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Autore Discussione: FABIO POLETTI. I referendum "anti-italiani" della Svizzera  (Letto 1796 volte)
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« inserito:: Marzo 13, 2012, 03:06:43 pm »

13/3/2012 - IL CASO

I referendum "anti-italiani" della Svizzera

FABIO POLETTI

A guardarlo da questa parte delle Alpi, il referendum con cui gli svizzeri hanno bocciato la richiesta appoggiata dai sindacati per alzare da 4 a 6 settimane le ferie per i lavoratori dipendenti, sembra stupefacente.

A pensare che è successo altre due volte nel 1985 e nel 2002 - e che trent’anni fa la Confederazione bocciò una prima volta l’abbassamento da 42 a 40 delle ore di lavoro settimanali c’è da pensare. Gli unici a non essere stupiti sono gli svizzeri. Mauro Baranzini, docente di Economia a Lugano, giura che a pesare nelle urne è stata la paura di finire come la vicina Italia o peggio ancora la Grecia: «Se fosse passato il referendum il costo del lavoro sarebbe aumentato del 4% mettendo a rischio un’economia già in difficoltà per la forza del franco svizzero. In questo momento di crisi, l’elettorato ha preferito rinunciare a un privilegio, consolidando la certezza del valore del lavoro».

Molti Paesi europei darebbero l’anima per avere un’economia come quella elvetica. Il debito pubblico nel 2010 era di 199,5 miliardi di franchi pari al 38,2% del Pil. Solo cinque anni prima era 244 miliardi di franchi pari al 52,6%. Nella Svizzera che accoglie forza lavoro immigrata come nessuno - sono il 21,3% - e con una Borsa più importante di quella di Milano, ci deve essere altro oltre alla paura. Giancarlo Dilena, direttore del Corriere del Ticino, la butta sull’etica calvinista del lavoro ancora forte in Svizzera, ma pure su altro: «Di fronte alla crisi il lavoro viene percepito come un valore solido. Ma sono molte le categorie professionali che hanno già cinque o sei settimane di ferie garantite. Tra quelle ferme alle quattro settimane ci sono edili e funzionari pubblici».

Che alla fine abbia prevalso un sano egoismo per un tema che non interessa a tutti? Nella Svizzera che solo nel 1971 ha dato il voto alle donne, dopo che nel 1959 era stato bocciato un analogo referendum, potrebbe non essere troppo strano. Raul Ghisletta, segretario confederale del sindacato Vpod-Ssp, preferisce pensare che il problema sia altro: «Il referendum era stato chiesto quattro anni fa, quando non c’era ancora la percezione della crisi. La democrazia diretta ha i suoi limiti».

E le sue sorprese. Visto che sempre domenica gli svizzeri hanno votato a maggioranza per la limitazione delle seconde case al 20% del territorio ma pure alla istituzione dei box per le prostitute a Zurigo. E in passato si contano pure referendum che bloccavano la costruzione di nuovi minareti o lasciavano libero il commercio delle armi verso l’estero. Non c’è tema su cui gli svizzeri non si siano confrontati con un referendum. Stravolgendo previsioni e non seguendo le indicazioni dei partiti. A Giuliano «Nano» Bignasca, il pittoresco leader della Lega dei Ticinesi, più sciovinista di un Umberto Bossi qualunque che vorrebbe pure bloccare il trattato di Schengen, questo voto sulle ferie non stupisce più di tanto: «Gli svizzeri pensano alla Svizzera e alla solidità della nostra economia. In Ticino diamo lavoro a 54 mila frontalieri. Possiamo ospitarne 10 mila. Gli altri sono di troppo». Chiusi su se stessi, con un modello elettorale che può andare bene su piccola scala, la Svizzera che rinuncia alle ferie e che per questo non inquieta il sonno degli imprenditori, a detta di molti non appare un modello esportabile nell’Europa della crisi. O per dirla con le parole di Mariarosa Mancuso, giornalista de Il Foglio di Giuliano Ferrara, svizzera ma nel nostro Paese da sempre «non ce lo vedo un dibattito simile in Italia. Ma non vedo nemmeno un sindacato italiano battersi per due settimane di vacanze in più per i lavoratori».

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9878
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