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Autore Discussione: Qualcuno era comunista - Andrea Romano  (Letto 2430 volte)
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« inserito:: Febbraio 15, 2012, 04:52:57 pm »

Qualcuno era comunista


“Povero Achille, che notte dura. Ci sono le stelle, tante da far paura. Ah Tortorella! Raccontami ancora la favola bella. Ah, Ingrao! Raccontami ancora dello Zio Mao”. È nei versi di un anonimo pasquino, distribuiti di notte sulle sedie dei delegati al XIX e ultimo congresso del PCI, che ritroviamo la cifra del libro bello e alluvionale che Luca Telese ha dedicato alla svolta del 1989-1991. Da oggi in libreria con un titolo preso a prestito da Gaber (“Qualcuno era comunista”, Sperling & Kupfer, 22€) il giovane notista del Giornale e conduttore di Tetris dedica quasi ottocento pagine a raccontare la commedia umana, prima che politica, che travolse il comunismo italiano sotto la frana del muro di Berlino. Lo psicodramma che definì i binari comportamentali lungo i quali si sarebbe mossa la sinistra italiana nei vent’anni successivi. Sì, fino ad oggi. Perché anche se molti dei protagonisti di queste pagine sono ormai scomparsi o da tempo in silenzio, è impossibile non riconoscere in quel passaggio la fucina di molti dei modelli antropologici con i quali siamo alle prese ancora ai nostri giorni.

Tra gli elementi minori ma sempreverdi c’è ad esempio il protagonismo del “partito della satira che fa da pesce pilota al partito della politica”, come scrive Telese, con Michele Serra che assume dalla tribuna di Cuore il ruolo di guardiano ondivago della purezza morale insieme comunista e postcomunista. E quindi di colui che sfoggia disprezzo rituale per il riformismo migliorista a pochi mesi dalla svolta (“Se questa epoca storica pretende la scomparsa del comunismo, benissimo. Ci sono tante cose che possiamo fare, possiamo andare a pescare. Non possiamo però diventare quello che vuole Giorgio Napolitano, una sorta di partito repubblicano camuffato”, dirà nel marzo 1989 intervistato da Beppe Severgnini) ma che si precipita subito dopo a rassicurare il suo mondo  sull’opportunità della mossa di Occhetto (“Credetemi, compagni, è meglio così”, il titolo di un suo celebre editoriale dell’Unità). Ci sono poi i prodromi di quello che avremmo chiamato girotondismo, in quei mesi incarnati dall’ala più intollerante della Sinistra dei Club che con Paolo Flores d’Arcais vede nella svolta l’occasione per liberarsi sulla sinistra di ogni partito quale che fosse. Lo stesso Flores che già in quei mesi diffonde liste di proscrizione abbondanti ancorché ecumeniche: “Vorrei un partito in cui non ci fossero Chiarante, Borghini, Corbani, Michelangelo Russo, Lama e Ranieri, Ingrao, Tortorella e Magri”, avrebbe detto al Corriere della Sera nel luglio 1990 pensando forse di accelerare il rinnovamento ma finendo per calcificare la contrapposizione tra Sinistra dei Club e il nuovo partito che andava nascendo.

Ma tra i comportamenti di allora che suonano ancora familiari c’è naturalmente molto di più classicamente politico. Quel politico che Telese fotografa con la lente del collezionista dei piccoli gesti che parlano più dei migliori discorsi, e dunque con un metodo giornalistico che nel suo caso è figlio tanto del leggendario cannocchiale di Giampaolo Pansa quanto della spietata microveggenza di Francesco Merlo. Per centinaia di pagine seguiamo quindi le orme di coloro che Luciano Lama chiamava nel 1990 “i dorotei comunisti, quelli che danno poca importanza ai contenuti e pensano soltanto al potere”, capitanati da un D’Alema già in pista per il comando e impegnato a ricucire sempre e comunque tra le varie anime di un PCI in via di inevitabile frantumazione. O anche la fissità della pregiudiziale antisocialdemocratica che accompagnò tutto il corso della trasformazione dal PCI in PDS, la stessa che impedì al nuovo partito di scegliere la strada allora ancora vitale del socialismo europeo e che oggi Livia Turco ricorda con disarmante franchezza: “Io non avrei mai accettato una Svolta che fosse semplicemente socialdemocratica. Non avrei potuto accettare di abbandonare il comunismo per… così poco”. Così come nasce in quel frangente la frenesia con cui si scelse e si sceglierà di fondare nuovi partiti invece di dedicarsi al ben più difficile mestiere di elaborare nuove proposte politiche, mentre ritroviamo in queste pagine il ritornello “Questo non è un nuovo partito, ma un partito nuovo” che ha accompagnato fino alla noia la nascita del PD.

L’apocalisse comunista, raccontata da Telese con la stessa capacità ossessiva che ha fatto del suo precedente “Cuori Neri” un libro di culto per un pezzo negletto d’Italia, è dunque una galleria di grandi velleità e piccoli fallimenti. Sullo sfondo di uno psicodramma che avrebbe rappresentato l’ultimo grande spartiacque della storia della sinistra italiana, dopo il quale niente sarebbe più stato uguale a prima ma che ci avrebbe consegnato un dopo destinato a rimanere sempre uguale a se stesso. Un libro costruito sulla premessa sentimentale di una superiorità berlingueriana che non fa i conti con le tare precisamente berlingueriane di cui questa classe dirigente non si è mai liberata. Ma anche per questo un libro-miniera che non si può evitare di leggere, come la migliore introduzione al ventennale del 1989.

Andrea Romano – il Riformista

da - www.lucatelese.it
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