«La pellicola lascia l'idea di una nebulosa oscura, ma, la verità storica, fino a Moro c'è»
Calabresi e il film su Piazza Fontana
«Sparita la campagna contro papà»
«Romanzo di una strage» visto dal direttore de La Stampa figlio del commissario ucciso nel 1972di ALDO CAZZULLO
Lo si indovina all'inizio del film, nei giorni della strage, quando è nella pancia di sua mamma. E alla fine, alla vigilia dell'assassinio di suo padre, quando è un bambino di due anni. Oggi Mario Calabresi, primogenito di Luigi Calabresi e di Gemma Capra, ha 42 anni e dirige la Stampa. Ha scritto la sua storia in un libro, Spingendo la notte più in là, divenuto un long-seller tradotto all'estero.
Ora ha visto in anteprima il film di Marco Tullio Giordana, Romanzo di una strage, prodotto dalla Cattleya di Riccardo Tozzi insieme con Rai Cinema. E confida al Corriere le sue riflessioni. «È un film importante per ricordare quel che è stata Piazza Fontana. Era necessario un omaggio alla memoria e a tutte le vittime: i morti della strage; Giuseppe Pinelli; mio padre; e l'ultima vittima, la giustizia. Giordana è stato coraggioso, perché è uscito dalla contrapposizione tra mio padre e Pinelli, che in questi quarant'anni c'è sempre stata; per cui se si faceva qualcosa per papà subito si rispondeva "allora perché non Pinelli?", e se si diceva qualcosa per Pinelli la replica era "allora perché non Calabresi?". Il film è sulla linea del presidente Napolitano, che si è impegnato per restituire umanità alle persone, liberandole dalla condizione di simboli, e con questo spirito nel maggio 2009 fece incontrare Licia Pinelli e mia madre. Non è un film buonista, non edulcora la realtà, anzi ha il pregio di mostrare che Pinelli e mio padre facevano due mestieri diversi, erano persone agli antipodi; ma non erano nemici.
Romanzo di una strage ha il coraggio della verità storica, che in questo caso coincide con la verità giudiziaria: mostra chiaramente che mio padre non era nella stanza quando Pinelli cadde. E sfata alcune leggende nere: il segno del "siero della verità" era la flebo infilata dai barellieri nel braccio di Pinelli; il "colpo di karate" era l'ematoma lasciato dal tavolo dell'obitorio; le dicerie sull'"uomo della Cia" nascono da un errore più o meno voluto, un caso di quasi omonimia con Calabrese, funzionario di collegamento del Viminale a Washington». Queste sono le ragioni per cui Mario Calabresi si dice «grato a chi ha voluto e fatto questo film». Ma ci sono anche ragioni di perplessità. «I due anni terribili della campagna di Lotta continua contro mio padre non ci sono, se non per qualche vago accenno: una scritta sul muro, i fischi al processo. Ma se nascondi quella campagna, se non metti in scena il clima del tempo, il linciaggio, la disperazione, si fatica a capire perché sia stata condannata Lotta continua. La morte di mio padre sembra legata solo ai suoi sospetti sulla destra, al "sogno" finale, al dialogo con il capo dell'ufficio Affari riservati Federico Umberto d'Amato. In realtà, l'idea che fosse stata la destra a mettere la bomba mio padre l'aveva chiarissima fin dall'inizio. La frase che peraltro nel film non c'è — "menti di destra, manovalanza di sinistra" — la disse subito: a mia madre, al questore, al ministero, agli Affari riservati. Nel film non si vedono la campagna d'odio, i titoli macabri, le lettere minatorie, gli insulti per strada. Mio padre si sentiva seguito, pedinato. Si doveva nascondere. Con mia madre non potevano più andare al ristorante, al cinema lei si sedeva e lui si chiudeva in bagno fino a quando non si spegnevano le luci…».
Il film pare quasi suggerire l'ipotesi che la responsabilità dell'assassinio di Calabresi sia dei corpi deviati dello Stato. Mentre il figlio è convinto che la verità giudiziaria coincida con la verità storica: «Se lo Stato ha una colpa, è aver lasciato mio padre solo, aver permesso che diventasse un simbolo. Nel film sembra che mia madre fosse contraria a denunciare Lotta continua. Non è così. Mia madre non voleva che suo marito portasse avanti il processo da solo. Gli diceva: "Tu sei un funzionario del ministero degli Interni, è il ministero che deve fare la denuncia, altrimenti tutto si scaricherà su di te". Infatti è finito lui da solo al centro del mirino». Anche il finale non convince Mario Calabresi. «Ti lascia la sensazione che non sappiamo niente, che non abbiamo né verità né giustizia, che Piazza Fontana resta una nebulosa oscura e chi è andato vicino alla verità, da mio padre a Moro, è stato ammazzato. Invece la verità storica c'è, eccome. Noi oggi, come ha detto il presidente Napolitano, sappiamo chi è stato, e perché. Conosciamo le responsabilità oggettive e morali. Sappiamo che è stata la destra neofascista veneta, conosciamo complicità e depistaggi dei servizi deviati e dell'ufficio Affari riservati, sappiamo che nel Paese esistevano forze favorevoli a una svolta autoritaria. È pericoloso dare l'idea che non si sappia niente. Sappiamo quanto affermano le sentenze che, se non hanno più potuto condannare, nelle loro motivazioni hanno chiarito le responsabilità». Racconta Mario che rivedersi bambino non gli ha fatto alcun effetto. «La ricostruzione della casa dove ho passato i primi anni non mi dice nulla, perché non ho ricordi di quei momenti; mentre Laura Chiatti in effetti mi ricorda un po' mia mamma da giovane. Ho trovato bravissimo Pierfrancesco Favino, straordinario nella parte di Pinelli. Mentre a Valerio Mastandrea manca almeno una volta una battuta, un sorriso, un tentativo di sdrammatizzare. Mette in mostra i tormenti di mio padre, ma ne fa un uomo a una dimensione».
Gemma Capra ha visto il film: in dvd, a pezzetti, per metabolizzarlo, insieme con il terzogenito Luigi. Ma non ne parlerà, né si sente di andare alla presentazione: teme di stare troppo male. La signora aveva accettato di incontrare Giordana nella fase di preparazione. Anche lei, racconta Mario Calabresi, ha apprezzato il rispetto per la verità storica, anche se è rimasta perplessa per alcuni aspetti. «Mia madre mi ha detto: "Gigi era romano, in tutti i sensi; ma nel film non si capisce. Eppure era proprio questo di lui che mi aveva conquistata: Gigi era spiritoso. Sfotteva il questore Guida e il capo della squadra politica Allegra, gli faceva il verso. Nel film invece è duro, tutto d'un pezzo, non sorride mai. No, non l'ho riconosciuto". Nel film mio padre difende Pinelli; ma nella realtà l'ha difeso molto di più, ci fu uno scontro durissimo con il questore che gli chiedeva di farlo parlare, mentre mio padre era convinto che Pinelli non c'entrasse con la strage, e potesse semmai fornire informazioni su altre persone». Poi, prosegue Calabresi, c'è la questione su chi dovesse avvisare Pinelli. «In Romanzo di una strage pare che dovesse toccare a mio padre, visto che è lui a rispondere a una telefonata della vedova. Mia madre ha sempre considerato una ferita il fatto che Licia Pinelli non fosse stata avvertita, e lo disse già allora. Mio padre le rispose che il questore aveva la responsabilità di mandare qualcuno ad avvisare la vedova. C'è una discrepanza anche nella scena del ritorno a casa, dopo la morte di Pinelli. Era quasi mattina.
Nel film mia madre accenna a quello che hanno detto alla radio, e mio padre risponde "beati loro che sanno quel che è successo". La realtà è diversa. Mio padre era distrutto, disperato. Sedeva sul letto con le mani tra i capelli e ripeteva "è terribile, non è possibile". Mi ha raccontato mia madre che quella sera si misero a pregare. E lei presagì che era tutto finito. Glielo disse proprio: "Gigi, ti rendi conto che questa è la fine anche per te?"». Ma la frase mancante che ha fatto più male a Gemma Capra è l'ultima. «Il giorno in cui fu ucciso, mio padre uscì di casa ma tornò indietro per cambiare la cravatta — racconta Mario —. Nel film è una scena di goliardia, da vita quotidiana. Mastandrea si toglie la cravatta rosa per metterne una bianca, la Chiatti lo prende in giro, dice che sono orrende tutt'e due. Il vero dialogo fu molto diverso. Mia madre chiese il motivo del ripensamento, visto che entrambe le cravatte gli stavano bene. E mio padre rispose, serio: "Gemma, metto la cravatta bianca perché è il simbolo della mia purezza". Mamma considera quella frase una sorta di testamento. Sono le ultime parole che le disse suo marito. Con il tempo si è convinta che lui presagisse la morte. Ripensa a quella frase da tutta la vita, come se suo marito avesse voluto dirle: "Tireranno fuori cose terribili su di me, ma tu sappi che la verità è questa". Nel film ci sono molte scene importanti, le immagini dei funerali, la sofferenza di Moro (bene restituita da Fabrizio Gifuni), la tenuta delle istituzioni; ma purtroppo quelle ultime parole di mio padre non ci sono».
25 marzo 2012 | 10:11
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http://www.corriere.it/cronache/12_marzo_25/calabresi-cazzullo_3e597db2-764d-11e1-a3d3-9215de971286.shtml