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Autore Discussione: In morte di Marco BIAGI di GIUSEPPE D'AVANZO  (Letto 4130 volte)
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« inserito:: Marzo 19, 2012, 04:25:03 pm »

I killer delle Br, gli stessi di D’Antona

di GIUSEPPE D'AVANZO

Repubblica, 20 marzo 2002, prima pagina


ROMA - «Siamo arrivati troppo tardi», dice. L' uomo del Viminale è come annichilito dalla morte di Marco Biagi. Lo vedi, come non lo hai mai visto, smarrito e impotente. Sembra di capire che avverta come una sua sconfitta personale questo assassinio, che senta sulle sue spalle il peso di quella morte. Che con un facile senno di poi si può dire (qualcuno lo dirà) «annunciata» da troppe notizie, avvertimenti, allarmi. Tutti inutilmente raccolti.

Appena giovedì scorso il Cesis (coordina da Palazzo Chigi Sismi e Sisde) ha consegnato al presidente del Consiglio un «rapporto», a quanto pare, molto circostanziato con le informazioni e le analisi dei due servizi segreti. Chi lo ha letto ripete, a notte fonda, che «in quelle pagine c' era già tutto. Sì, tutto... Non si tratta soltanto della cattiva aria che annunciava un ritorno delle Brigate rosse, che il 20 maggio del 1999 uccisero Massimo D' Antona, c' era in quel documento anche qualche importante circostanza che consigliava una viva preoccupazione».

«E infatti eravamo molto preoccupati». In queste prime ore, gli investigatori hanno una sola certezza: «Anche se non è ancora giunta la rivendicazione, noi crediamo che ad uccidere Marco Biagi sia lo stesso gruppo di terroristi che eliminò il professore D' Antona a Roma, le Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente». La stessa mano e lo stesso cervello di due anni, forse informati dalla stessa «talpa». Un «gruppo di fuoco» al quale, secondo alcune indiscrezioni, gli investigatori erano «molto vicini». «Molto vicini» può significare troppo cose se si parla di un' indagine.

«Molto vicini» può voler dire che si conosce un nome; che magari si conosce l' indirizzo di una casa di un incensurato, oggi vuota, e che magari domani potrebbe ospitare «un clandestino». Quella formula può significare che si sa dove due persone si incontreranno, ma non si sa quando. «Diciamo che avevamo degli elementi importanti per essere alquanto ottimisti sull' esito del nostro lavoro, ma questo omicidio scompagina tutte le nostre certezze, soprattutto per la città in cui è stato compiuto. Mai nella nostra indagine avevano incrociato Bologna».

Dunque, gli investigatori, a dar fede alle loro parole, erano «addosso» ai terroristi, come si dice.

Ancora quattro o cinque settimane e «il gruppo di fuoco» poteva essere se non preso, almeno individuato, e se hai un nome, hai delle facce da cercare, e storie e relazioni da ricostruire, rifugi da visitare. Ecco perché, al di là di ogni ragionevolezza, l' uomo del Viminale sente come una propria personale sconfitta la morte di Marco Biagi e dice: «Siamo arrivati troppo tardi».

Le Brigate Rosse, ammesso che davvero siano le Brigate Rosse, hanno colpito per questo, perché si sentivano «pressate»? E' un' ipotesi che qualcuno avanza in queste ore molto emotive, ma appare ragionevolmente un' ipotesi senza fondamento. Il "nuovo colpo" delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente (Brpcc) era temuto, si può dire addirittura atteso. Da mesi l' intelligence segnala, con la pericolosa concretezza della minaccia terroristica, il loro ritorno sulla scena politica e nella «Quarantottesima Relazione sulla politica informativa e della sicurezza» inviata al Parlamento dai servizi segreti si indicava anche il ventaglio degli obiettivi possibili: «Le espressioni e le personalità del mondo politico, sindacale e imprenditoriale maggiormente impegnate nelle riforme economicosociali e del mercato del lavoro, e, segnatamente, quelle con ruoli chiave in veste di tecnici e consulenti».

Tecnici e consulenti, appunto. Come Marco Biagi che era per il ministro del Welfare Maroni ciò che Massimo D' Antona era per il ministro del Lavoro Antonio Bassolino. «D' Antona era un obiettivo sofisticato perché non si può dire che Massimo fosse una persona molto conosciuta. Chi ha ucciso Massimo - disse Bassolino in quella primavera di tre anni fa - sa bene l' importanza del lavoro che ha fatto e ha continuato a fare come il principale estensore di parti intere del nuovo patto sociale. E della nuova legge sulla rappresentanza, della nuova legge sugli scioperi nei servizi pubblici».

Chi ha ucciso Marco Biagi (come D' Antona conosciuto dagli addetti ai lavori, ma non dal grande pubblico) sapeva bene, si può dire oggi, il centralissimo ruolo che il giuslavorista aveva svolto e stava svolgendo per conto del ministro del Welfare.

Come nel 1999 erano nel mirino gli «esponenti di spicco dell' equilibrio dominante, le cerniere politicooperative del rapporto tra esecutivo e sindacato confederale, gli interpreti della funzione politica del Patto Sociale» (così il documento di rivendicazione delle Brigate Rosse del 20 maggio), oggi lo sono gli esponenti delle istituzioni e i tecnici che lavorano all' abolizione dell' articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Era questo l' allarme lanciato dall' intelligence. Se così stavano le cose, le analisi, le informazioni riservate, emergono alcune incongruenze che dovranno essere chiarite nelle prossime ore. Il governo sapeva che Marco Biagi era in pericolo. Conosceva il pericolo che lo minacciava. Non era un pericolo generico che riguardava tutti i consulenti del governo e del Welfare, ma lui e proprio lui, il giulavorista di Bologna. Era già stato minacciato quando aveva collaborato con il sindaco di Milano Albertini al Patto di Milano, sottoscritto da Cisl e Uil e non dalla Cgil. Era stato ancora minacciato quando il suo nome saltò fuori come estensore, nell' autunno scorso, del Libro bianco per l' occupazione presentato dal governo Berlusconi.

Queste minacce non erano state sottovalutate né da Maroni né dal suo staff né dal governo. Al punto che fu lo stesso ministro a sollecitare al Viminale una maggiore protezione per il suo consulente. Con grande attenzione, gli uomini del governo proteggevano il nome di Marco Biagi, addirittura hanno chiesto informalmente nelle ultime settimane alla stampa che il nome di Marco Biagi scomparisse dalle cronache che andavano raccontando il conflitto sindacato-governo-Confindustria intorno all' abolizione dell' articolo 18.

Appena cinque giorni fa, il vice di Roberto Maroni, il sottosegretario Maurizio Sacconi, aveva implorato, chiesto anche bruscamente ai cronisti di Repubblica (come anche presumibilmente a giornalisti di altre testate) di omettere di citare Marco Biagi come redattore della legge che avrebbe dovuto riformare l' articolo 18. «Piantatela di scrivere di Biagi - aveva concluso Sacconi - Lo esponete al rischio della vita». Il nome di Biagi era sparito dalla cronache, ma è stato inutile. E tuttavia c' è da chiedersi per quale motivo il professore non era scortato nella "sua" Bologna. Anche Marco Biagi se lo chiedeva, come racconta Tiziano Treu, già ministro del Lavoro che lo aveva avuto tra i suoi consulenti. Appena ieri a colloquio telefonico con Treu, Marco Biagi s' era lamentato che «era scortato a Roma e a Milano, ma non a Bologna. Non riesco a spiegarmelo». Sembra debole la risposta che si raccoglie in queste ore: «Bologna non era mai saltata fuori nelle ampie indagini svolte sul Br/Pcc». E' una risposta debole e burocratica che, dopo il sacrificio di Marco Biagi, non spiega nulla.


da - http://temi.repubblica.it/repubblicabologna-decimo-anniversario-marco-biagi/2012/03/15/a-colpire-sono-stati-i-killer-delle-br-gli-stessi-di-dantona/?h=2
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 19, 2012, 04:27:14 pm »

La risposta alla sfida dell’eversione

di EZIO MAURO

Repubblica, 20 marzo 2002, prima pagina


L'Incubo italiano del terrorismo ritorna davanti agli occhi del Paese, come se non dovesse finire mai. C' è un altro morto, tre anni dopo, ammazzato per strada a Bologna da due sicari scappati nel buio, mentre tornava a casa in bicicletta. Nel maggio del '99, le Brigate Rosse avevano ucciso Massimo D' Antona. Torna la stessa immagine di un uomo inerme a terra, freddato dalla viltà assassina del terrorismo. La stessa borsa abbandonata accanto, piena di documenti con cifre e proposte sul tema del lavoro.

Marco Biagi lavorava per il governo, come consulente del ministro del Welfare Maroni, lo stesso incarico di D' Antona. Le analogie sono impressionanti, così come la scelta scientifica dei bersagli da parte del terrorismo, sempre attento nella sua cupa potenza evocativa a trasformare la morte in simbolo. Allora, il bersaglio era il riformismo italiano, con la sinistra al governo. Oggi, è la politica della destra, la battaglia sui licenziamenti, l' articolo 18 su cui si è aperto uno scontro sociale e politico senza precedenti.

Tre anni fa, le forze politiche furono capaci di dare una risposta unitaria alla sfida eversiva, senza dividersi. Oggi è necessaria la stessa reazione, per difendere non solo la democrazia, ma anche la possibilità di un confronto aperto tra maggioranza e opposizione. Gli spazi si stanno pericolosamente restringendo, e il terrorismo vuole il peggio. In passato, quando la sfida era al cuore stesso dello Stato, l' eversione è stata sconfitta non solo per la forza delle istituzioni, ma per la coesione del sistema. Bisogna saper tornare a quell' assunzione comune di responsabilità, pur nella distinzione dei ruoli, nella diversità dei progetti e dei programmi, nello scontro delle idee.

Tre fatti gravi sono davanti a tutti noi. Prima di tutto la morte inutile e tuttavia irrimediabile di un uomo, qualcosa di irreparabile per la sua famiglia, i suoi amici, per tutta la comunità civile. Poi il riemergere del terrorismo, una bestia italiana che si nutre dei momenti di tensione e che si rigenera dalla sua stessa sconfitta, dopo che la geometrica potenza del suo progetto eversivo negli Anni Settanta era stata fronteggiata, battuta e dispersa: con la doppia ripulsa delle istituzioni da un lato (mai piegate a tentazioni autoritarie o a scorciatoie trattativiste) e del movimento operaio dall' altro, che seppe isolare i brigatisti nelle fabbriche, senza credere e cedere alla tentazione eversiva. Il terzo fatto è l' esplosione del terrorismo nel mezzo di un conflitto sociale pienamente dispiegato, alla vigilia della grande manifestazione della Cgil contro la modifica dell' articolo 18, con il rischio di strumentalizzazioni, forzature, usi demagogici dell' assassinio di Marco Biagi.

Quando il terrorismo si manifesta, l' attacco è sempre alla democrazia e alle sue istituzioni. Questo dovrebbe portare tutti, maggioranza e opposizione, ad uno sforzo comune, ognuno per la sua parte, nella coerenza di un compito condiviso: la difesa dello Stato. Le prime reazioni, ieri sera, sono state invece reazioni di parte.

Il presidente di Confindustria D' Amato, e il presidente del Consiglio Berlusconi, all' unisono, hanno per prima cosa denunciato "il clima d' odio" che c' è nel Paese, quasi a criminalizzare il dissenso politico e sociale, e l' azione legittima di contrasto alla politica del governo e di Confindustria sul tema del lavoro da parte di Cofferati e della Cgil.

Vogliamo dire, con chiarezza, che strumentalizzare la morte di Marco Biagi sarebbe gravissimo. Un conto è sostenere che davanti alla gravità della sfida eversiva (che ancora una volta si è insinuata in quello spazio delicatissimo che sta tra i lavoratori e il sistema politico) tutti gli interlocutori devono riflettere, per trovare la strada di un confronto costruttivo, pragmatico, fuori dagli schemi ideologici e dalla volontà di piegare l' avversario: tutti, dal governo alla Confindustria, al sindacato, ai partiti dell' opposizione di sinistra, ritrovando quel sentiero della concertazione che ha garantito la pace sociale nel Paese per anni, realizzando risultati importanti. Un altro conto è usare il ritorno del terrorismo per criminalizzare il dissenso, per chiudere la bocca all' opposizione, per tacitare le ragioni del sindacato e la sua legittima funzione di rappresentante degli interessi dei lavoratori.

Non si può vedere nel dissenso, nei movimenti, nell' opposizione organizzata la manifestazione dell' odio, quasi a suggerire che questo è il terreno di incubazione del terrorismo. Questa operazione non fu nemmeno tentata, nei giorni del delitto D' Antona. E se oggi la logica folle dei terroristi cerca nel martirio di Marco Biagi la traccia emblematica dell' articolo 18 da criminalizzare, allora, tre anni fa, con D' Antona i brigatisti rossi dichiararono di colpire un bersaglio simmetrico e opposto, "il Patto Sociale come strumento corporativo e antiproletario". I loro simboli non devono diventare i nostri.

Berlusconi e il suo governo, inchinandosi al loro collaboratore ucciso, dovrebbero sentire in questo momento il dovere di cercare il consenso possibile, e non la divisione o lo sfondamento ideologico. Questo non significa rinunciare al loro legittimo progetto politico, che hanno il dirittodovere di dispiegare e tentare di realizzare, avendo ottenuto il consenso degli elettori. Significa rinunciare alle inutili radicalità del linguaggio (a cominciare dal premier), alle tentazioni muscolari, alle minacce come quella sfuggita al Cavaliere a Barcellona sulle pensioni, ad un approccio ideologico alle riforme.

Il sindacato, dall' altra parte, deve semplicemente ricordare la sua stessa storia negli anni della sfida eversiva. Deve sapere di essere una forza che ha difeso le istituzioni e la democrazia, una forza riformista che ha saputo privilegiare nei suoi anni migliori l' interesse generale, armonizzandolo con la difesa degli interessi legittimi che deve difendere. Deve essere parte e anima di una sinistra di governo: pienamente alternativa a questa destra, nei programmi e nei progetti, e insieme parte attiva della difesa dello Stato e della costruzione di uno Stato più moderno e più efficiente. Questi sono gli elementi di distinzione e di dialogo che vanno valorizzati, entrambi. Cofferati faccia il primo passo, trasformando la marcia di sabato in una grande manifestazione contro il terrorismo e per il lavoro. Berlusconi risponda cercando il dialogo, per fare le riforme nella concertazione. D' Amato, se può, abbassi i toni del suo ideologismo. Tutto il resto, davanti alla sfida del terrorismo è irresponsabile, soprattutto dopo la morte di un uomo, nella notte italiana del marzo 2002.

da - http://temi.repubblica.it/repubblicabologna-decimo-anniversario-marco-biagi/2012/03/15/mauro-la-risposta-alla-sfida-delleversione/?h=1
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 19, 2012, 04:28:50 pm »

Prodi: “Oggi Biagi sarebbe utile”

L'ex premier: "Era un amico. Aveva un concetto molto ampio del diritto del lavoro"


"Marco Biagi oggi sarebbe molto utile".

Così, a una settimana dal decennale dell'uccisione del giuslavorista (avvenuta sotto il portone di casa la sera del 19 marzo 2002), lo ricorda l'ex premier Romano Prodi. A margine della presentazione dell'ultimo libro di Emma Bonino, Prodi ha sottolineato: "Prima di tutto il mio è il ricordo di un amico". Biagi "aveva un concetto molto ampio del diritto del lavoro, non aveva assolutamente schemi preconcetti". Per questo, ha concluso, "era interessante, perchè non apparteneva a opinioni prefissate su questi temi".

Nei giorni scorsi vi è stato lo sfogo della moglie di Marco Biagi, Marina Orlandi, che, intervenendo nei giorni scorsi alla sede della Cisl, davanti a un centinaio di studenti del Galvani, si è scagliata contro chi ha legato il nome del giuslavorista alla precarizzazione del mondo del lavoro: "Dopo che persone infami lo hanno ucciso, il suo nome è stato associato alla precarietà: questa è una bugia terribile. Marco anzi voleva proteggere chi si sarebbe trovato in questa situazione di difficoltà".

da - http://temi.repubblica.it/repubblicabologna-decimo-anniversario-marco-biagi/2012/03/13/prodi-oggi-biagi-sarebbe-utile/
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 19, 2012, 04:30:19 pm »

“Mio marito voleva difendere i precari”

L'impegno di Biagi per i giovani: "Attribuirgli le colpe della precarietà è una terribile bugia"

"Dopo che persone infami lo hanno ucciso, il suo nome è stato associato alla precarietà: questa è una bugia terribile. Marco anzi voleva proteggere chi si sarebbe trovato in questa situazione di difficoltà". A dirlo è Marina Biagi, vedova del giuslavorista ucciso a Bologna dalle Br il 19 marzo 2002.

Marina Biagi ha ricordato la figura del marito parlando ad una platea di studenti, tra cui alcuni del Liceo Classico Galvani, lo stesso frequentato a suo tempo dal giuslavorista, durante un incontro organizzato dalla Cisl di Bologna in vista del decennale dell'assassinio.

La vedova Biagi ha ribadito che, anche pochi giorni prima di essere ucciso e nonostante le minacce ricevute, lui le aveva confidato: "Voglio andare avanti e lo faccio anche per i ragazzi che hanno la stessa età dei nostri figli". Pur consapevole dell'impossibilità di garantire un lavoro fisso per tutta la vita, l'obiettivo di Marco Biagi - sostiene - era tutelare comunque i precari. "Marco mi diceva: 'Purtroppo ci sara' la precarietà - ma dobbiamo renderla in qualche modo protetta', cioè che chi ha un lavoro precario abbia diritti. Lui lottava anche contro il lavoro nero".

Infine la vedova Biagi, parlando degli ultimi giorni del marito e della sua paura di morire, è tornata ad accusare le istituzioni: "Era stato abbandonato dalla polizia, dallo Stato che gli aveva tolto la scorta. Ed era stato sbeffeggiato da chi doveva proteggerlo".

da - http://temi.repubblica.it/repubblicabologna-decimo-anniversario-marco-biagi/2012/03/13/marina-orlandi-mio-marito-voleva-difendere-i-precari/
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