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Autore Discussione: MIRKO CARDINALE - Tagliare i costi per dare più lavoro ai giovani  (Letto 2132 volte)
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« inserito:: Febbraio 27, 2012, 11:28:12 am »

27/2/2012

Tagliare i costi per dare più lavoro ai giovani

MIRKO CARDINALE*

Caro direttore, il nodo del mercato del lavoro sta polarizzando in questi giorni l’attenzione degli italiani, ben consapevoli tutti che solo l’ingresso a pieno titolo dei giovani, come ha ricordato Irene Tinagli su questo giornale, potrebbe segnare l’inversione dell’attuale trend negativo della crescita nel nostro Paese. Ma far entrare i giovani significa anche aumentare il loro reddito disponibile e le loro capacità di consumo.

E se servisse la ricetta annunciata da Sarkozy? Riduzioni dei contributi previdenziali per abbassare il costo del lavoro e «fermare il declino della Francia». Un ragionamento simile può essere applicato anche all’Italia, dove il peso del risparmio forzato, ovvero la somma di contributi previdenziali e accantonamenti per il Tfr, è molto alto rispetto agli altri Paesi europei. Le ultime statistiche dell’Ocse mostrano che, a fronte di uno stipendio lordo di 30.000 euro, un’azienda italiana deve versare o accantonare circa 12.000 euro, ovvero circa il 40% dello stipendio, mentre un’azienda tedesca meno di 9.000 euro ed una britannica addirittura meno di 4.000 euro.

Si tratta di un peso insostenibile che rende le aziende italiane poco competitive e che grava soprattutto sulle generazioni più giovani che fanno fatica ad inserirsi nel mercato del lavoro e che, quando vi riescono, devono accettare contratti atipici, con peso contributivo ridotto, o salari netti molto bassi. In un simile contesto non sorprende che circa il 60% dei giovani tra i 18 e i 24 anni si dica disposto a trasferirsi all’estero per lavoro, come mostrano i risultanti di una recente inchiesta dell’Eurispes.

Se si abbassasse il costo del lavoro per i giovani assunti con contratti a tempo indeterminato si creerebbe un circolo virtuoso: incremento degli investimenti privati, maggiore occupazione, aumento del consumo e della domanda interna. Non solo si favorirebbe l’aumento dell’occupazione giovanile, ma, attraverso la diminuzione dei contributi a carico dei lavoratori, si metterebbero direttamente più soldi nella busta paga dei giovani che lavorano. Giovani che oggi sono costretti ad un risparmio forzato sproporzionato per finanziare la pensione e che, d’altra parte, non riescono a sbarcare il lunario, senza appoggiarsi alla famiglia per le necessità di tutti i giorni, dalla casa alla cura dei figli.

Le misure annunciate finora dal governo Monti (liberalizzazioni, semplificazione della burocrazia ecc.) favoriscono certamente la crescita, ma è difficile pensare che possano avere un impatto significativo nel breve periodo. Anche le ipotesi di riforma del mercato del lavoro nella direzione della «flex-security» e del Cui (contratto unico d’ingresso) potrebbero rendere meno ingessato il mercato del lavoro, favorendo gli investimenti in capitale umano delle aziende italiane e rendendo l’Italia più appetibile agli occhi dei potenziali investitori stranieri. Ma anche qui non ci si può attendere un impatto immediato sulla crescita, perché la pianificazione degli investimenti segue cicli abbastanza lenti e gli imprenditori potrebbero, almeno all’inizio, rimanere scettici sull’effettiva portata della riforma.

Ci sono invece due ragioni importanti per cui non ci si può limitare alle sole misure di lungo periodo. La prima è che, come disse Keynes negli Anni 30, «nel lungo periodo saremo tutti morti» ovvero, se non si agisce in maniera tempestiva, si rischia di essere travolti dal precipitare degli eventi. La seconda è che occorre contrastare l’impatto recessivo delle manovre finanziarie dell’anno scorso, per evitare una recessione prolungata, che renderebbe ancora più problematica la dinamica del debito.

Perché non capovolgere il punto di vista delle proposte sul tappeto, per lo più concentrato sulla più facile licenziabilità in ingresso, e spostare, invece, sull’uscita lo svantaggio della minor tutela, attraverso una riduzione dei contributi previdenziali obbligatori? Infatti è nella prima fase della vita che un giovane ha più bisogno di disponibilità finanziarie immediate, come mostrano diversi studi a livello internazionale, secondo i quali la capacità di risparmio raggiunge il suo picco tra i 40 e i 64 anni. Inoltre, con il sistema contributivo, le pensioni non dipendono solo dai contributi versati, ma anche dal tasso di crescita del Pil; pertanto una riduzione dei contributi, finalizzata a supportare la crescita, non necessariamente comprometterebbe il futuro previdenziale delle generazioni più giovani.

La proposta è semplice: per i lavoratori al di sotto dei 40 anni ridurre le aliquote contributive a carico del datore di lavoro dal 33% al 27%, allineandole a quelle attualmente applicate ai para-subordinati e disincentivando l’uso di contratti atipici, nonché abbassare le ritenute previdenziali a carico dei lavoratori di tre punti percentuali, dal 9.2% al 6.2%, in modo da ottenere un effetto immediato sulla busta paga. I vantaggi sarebbero tangibili sia per i datori di lavoro che per i lavoratori.

Quali i costi? Il finanziamento in Italia richiederebbe un ulteriore sforzo nella direzione di quell’equità intergenerazionale che ormai quasi tutti riconoscono come necessaria per far ripartire la crescita. Ad esempio, una stretta maggiore sulle pensioni di anzianità o una piccola tassa sul «regalo» che riceve chi va in pensione con il sistema retributivo e riceve pensioni estremamente generose rispetto ai contributi versati (magari al di sopra di una certa soglia per non colpire i pensionati con redditi più bassi). Oppure extrema ratio un aumento dell’Iva come nella proposta Sarkozy. Un sacrificio impossibile?

*Economista, esperto di finanza e previdenza

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9819
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