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Autore Discussione: RODOTA'. -  (Letto 19478 volte)
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« inserito:: Settembre 19, 2007, 12:24:07 am »

Rodotà: «Troppi messaggi, ci guadagna la destra»

Andrea Carugati


«Non mi stupisce che questa ondata di disaffezione verso la politica si scateni adesso che il centrosinistra è al governo. Perché l’elettorato di questa maggioranza è sensibile alla legalità e al rispetto delle regole, sono nel suo Dna. E reagisce con severità e ritiene che i suoi rappresentanti non siano altrettanto fedeli a questo Dna». Stefano Rodotà, giurista ed ex presidente dell’Autorità garante per la privacy, dice la sua sull’ondata di anti-politica che attraversa l’Italia.

Professor Rodotà, Umberto Eco sostiene che questa ventata neo-qualunquista è anche figlia di un eccesso di annunci del governo, cui non seguono i fatti. È d’accordo?
«Condivido l’argomentazione di Eco, ma il problema è politico. In questo periodo l’agenda politica è stata dettata dalla destra: penso a due temi ossessivamente ripetuti, tasse e sicurezza. Può darsi che siano davvero i più sentiti dai cittadini, ma certamente il modo in cui sono stati posti l’ha deciso la destra. Una volta accettata questa agenda, le riposte del governo sono apparse sulla difensiva. In più c’è stata una frammentazione delle risposte nella maggioranza: c’è chi dice di tagliare le tasse subito, chi dice “sì ma dipende dalle risorse disponibili”... Ai cittadini resta un messaggio solo: il riconoscimento pubblico dell’insostenibilità del prelievo e una serie di proposte contraddittorie. Insomma, se anche il centrosinistra volesse fare un annuncio declinato al futuro, ci vorrebbe un minimo di concordia: a quando il taglio, per quale imposta e per quale no...».

D’accordo. Ma in un Paese normale questo dovrebbe produrre un calo di consensi per il governo, e magari un rafforzamento dell’opposizione. Perché in Italia, invece, cresce il «neo-qualunquismo» di Grillo?
«Perché il bipolarismo italiano è puramente oppositivo, la vittoria dell’altro percepita come un rischio per la stessa democrazia. In altri Paesi l’elettore deluso cambia schieramento, da noi molto meno: da questa impossibilità derivano il disincanto, il distacco. Che si traducono in questa forma di populismo. Che non è antipolitica, ma una forma di politica che non nasce oggi: l’appello diretto ai cittadini, senza mediazioni, le tecniche di marketing applicate alla politica sono tutti ingredienti del populismo berlusconiano. Questi fenomeni trovano un terreno già concimato. Così il degrado del linguaggio: ci sono partiti e personalità che ne hanno fatto un modo di comunicare. E da parte del sistema politico e di quello dei media c’è stata una grave sottovalutazione. Sui giornali fa notizia l’insulto, non la proposta seria».

C’è stata, da parte del centrosinistra, una scarsa efficacia sul tema della legalità?
«Il recupero della legalità non c’è stato. Faccio un esempio: si era ipotizzato di escludere dalla Commissione Antimafia le persone indagate o condannate per mafia. Era una proposta ragionevole, non una legge ma un codice di comportamento condiviso. Eppure c’è stato un rifiuto. E oggi ci troviamo davanti alla richiesta di escludere tutti i condannati dal Parlamento, anche per condanne insignificanti».

Il centrosinistra se la caverà con un altro annuncio?
«Per carità! Si presenti un disegno di legge e la maggioranza dica che è il suo primo obiettivo. Senza trattative sotterranee. Si faccia vedere all’opinione pubblica che dice sì e chi no: così si esce da questo indistinto rifiuto di tutto ciò che è politica. Altro passo da fare riguarda le proposte di legge di iniziativa popolare: in passato sono finite negli archivi del Parlamento, adesso questi canali vanno riaperti: le Camere devono avere l’obbligo di prendere in considerazione queste proposte e i promotori devono avere il diritto di seguirne l’iter. Così i cittadini possono partecipare alla costruzione dell’agenda politica, segnalare alcune priorità».

Che analogie vede tra questa fase e il 1992?
«Non mi pare che sia in arrivo un terremoto di quell’entità. E tuttavia la possibilità che questo rischio sia evitato è molto legata alla capacità della politica di reagire attraverso misure concrete. Questo non vuol dire portare in Parlamento le proposte di Grillo a scatola chiusa, perché non basterebbe. In discussione non ci sono stipendi e pensioni, ma lo loro stessa utilità. Per rilegittimarsi devono tornare ad essere degli interlocutori dei cittadini: con la massima trasparenza, l’accesso diretto alle informazioni. Se le istituzioni rispondono alle domande, consentono ai cittadini di intervenire e di capire se c’è o meno efficienza o imbroglio, dimostrano di essere utili».

Crede che la nascita del Pd possa essere una risposta a questo disincanto?
«Ho visto come è stato dilapidato il capitale delle primarie del 2005. E oggi vedo una consapevolezza diffusa che queste primarie coprono aggiustamenti di tipo tradizionale tra oligarchie. Alcuni dei gruppi impegnati nella fondazione del Pd lo dicono esplicitamente: basta guardare alle controversie sulle segreterie regionali. Io mi auguro che queste primarie diano una scossa, contribuiscano a uscire da questa situazione. Ma l’onere della prova tocca a chi ha messo in piedi questo strumento».

Pubblicato il: 18.09.07
Modificato il: 18.09.07 alle ore 8.35  
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« Ultima modifica: Maggio 08, 2013, 05:54:47 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 14, 2007, 12:02:09 am »

L'ex ministro aveva contestato i senatori a vita per il loro sostegno a Prodi

Storace: «E' Napolitano quello indegno»

L'esponente della Destra attacca il capo dello Stato .

Reazioni: «Sconsiderato, tutta la Cdl condanni »

 
TRIESTE - Continua il confronto a distanza tra l'ex ministro della Salute, Francesco Storace, e il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Il capo dello Stato venerdì aveva preso le difese della senatrice a vita, Rita Levi Montalcini, presa di mira da Storace, assieme agli altri senatori a vita che siedono a Palazzo Madama, per il sostegno determinante (l'Unione al Senato conta solo sun un voto in più del centrodestra) più volte concesso al governo Prodi.

«FAZIOSITA' ISTITUZIONALE» - Parlando da Trieste, Storace definisce «molto gravi» le affermazioni del Quirinale, che aveva parlato di intimidazioni indegne ai danni della scienziata. Per il leader del movimento La Destra sono due le motivazioni per le quali le affermazioni di Napolitano sono gravi. «La prima - ha spiegato - per le ragioni che riguardano la storia personale del Presidente che ancora deve farsi perdonare; la seconda per quelle che riguardano l'atteggiamento nepotistico delle istituzioni e per l'evidente faziosità istituzionale. Napolitano - ha affermato Storace - difende chi lo vota contro chi non lo ha votato».

PATENTE DI INDEGNITA' - «Credo che sia Napolitano, viste le posizioni che ha assunto, a meritarsi la patente di indegnità. Anche perchè si muove a sostegno di una senatrice importante, per la quale il governo nella finanziaria ha stanziato tre milioni di euro ad personam. Nobel o non nobel - ha detto - i ricatti sono ricatti. Se dovessi scherzare - ha concluso Storace - dovrei considerare improbabile che il Capo della "casta" mandi i corazzieri a sedare i tumulti a Villa Arzilla».

REAZIONI - L'attacco di Storace a Napolitano ha suscitato immediate reazioni in tutto il mondo politico. Prodi chiede che «la Cdl condanni questo attacco sconsiderato al capo dello Stato». In effetti anche esponenti del Centrodestra, come Alemanno, intervengono sostenendo che il «Presidente della Repubblica non si critica neanche quando dice cose che non si condividono». Secondo Veltroni, invece «la Casa delle libertà deve condannare tutta, senza se e senza ma, le dichiarazioni di Francesco Storace. È il minimo che ci possa aspettare di fronte all'inaudito attacco portato al presidente della Repubblica». Secondo il presidente della Camera Fausto Bertinotti: «La dichiarazione del senatore Storace è incompatibile con la civiltà politica. La questione che si pone non è di buona educazione, essa investe i fondamenti della convivenza civile della Repubblica». Piero Fassino ha definito le parole di Storace «espressioni vergognose e irresponsabili che squalificano chi le pronuncia. Mi auguro - ha aggiunto Fassino - che anche i dirigenti dei partiti dell'opposizione avranno la responsabilità di prendere nettamente le distanze da simili comportamenti».

 LUI ATTACCA DI NUOVO: «CRITICHE DELLA CASTA» - «Un bellissimo libro di Marcello Veneziani, "Contro i barbari", afferma che chi trova un nemico trova un tesoro» ha ancora detto il senatore Francesco Storace: «Oggi l'hanno trovato quelli del tesoretto. Le critiche della casta provocano solo sbadigli».


13 ottobre 2007

da corriere.it
« Ultima modifica: Aprile 05, 2010, 12:14:06 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 19, 2007, 06:38:55 pm »

Fascismo è...


Furio Colombo


Un ragazzo simpatico, questo Storace, molto ragazzo benché over fifty, molto autentico, un po’ impulsivo, ma con i tratti tipici del giovane uomo impaziente che controlla fino a un certo punto i suoi scatti di vitalità e di energia, sa ridere, sorridere e irridere, tutto gli viene condonato perché, si sa, sono ragazzi.

Questo il ritratto che Matrix ha offerto di lui la sera del 17 ottobre di fronte al giornalista Mentana che ha avuto la buona idea di metterselo seduto di fronte due giorni dopo la violenta e ignobile aggressione a Rita Levi Montalcini. E la cattiva idea di autorizzare il suo interlocutore a cambiare come voleva le parole del suo attacco...

E a descrivere da solo ragioni, svolgimento, ed esito dei suoi processi, mai confrontato da un testo o da un documento (lei veramente ha detto... per la verità i giudici hanno scritto...). Mai interrotto nelle sue festose scorribande, come quando fa sapere «non avrei mai detto ciò che Fini ha detto a Gerusalemme, nel luogo che ricorda la Shoah» (nessuno in studio ha ricordato la frase di Fini sul «fascismo male assoluto») e baldanzosamente precisa: «il fascismo è stata luce e ombra». Non segue alcun commento e lui allarga un sorriso. Sa che chi accorrerà alla sua «destra» (il partito che ha appena fondato) non va alla destra di mercato ma alla luce del fascismo.

Perché ne parlo? So benissimo che dai tempi di Berlusconi, questa è la televisione, in Italia, sia quella pubblica che quella privata: domande amiche, nessun riscontro o confronto sulle risposte, dici quello che vuoi, menti come vuoi, e se non hai alcuna reputazione da difendere sei nel tuo elemento.

Ne parlo perché in quella trasmissione c’ero anch’io, una lunga intervista filmata bene (al Senato, tra un voto e l’altro) tagliata bene, montata con cura, senza dispersioni o frammentazioni.

All’annuncio della mia intervista, Storace (affettuosamente definito «Franti» nel titolo, forse con un riferimento colto al brano del diario minimo di Eco «E Franti l’infame sorrise»), ha pacatamente messo in dubbio il mio equilibrio mentale. Alla fine si è concesso due aneddoti, perché, si sa, i ragazzi hanno bisogno di sfogarsi e più sono sbruffoni e più sono simpatici, o questo era il tono del programma. Insultare Rita Levi Montalcini, a quanto pare, crea rispetto, attenzione cautela, un certo calore. Soprattutto crea un’ora di televisione benevola (le parole del capo dello Stato e il testo della Sen. Montalcini, pubblicato da Repubblica, li abbiamo ascoltati solo dalla voce e nella versione di Storace) e un autorevole, incontrastato diritto di ultima parola.

Dunque di me Storace racconta che sono passato dalla Fiat al comunismo, con il tono furbo di uno che svela: «questa è buona, sentite questa...». Segue attenzione e silenzio compunto del conduttore.

Allora, con senso dello spettacolo, Storace cambia tono e - sempre sicuro di condurre lo show - racconta: «Colombo questa mattina l’ho incontrato in Senato. Quando è passato vicino a me ha abbassato gli occhi».

Tutti gli altri punti della trasmissione riguardano Mentana. Questo riguarda me e sono in grado di rispondere a Storace: non ho abbassato gli occhi davanti al fascismo neppure da bambino. E infatti non dimentico. Storace sa bene - anche se è temperamentalmente incline a mentire come i suoi amici negazionisti - che non abbasso gli occhi, adesso, né di fronte a lui né di fronte a coloro che formeranno il suo nuovo partito di destra-Salò, prima di confluire con una marcia gloriosa con Berlusconi, dove i meriti del suo tipo vengono prontamente riconosciuti.

Se la destra è mercato, Storace si è messo in proprio, ha trovato negli insulti a Rita Levi Montalcini (di cui ha insinuato: «Era molto contenta quando riceveva i soldi dalla Regione Lazio») e nella volgarità dedicata al capo dello Stato, il suo avviamento, e in Matrix il suo maxi-spot. Ha anche detto, per far sapere al pubblico che non è solo: «Quante storie, ma se tutta la Casa delle libertà insulta ogni giorno i senatori a vita perché si permettono di votare». Ha detto, senza obiezioni da studio, che l’Assemblea Costituente (lui lo sa) voleva vietare il voto dei senatori a vita. Forse Mentana aveva davvero intenzione di confrontare Storace e la sua immensa volgarità con una intervista rivelatrice. Ma non gli è riuscito. Forse Storace ha un suo peso (non necessariamente morale) ed è consigliabile «maneggiarlo con cura».

Forse, come diceva Moravia di gente che non gli piaceva: «Parla perché ha la bocca». Quanto a Storace, che ha toccato in questi giorni il punto più basso della politica italiana da molti anni, parla perché ha uno studio. Ma questa, caro Diario, è l’Italia dei nostri giorni.

Pubblicato il: 19.10.07
Modificato il: 19.10.07 alle ore 8.49   
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 20, 2007, 04:37:38 pm »

Aggressioni, risse e raduni segreti.

Centinaia di denunce sono arrivate negli ultimi sei mesi

Tra Varese e Milano il nuovo laboratorio degli aspiranti resuscitatori del Terzo Reich

Noi, nazisti della porta accanto

Ecco i nuovi estremisti di destra

dal nostro inviato PAOLO BERIZZI


 VARESE - La bambina ha sei anni e il braccio teso nel saluto nazista. I capelli biondi che le accarezzano le spalle, la frangetta, un vestito bianco, il sorriso inconsapevole come se stesse giocando alle belle statuine. In un'altra immagine è in piedi accanto al padre. Riproduce il gesto che le ha insegnato papà, camerata varesotto e nostalgico regimista. Poi ci sono i politici. Gente che ricopre incarichi istituzionali, che siede nei consigli comunali di importanti comuni lombardi. Nelle file di Alleanza Nazionale o del Movimento nazionalsocialista dei lavoratori (la riproduzione del partito nazista di Adolf Hitler, attivo dal 2002, tre seggi tra Nosate e Belgirate alle ultime elezioni amministrative).

Le foto di cui Repubblica è entrata in possesso li ritraggono a volto scoperto, sprezzanti di fronte all'obiettivo, in pose ardite. La più truce è a metà tra una parata delle SS e un'istantanea di terroristi Nar. I quattro nazisti, giubbotto e occhiali scuri, uno di fianco all'altro, le mascelle serrate, salutano romanamente. Con una mano. Con l'altra impugnano pistole semiautomatiche. Sono puntate verso il fotografo. Uno la brandisce inclinandola in orizzontale; un altro la tiene appoggiata al petto. Sono nazisti d'Italia. Soldati delle nuova ultradestra del nostro Paese, una galassia che, tra partiti ufficiali, movimenti e sigle minori, conta qualcosa come 15 mila tra iscritti e simpatizzanti. Ben 97 episodi criminali del 2006 sono riconducibili a gruppi neofascisti, quasi il doppio di quelli registrati nel 2005. Un centinaio tra indagati, denunciati e arrestati solo negli ultimi sei mesi di quest'anno, in un'escalation di aggressioni e attentati soprattutto contro immigrati e avversati politici.

I nazi che vi stiamo raccontando abitano nelle provincie di Varese e Milano. E' il nuovo laboratorio degli aspiranti resuscitatori del Terzo Reich. La Procura varesina li ha indagati per istigazione all'odio razziale. Una cinquantina di persone. Non solo e non tanto ragazzotti dai bicipiti gonfi e tatuati.

Piuttosto professionisti, 40-50 anni, commercianti, antiquari, gioiellieri, politici noti, ben inseriti nel ricco tessuto sociale brianzolo. Tutti con una passione comune: il culto del Fuhrer e del Ventennio nazifascista. Li vedete immortalati in momenti di vita quotidiana: il giorno del matrimonio e assieme ai figli, in gita in montagna. Impegnati in parate militari nei boschi del varesotto, davanti a svastiche e falò. O al pub, tutti insieme, uniti dal "Sieg Heil!" e dal "Me ne frego!". Di fronte all'immagine di Hitler a grandezza naturale. Avvolti in bandiere con croci celtiche e uncinate e con il simbolo della Repubblica sociale italiana. Sono prodotti di un vento nero e denso che spira sull'Italia democratica del terzo millennio. Un vento che s'introduce nelle pieghe dell'antipolitica, punge le memorie e si insinua, infestandoli, in molti luoghi, e lì deposita una crosta sempre più spessa. Nelle curve degli stadi e nei consigli comunali. Nei pub di provincia e nelle sezioni dei partiti istituzionali (Fiamma tricolore, Forza Nuova, Fronte Nazionale). Nelle borgate e nei pensatoi della droite ezrapoundiana, lepeniana e franchista. Nei campi hobbit dove si formano i moderni balilla e in quelli rom presi di mira a colpi di molotov.

La galassia nera è in fermento, sempre più nostalgica, sempre più violenta, sempre più sdoganata. In un hotel di Brescia sabato scorso è nato il Partito fascista repubblicano, fondatore tal Salvatore Macca, già combattente della Rsi e presidente emerito della Corte d'appello bresciana. A Sassari hanno varato il collettivo Azione fascista nazionalsocialista. A Latina è venuta al mondo Rifondazione fascista. E questo per dire solo i battesimi. Poi c'è tutto il resto: i raduni, i campi d'azione, i pestaggi rivendicati, i pellegrinaggi nei campi di concentramento per farsi ritrarre con l'accendino sotto le immagini delle sinagoghe bruciate (come i nazi-irredentisti altoatesini raccontati da L'Espresso in gita nel lager di Dachau). I negozi che vendono le felpe con il soldato SS che spara da sdraiato e i convegni come quello promosso il 29 settembre a Roma. Titolo: "Il passaggio del testimone - Dalla Rsi ai militanti del terzo millennio".

Ai nazisti piacciono le birrerie. 24 febbraio 1920: nella birreria Hofbrauhaus di Monaco si proclama il manifesto del Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori. Un anno dopo la guida del partito viene affidata a Adolf Hitler. 23 aprile 2007: al pub Biergarden di Buguggiate, Varese, si celebra la nascita del Fuhrer. Sono un centinaio a sbronzarsi di birra per festeggiare il compleanno del Capo. Intonano cori contro ebrei e comunisti, decantano la superiorità della razza ariana sui tavoli di legno del locale di Francesco Checco Lattuada, capogruppo di An a Busto Arsizio. "Sì, quella sera c'ero, ma solo perché il locale era mio" (ora è chiuso), si difende con qualche imbarazzo Lattuada. C'erano anche due suoi colleghi di partito, alla festicciola, Roberto Baggio e Alessandro Stazi, consiglieri aennini rispettivamente a Legnano e Rieti. Quest'ultimo accompagnato da un folto gruppo di camerati saliti dal Lazio. Sono stati tutti denunciati a piede libero, ma restano politicamente in carica.

Sembrava di stare a Braunau (paese natale di Hitler) quella sera a Buguggiate. Ma il nazismo che andava in scena, spiato dalle cimici della Digos di Varese, era tutto italiano. Odorava di periferia, tracimava di odio contro gli immigrati. La bile che smuove il naziskin 25enne che incontriamo in un bar di Busto Arsizio. Sta piantato sugli anfibi con postura mussoliniana. "Di cosa parliamo...?", taglia corto. Cranio lucido, jeans aderenti, maglietta Blood and Honour (organizzazione internazionale per la difesa della razza ariana, simbolo una svastica nera in campo rosso). Solo la esse moscia lo umanizza un po', Andrea, il nome è inventato. Il resto è trucidismo puro. "Gli immigrati? Sono come gli ebrei, schifosi. Sterminarli tutti! Porco...", e giù una bestemmia, il motore dell'odio a pieni giri.

Varese un po' più su. Gavirate. Agriturismo vista lago. Davanti a una tavola apparecchiata con salumi e formaggi, il padrone di casa Rainaldo Graziani, romano, figlio "orgoglioso" di Clemente, fondatore di Ordine Nuovo, leader degli ultradestricattolici di Compagnia Militante, prova a volare alto. "La nostra è una destra pensata, come dire: colta, che va sui contenuti". Quali siano questi contenuti un'idea se la sono fatta Maurizio Grigo e Luca Petrucci, procuratore capo e sostituto procuratore di Varese, titolari dell'inchiesta che ha stroncato, almeno per ora, il Movimento nazionalsocialista dei lavoratori. In cambio, tante lettere di minaccia. Graziani, pure indagato, se ne frega, atteggiamento che in fondo ha una sua coerenza storica. Dice: "Qui abbiamo ospitato due edizioni dell'Università d'estate, un forum di tutte le destre radicali europee. Non mi importa se mi danno del nazista. A me interessano altre cose: i valori naturali, la Fede, la patria, l'onore del nostro popolo".
Altre parole, altri orizzonti. "Questo è l'avamposto dal quale partire alla conquista dell'Italia" confida a un amico il "generale" Pierluigi Pagliughi. 45 anni, commerciante da tempo convertito al nazismo, Pagliughi è il leader del Movimento lavoratori, di cui è consigliere comunale a Nosate. Secondo gli investigatori è lui l'ideologo della nuova culla nazista brianzola. Il programma politico? Un impasto di proposte di facile presa ("Tagliare i costi della burocrazia") e slogan di ammirazione per Hitler ("Avrebbe dato una Volkswagen gratis a tutti i tedeschi!"). Ma chi si muove alle spalle di Pagliughi? Solo giovani teste rasate o anche padri di famiglia con la camicia bruna nel cassetto? "Quello dei neonazisti è un ambiente molto eterogeneo", dice Fabio Mondora, dirigente della Digos di Varese. "Hanno un'organizzazione ben strutturata e collegata con gruppi estremisti stranieri" - aggiunge il sostituito procuratore Luca Petrucci.

Dalla Brianza al Veneto. Anzi, al Veneto Fronte Skinhead. Vi ricordate il movimento nero più duro d'Italia, fondato nel 1986 e capace di intercettare e amalgamare giovani squadristi curvaioli e reduci repubblichini? Se lo davate per morto e sepolto, vi siete sbagliati. Il Fronte c'è, e lotta. Giordano Caracino, 27 anni, di lavoro fa il corriere. Guida il furgone dieci ore al giorno, poi, al motto di "Mai domi!", riunisce i suoi, 200 sparsi in tutto il Veneto, nei locali dell'hinterland vicentino. "Oggi il coraggio vero è affrontare la vita come gli arditi del Piave - dice - Arrivare a fine mese con i salari bassi e i mutui alti. Siamo noi i rappresentanti della working class".
In passato il Fronte ha collaborato "in piazza" con il partito egemone della destra radicale italiana: Forza Nuova. Diecimila iscritti, il partito di Roberto Fiore ha messo il cappello sul "movimentismo" nero anti immigrati: "Ormai non ci picchiamo più coi "compagni", è più facile che ci siano risse con le compagnie interetniche - dice Paolo Caratossidis, nel direttivo nazionale forzanovista - Dove ci sono problemi di immigrazione, noi ci siamo". Se volano calci e pugni, fa niente. "Calci e pugni" d'altronde è anche il nome di una linea d'abbigliamento da stadio. La indossano i picchiatori neri delle curve romane e i militanti milanesi di "Cuore Nero". Alessandro "Todo" Todisco, 34 anni, operaio, ultrà interista, è il leader: "Ci hanno incendiato la sede prima che la inaugurassimo. Pensavano che avremmo sparato. Invece abbiamo fatto una festa. Vuole sapere cosa penso del nazismo? Sono stati nostri alleati, per questo dobbiamo rispettarli". Milano, Varese, Italia. I nazisti al tricolore.


(20 ottobre 2007)
da repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Aprile 02, 2008, 03:00:22 pm »

POLITICA

Quindici anni di ostilità contro l'istituzione più alta della Repubblica

Restano da vedere gli effetti dell'ennesimo strappo istituzionale alla vigilia del voto

Il Colle ossessione del Cavaliere poi costretto a chiedere scusa

di MASSIMO GIANNINI

 

È infiacchito. Sembra imbolsito.

Si dice che non abbia più tanta voglia. Ma ora che si avvicina l'ordalia del 13 aprile, sempre più spesso il Cavaliere stanco si lascia sopraffare dal vecchio Caimano che è in lui. Dai giorni ruggenti della sua discesa in campo del '94, Berlusconi ha trasformato il conflitto ideologico in uno strumento irriducibile della sua legittimazione politica, e il conflitto istituzionale in un metodo irrinunciabile della sua avventura di governo. Ora che risente vicina la possibilità di un ritorno a Palazzo Chigi, il leader del Pdl non resiste al richiamo della foresta.

E riapre le ostilità contro con un simbolo che per gli italiani rappresenta la più preziosa delle istituzioni, ma per lui costituisce la più tormentosa delle ossessioni. Equiparare la presidenza della Repubblica alle "forche caudine" di un Capo dello Stato "che sta dall'altra parte" non è solo un'offesa nei confronti di un galantuomo come Giorgio Napolitano, che in questi due anni difficili non ha mai sconfinato dal perimetro delle funzioni istituzionali che la Costituzione gli assegna e non ha mai valicato il confine delle attribuzioni politiche che il mandato delle Camere gli ha assegnato.

La sortita del Cavaliere è soprattutto un insulto nei confronti del sistema dei valori repubblicani, fondato sulla leale collaborazione tra le istituzioni, sul rispetto degli organi di garanzia, sul bilanciamento dei poteri dello Stato. Nonostante i quindici anni di militanza politica e i sei anni e mezzo di esperienza di governo, Berlusconi dimostra di non aver mai metabolizzato fino in fondo questi valori. Lui è e resta "altro". Per lui non ci sono interlocutori istituzionali o politici con i quali dialogare, ma solo nemici da sconfiggere o da imprigionare. Per lui il governo è e resta il Quartier Generale da espugnare, e il Quirinale è e resta il Palazzo d'Inverno da assediare. Ovviamente nell'attesa messianica di conquistare anche quello, e di consegnare finalmente se stesso alla Storia.

La sua uscita di ieri si può spiegare solo in questa ottica distorta del gioco democratico. E a niente valgono i soliti tentativi di ridimensionare la portata dell'attacco al Colle, con la prassi collaudata delle autosmentite successive. Non bastano le parole riparatorie nei confronti di Napolitano, non basta evocare "l'ottimo rapporto", la "stima e l'affetto" ricambiati. Non basta la telefonata di scuse con il Capo dello Stato, per precisare che "lui non c'entra niente".

Per quanto cordiale e contrita sia stata quella chiamata, il danno si è già prodotto. O meglio: ri-prodotto. La toppa che il Cavaliere prova a mettere in serata è peggiore del buco che creato nel pomeriggio. Berlusconi chiarisce che il suo discorso si riferiva al precedente settennato di Carlo Azeglio Ciampi, con il quale il suo governo ha avuto "un rapporto dialettico", e con il quale si è creato un attrito a proposito della riforma della legge elettorale, con quel premio di maggioranza regionale "che il Quirinale ha preteso".

Il Cavaliere mente due volte. La prima volta: il "rapporto dialettico" con Ciampi lo ha creato lui, con le continue forzature legislative che hanno piegato l'economia ai suoi sogni personali e il diritto ai suoi bisogni processuali. Se Ciampi ha rifiutato di firmare la legge Gasparri sulle Tv o la legge Castelli sulla giustizia non dipende dal fatto che stesse "dall'altra parte", cioè che fosse un pericoloso "comunista", ma dal fatto che "dall'altra parte" ci stesse invece lui, il Cavaliere, che era e resta un avventuroso populista.

La seconda volta: non è stato certo Ciampi a imporre il premio su base regionale a Palazzo Madama nella formula mostruosa declinata dal "porcellum". Il Colle, in quell'occasione, si limitò a segnalare la necessità che si rispettasse il dettato costituzionale: l'articolo 57 prescrive che il Senato della Repubblica sia "eletto a base regionale". Tutto qui. Il resto, che l'Italia sta pagando a caro prezzo, lo fecero i sedicenti "esperti" della vecchia Casa delle Libertà: quattro apprendisti stregoni riuniti in una baita di Lorenzago. Semmai, se l'ex Capo dello Stato ha avuto una colpa, è stata quella di non aver rimandato alle Camere anche quell'orribile legge Calderoli, costruita con l'unico obiettivo (purtroppo raggiunto) di rendere il Paese ingovernabile. Altro che "dall'altra parte": Berlusconi dovrebbe ringraziare Ciampi, invece che insolentirlo.

Si tratta ora di vedere quali saranno gli effetti di questo ennesimo strappo istituzionale, nei pochi giorni che restano prima delle elezioni. Anche se animato dalla giusta intenzione di ristabilire un principio, ma anche di svelenire la polemica, è difficile che il comunicato diffuso dal Quirinale possa chiudere la partita. Quel testo è al tempo stesso inquietante e confortante. Inquieta il fatto che la più alta magistratura istituzionale del Paese debba essere costretta a ribadire, in piena campagna elettorale, un'evidenza oggettiva di cui nessun leader politico e nessun cittadino comune dovrebbe mai dubitare: la presidenza della Repubblica è per definizione sostanziale e costituzionale un organo di garanzia, che interloquisce ma non interferisce con gli altri poteri dello Stato.

Conforta il fatto che in questa nostra "Repubblica transitoria" in cui tutto sembra rapidamente deperibile e variamente manipolabile, dai fatti della cronaca ai giudizi della storia, il Quirinale rappresenta l'unico presidio autenticamente no-partisan del sistema democratico. L'unico "luogo" fisico e simbolico della politica italiana che non si lascia snaturare dalle logiche iper-partisan e che assicura la necessaria unità dell'azione e la doverosa continuità della missione, indipendentemente da chi sia l'inquilino che lo abita. Non è una cosa da poco, visti i possibili scenari del dopo 13 aprile. E visto soprattutto l'incontenibile istinto del Cavaliere ad usare l'Italia come una semplice appendice di Forza Italia.

(2 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 21, 2008, 09:24:09 am »

Rodotà: «Poco rispetto per il Quirinale»

Andrea Carugati


«L’indicazione preventiva dei ministri potrebbe essere interpretata come un tentativo di condizionare il presidente della Repubblica e portare a un conflitto istituzionale. Per questo è stato opportuno che il segretario generale del Quirinale Donato Marra abbia ricordato le procedure legittime per la formazione di un governo».
Stefano Rodotà, ordinario di Diritto civile alla Sapienza, commenta «l’attivismo» del premier in pectore Silvio Berlusconi, dai ministri indicati anzitempo, agli incontri internazionali con Putin al caso Alitalia. Rodotà in particolare cita il caso di Porta a Porta: Berlusconi in collegamento ha fatto nomi di ministri, Rosy Bindi ha fatto presente che la Costituzione prevedeva una procedura diversa e Bruno Vespa le ha detto, in sostanza, che le sue erano nostalgie per le lungaggini della Prima Repubblica. A quel punto Marra ha scritto a Vespa per ricordare le prerogative del Quirinale (la lettera è stata letta dal conduttore in una successiva puntata di Porta a Porta). «Il conduttore ha fatto una gaffe e Berlusconi, anche in questo caso, ha mostrato un senso delle istituzioni non molto elevato», dice Rodotà.

Eppure è legittimo che un giornalista chieda al vincitore delle elezioni chi saranno i ministri...
«Certamente, ma il ministro Bindi ha richiamato correttamente i poteri del Quirinale e il conduttore non ha colto l’occasione per ribadire la corretta prassi costituzionale. Anzi, ha quasi irriso il ragionamento del ministro Bindi. Il giornalista ha tutto il diritto di esercitarsi sul toto-ministri, ma non si deve mai dimenticare che i poteri del presidente della Repubblica nella formazione del governo non sono un’anticaglia».

La lettera del Quirinale è stata indirizzata al giornalista, non al vincitore delle elezioni.
«Nel momento in cui si sottolineano le prerogativa del presidente della Repubblica, c’è anche un’indicazione molto chiara al premier in pectore».

Eppure ormai la prassi è cambiata. Il governo viene scelto dai cittadini, seppur in modo indiretto.
«Si è creato un senso comune, ma in Italia non c’è l’elezione diretta del premier. In questi anni le modifiche alle leggi elettorali con l’indicazione preventiva del premier hanno creato creato una prassi che condiziona i poteri del presidente della Repubblica. E tuttavia questo non cancella la parte successiva dell’articolo 92 della Costituzione che riguarda il potere di nomina dei ministri. Nel 2001 già il presidente Ciampi aveva richiamato questa norma davanti all’attivismo di Berlusconi. Scalfaro fece di più: bloccò la nomina di Cesare Previti al ministero della Giustizia esercitando i suoi legittimi poteri. Non è solo un dato formale. L’Italia non è una repubblica presidenziale, la persona indicata sulle schede elettorali non è investita di alcun potere prima della nomina da parte del presidente della Repubblica e della fiducia del Parlamento. Non si tratta di passaggi superflui».

Lei citava il caso del 2001. Le pare che oggi questo slittamento verso un presidenzialismo di fatto si sia accentuato?
«C’è stata una maggiore evidenza pubblica di questo fenomeno sia nel caso Alitalia che nell’incontro con Putin. In entrambi i casi sarebbe stata auspicabile una maggiore misura da parte del premier in pectore. È normale che i potenziali interlocutori del caso Alitalia siano attenti al governo che verrà, e che Berlusconi dedichi altrettanta attenzione al dossier, anche incontrando Putin. E tuttavia non è il massimo dell’eleganza che un capo di stato straniero si precipiti a parlare non con il governo legittimo ma con il futuro premier. Anche se questo avviene in una sede privata come la villa in Sardegna».

Sembrava un vertice internazionale...
«Appunto, non è stato un segnale di particolare correttezza da parte di entrambi. Capisco la voglia di dare la sensazione che i poteri siano già passati e di mostrarsi efficiente, ma viviamo in una democrazia parlamentare e la forma è sostanza. L’incontro tra Gianni ed Enrico Letta sul caso Alitalia è stato un esempio positivo: questo è un modo corretto di affrontare una fase di transizione, senza tagliare fuori il governo in carica. Questo vale anche per la nomina del sostituto di Frattini alla Commissione europea: se le dimissioni ci saranno prima della nascita del novo governo, Prodi potrebbe essere costretto a colmare il vuoto. Anche in questo caso sarebbe corretta una consultazione tra le due parti. Ma non vi è dubbio che questa è una prerogativa del governo in carica».

Sulle nomine degli enti pubblici Prodi ha fatto un passo indietro in attesa del voto...
«Avrebbe potuto procedere alle nomine e non l’ha fatto per rispetto del futuro governo. Nel caso di Berlusconi invece vengono svolte attività che ancora non sono formalmente di competenza. È evidente che si tratta di due modi assai diversi di intendere le istituzioni».

Pubblicato il: 20.04.08
Modificato il: 20.04.08 alle ore 8.11   
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« Risposta #6 inserito:: Febbraio 10, 2009, 05:29:38 pm »

L'EDITORIALE

Lo tsunami costituzionale

di STEFANO RODOTA'

 
1) La turbolegge. Berlusconi vuole imporre in tre giorni una norma che cancella ogni traccia di divisione dei poteri, per impedire l'attuazione di un provvedimento giudiziario passato in giudicato e inventando un nuovo circuito istituzionale, che affida a un Parlamento incatenato il compito d'essere il killer dei giudici. Ma la strada scelta è, tecnicamente, non percorribile.

Nella relazione che accompagna il disegno di legge del Governo si sostiene che non siamo di fronte ad una sentenza passata in giudicato, perché i giudici non hanno accertato un diritto, ma si sono limitati ad integrare la volontà di un privato, quella di Eluana Englaro, con un semplice provvedimento di"volontaria giurisdizione". Non è così.

Quando la Cassazione ha ammesso il ricorso straordinario contro il decreto della Corte d'appello, che autorizzava la procedura di interruzione dei trattamenti, lo ha potuto fare proprio in considerazione del fatto che si trattava di un provvedimento relativo a diritti, che assume i caratteri del giudicato e che, quindi, detta una disciplina immutabile del diritto considerato. Ed è principio indiscutibile in tutti gli ordinamenti che la legge sopravvenuta non può influire sul diritto sul quale il magistrato si è pronunciato con un provvedimento passato in giudicato.

Il Governo tenta una ennesima forzatura, pericolosa e inutile. Pericolosa, perché insiste su una soluzione che, con rigore tecnico, era stata ritenuta non percorribile dal Presidente della Repubblica: si vuole, dunque, mantenere aperto il conflitto con Napolitano. Inutile, perché non sarà possibile intervenire in modo legittimo per bloccare l'attività già avviata di interruzione dei trattamenti sulla base di una legge su questo punto chiaramente incostituzionale.

Quali altri atti di forza, allora, si escogiteranno per espropriare i cittadini della possibilità di condurre "la lotta per il diritto" - è questo il titolo d'un classico del liberalismo ottocentesco, del giurista Rudolf von Jhering, che Benedetto Croce volle fosse ripubblicato negli anni del fascismo - e per impedire che possano avere ancora "giudici a Berlino"? Questa era l'orgogliosa sfida del mugnaio di Sans-Souci in presenza di Federico il Grande. Mugnai e giudici stanno perdendo diritto di cittadinanza in Italia?

2) L'inammissibile libertà. Dice il cardinale Ruini: "Preferisco parlare di una legge sulla fine della vita. La parola testamento implica infatti che si disponga di un oggetto, ma la vita non è un oggetto". Il mutamento linguistico, dunque, rivela un capovolgimento concettuale e politico. Per quante perplessità il ricorso al termine "testamento" possa suscitare dal punto di vista tecnico-giuridico, esso esprime bene il fine che si vuol raggiungere. Testamento biologico, testament de vie, living will ci parlano di un "atto personalissimo", in cui è sovrana la volontà dell'interessato.

Certo, la vita non è un oggetto, ma appartiene sicuramente alla sfera più intima dell'interessato che, com'è ormai chiaro, giuridicamente può disporne e ne dispone. Quando, invece, si parla di una legge sulla fine della vita, il legislatore non si fa signore della morte, perché questo è un evento naturale sul quale nessuno può intervenire. Si impadronisce del morire, che è vicenda umana, alla quale si pretende di imporre regole autoritarie, incuranti delle ragioni della coscienza di ciascuno.

La coscienza, allora, che in politica compare soprattutto come diritto al dissenso. Diritto già negato dal Presidente del Consiglio ai suoi ministri, che avrebbero potuto manifestarlo in quest'ultima vicenda solo dando contestualmente le dimissioni. E che i tempi imposti e la minaccia della fiducia negano anche ai parlamentari della maggioranza, perché il dissenso non è solo dire un sì o un no, ma la possibilità di argomentare, di discutere in quel foro democratico che continuiamo a chiamare Parlamento.

Il fatto che il diktat berlusconiano non si estenda direttamente ai parlamentari dell'opposizione non esclude che anche nei loro confronti si commetta un sopruso. Ma bisogna guardare più a fondo. Quando le decisioni legislative incidono direttamente sull'autonomia delle persone nel governare la loro vita, la libertà di coscienza non è solo quella dei parlamentari. La libertà di coscienza da tutelare è, in primo luogo, quella della persona che deve compiere le scelte di vita. Il problema, allora, non riguarda la libertà di coscienza di chi deve stabilire le regole: investe la legittimità stessa dell'intervento legislativo in forme tali da cancellare, o condizionare in maniera determinante, quelle scelte. Altrimenti si determina una asimmetria pericolosa: quando si affrontano i temi eticamente sensibili la libertà di coscienza dei legislatori può divenire massima, quella dei destinatari della norma minima.

3) Un "pieno" di diritto. Si è detto, e si continua a ripetere, che una legge è comunque necessara, perché bisogna colmare un pericoloso vuoto legislativo. Per l'ennesima volta invito a leggere la sentenza della Corte di Cassazione dell'ottobre 2007, la decisione centrale per il caso Englaro, che mostra rigorosamente come il diritto al rifiuto di cure, anche per il futuro, sia solidamente fondato su norme costituzionali, su convenzioni internazionali ratificate dall'Italia (non quella sui disabili, abusivamente richiamata nell'atto di indirizzo del ministro Sacconi), su articoli della legge sul servizio sanitario (e del codice civile, come quelli sull'amministrazione di sostegno per gli incapaci).

Siamo di fronte a un "pieno" di diritto, che si vuole "svuotare" con una mossa restauratrice, invece di integrarlo con poche, semplici norme che rendano più agevole e sicuro l'esercizio di un diritto che, lo ripeto, già esiste, non è un'inaccettabile creazione giurisprudenziale.

L'argomento del far west lo conosciamo e ha sempre prodotto danni, come dimostra tra l'altro la pessima legge sulla procreazione assistita, che davvero ha prodotto un far west legato ad un "turismo procreativo", che nasce da un proibizionismo cieco e rende più difficile la vita delle persone, delegittimando ai loro occhi una legge che sono obbligati ad aggirare.

Se la turbolegge passerà, ponendo le premesse per una normativa proibizionista sulla fine della vita, si daranno incentivi al turismo "eutanasico", alle pratiche clandestine già tanto diffuse. Verrà così santificata la doppia morale - fate, ma senza clamore e scandalo. E saranno sconfitti tutti quelli che vogliono rimanere nel solco della legalità e dello Stato di diritto, come ha dolorosamente voluto Beppino Englaro, un eroe civile al quale nessuno dedicherà un film come ha fatto la civilissima America per le storie di Erin Brockovich e Harvey Mills.

4) La Costituzione "sovietica". Con la nuova dottrina costituzionale del Presidente del Consiglio si precipita in un abisso culturale, in mare di contraddizioni. Non si accorge, il Presidente del Consiglio, del grottesco di una argomentazione che lamenta la debolezza dei suoi poteri costituzionali, e poi accusa la stessa costituzione d'aver preso a modello quella sovietica, che appartiene ad uno dei regimi più violentemente dittatoriali che la modernità abbia conosciuto? Sa che la Costituzione italiana ha inventato un modo nuovo di parlare dell'eguaglianza?

Che ha anticipato tutti gli sviluppi successivi su temi come quelli della salute o del paesaggio, all'epoca ignorati da tutti i grandi documenti costituzionali, la costituzione francese e quella tedesca, la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo dell'Onu e la Convenzione europea dei diritti dell'uomo?

Sarebbe vano ricordare al Presidente del Consiglio la bella frase con la quale Piero Calamandrei descriveva la nostra come una "Costituzione presbite", dunque capace di guardare lontano e di inglobare il futuro. Risponderebbe senza esitazioni che Calamandrei era "un comunista". E sarebbe pure vano ricordargli che "i principi supremi" della Costituzione non possono essere modificati neppure con il procedimento di revisione costituzionale, e che tra questi principi supremi vi è proprio quello di laicità, perduto in questo clima di sottoposizione della Costituzione alla tutela vaticana. E che esiste un principio che impone al Governo di "coprire" il Presidente della Repubblica, sì che ci si doveva attendere una protesta ufficiale per la dichiarazione ufficiale vaticana di "delusione" per il comportamento di Giorgio Napolitano.

L'obiettivo è chiaro. Rompendo con la Costituzione, Berlusconi infrange il patto civile tra i cittadini e non ci porta verso una Terza o una Quarta Repubblica, ma verso un cambiamento di regime, ad una sovversione, ad una radicale sostituzione del governo della legge con quello degli uomini (Platone, non Stalin).

Ha colto nel segno Ezio Mauro quando ha parlato di una palese deriva bonapartista. Stiamo vivendo una vicenda che sta a metà tra "Napoleone il piccolo" (Victor Hugo) e "La resistibile ascesa di Arturo Ui" (Bertolt Brecht). Resistibile, Ma bisogna resistere davvero e subito o non vi sarà tempo per ripensamenti e pentimenti.

(9 febbraio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #7 inserito:: Febbraio 15, 2009, 02:50:33 pm »

IL COMMENTO

La nuova legge truffa

di STEFANO RODOTÀ


Torna un'espressione che sembrava confinata nel passato - "legge truffa". Ed è giusto che si dica così, perché non altrimenti può essere definito il testo preparato dalla maggioranza per introdurre nel nostro sistema le "direttive anticipate di trattamento" (o testamento biologico) e che, in concreto, ha l'opposto obiettivo di cancellare ogni rilevanza della volontà delle persone. Non solo per quanto riguarda il morire, ma incidendo più in generale sulla possibilità stessa di governare liberamente la propria vita.

Poiché, tuttavia, si discute di fondamenti, appunto dello statuto della persona e del rapporto tra la vita e le regole giuridiche, bisogna almeno fare un tentativo di andar oltre la rozzezza delle argomentazioni che ci hanno afflitto in queste difficili settimane e che rischiano di trascinarsi anche nell'immediato futuro.

Due ammonimenti dovrebbero guidare chi si accinge a legiferare sulla dignità del morire. Il primo viene da un grande giudice americano, Oliver Wendell Holmes: "Hard cases make bad laws", i casi difficili producono leggi cattive. Questa affermazione lapidaria è stata variamente interpretata e discussa, ma se ne può cogliere il nocciolo nell'invito a separare la legge dall'occasione, la creazione di una norma destinata a durare dall'emozione di un momento. Rischia di accadere il contrario. L'ossessione della turbolegge (ieri in tre giorni, oggi in tre settimane) possiede la maggioranza e frastorna il Pd. Non riflessione pacata, ma frettolosa imposizione di norme incuranti della loro coerenza interna e, soprattutto, della loro conformità alla Costituzione.

Il secondo ammonimento è nell'alta riflessione di Michel de Montaigne: "La vita è un movimento ineguale, irregolare, multiforme". Quest'intima sua natura fa sì che la vita appaia come irriducibile ad un carattere proprio del diritto: il dover essere eguale, regolare, uniforme. Da qui, da quest'antico conflitto, nascono le difficoltà che oggi registriamo, più intense di quelle del passato perché l'innovazione scientifica e tecnologica fa progressivamente venir meno le barriere che le leggi naturali ponevano alla libertà di scelta sul modo di nascere, vivere, di morire.

L'occhio del giurista, e del politico, deve registrare questa difficoltà, e cogliere le novità del quadro. Da una parte, l'impossibilità di continuare ad usare il diritto secondo gli schemi semplici del passato, pena la sua inefficacia, la sua riduzione a puro strumento autoritario, la perdita di legittimazione sociale. E, dall'altra, l'ampliarsi delle possibilità di scelta che appartengono alla libertà individuale, che riguardano solo la propria vita, e che per ciò non possono essere sacrificate da mosse autoritarie, da imposizioni ideologiche, senza violare l'eguale libertà di coscienza.

La legge, dunque, deve abbandonare la pretesa di impadronirsi d'un oggetto così mobile, sfaccettato, legato all'irriducibile unicità di ciascuno - la vita, appunto. Quando ciò è avvenuto, libertà e umanità sono state sacrificate e gli ordinamenti giuridici hanno conosciuto una inquietante perversione. Non a caso "la rivoluzione del consenso informato" nasce come reazione alla pretesa della politica e della medicina di impadronirsi del corpo delle persone, che ha avuto nell'esperienza nazista la sua manifestazione più brutale. L'autoritarismo non si addice alla vita, né nelle sue forme aggressive, né in quelle "protettive".

Riconoscere l'autonomia d'ogni persona, allora, non significa indulgere a derive individualistiche, ma disegnare un sistema di regole che mettano ciascuno nella condizione di poter decidere liberamente. Non a caso, riflettendo proprio sul consenso informato, si è detto che questo strumento, sottraendo il corpo della persona alle pretese dello Stato e al potere del medico, aveva fatto nascere "un nuovo soggetto morale".

Se il testo sul testamento biologico proposto dalla maggioranza dovesse diventare legge, sarebbe proprio questo soggetto a scomparire. Ma qui s'incontra un altro, e ineludibile, ammonimento, l'articolo 32 della Costituzione. Ricordiamone le ultime parole: "La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". è, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall'articolo 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell'articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell'esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all'indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell'interessato.

Siamo di fronte ad una sorta di nuova dichiarazione di habeas corpus, ad una autolimitazione del potere. Viene ribadita, con forza moltiplicata, l'antica promessa che il re, nella Magna Charta, fa ad ogni "uomo libero": "Non metteremo né faremo mettere la mano su di lui, se non in virtù di un giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del paese". Il corpo intoccabile diviene presidio di una persona umana alla quale "in nessun caso" si può mancare di rispetto. Il sovrano democratico, una assemblea costituente, ha rinnovato la sua promessa di intoccabilità a tutti i cittadini.

La proposta della maggioranza si allontana proprio da questo cammino costituzionale. Nega la libertà di decisione della persona, riporta il suo corpo sotto il potere del medico, fa divenire lo Stato l'arbitro delle modalità del vivere e del morire. Le "direttive anticipate di trattamento", di cui si parla nel titolo, non sono affatto direttive, ma indicazioni che il medico può tranquillamente ignorare, con un grottesco contrasto tra la minuziosità burocratica della procedura per la manifestazione della volontà dell'interessato e la mancanza di forza vincolante di questa dichiarazione, degradata a "orientamento". La libertà della persona viene ulteriormente limitata dalle norme che indicano trattamenti ai quali non si può rinunciare e, più in generale, da norme che vietano al medico di eseguire la volontà del paziente, anche quando questi sia del tutto cosciente.

Tutto questo ha la sua origine in una premessa che altera gravemente il quadro costituzionale, poiché si afferma che "la Repubblica riconosce il diritto alla vita inviolabile e indisponibile". Ora, se è ovvio che nessuno può disporre della vita altrui, altrettanto ovvio dovrebbe essere il principio che vuole ogni persona libera di rifiutare la cura, qualsiasi cura, disponendo così della sua vita. Proprio questo diritto viene illegittimamente negato quando si vieta al medico "la non attivazione o disattivazione di trattamenti sanitari ordinari e proporzionati alla salvaguardia della sua vita o della sua salute, da cui in scienza e coscienza si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente". Conosciamo, infatti, infiniti casi in cui persone hanno rifiutato interventi sicuramente benefici - dalla dialisi, alla trasfusione di sangue, all'amputazione di un arto - decidendo così di morire. Si introduce così un "obbligo di vivere", che contrasta proprio con i diritti fondamentali della persona.

E' abusivo anche il divieto di rifiutare l'alimentazione e l'idratazione, definite "forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze", con una inquietante deriva verso una "scienza di Stato". Quella affermazione, infatti, è quasi unanimemente contestata dalla scienza medica, sì che un legislatore rispettoso davvero dei diritti delle persone dovrebbe, se mai, limitarsi a prevedere modalità informative tali da mettere ciascuno in condizione di valutare e decidere liberamente, davvero in "scienza e coscienza": ma, appunto, scienza e coscienza della persona, non del medico o di un legislatore invasivo. E si tratta pure di una affermazione puramente ideologica, che ha come unico fine quello di continuare a gettare un'ombra sulla conclusione della vicenda di Eluana Englaro. Inoltre, dietro il nominalismo della distinzione tra "trattamento" e "sostegno", si coglie la volontà di aggirare l'articolo 32, dove l'imposizione di trattamenti obbligatori è legata a situazioni particolari o eccezionali (vaccinazioni obbligatorie in caso di epidemia). Questa prepotenza legislativa si concreta anche in un trasferimento di enormi poteri ai medici, caricati di responsabilità che li indurranno ad assumere atteggiamenti fortemente restrittivi, così trasformando la proclamata "alleanza terapeutica" con il paziente in una situazione che prepara nuovi conflitti che, alla fine, saranno ancora i giudici a dover decidere.

Delle molte sgrammaticature giuridiche di quel testo si potrà parlare in un'altra occasione. Ma qui conviene concludere con una domanda francamente politica. Nonostante il terrorismo mediatico, con le sue accuse al "partito della morte", una salda maggioranza di cittadini continua a dichiarare che debba essere solo la persona a dover decidere della sua vita. Chi li rappresenterà in Parlamento, vista la debolezza dimostrata finora dal Partito democratico?

(15 febbraio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #8 inserito:: Marzo 06, 2009, 12:05:51 am »

Una legge liberticida

di Daniela Minerva


La proposta del governo sul testamento biologico è anticostituzionale. Perché toglie ai cittadini la libertà di scegliere.

Il "j'accuse" di Stefano Rodotà 

Quando Emma Bonino e Pietro Ichino hanno chiesto, nei giorni scorsi, una moratoria sul testo Calabrò, in discussione al Senato, che si avvia a diventare la legge italiana sul testamento biologico, in molti hanno pensato che forse era la strada migliore.

Per evitare una legge orribile che vieta di fatto a ciascuno la libertà di scegliere come e quando farsi o non farsi curare. Poi, il Senato l'ha rifiutata, ma il presidente Renato Schifani ha detto che, comunque, non c'è fretta e che il Parlamento deve prendersi tutto il tempo necessario per decidere su una materia così complessa. Insomma, tutta l'urgenza palesata dal centrodestra durante gli ultimi giorni di Eluana Englaro si è dissolta al vento di mille malumori, tanti e blasonati come quelli di Beppe Pisanu che obietta l'incostituzionalità del testo.

E anche nel centrosinistra non sfugge a nessuno che il testo Calabrò, ancorché emendato in alcune sue parti, resta un testo pasticciato e inattuabile che permette agli operatori sanitari di mettere le mani sul nostro corpo senza che noi glielo consentiamo esplicitamente. Che genererà una serie infinita di controversie. E molti oggi si chiedono: ma c'è davvero bisogno di procedere con una norma di questo genere? Abbiamo girato la domanda al giurista Stefano Rodotà.

Professor Rodotà, lei vede l'urgenza di una legge sul testamento biologico?
"Nel nostro ordinamento abbiamo già tutte le norme che ci consentono di regolare la materia. Abbiamo il principio della libertà di cura espresso dalla Costituzione; la norma del Servizio sanitario sul consenso informato e la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea che all'articolo 3 vi fa esplicito riferimento; la Convenzione di Oviedo sulla biomedicina che dà rilevanza alle direttive anticipate. Poi, nel codice civile è stato introdotto il cosiddetto amministratore di sostegno a cui delegare le decisioni per nostro conto. Insomma: certo non c'è vuoto legislativo".

Quindi non c'è bisogno della legge?
"Non ce ne sarebbe bisogno, perché non c'è vuoto legislativo. Ma non esiste una convenzione sociale di accettazione di questi principi, come dimostra il fascicolo aperto dalla Procura di Udine a carico di Beppino Englaro, che non ha senso dal punto di vista giuridico. E in assenza di una legge, il rischio concreto che si continuino a manifestare conflitti è del tutto evidente. Quindi, per avere garantita la zona di libertà che indica la Costituzione, serve una legge che dice: 'Quella è una zona di libertà'".

Ma la legge possibile oggi è il testo Calabrò.
"No: quello è un testo contrastante con la Costituzione. Su questo non c'è il minimo dubbio".

Finiremo con l'essere l'unico paese al mondo con obbligo di cura?
"Sì. Eppure noi abbiamo una premessa costituzionale che tutela la libertà della persona e che vieta i trattamenti sanitari a chi non li accetti 'se non per disposizione di legge'. Ovvero in situazioni particolari, se ci sono pericoli per la collettività".

Stiamo parlando dell'articolo 32?
"Nell'articolo 13, l'articolo storico che fonda la libertà giuridica moderna, si dice che sono possibili limitazioni alla libertà personale attraverso la legge e con atto motivato dell'autorità giudiziaria. Il 32 è più forte: esplicita che la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. E riconosce che c'è un punto in materia di trattamenti sanitari dove il legislatore si deve fermare. La logica è quella dell'Habeas corpus della Magna Charta inglese del 1215, quando il re disse agli uomini liberi: 'Non metteremo la mano su di te'. L'articolo 32 è il moderno Habeas corpus: lo Stato sovrano democratico dice al cittadino che non violerà il suo corpo. Con un testo di legge come il disegno Calabrò torneremmo indietro di 794 anni".

Che tipo di legge dovremmo scrivere?
"Una legge estremamente leggera che renda possibile accertare la volontà della persona e renderla vincolante. E basta. In queste materie si deve procedere con una legislazione per principi, perché si tratta di materie nelle quali l'innovazione scientifica e tecnologica è rapidissima, e di conseguenza la legislazione non può essere concepita come un inseguimento continuo, sarebbe sempre in ritardo. Quindi la legge non deve definire dettagli tecnici. E deve preoccuparsi che i principi di riferimento, quelli stabiliti dalla Costituzione, possano essere applicati alle situazioni specifiche, perché la vita non può essere racchiusa in un unico schema. Nessuna persona è uguale all'altra, nessuna sensibilità personale o famigliare può essere stabilita una volta per tutte".

In concreto, quindi, cosa deve definire la legge?
"Stabilire che la persona interessata debba essere messa nelle condizioni di poter liberamente decidere come applicare su di sé i principi di riferimento. Dunque, nel caso di un cittadino che si trovi in uno stato vegetativo dobbiamo fare solo due cose: accertare che lo stato sia effettivamente persistente; e accertare qual era l'effettiva volontà del soggetto, eventualmente ricorrendo all'ausilio di chi è stato nominato fiduciario dalla persona stessa".

Invece in Senato si stanno discutendo questioni di dettaglio: come valuta l'emendamento dei rutelliani che esclude l'idratazione e la nutrizione artificiale dal novero dei trattamenti che possono essere oggetto delle Direttive anticipate di trattamento? Piace anche al centrodestra e quindi potrebbe essere il testo definitivo.
"Si va alla ricerca di un compromesso, e si finisce col fare una forzatura col solo scopo di mantenere un imprinting ideologico. Ma questo tipo di esclusione è in contrasto con i principi che regolano la materia. L'anno scorso, con la sentenza 438/08, la Corte costituzionale ha sancito la validità del consenso informato perché è la sintesi di due diritti fondamentali: quello all'autodeterminazione e quello alla salute. Qualunque artificio che non tenga conto di questo è destinato a generare infinite controversie".

(05 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #9 inserito:: Luglio 13, 2009, 11:23:34 pm »

IL COMMENTO

Il dovere della chiarezza

di STEFANO RODOTÀ


Archiviato il G8, con un indubbio successo personale del presidente del Consiglio, dovranno pure essere archiviate tutte le vicende che, negli ultimi turbinosi tempi, hanno riguardato la sua figura pubblica? Può un nuovo corso politico cominciare all'insegna di una omissione?

Non è un accanimento ingiustificato a sollecitare queste domande, ma proprio la necessità di avere una vita politica davvero limpida. Peraltro, era stato lo stesso Silvio Berlusconi a annunciare una svolta sul piano dei comportamenti. Un proposito limitato ai giorni aquilani o destinato a produrre qualche frutto anche in futuro? Il premier ha un'opportunità. Andare in un luogo che non ama, ma centrale per le istituzioni come il Parlamento, e rispondere alle domande che gli sono state poste.

Ricordava ieri Eugenio Scalfari che la maggiore sobrietà mostrata da Berlusconi durante il G8 può darsi che sia stata determinata anche dalla chiarezza con la quale una parte del sistema dell'informazione ha criticato il suo modo d'impersonare la più alta responsabilità politica del Paese, con echi globali che certamente non hanno giovato né alla sua credibilità, né a quello che enfaticamente si chiama il buon nome dell'Italia. E' così emersa, inaspettatamente, la forza d'una opinione pubblica che si pensava ormai indifferente o addirittura dissolta, incapace di avere reazioni politicamente significative. Gli effetti si sono visti in occasione delle elezioni europee, nelle parole taglienti del segretario della conferenza episcopale italiana. Proprio questa risvegliata opinione pubblica, questo mondo che non ha dimenticato i doveri della moralità pubblica, sono ancora in credito. I buoni propositi sono sempre importanti, ma la loro fondatezza si deve subito misurare dal modo in cui si dimostra consapevolezza piena della responsabilità degli uomini pubblici nei confronti dei cittadini, di tutti i cittadini.

E' giusto non alzare inutilmente i toni, ma questo non può significare dimenticare frettolosamente quel che è avvenuto e che, per altri versi, continua a essere oggetto di accertamenti giudiziari e inchieste giudiziarie. Se si scegliesse questa strada e non si continuasse a chiedere con voce sommessa ma chiara la verità, il già debole tessuto civile sarebbe ulteriormente logorato. Sono state proprio le troppe compiacenze e assoluzioni a buon mercato dei potenti a dare una spinta decisiva all'antipolitica, a creare un clima politico che ha spalancato le porte a una ricerca del consenso che fa leva più sui vizi che sulle virtù repubblicane. Illegalità sempre blandita, razzismo sempre meno strisciante, frequentazioni a dir poco disinvolte hanno legittimato una clima diffuso che costituisce un brodo di coltura che certo non fa bene alla democrazia.

Qui è il punto. La vicenda delle frequentazioni di Berlusconi, che nessun criterio consente di confinare nel privato, dev'essere chiarita per evitare che, per l'ennesima volta, la resistenza passiva dei politici, il loro "ha dda passà 'a nuttata" o "chinati juncu che passa la china", alla fine trionfino, non solo garantendo impunità, ma dando un pessimo esempio sociale. Non si tratta di andare alla ricerca di responsabilità penali, ma di rimettere in onore la responsabilità politica, praticamente cancellata in questi anni. E' una impresa impegnativa, perché il fronte della responsabilità politica deve essere presidiato da molti soggetti. Quanta parte del sistema dell'informazione ha fatto il suo dovere? Quanta parte del ceto politico non vede l'ora di chiudere la "parentesi moralistica" per tornare agli usati costumi? Se attingiamo alla cultura pop, ci imbattiamo in Caterina Caselli: "La verità ti fa male, lo so... Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu". Probabilmente queste sono oggi le fonti, consapevoli o no, alle quali ci si ispira in un momento che esigerebbe meno leggerezza e maggiore consapevolezza di che cosa voglia dire far politica in un sistema democratico. Non suggerisco altre canzoni o altre letture. Richiamo il senso della verità in politica, che è componente essenziale della legittimazione stessa delle istituzioni, e che non può essere accantonato con una mossa cinica o di malinteso realismo politico (che, peraltro, non ha finora dato alcun profitto alle opposizioni).

L'obbligo di verità da parte delle istituzioni diviene diritto d'informazione sul versante dei cittadini. Nell'articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo dell'Onu si afferma che "ogni individuo ha diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee con ogni mezzo e senza riguardo a frontiere". Questo diritto individuale alla ricerca della verità attraverso le informazioni chiarisce bene quale sia il significato della verità nelle società democratiche, che si presenta come il risultato di un processo aperto di conoscenza, che lo allontana radicalmente da quella produzione di verità ufficiali tipica dell'assolutismo politico, che vuole proprio escludere la discussione, il confronto, l'espressione di opinioni divergenti, le posizioni minoritarie. Proprio questa ovvia considerazione ci dice che la partita in corso intorno alle mille verità, contraddizioni, reticenze, bugie sulla vicenda personale del presidente del Consiglio deve concludersi in modo da evitare ogni inquinamento del sistema democratico. Aspettiamo pazienti. Ma della pazienza si può abusare, come si disse per quel Catilina citato a sproposito nei paraggi berlusconiani. Perché l'abuso non si consolidi, e diventi regola, bisogna non stancarsi di insistere.

(13 luglio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #10 inserito:: Dicembre 12, 2009, 03:27:15 pm »

Dopo le minacce eversive da Bonn

Rodotà: “Un errore il dialogo. Adesso Berlusconi va isolato”

Andrea Fabozzi intervista Stefano Rodotà, da "il manifesto", 11 dicembre 2009


«Siamo al punto: dopo aver praticamente chiuso il parlamento, dopo aver ridotto il Consiglio dei ministri a un comitato di affari del presidente del Consiglio, ecco che Berlusconi annuncia la sospensione dei diritti costituzionali. Perché è questo il significato dell'attacco alle istituzioni di garanzia». Stefano Rodotà commenta con preoccupazione le parole di ieri di Silvio Berlusconi. E aggiunge: «Qualcuno mi aveva detto che ero stato eccessivo a scrivere che in Italia c'era il rischio dell'estinzione dello stato costituzionale di diritto ma è esattamente quello che sta succedendo. Nella cultura di Berlusconi non c'è la democrazia. È un padrone delle ferriere con l'attitudine a identificare l'interesse generale con il suo interesse personale».

L'interesse e la volontà generale, spiega Berlusconi, si è manifestato al momento del voto. Bisogna lasciarlo governare.
Il voto popolare non scioglie dall'osservanza dalle leggi. È un postulato elementare dello stato di diritto. Viceversa dobbiamo parlare di stato monarchico o assoluto che evidentemente è quello che ha in testa Berlusconi quando propone le riforme istituzionali. Dunque stiamo attenti. Per il cavaliere i poteri indipendenti non esistono. Sono automaticamente opposizione. Ossessivamente comunisti. E così la corte Costituzionale diventa un partito della sinistra ma Berlusconi neanche sa qual è la provenienza dei giudici costituzionali, se lo sapesse non parlerebbe così. Il discorso di ieri è chiarissimo: o si sta con chi ha vinto le elezioni ed è in testa nei sondaggi oppure si sta fuori. Ecco perché dice che è finita l'epoca della ipocrisia: è partito all'assalto delle istituzioni d garanzia.

Lei vede un salto di qualità in questi attacchi? Siamo al punto di non ritorno?
C'è un effetto reiterazione, questo è innegabile. Gli attacchi ci sono già stati, giusto un anno fa Berlusconi lanciò il suo affondo contro il capo dello stato a proposito del decreto per Eluana Englaro. Questa da una parte è la conferma di un atteggiamento consolidato ma dall'altra è il segnale gravissimo di una escalation che non si vuole in nessun modo arrestare. E così ieri, dopo aver detto mille volte che non si deve denigrare il nostro paese, in una sede istituzionale all'estero ha denigrato le massime istituzioni di garanzia del paese, il presidente della Repubblica e la Consulta.

Ma quest'ultimo affondo lo ha travestito da difesa del parlamento. Lì si fanno le leggi - ha detto - e i giudici della Consulta si mettono di traverso.
La risposta è molto semplice. Giudicare le leggi è il mestiere della corte Costituzionale. Se non lo facesse tradirebbe la sua missione. Diciamo pure che la Consulta si muove sempre con grandissima prudenza e se stanno crescendo le sue occasioni di intervento è perché c'è un'escalation nel mettere da parte la Costituzione. Non è la Corte che va sopra le righe ma il parlamento che sta uscendo dal circuito costituzionale corretto.

Di fronte a una situazione del genere la Costituzione prevede qualche rimedio o garanzia?
No, non ce ne sono perché la Costituzione è stata scritta da persone che avevano la democrazia nel sangue. Mentre adesso assistiamo a un'estraneità totale alla dimensione costituzionale. Se Berlusconi avesse il minimo senso della legalità costituzionale non direbbe queste cose.

E dunque che fare?
In questo momento tutti coloro che hanno un qualsiasi ruolo all'interno delle istituzioni devono prendere una posizione esplicita e pubblica per misurare la distanza tra chi ritiene che le istituzioni siano questo e chi ancora crede che le istituzioni siano il cuore della democrazia. E soprattutto, lo dico senza mezzi termini, con Berlusconi che segue questa linea devastante di politica istituzionale non si può avere nessun dialogo. Serve un cordone sanitario, fino a oggi l'atteggiamento del cavaliere e dei suoi pasdaran è stato troppo sottovalutato. Pensi alla discussione che si fa ogni volta che viene presentata una nuova legge, è davvero un fatto inedito. La prima preoccupazione è: «Napolitano la firmerà?». E la seconda: «Supererà l'ostacolo della Consulta?». Non c'è prova migliore di quanto il riferimento alla Costituzione sia ormai fuori dalla logica parlamentare. La maggioranza è un gruppo politico che come il capo Berlusconi ha da tempo deciso di vivere ai margini della legalità costituzionale. Non parlo di un rischio, parlo di quello che è già avvenuto.

(11 dicembre 2009)
da temi.repubblica.it
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« Risposta #11 inserito:: Marzo 09, 2010, 02:31:52 pm »

IL COMMENTO

Una crisi di regime

di STEFANO RODOTA'


CHE COSA indica la decisione del Tar del Lazio che, ritenendo inapplicabile l'assai controverso decreto del Governo, ha confermato l'esclusione della lista del Pdl dalle elezioni regionali in questa regione? In primo luogo rivela l'approssimazione giuridica del Governo e dei suoi consulenti, incapaci di mettere a punto un testo in grado di superare il controllo dei giudici amministrativi. Ma proprio questa superficialità è il segno della protervia politica, che considera le regole qualcosa di manipolabile a proprio piacimento senza farsi troppi scrupoli di legalità. E, poi, vi è una sorta di effetto boomerang, che mette a nudo le contraddizioni di uno schieramento politico che, da una parte, celebra in ogni momento le virtù del federalismo e, dall'altra, appena la convenienza politica lo consiglia, non esita a buttarlo a mare, tornando alla pretesa del centro di disporre anche delle materie affidate alla competenza delle regioni.

Proprio su quest'ultima constatazione è sostanzialmente fondata la sentenza del Tar del Lazio. La materia elettorale, hanno sottolineato i giudici, è tra le competenze delle regioni e, partendo appunto da questo dato normativo, la Regione Lazio ha approvato nel 2008 una legge che ha disciplinato questa materia.Lo Stato non può ora invadere questo spazio, sostituendo con proprie norme quelle legittimamente approvate dal Consiglio regionale. Il decreto, in conclusione, non è applicabile nel Lazio. I giudici amministrativi, inoltre, hanno messo in evidenza come non sia possibile dimostrare alcune circostanze che, in base al decreto del 5 marzo, rappresentano una condizione necessaria per ritenere ammissibile la lista del Pdl. In quel decreto, infatti, si dice che il termine per la presentazione delle liste si considera rispettato quando "i delegati incaricati della presentazione delle liste, muniti della prescritta documentazione, abbiano fatto ingresso nei locali del Tribunale". Il Tar mette in evidenza due fatti. Il primo riguarda l'assenza proprio del delegato della lista che ha chiesto la riammissione. E, seconda osservazione, non è possibile provare che lo stesso delegato, presentatosi in ritardo, avesse con sé il plico contenente la documentazione richiesta.

Se il primo rilievo sottolinea l'approssimazione di chi ha scritto il decreto, il secondo svela la volontà di usare il decreto per coprire il "pasticcio" combinato dai rappresentanti del Pdl. Che non è frutto, lo sappiamo, di insipienza. È stato causato da un conflitto interno a quel partito sulla composizione della lista, trascinatosi fino all'ultimo momento, anzi oltre l'ultimo momento fissato per la presentazione della lista. È una morale politica, allora, che deve essere ancora una volta messa in evidenza. Per risolvere le difficoltà di un partito non si è esitato di fronte ad uno stravolgimento delle regole del gioco. La prepotenza ha impedito anche di avere un minimo di pazienza, visto che la riammissione da parte dei giudici dei listini di Formigoni e Polverini ha eliminato il rischio maggiore, quello di impedire in regioni come la Lombardia e il Lazio che il partito di maggioranza avesse un suo candidato. Si dirà che, una volta di più, i giudici comunisti hanno intralciato l'azione di Berlusconi e dei suoi mal assortiti consorti? È possibile. Per il momento, però, dobbiamo riconoscere che proprio i deprecati giudici hanno arrestato, sia pure provvisoriamente (si attende la decisione del Consiglio di Stato), una deriva verso la sospensione di garanzie costituzionali.

Non possiamo dimenticare, infatti, che la democrazia è anche procedura: e  il decreto del governo manipola proprio le regole del momento chiave della democrazia rappresentativa. La democrazia è tale solo se è assistita da alcune precondizioni: e le sciagurate decisioni della Commissione parlamentare di vigilanza e del Consiglio d'amministrazione della Rai hanno obbligato al silenzio una parte importante dell'informazione, rendendo così precaria proprio la precondizione che, nella società della comunicazione, ha un ruolo decisivo. Non dobbiamo aver paura delle parole, e quindi dobbiamo dire che proprio la congiunzione di questi due fatti, se dovesse permanere, altererebbe a tal punto le dinamiche istituzionali, politiche e sociali da rendere giustificata una descrizione della realtà italiana di oggi come un tempo in cui garanzie costituzionali essenziali sono state sospese.

Comunque si concluda questa vicenda, il confine dell'accettabilità democratica è stato comunque varcato. Una crisi di regime era già in atto ed oggi la viviamo in pieno. Nella storia della Repubblica non era mai avvenuto che una costante della vita politica e istituzionale fosse rappresentata dall'ansiosa domanda che accompagna fin dalle sue origini gli atti di questo Governo e della sua maggioranza parlamentare: firmerà il Presidente della Repubblica? Questo vuol dire che è stata deliberatamente scelta la strada della forzatura continua e che si è deciso di agire ai margini della legalità costituzionale (un tempo, quando si diceva che una persona viveva ai margini della legalità, il giudizio era già definitivo). Questa scelta è divenuta la vera componente di una politica della prevaricazione, che Berlusconi ha fatto diventare guerriglia continua, voglia di terra bruciata, pretesa di sottomettere ogni altra istituzione. Da questa storia ben nota è nata l'ultima vicenda, dalla quale nessuno può essere sorpreso e che, lo ripeto, rivela piuttosto quanto profondo sia l'abisso nel quale stiamo precipitando, 
A questo punto, la scelta di Napolitano, ispirata com'è alla tutela di "beni" costituzionali fondamentali, deve assumere anche il valore di un "fin qui, e non oltre", dunque di un presidio dei confini costituzionali che arresti la crisi di regime. Ma non mi illudo che la maggioranza, dopo aver lodato in questi giorni l'essere super partes di Giorgio Napolitano, tenga domani lo stesso atteggiamento di fronte a decisioni sgradite in materie che già sono all'ordine del giorno.

Ora i cittadini hanno preso la parola, e bene ha fatto il Presidente della Repubblica a rispondere loro direttamente. Qualcosa si è mosso nella società e tutti sappiamo che la Costituzione vive proprio grazie al sostegno e alla capacità di identificazione dei cittadini. È una novità non da poco, soprattutto dopo anni di ossessivo martellamento contro la Costituzione. Oggi la politica dell'opposizione dev'essere tutta politica "costituzionale". Dopo tante ricerche di identità inventate o costruite per escludere, sarebbe un buon segno se la comune identità costituzionale venisse assunta come la leva per cercar di uscire da una crisi che, altrimenti, davvero ci porterebbe, in modo sempre meno strisciante, a un cambiamento di regime.

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« Risposta #12 inserito:: Marzo 09, 2010, 11:04:00 pm »

IL COMMENTO

Una crisi di regime

di STEFANO RODOTA'


CHE COSA indica la decisione del Tar del Lazio che, ritenendo inapplicabile l'assai controverso decreto del Governo, ha confermato l'esclusione della lista del Pdl dalle elezioni regionali in questa regione? In primo luogo rivela l'approssimazione giuridica del Governo e dei suoi consulenti, incapaci di mettere a punto un testo in grado di superare il controllo dei giudici amministrativi. Ma proprio questa superficialità è il segno della protervia politica, che considera le regole qualcosa di manipolabile a proprio piacimento senza farsi troppi scrupoli di legalità. E, poi, vi è una sorta di effetto boomerang, che mette a nudo le contraddizioni di uno schieramento politico che, da una parte, celebra in ogni momento le virtù del federalismo e, dall'altra, appena la convenienza politica lo consiglia, non esita a buttarlo a mare, tornando alla pretesa del centro di disporre anche delle materie affidate alla competenza delle regioni.

Proprio su quest'ultima constatazione è sostanzialmente fondata la sentenza del Tar del Lazio. La materia elettorale, hanno sottolineato i giudici, è tra le competenze delle regioni e, partendo appunto da questo dato normativo, la Regione Lazio ha approvato nel 2008 una legge che ha disciplinato questa materia.Lo Stato non può ora invadere questo spazio, sostituendo con proprie norme quelle legittimamente approvate dal Consiglio regionale. Il decreto, in conclusione, non è applicabile nel Lazio. I giudici amministrativi, inoltre, hanno messo in evidenza come non sia possibile dimostrare alcune circostanze che, in base al decreto del 5 marzo, rappresentano una condizione necessaria per ritenere ammissibile la lista del Pdl. In quel decreto, infatti, si dice che il termine per la presentazione delle liste si considera rispettato quando "i delegati incaricati della presentazione delle liste, muniti della prescritta documentazione, abbiano fatto ingresso nei locali del Tribunale". Il Tar mette in evidenza due fatti. Il primo riguarda l'assenza proprio del delegato della lista che ha chiesto la riammissione. E, seconda osservazione, non è possibile provare che lo stesso delegato, presentatosi in ritardo, avesse con sé il plico contenente la documentazione richiesta.

Se il primo rilievo sottolinea l'approssimazione di chi ha scritto il decreto, il secondo svela la volontà di usare il decreto per coprire il "pasticcio" combinato dai rappresentanti del Pdl. Che non è frutto, lo sappiamo, di insipienza. È stato causato da un conflitto interno a quel partito sulla composizione della lista, trascinatosi fino all'ultimo momento, anzi oltre l'ultimo momento fissato per la presentazione della lista. È una morale politica, allora, che deve essere ancora una volta messa in evidenza. Per risolvere le difficoltà di un partito non si è esitato di fronte ad uno stravolgimento delle regole del gioco. La prepotenza ha impedito anche di avere un minimo di pazienza, visto che la riammissione da parte dei giudici dei listini di Formigoni e Polverini ha eliminato il rischio maggiore, quello di impedire in regioni come la Lombardia e il Lazio che il partito di maggioranza avesse un suo candidato. Si dirà che, una volta di più, i giudici comunisti hanno intralciato l'azione di Berlusconi e dei suoi mal assortiti consorti? È possibile. Per il momento, però, dobbiamo riconoscere che proprio i deprecati giudici hanno arrestato, sia pure provvisoriamente (si attende la decisione del Consiglio di Stato), una deriva verso la sospensione di garanzie costituzionali.

Non possiamo dimenticare, infatti, che la democrazia è anche procedura: e  il decreto del governo manipola proprio le regole del momento chiave della democrazia rappresentativa. La democrazia è tale solo se è assistita da alcune precondizioni: e le sciagurate decisioni della Commissione parlamentare di vigilanza e del Consiglio d'amministrazione della Rai hanno obbligato al silenzio una parte importante dell'informazione, rendendo così precaria proprio la precondizione che, nella società della comunicazione, ha un ruolo decisivo. Non dobbiamo aver paura delle parole, e quindi dobbiamo dire che proprio la congiunzione di questi due fatti, se dovesse permanere, altererebbe a tal punto le dinamiche istituzionali, politiche e sociali da rendere giustificata una descrizione della realtà italiana di oggi come un tempo in cui garanzie costituzionali essenziali sono state sospese.

Comunque si concluda questa vicenda, il confine dell'accettabilità democratica è stato comunque varcato. Una crisi di regime era già in atto ed oggi la viviamo in pieno. Nella storia della Repubblica non era mai avvenuto che una costante della vita politica e istituzionale fosse rappresentata dall'ansiosa domanda che accompagna fin dalle sue origini gli atti di questo Governo e della sua maggioranza parlamentare: firmerà il Presidente della Repubblica? Questo vuol dire che è stata deliberatamente scelta la strada della forzatura continua e che si è deciso di agire ai margini della legalità costituzionale (un tempo, quando si diceva che una persona viveva ai margini della legalità, il giudizio era già definitivo). Questa scelta è divenuta la vera componente di una politica della prevaricazione, che Berlusconi ha fatto diventare guerriglia continua, voglia di terra bruciata, pretesa di sottomettere ogni altra istituzione. Da questa storia ben nota è nata l'ultima vicenda, dalla quale nessuno può essere sorpreso e che, lo ripeto, rivela piuttosto quanto profondo sia l'abisso nel quale stiamo precipitando, 
A questo punto, la scelta di Napolitano, ispirata com'è alla tutela di "beni" costituzionali fondamentali, deve assumere anche il valore di un "fin qui, e non oltre", dunque di un presidio dei confini costituzionali che arresti la crisi di regime. Ma non mi illudo che la maggioranza, dopo aver lodato in questi giorni l'essere super partes di Giorgio Napolitano, tenga domani lo stesso atteggiamento di fronte a decisioni sgradite in materie che già sono all'ordine del giorno.

Ora i cittadini hanno preso la parola, e bene ha fatto il Presidente della Repubblica a rispondere loro direttamente. Qualcosa si è mosso nella società e tutti sappiamo che la Costituzione vive proprio grazie al sostegno e alla capacità di identificazione dei cittadini. È una novità non da poco, soprattutto dopo anni di ossessivo martellamento contro la Costituzione. Oggi la politica dell'opposizione dev'essere tutta politica "costituzionale". Dopo tante ricerche di identità inventate o costruite per escludere, sarebbe un buon segno se la comune identità costituzionale venisse assunta come la leva per cercar di uscire da una crisi che, altrimenti, davvero ci porterebbe, in modo sempre meno strisciante, a un cambiamento di regime.

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« Risposta #13 inserito:: Maggio 08, 2010, 03:09:47 pm »

IL COMMENTO

La legge che ordina il silenzio stampa

di STEFANO RODOTÀ

SE LA legge sulle intercettazioni verrà approvata nel testo in discussione al Senato, sarà fatto un passo pericoloso verso un mutamento di regime. I regimi non cambiano solo quando si è di fronte ad un colpo di Stato o ad una rottura frontale. Mutano pure per effetto di una erosione lenta, che cancella principi fondativi di un sistema. Se quel testo diverrà legge della Repubblica, in un colpo solo verranno pregiudicati la libertà di manifestazione del pensiero, il diritto di sapere dei cittadini, il controllo diffuso sull'esercizio dei poteri, le possibilità d'indagine della magistratura. Ci stiamo privando di essenziali anticorpi democratici. La censura come primo passo concreto verso l'annunciata riforma costituzionale, visto che si incide sulla prima parte della Costituzione, quella dei principi e dei diritti, a parole dichiarata intoccabile? Se così sarà, dovremo chiederci se viviamo ancora in uno Stato costituzionale di diritto.

Questa operazione sostanzialmente eversiva si ammanta del virtuoso proposito di tutelare la privacy. Ma, se questo fosse stato il vero obiettivo, era a portata di mano una soluzione che non metteva a rischio né principi, né diritti. Bastava prevedere che, d'intesa tra il giudice e gli avvocati delle parti, si distruggessero i contenuti delle intercettazioni relativi a persone estranee alle indagini o comunque irrilevanti; si conservassero in un archivio riservato le informazioni di cui era ancora dubbia la rilevanza; si rendessero pubblicabili, una volta portati a conoscenza delle parti, gli atti di indagine e le intercettazioni rilevanti.

Su questa linea vi era stato un largo consenso, che avrebbe permesso una approvazione a larga maggioranza di una legge così congegnata.

Ma l'obiettivo era diverso. La tutela della privacy è divenuta il pretesto per aggredire l'odiata magistratura, l'insopportabile stampa. Non si vuole che i magistrati indaghino sul "mostruoso connubio" tra politica e affari, sull'illegalità che corrode la società. Si vuole distogliere l'occhio dell'informazione non dal gossip, ma da vicende che inquietano i potenti, dal malaffare. Se quella legge fosse stata approvata, non sarebbe stato possibile dare notizie sul caso Scajola, perché si introduce un divieto di pubblicazione che non riguarda le sole intercettazioni.
In un paese normale proprio quest'ultima vicenda avrebbe dovuto indurre alla prudenza. Sta accadendo il contrario. Al Senato si vuole chiudere al più presto. E questo è coerente con l'affermazione del presidente del Consiglio, secondo il quale in Italia "c'è fin troppa libertà di stampa". Quale migliore occasione per porre rimedio a questo eccesso di una bella legge censoria?

Scajola, infatti, è stato costretto a dimettersi solo dalla forza dell'informazione. Una situazione apparsa intollerabile. Ecco, allora, il bisogno di arrivare subito ad una legge che interrompa fin dall'origine il circuito informativo, riducendo le informazioni che la magistratura può raccogliere, impedendo che le notizie possano giungere ai cittadini prima d'essere state sterilizzate dal passare del tempo. Non si può tollerare che i cittadini dispongano di informazioni che consentano loro di non essere soltanto spettatori delle vicende politiche, ma di divenire opinione pubblica consapevole e reattiva.

Si arriva così all'infinito silenzio stampa, all'opinione pubblica impotente perché ignara dei fatti, visto che nulla può esser detto su qualsiasi fatto delittuoso fino all'udienza preliminare, dunque fino a un tempo che può essere lontano anni dal momento in cui l'indagine era stata aperta. Che cosa resterebbe della democrazia, che non vuol dire soltanto "governo del popolo", ma pure governo "in pubblico"? In tempi di corruzione dilagante si abbandona ogni ritegno e trasparenza, si dimentica il monito del giudice Brandeis: in democrazia "la luce del sole è il miglior disinfettante". Stiamo per essere traghettati verso un regime di miserabili arcana imperii, di un segreto assoluto posto a tutela di simoniaci commerci di qualsiasi bene, di corrotti e corruttori, di faccendieri e di veri criminali.

Questo regime non avvolgerebbe soltanto in un velo oscuro proprio ciò che massimamente avrebbe bisogno di chiarezza. Creerebbe all'interno della società un grumo che la corromperebbe ancor più nel profondo. Le notizie impubblicabili, infatti non sarebbero custodite in forzieri inaccessibili. Sarebbero nelle mani di molti, di tutte le parti, dei loro avvocati e consulenti che ricevono le trascrizioni delle intercettazioni, gli atti d'indagine, gli avvisi di garanzia, i provvedimenti di custodia cautelare. Questo materiale scottante alimenterebbe i sentito dire, la circolazione di mezze notizie, le allusioni, la semina del sospetto. Renderebbe possibili pressioni sotterranee, o veri e propri ricatti. Creerebbe un clima propizio ad un "turismo delle notizie", alla pubblicazione su qualche giornale straniero di informazioni "proibite" che poi rimbalzerebbero in Italia.

Accade sempre così quando ci si allontana dalla via retta della democrazia e dei diritti. Dal diritto d'informazione in primo luogo, che non è privilegio dei giornalisti, ma diritto fondamentale d'ogni persona, la premessa della sua cittadinanza attiva, del suo "conoscere per deliberare". Ce lo ricordano le sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo, dov'è sempre ripetuto che "la libertà d'informazione ha importanza fondamentale in una società democratica". In una sentenza del 2007, che riguardava due giornalisti francesi autori d'un libro sulle malefatte di un collaboratore di Mitterrand, la Corte ha ritenuto che la notorietà della persona e l'importanza della vicenda rendevano legittima la pubblicazione anche di notizie coperte dal segreto. In una sentenza del 2009 si è messo in evidenza che eccessivi risarcimenti del danno a carico di giornalisti e editori possono costituire una forma di intimidazione che viola la libertà d'informazione: che cosa dovremmo dire quando, da noi, il testo all'esame del Senato impugna come una clava le sanzioni pecuniarie con chiaro intento intimidatorio? E guardiamo anche agli Stati Uniti, al fermo discorso di Hillary Clinton sul nesso tra democrazia e libertà di espressione su Internet, alle ultime sentenze della Corte Suprema che, pure di fronte a casi sgradevoli e imbarazzanti, ha riaffermato la superiorità del Primo Emendamento, appunto della libertà di espressione

Un velo d'ignoranza copre gli occhi del legislatore italiano. Ma non è il benefico velo che lo mette al riparo da pressioni, da influenze improprie. È l'opposto, è la resa alla imposizione di chi non vuole che si guardi al mondo quale veramente è. Nasce così un'anomalia culturale, prima ancora che giuridico-istituzionale. Ci allontaniamo dai territori della civiltà giuridica, e ci candidiamo ad esser membri a pieno titolo del club degli autoritari Certo la nostra Corte costituzionale prima, e poi quella di Strasburgo, potranno ancora salvarci. Intanto, però, la voce dei cittadini può farsi sentire, e non è detto che rimanga inascoltata.

(08 maggio 2010)
http://www.repubblica.it/rubriche/la-legge-bavaglio/2010/05/08/news/rodota_8_maggio-3903624/
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« Risposta #14 inserito:: Maggio 09, 2010, 09:19:29 am »

L'INIZIATIVA

Intercettazioni, mobilitazione sul web

Procuratori antimafia: "Indagini a rischio"

Libertà e Giustizia: "Stanno addirittura peggiorando la legge"

di CARMINE SAVIANO


ROMA - Scatta dal web la mobilitazione contro il decreto Alfano sulle intercettazioni. Con una lettera inviata ai membri della commissione Giustizia del Senato. Affinché non approvino un provvedimento che "scardinerebbe aspetti essenziali del sistema costituzionale". E che imporrebbe "un pericoloso regime di opacità e segreto".

L'appello è intitolato "La libertà è partecipazione informata"

In calce porta le firme di giuristi e blogger tra cui Stefano Rodotà e Guido Scorza. Luogo d'origine la pagina Facebook "Libertà è partecipazione". E nel logo, al volto del ministro della Giustizia è sovrapposto lo slogan "Angelino is watching you": Angelino ti sta guardando. E arriva la denuncia dei Procuratori antimafia: "il decreto rischia di compromettere le nostre indagini".

Ogni giorno Repubblica.it dedicherà uno spazio quotidiano per raccontare i contenuti e gli effetti di questa legge.

La protesta dei blogger. E' da un anno che blogger, giornalisti e giuristi lottano contro il decreto Alfano. "La nostra protesta è partita con la manifestazione di Piazza Navona del 14 luglio scorso", dice Arturo Di Corinto, ricercatore alla Sapienza di Roma, promotore dell'appello e membro di Diritto alla Rete, il collettivo di blogger che chiede diritti per la libera espressione sul web. "Non si tratta solo di criticare il depotenziamento di uno strumento investigativo che, a oggi, permette di scoprire il 90% dei crimini", continua Di Corinto. "La nostra mobilitazione incrocia il tema del pluralismo dell'informazione: con il decreto Alfano sarà instaurata nel nostro paese una pesante censura preventiva".

Un fronte democratico digitale. I promotori dell'appello mirano al coinvolgimento di "tutti quei raggruppamenti di persone che utilizzano Facebook per implementare la democrazia", continua Di Corinto. I destinatari sono "il Popolo Viola, il Popolo del Pomodoro, la Valigia Blu". Un fronte democratico digitale per "impedire che sia messo il bavaglio alla libera circolazione delle informazioni e delle idee". E l'intenzione è uscire dalla Rete. Proporre manifestazioni di piazza. Pacifiche, simboliche. Tra le idee: "C'è chi propone di andare scalzi all'ambasciata americana per chiedere aiuto a Barack Obama". Un pellegrinaggio democratico.

Il decreto Alfano e le indagini sulla mafia. Il Ddl intercettazioni rischia di compromettere le indagini di mafia. E' la denuncia lanciata oggi dai 26 Procuratori Capo delle Direzioni Distrettuali Antimafia. E per Fiorella Pilato, membro del Csm, "colpisce, negli interventi dei Procuratori, la rilevazione che in molti casi i processi antimafia nascono da indagini sui reati di criminalità comune. Questo deve far riflettere anche il legislatore quando vuole intervenire in tema di intercettazioni differenziando quelle per le indagini di mafia e quelle per reati comuni".

Il testo dell'appello. Al Senato la maggioranza cerca di imporre la legge sulle intercettazioni telefoniche che scardinerebbe aspetti essenziali del sistema costituzionale.

Sono a rischio la libertà di manifestazione del pensiero ed il diritto dei cittadini ad essere informati.

Non tutti i reati possono essere indagati attraverso le intercettazioni e viene sostanzialmente impedita la pubblicazione delle intercettazioni svolte.
Una pesante censura cadrebbe sull'informazione. Anche su quella amatoriale e dei blog.

Se quella legge fosse stata in vigore, non avremmo avuto alcuna notizia dei buoni affari immobiliari del Ministro Scajola e di quelli bancari di Consorte.

Se la legge verrà approvata, la magistratura non potrà più intervenire efficacemente su illegalità e scandali come quelli svelati nella sanità e nella finanza, non potrà seguire reati gravissimi.
Si dice di voler tutelare la Privacy: un obiettivo legittimo, che tuttavia può essere raggiunto senza violare principi e diritti.

Si vuole, in realtà, imporre un pericoloso regime di opacità e segreto.
Le libertà costituzionali non sono disponibili per nessuna maggioranza.

Stefano Rodotà. Fiorello Cortiana, Juan Carlos De Martin, Arturo Di Corinto, Carlo Formenti , Guido Scorza.

Facciamo sentire la nostra voce.

Interveniamo direttamente aderendo all'appello e scrivendo ai senatori membri della Commissione Giustizia.

L'appello di Libertà e Giustizia. "Il continuo peggioramento del ddl 1611 sulle intercettazioni in Commissione giustizia al Senato, dove si stanno approvando gli emendamenti al testo arrivato dalla Camera, rispecchia il terrore di una Casta colta con le mani nel sacco. Imporrà tra l'altro l'assoluto silenzio sugli sviluppi più importanti delle inchieste sulla corruzione, in uno dei Paesi più corrotti del mondo: il nostro.

Quel testo, così come è ora, non impedisce soltanto la pubblicazione selvaggia di intercettazioni segrete, vieta anche la pubblicazione in qualsiasi forma, anche di riassunto, di tutti gli atti d'indagine, anche se non sono più coperti da segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza.
Se quel testo fosse già in vigore, per esempio, le rivelazioni giudiziarie che di giorno in giorno scoperchiano la consorteria di Balducci, Anemone e company, sarebbero rimaste un segreto custodito dal potere politico anche per questo reso sempre più assoluto.

LeG si rivolge a tutte le forze che in Parlamento, sia nell'opposizione che nella maggioranza, hanno ancora a cuore la libera informazione, affinché si adoperino per impedire questo scempio contro la democrazia: l'approvazione cioè dell'ennesima legge anticostituzionale violentemente limitativa della libertà di informare e di essere informati. In assoluto, forse, la peggiore di tutte quelle ad oggi varate".
 
(07 maggio 2010)
http://www.repubblica.it/rubriche/la-legge-bavaglio/2010/05/07/news/mobilitazione_web-3892709/
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