle tecniche di procreazione assistita. La legge del 2004, il più scandaloso prodotto delle ideologie fondamentaliste, è stata demolita nei suoi punti essenziali da giudici italiani ed europei, ma per il Parlamento è come se nulla fosse accaduto e non vi è stato quell’intervento che, riconducendo a ragione quel che resta della legge, è necessario per restituire alle donne l’esercizio pieno dei loro diritti. Inoltre, è fallito per fortuna il tentativo di approvare una legge sulle decisioni sulla vita in contrasto con il diritto fondamentale all’autodeterminazione e con la norma costituzionale che vieta al legislatore di «violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Ma non si fa nessun passo nella direzione di approvare le poche norme necessarie per eliminare ogni dubbio intorno al diritto della persona di morire con dignità. E così il diritto di governare liberamente la propria vita — il nascere, il costruire le relazioni personali, il morire — è ricacciato in una precarietà che testimonia di una vergognosa indifferenza del legislatore. Sarà mai possibile rovesciare questa attitudine?

La restaurazione della legalità attraverso i diritti investe direttamente l’essenziale tema del lavoro, che ha conosciuto una sua “riduzione privatistica” soprattutto attraverso l’articolo 8 del decreto 138 del 2011, dove si consente la possibilità di stipulare, a livello aziendale o territoriale, contratti collettivi o intese in deroga alle leggi. Il negoziato tra datori di lavoro e sindacati non avviene più con la garanzia della legge a tutela di diritti essenziali, ma torna ad essere affidato ai rapporti di forza, mai così “asimmetrici” come in questo tempo di crisi pesantissima. Questa norma deve essere cancellata, così come ha fatto la Corte costituzionale dichiarando illegittime norme limitative della rappresentanza sindacale, con una decisione che ci ricorda la necessità di una legge in materia che, nella logica costituzionale, riconosca ai lavoratori i diritti strettamente connessi alla loro condizione. E la questione del reddito di cittadinanza, della quale ci si vuol liberare con qualche mossa infastidita, rappresenta una buona occasione per ripensare il tema difficile del rapporto tra lavoro, cittadinanza, eguaglianza, dignità.

Il filo è sempre quello che connette diritti e restaurazione della legalità. Lo vediamo discutendo di carcere, dove i diritti si scontrano con trattamenti inumani e degradanti e dove la responsabilità del Parlamento non si individua soltanto intorno ad amnistia e indulto, ma con la pari urgenza di incidere sulle cause del sovraffollamento, che hanno le loro radici in reati legati all’immigrazione o al traffico di stupefacenti, all’inadeguatezza del codice penale. Lo vediamo a proposito della tutela della privacy che, da una parte, esige maggior rigore all’interno; e, dall’altra, impone di non considerarla una questione “domestica”, ma un tema che imporrebbe una presenza del governo italiano in quella dimensione internazionale dove si gioca una inedita partita di legalità costituzionale. Lo vediamo nel deperimento continuo del diritto alla salute e di quello all’istruzione.

Viviamo ormai in una situazione in cui la Costituzione è ignorata proprio nella parte dei principi e dei diritti. E lo stesso accade nell’Unione europea, amputata della sua Carta dei diritti fondamentale, che pure ha lo stesso valore giuridico dei trattati. La simmetria tra Italia e Europa è rivelatrice. La lotta ai populismi, anche nella prospettiva delle prossime elezioni europee, passa proprio attraverso l’esplicito recupero del valore aggiunto assicurato proprio dalla garanzia dei diritti.
Questo catalogo, ovviamente parziale, consente di cogliere i nessi tra politica e società, i limiti delle impostazioni solo economicistiche, la rilevanza dei principi di eguaglianza, dignità, solidarietà. Ma serve anche a mostrare non solo l’inaccettabilità di qualsiasi sottovalutazione dei diritti, ma pure la debolezza d’ogni posizione che ritenga possibile separarli dalla democrazia. È vero, i diritti sono deboli se la politica li abbandona. Ma quale destino possiamo assegnare ad una politica svuotata di diritti e perduta per i principi?

(13 dicembre 2013)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/i-forconi-e-la-politica-dei-diritti/
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« Risposta #27 inserito:: Aprile 06, 2014, 05:50:02 pm »

Rodotà: «Sì, ero per il monocameralismo»

«Il mio disegno di legge del 1985 sul monocameralismo? Me lo ricordo perfettamente. Quel testo voleva rafforzare la rappresentanza dei cittadini e la centralità del Parlamento contro i tentativi che c’erano anche allora di spostare l’equilibrio a favore dell’esecutivo. Nel 1985 c’erano il proporzionale, le preferenze, i grandi partiti di massa, regolamenti parlamentari che davano enormi poteri ai gruppi di opposizione. Il nostro obiettivo era dare la massima forza alla rappresentanza parlamentare, mentre oggi la si vuole mortificare».

Stefano Rodotà è un fiume in piena. Il conflitto tra il premier Renzi e il fronte dei «professoroni» che lo vede in prima fila insieme a Gustavo Zagrebelsky ha ulteriormente rafforzato la sua volontà di lanciare un allarme sui rischi di una «deriva autoritaria».

E tuttavia anche lei il Senato lo voleva eliminare...
«Certo, ma utilizzare questo argomento come obiezione alle mie critiche alle riforme di Renzi è culturalmente imbarazzante. Le critiche che ci arrivarono nel 1985 era che eravamo troppo parlamentaristi. Il nostro riferimento era rafforzare la reppresentanza del Parlamento, lo steso tema al centro della sentenza della Consulta contro il Porcellum. E l’Italicum è chiaramente in violazione di quella sentenza, basti pensare allo sbarramento dell’8% per i partiti non coalizzati. È qui l’abisso che divide le nostre proposte del 1985 da quelle di oggi».

Il vostro appello ha avuto anche l’endorsment di Grillo e Casaleggio...
«Ma che argomento è? Grillo firma quello che vuole, sono affari suoi. Quando c’è una proposta sul mercato chiunque ha il diritto di valutarla nel merito. Grillo vuole il vincolo di mandato per i parlamentari, noi no, mica c’è la proprietà transitiva verso Rodotà e Zagrebeslky».

Rispetto al Senato di Renzi lei che obiezioni muove?
«Ho letto pochi testi così sgrammaticati. Non mi pare neppure emendabile. Vedo poi che cambia continuamente. Ma questa disponibilità a cambiare mi pare soprattutto un segno di debolezza culturale e di approssimazione istituzionale. Gli argomenti portati sono imbarazzanti. Risparmiamo un miliardo? Ma questo è l’argomento più antipolitico che abbia sentito. È questo il metro per misurare la riforma costituzionale? Se aboliamo la presidenza della Repubblica e vendiamo il Quirinale si risparmia ancora di più...».

Non rischia di sottovalutare l’indignazione popolare contro gli sprechi?
«Assolutamente no. E infatti considero sacrosanta la proposta di eliminare i rimborsi nelle regioni che hanno generato fenomeni di corruzione. Ma di qui a tagliare il Senato per risparmiare c’è un salto pericoloso»: il Senato non è il Cnel».

Voi che tipo di riforma vorreste?
«Ci sono state tante proposte da parte dei firmatari del nostro appello. All’inizio del governo Letta alcuni di noi proposero di evitare la modifica del 138 e di fare subito le riforme possibili: la riduzione dei parlamentari e la fine del bicameralismo perfetto. Se si fosse fatto, oggi avremmo già queste due riforme approvate. Altro che conservatorismo».

In quali aspetti le vostre proposte differiscono da quelle del governo?
«Se una sola delle Camera ha la competenza sulla fiducia e sui bilanci, per evitare di modificare gli equilibri costituzionali occorre dare al Senato poteri sulle leggi costituzionali, le grandi leggi di principio, l’attività di controllo e inchiesta parlamentare. E poi un Senato eletto direttamente dai cittadini con il proporzionale. C’è una proposta in Senato firmata da Walter Tocci e altri che riprende alcuni di questi obiettivi. Sarebbe una strada per avere un Senato di garanzia, ancor più necessario se si sceglie per la Camera una legge ipermaggioritaria come l’Italicum. Altrimenti un partito con poco più del 20% rischia di diventare dominus dell’intero sistema. Di un governo con troppi poteri. Ecco perché parliamo di sistema autoritario. E poi c’è il tema della legittimità di questo Parlamento...».

Sarebbe illegittimo?
«Questo Parlamento eletto con un Porcellum incostituzionale non è rappresentativo del Paese. E bisognerebbe interrogarsi sulla sua legittimazione a modificare la Costituzione in modo così radicale. Servirebbe un minimo di cautela, non certo la tracotanza di chi dice “prendere o lasciare”».

Il ragionamento può essere ribaltato. Istituzioni così delegittimate hanno la necessità di profonde riforme per arginare i populismi.
«Dipende da quale risposta si intende dare. Accentrare i poteri nelle mani di poche persone è una vecchia ricetta già utilizzata più volte. È la ricetta di chi dice basta coi sindacati, con i partitini, con i professoroni. Ma ce n’è un’altra. Visto che c’è un deficit di rappresentanza delle istituzioni, si può fare una buona manutenzione della macchina dello Stato riaprendo dei canali di comunicazione con i cittadini di tipo non populista».

Come si traduce in concreto?
«Si può rafforzare la capacità di decisione senza stravolgere gli equilibri e le garanzie. I cittadini devono poter intervenire valorizzando gli strumenti dell’iniziativa popolare e del referendum, rendendo vincolante la discussione delle proposte dei cittadini. Si potrebbe così canalizzare la rabbia che alimenta i populismi».

È una risposta alla sfida di Grillo?
«È un modo per aprire canali nuovi dopo che i vecchi, a partire dai partiti di massa, si sono rinsecchiti. Ci sono tante forme di partecipazione civica che vanno oltre le forme povere del M5S. Anche Obama ha saputo dare una risposta partecipativa capillare alla crisi della politica».

DA - http://www.unita.it/politica/stefano-rodota-riforme-monocameralismo-italicum-grillo-renzi-senato-riforma--1.561213
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« Risposta #28 inserito:: Ottobre 21, 2014, 05:53:11 pm »

Perché i diritti non sono un lusso in tempo di crisi
Come fare se il mercato pretende di stabilire cosa è compatibile. Anche se si tratta di democrazia

Di STEFANO RODOTA'

NEL 1872, a Vienna, comparve un piccolo classico del liberalismo giuridico, La lotta per il diritto di Rudolf von Jhering, che Benedetto Croce volle fosse ripubblicato quasi come un anticorpo negli anni del fascismo. Oggi è più giusto parlare di lotta per i diritti, che si dirama dalla difesa dei diritti sociali fino alle proteste dei giovani di Hong Kong, e che può essere sintetizzata con le parole di Hannah Arendt, "il diritto di avere diritti", ricordate su questo giornale con diverso spirito da Alain Touraine e Giancarlo Bosetti (e che ho adoperato come titolo di un mio libro due anni fa).
Ma, per evitare che quella citazione divenga poco più che uno slogan, bisogna ricordarla nella sua interezza: "Il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all'umanità, dovrebbe essere garantito dall'umanità stessa". Così la fondazione dei diritti si fa assai impegnativa, esige una vera "politica dell'umanità", l'opposto di quella "politica del disgusto" di cui ci ha parlato Martha Nussbaum a proposito delle discriminazioni degli omosessuali, ma che ritroviamo in troppi casi di rifiuto dell'altro.

Quella del riconoscimento dei diritti è un'antica promessa. La ritroviamo all'origine della civiltà giuridica quando nel 1215, nella Magna Carta, Giovanni Senza Terra dice: "Non metteremo la mano su di te". È l'habeas corpus , il riconoscimento della libertà personale inviolabile, con la rinuncia del sovrano a esercitare un potere arbitrario sul corpo delle persone. Da quel lontano inizio si avvia un faticoso cammino, fitto di negazioni e contraddizioni, che approderà a quella che Norberto Bobbio ha chiamato "l'età dei diritti", alle dichiarazioni dei diritti che alla fine del Settecento si avranno sulle due sponde del "lago Atlantico", negli Stati Uniti e in Francia. È davvero una nuova stagione, che sarà scandita dal succedersi di diverse "generazioni" di diritti: civili, politici, sociali, legati all'innovazione scientifica e tecnologica. Saranno le costituzioni del Novecento ad attribuire ai diritti una rilevanza sempre maggiore. Ed è opportuno ricordare che le più significative innovazioni costituzionali del secondo dopoguerra si colgono nelle costituzioni dei "vinti", l'italiana del 1948 e la tedesca del 1949, che non si aprono con i riferimenti alla libertà e all'eguaglianza. Nella prima il riferimento iniziale è il lavoro, nella seconda la dignità. Si incontrano così le condizioni materiali del vivere e la sottrazione dell'umano a qualsiasi potere esterno.

Cambia così la natura stesso dello Stato, caratterizzato proprio dall'innovazione rappresentata dal ruolo centrale assunto dai diritti fondamentali. E si fa più stretto il legame tra democrazia e diritti. Con una domanda sempre più stringente: che cosa accade quando i diritti vengono ridotti, addirittura cancellati? Molte sono state in questi anni le risposte. Proprio la centralità dei diritti fondamentali nel sistema costituzionale ha fatto parlare di diritti "insaziabili", che si impadroniscono di spazi propri della politica e che, considerati come elemento fondativo dello Stato, espropriano la stessa sovranità popolare. Più nettamente, nel tempo che stiamo vivendo, i diritti sono indicati come un lusso incompatibile con la crisi economica, con la diminuzione delle risorse finanziarie.

Ma, nel momento in cui la promessa dei diritti non viene adempiuta, o è rimossa, da che cosa stiamo prendendo congedo? Quando si restringono i diritti riguardanti lavoro, salute e istruzione, si incide sulle precondizioni di una democrazia non riducibile ad un insieme di procedure. Non sono i diritti ad essere insaziabili, lo è la pretesa dell'economia di stabilire quali siano i diritti compatibili con essa. Quando si ritiene che i diritti sono un lusso, in realtà si dice che sono lussi la politica e la democrazia. Non si ripete forse che i mercati "decidono", annettendo alla sfera dell'economico le prerogative proprie della politica e dell'organizzazione democratica della società?

La riflessione sui diritti ci porta nel cuore di una discussione culturale che va al di là delle contingenze e rivela come i riferimenti alla crisi economica abbiano soltanto reso più evidente una trasformazione e un conflitto assai più profondi, che riguardano il modo stesso in cui si deve guardare alla fondazione delle nostre società. A Touraine sembra che le spinte provenienti dal sociale abbiano esaurito la loro capacità trasformativa e propone non soltanto di rimettere i diritti fondamentali al centro dell'attenzione, ma di operare uno spostamento radicale verso movimenti "etico-democratici", i soli in grado di porre in discussione il potere nella sua totalità e di "difendere l'essere umano nella sua realtà più individuale e singolare". I diritti fondamentali "ultima utopia", come ha scritto Samuel Moyn, o pericoloso espediente retorico, che trascura la loro inattuazione anche quando sono formalmente proclamati e se ne serve per imporre con un tratto "imperialistico" la cultura occidentale, oggi il neoliberismo? Si può andare oltre queste contrapposizioni o dobbiamo piuttosto considerare la dismisura assunta dalla dimensione dei diritti che, secondo Dominique Schnapper, mette a rischio i fondamenti stessi della democrazia, vissuta troppo spesso come "ultrademocrazia", e a riflettere sulla forza delle cose che ha interrotto quella che Giuliano Amato ha definito "la marcia trionfale dei diritti"?

Tutti questi interrogativi confermano la necessità di analisi approfondite, che dovrebbero però tener conto di come il mondo si sia dilatato, spingendo lo sguardo verso culture e politiche che proprio ai diritti fondamentali hanno affidato un profondo rinnovamento sociale e istituzionale. È nel "sud del mondo" che ritroviamo novità significative, nella legislazione e nelle sentenze delle corti supreme di Brasile, Sudafrica, India. Basterebbe questa constatazione per mostrare quanto siano infondate o datate le tesi che chiudono la vicenda dei diritti fondamentali solo in una pretesa egemonica dell'Occidente. Al tempo stesso, però, l'attenzione per le costituzioni "degli altri" deve spingerci ad avere uno sguardo nuovo anche sul modo in cui i diritti fondamentali si stanno configurando nelle loro terre d'origine, a cominciare dai nessi ineliminabili e inediti tra diritti individuali e sociali, tra iniziativa dei singoli e azione pubblica.

I diritti non invadono la democrazia, ma impongono di riflettere su come debba essere esercitata la discrezionalità politica: proprio in tempi di risorse scarse, i criteri per la loro distribuzione debbono essere fondati sull'obbligo di renderne possibile l'attuazione. E, se è giusto rimettere al centro i diritti individuali per reagire alla spersonalizzazione della società, è altrettanto vero che questi diritti possono dispiegarsi solo in un contesto socialmente propizio e politicamente costruito. Qui trovano posto le riflessioni su un tempo in cui il problema concreto non è la dismisura dei diritti, ma la loro negazione quotidiana determinata dalle diseguaglianze, dalla povertà, dalle discriminazioni, dal rifiuto dell'altro che, negando la dignità stessa della persona, contraddicono quella "politica dell'umanità" alla quale è legata la vicenda dei diritti.
Seguendo questi itinerari, ci avvediamo di quanto sia improprio ragionare contrapponendo diritti e politica. Senza una robusta e consapevole politica, fondata anche sull'iniziativa delle persone, i diritti corrono continuamente il rischio di perdersi. Ma quale destino possiamo assegnare ad una politica svuotata di diritti e perduta per i principi?

© Riproduzione riservata 20 ottobre 2014

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2014/10/20/news/perch_i_diritti_non_sono_un_lusso_in_tempo_di_crisi-98532362/?ref=HRER2-1
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« Risposta #29 inserito:: Ottobre 21, 2014, 06:01:59 pm »

L'Italia e la prima Carta dei Diritti per la Rete.
Colloquio con Stefano Rodotà

Pubblicato: 20/10/2014 10:36 CEST
Aggiornato: 20/10/2014 10:40 CEST

L'Italia ha compiuto nei giorni scorsi il primo passo per realizzare una Carta dei Diritti di Internet, grazie all'impegno preso dalla Presidente della Camera Laura Boldrini che aveva incaricato il professor Stefano Rodotà, già Garante per la Privacy e uno dei giuristi più impegnati su questi temi. Il documento di 6 pagine che contiene 14 punti di indirizzo generale, verrà ben presto presentato a una delegazione dell'Unione Europea ed è "Fondata sul pieno riconoscimento di libertà, eguaglianza, dignità e diversità di ogni persona", anche perché, come ha ribadito la Boldrini: "Non possiamo lasciare il Web in mano ai potenti": La bozza è già online sul sito della Camera e per 4 mesi, a partire dal 27 Ottobre, tutti potranno contribuire alla stesura del testo definitivo, suggerendo modifiche, integrazioni e cancellazioni. Insomma, una grande consultazione popolare, la prima in Europa, su uno dei temi più sentiti nell'attuale fase storica del progresso umano: la libertà della Rete. Ne abbiamo parlato proprio con Rodotà.

Perché la necessità di creare una carta fondamentale per i diritti su Internet?
"Non è una novità: è una discussione cominciata qualche tempo fa. Sono anni che sottolineo non solo in Italia la necessità di creare una Carta dei diritti. Finora abbiamo avuto diverse iniziative: il Centro Berkman dell'Università di Harvard ha censito 87 dichiarazioni nel mondo, che sono quasi tutte esclusivamente di fonte collettiva, non statale, ma privata, e che hanno messo in evidenza la necessità di una carta dei diritti. L'iniziativa italiana si differenzia da queste, perché ha sede a livello istituzionale, nella Camera dei Deputati. Naturalmente non significa che questo testo assumerà un carattere vincolante, ma evidentemente diventa un punto di riferimento per una discussione istituzionale, tanto che ci sono state reazioni molte positive da parte dei Parlamenti francese, inglese e tedesco".

Quali sono le linee fondamentali su cui vi siete soffermati?
"Anzitutto per evitare equivoci e critiche, che in questi casi si manifestano regolarmente, qui non siamo di fronte a regole che vogliono impedire l'esercizio della libertà; ma, al contrario, si vuole impedire che la libertà in Rete e, quindi, i diritti individuali e collettivi siano subordinati agli interessi economici e alle esigenze di sicurezza. Ecco, perché parliamo di una dimensione costituzionale, perché vengono affermati principi e diritti. I principi di riferimento sono quelli classici: libertà uguaglianza e dignità. I quali, poi, si traducono in questo documento, anzitutto nel diritto a di accesso alla Rete, ad internet, come diritto fondamentale della persona, poiché internet è ormai uno spazio nel quale si manifesta sia l'attività pubblica sia lo svolgimento della vita privata. E questo evidentemente è una condizione di eguaglianza. Dal riconoscimento di questo diritto si trae immediatamente la conseguenza della necessaria 'neutralità' della Rete. Il che vuol dire, in primo luogo, che nessuno può essere discriminato ad esempio fornendo servizi migliori a chi può pagare di più. E questo è un principio che vale, non solo per quanto riguarda le pari opportunità delle persone, ma anche perché la rete possa funzionare in modo da offrire a tutti le stesse opportunità economiche. Finora, quella che è stata capacità generativa della Rete, cioè la capacità di innovazione continua, è stata resa possibile proprio dal fatto che tutti hanno potuto muoversi in Rete in condizioni di parità.

Non solo un sapere collettivo, ma questo garantisce anche la concorrenza in modo economico. Se elimino la neutralità i più forti potranno creare condizioni e impedimenti per coloro che vogliono entrare in concorrenza con essi.

Metterei in evidenza il fatto che garantire condizioni di libertà ed eguaglianza è una premessa indispensabile, perché sia resa possibile la partecipazione sociale e politica per tutti i cittadini nelle modalità nuove che la rete offre. Questa Dichiarazione non è una dichiarazione chiusa, un testo consegnato come un prodotto finito. È, al contrario, una base per una discussione più larga alla quale tutti potranno partecipare. Già oggi il testo della Dichiarazione si trova in Rete sul sito della Camera e dal 27 Ottobre ci sarà una vera e propria piattaforma strutturata, in modo tale che tutti possano fare le loro osservazioni, manifestare le loro critiche, proporre eliminazioni e/o integrazioni. Tutto questo materiale sarà poi utilizzato per elaborare la bozza definitiva della dichiarazione, che è stata concepita non come un affare interno ad uno stato, cosa che sarebbe ridicola, considerando il fatto che internet è uno spazio senza confini. Ma proprio per alimentare la discussione sovranazionale, in primo luogo in Europa, ma poi in aree sempre più vaste, a cominciare dall'America Latina, dove oggi vi è una grande sensibilità per questi temi, soprattutto dopo l'entrata in vigore di un'importante legge brasiliana."

E comunque già si sono manifestate alcune critiche riguardo alla privacy e al diritto d'autore, nodi abituali nelle discussioni sulla Rete.
"Per quanto riguarda il diritto d'autore abbiamo deliberatamente deciso di attivare questo punto molto delicato alla consultazione, che comincia a fine ottobre. Su questa base e su quella di un'ampia documentazione che abbiamo già raccolto, il tema del diritto d'autore sarà certamente presente nella stesura definitiva della dichiarazione, tenendo però conto della novità proprio rappresentata dalla rete, dove la conoscenza ha assunto un significato tutto nuovo ed è anche il prodotto dell'attività di un numero sterminato di persone.
Per la privacy abbiamo, da una parte tenuto conto delle elaborazioni già note, in particolare in Europa, dove la sua tutela è particolarmente intensa e dove è in corso di approvazione il Regolamento che la regolerà in modo più preciso, mettendo però l'accento anche sugli aspetti nuovi del problema. Come quelli che riguardano il fatto che la nostra identità è sempre più costruita da altri, che acquisiscono le nostre informazioni e che, soprattutto dopo il caso Snowden, bisogna porre limiti precisi alle raccolte di informazioni di massa e alla violazione dei nostri apparati informativi. Sono state manifestate preoccupazioni per quanto riguarda la tutela della privacy, soprattutto nella forma del diritto all'oblio, sottolineando come questo possa limitare la libertà d'informazione. Va detto però che si sta sviluppando una linea, nata negli Stati Uniti e che in Italia ha avuto già esplicito riconoscimento, che ad esempio le persone note e tutte quelle che ricoprono funzioni pubbliche non possono impedire l'accesso alle loro informazioni."

Da - http://www.huffingtonpost.it/gianni-rossi/italia-carta-diritti-rete-colluquio-stefano-rodota_b_6007094.html?utm_hp_ref=italy
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