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Autore Discussione: SCALFARO: «Ogni battaglia in difesa della Carta merita grande augurio»  (Letto 4245 volte)
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« inserito:: Gennaio 29, 2012, 11:45:47 pm »

Scalfaro: «Ogni battaglia in difesa della Carta merita grande augurio»
 
Di Pietro Spataro

29 maggio 2010

Bisogna stare sempre con gli occhi aperti», dice Oscar Luigi Scalfaro accogliendoci nel suo studio di Palazzo Giustiniani con quel suo sorriso che trasmette sempre ottimismo. Ma il presidente è preoccupato e non lo nasconde. La legge sulle intercettazioni non gli piace e ritiene che, così com’è, la Corte Costituzionale non possa approvarla. «Quel provvedimento mette in sofferenza l’articolo 21 della Costituzione», spiega. Guarda con attenzione alla nostra scelta di disobbedire: «E’ una battaglia che merita partecipazione e un grande augurio». E su Berlusconi che si è paragonato a Mussolini lamentando scarsi poteri dice: «De Gasperi governò per sette anni con questa Costituzione». Chiama tutti all’impegno perché, dice, se ciascuno fa la sua parte non passeranno propositi «anche solo poco democratici».

Presidente, la legge sulle intercettazioni provoca una rivolta tra i giornalisti. Si sta tentando di mettere il bavaglio alla stampa. Che ne pensa?

Sono convinto che questo provvedimento, così come è oggi, non possa trovare promozione da parte della Corte Costituzionale se non si tolgono di mezzo i punti che preoccupano seriamente chi crede nella democrazia. Sono rimasto colpito quando il presidente del consiglio, di fronte al caso del ministro Scajola, abbia affermato: «In Italia c'è troppa libertà di stampa».

Quindi lei ritiene che si tratti di un provvedimento pericoloso?

Quel provvedimento mette in sofferenza l'articolo 21 della Costituzione che garantisce il diritto del giornalista di scrivere ciò che sa nel rispetto delle leggi e quello del cittadino di essere informato. Ritengo che sia intollerabile che si tirino in ballo persone che non c'entrano nulla con le indagini. Ma per impedire questo non vi è altra soluzione che soffocare la libertà di stampa e colpire i diritti dei cittadini?

Il tema della privacy è delicato. Ma un nostro lettore ci ha scritto: la privacy non è lo spazio privato in cui delinquere...

Il diritto alla privacy è normale nella vita privata. Chi fa una vita pubblica ha dei doveri in più e non può pensare che, quando gli serve, si tiri in ballo la privacy.

Il nostro giornale ha deciso di fare disobbedienza: ci rifiuteremo di applicare una legge che comprime la libertà di stampa. Quale è la sua valutazione?

Come difensore della Costituzione mi auguro che una legge che contrasta con la Carta non venga mai approvata. Ogni battaglia che difende i diritti fondamentali sanciti nella nostra Costituzione merita partecipazione e un grande augurio.

Negli stessi giorni in cui si tenta di impedire le intercettazioni veniamo a sapere che il premier ha ascoltato la registrazione di una telefonata a proposito del caso Unipol-Bnl. Non lo ritiene un fatto grave?

Sono cose che si giudicano da sole, non aggiungo altro.

La legge introduce pesanti restrizioni anche per i magistrati. Non si rischia di bloccare indagini importanti come quelle sulla mafia?

Aspettiamo di vedere come si forma la legge, per ora ci sono ipotesi. Ma quel che ho detto per la libertà di stampa vale anche per i magistrati. Per esempio si dice che, dopo un determinato tempo, la possibilità di intercettare decade. Non sarebbe più logico demandare a un'autorità la decisione se proseguire o meno sulla base della consistenza dell'indagine in corso? Certo, qualcuno sostiene che c'è una responsabilità dei magistrati nella fuga di notizie. In questo caso, io che difendo l'autonomia e l'indipendenza della magistratura che è un caposaldo della democrazia, penso che nessun magistrato possa pretendere di essere al di sopra di tutto. Ma che aiuto si è dato alla magistratura per allontanare coloro che si servono impropriamente della toga?

Sicuramente nessuno...

Appunto. Abbiamo assistito invece a continue accuse generalizzate contro i giudici.

D'altra parte Berlusconi si è paragonato a Mussolini, dice che non ha poteri e che, oggi come allora, comandano i gerarchi. Dobbiamo essere allarmati?

E’ sufficiente ricordare che De Gasperi governò per sette anni con questa Carta costituzionale e non chiese mai maggiori poteri.

Il presidente Napolitano dagli Usa ha sostenuto con forza che il Parlamento è il pilastro dei sistemi democratici. Qui in Italia però non sembra così...

Il Parlamento è sovrano. Le dico che non sono contrario a una riforma che preveda anche l'aumento dei poteri del premier. Ma non si può fare mortificando il Parlamento. Democrazia vuol dire governo di popolo e il Parlamento è quindi fondamentale in una democrazia. Ma qualcuno si dà da fare per farlo funzionare? Quanti decreti legge e voti di fiducia abbiamo avuto negli ultimi anni? Sono atti che calpestano i poteri del Parlamento e lo avviliscono.

Ormai però abbiamo un Parlamento di nominati e non di eletti. Non le pare?

Quello della legge elettorale è un tema che deve essere affrontato. Oggi gli eletti li decidono i capi dei partiti. Mi domando se c’è davvero la volontà di cambiare quella legge. Ho la sensazione che faccia comodo un po’ a tutti di avere la possibilità di decidere chi mandare in Parlamento.

Presidente, non le sembra che ormai l'Italia sia preda di un conflitto perenne? Anche la manovra economica sta suscitando proteste in tutti i settori...

La situazione economica è difficile e fa specie che si sia tardato a fare una diagnosi esatta. Il premier ha lanciato messaggi di ottimismo senza valide motivazioni. Da due anni si dice che la gente non arriva alla fine del mese e non ho sentito risposte. Il segretario della Cgil ha chiesto se è pensabile che chi guadagna somme considerevoli non sia chiamato a contribuire e chi ha uno stipendio di 1200 euro sia costretto a farlo. Anche a questa domanda, più che lecita, non è stata data risposta. Sentire il segretario alla presidenza del consiglio, persona estremamente misurata, dire che possiamo finire come la Grecia mi ha fortemente colpito. Letta sta diventando sempre più il sostituto del premier. Intanto il governo non raccoglie le obiezioni dell'opposizione con il solito argomento che con questa opposizione non si può dialogare, ma per una legge di 24 miliardi si deve fare, eccome.

Insomma questo clima di divisione la preoccupa?

Certo, non c'è dubbio: lo stato di salute della nostra democrazia mi preoccupa molto. Il mio obiettivo resta sempre quello di tutelare la Carta costituzionale. Bisogna stare sempre con gli occhi aperti. La Costituzione è l'ultimo baluardo, se cade, la democrazia va a farsi benedire. Per questo il male peggiore è stare solo a guardare. Malgrado tutto dico sempre che sono ottimista perché se ciascuno di noi si impegna non passeranno idee e propositi anche solo poco democratici.


da - http://www.unita.it/italia/scalfaro-laquo-ogni-battaglia-in-difesa-della-carta-merita-grande-augurio-raquo-1.37669
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 31, 2012, 11:23:43 pm »

MicroMega ricorda Oscar Luigi Scalfaro, un Presidente davvero Custode della Costituzione

Scalfaro: La Costituzione presa sul serio

di Oscar Luigi Scalfaro, da MicroMega 1/2003



È politica ciò che riguarda la polis. Ciò che interessa una o due o tre persone, è un’altra cosa.
La politica è l’arte che, con il pensiero e l’azione, tende alla maggiore giustizia e alla maggiore libertà nella vita di un popolo, di uno Stato, al fine di assicurare la pace all’interno del popolo, nel consesso dei popoli e degli Stati.
Le sfide della politica consistono soprattutto nell’affrontare e vincere gli ostacoli, interni ed esterni, che si frappongono alla realizzazione della giustizia, della libertà, della pace. Questi fini non sono perseguibili, se si punta sulla guerra come mezzo per vincere gli ostacoli. Questa è un’impostazione in sé errata.
Puntare sulla guerra, sulla forza è privilegiare i muscoli alla ragione. Dare priorità alla guerra vuol dire non avere fiducia nel dialogo, nel pensiero che è la forza primaria della persona. In sostanza: privilegiare la guerra vuol dire non avere fiducia nella persona, nella sua forza interiore, ma nelle cose – le armi – che, si ritiene, rendano forte la persona dall’esterno. E lo si vede.
Una chiara constatazione alla base di questi pensieri: la dittatura si afferma e vive sulla mortificazione della persona, la democrazia si afferma e vive sulla sua esaltazione.
La persona umana è nella pienezza della sua dignità quando può vivere tutti i suoi diritti, sintetizzabili nel diritto alla vita: una vita sana, libera, che si svolge nel rispetto della verità, della giustizia, della sicurezza, e può rispettare tutti i suoi doveri. Vorrei dire che la somma di questi diritti, proclamati e vissuti – non solo proclamati: vissuti! – costituisce la pace. È la pace!

I principi della nostra Costituzione sono condizioni della pace

Io porto sempre con me, è un problema affettivo, una copia della Costituzione italiana. Ho avuto l’onore enorme di far parte di quell’Assemblea e di votare, articolo per articolo, la Carta. Ne ho una visione sacra. Penso che occorrerebbe che fosse conosciuta e amata più di come e di quanto lo sia oggi. Da tutti. Soprattutto da coloro che incarnano le istituzioni: dovrebbero sentirla quasi anima pulsante dentro di loro, intelligenza viva, volontà di amore.
La prima pagina della Costituzione della Repubblica italiana, dall’articolo 1: «L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro», all’articolo 11: «L’Italia ripudia la guerra», è la proclamazione dei principî fondamentali.
Il 12 parla della bandiera. È un annunzio importante, ma non è un’elencazione di diritti o di doveri: li presuppone, ma non li enunzia.
La proclamazione dei principî fondamentali è molto importante perché crea le condizioni per vivere la pace.
Pensiamo all’articolo 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili». Inviolabili: è un aggettivo formidabile per la forza che ha dentro. Sta a significare che i diritti possono essere violati, ma si deve ricordare che in tal modo viene calpestato, infranto un principio che non si può toccare.
La Repubblica riconosce. Quando l’Assemblea ha votato questo verbo, ho provato una forte emozione. La risento ancora in me. Venivo dalla magistratura e avevo appena compiuto ventotto anni. L’infinita bontà della Provvidenza di Dio mi aveva già fatto assaggiare sofferenze mie e altrui. Un conto è assaggiarle quando l’età è di quaranta, cinquanta, sessant’anni, ma è un’altra cosa quando l’animo e l’intelligenza sono di uno che ha ventisette, ventotto anni. Può avere studiato, ma la maturità che si acquisisce nel tempo mediante il confronto e la valutazione delle proprie e altrui esperienze, ha ancora da essere saggezza di vita.
Torniamo ai principî della Costituzione quali condizioni per vivere la pace: ricordando che non c’è bisogno di un credo religioso per sostenere e difendere un principio.
Anzitutto la pace dipende dalla persona umana: che vi creda davvero; che abbia in sé la pace se vuole portarla. Sono convinto che è una dote della persona che si apre al grandissimo spazio dei valori dello spirito. Parlo di valori dello spirito, non del credo in valori trascendenti. Anche chi non ha fede in essi, ma crede nella forza spirituale della pace, ha la capacità di esserne testimone e di portarla. Conseguenza: chi turba la sicurezza, la pace altrui, sia quella del singolo sia quella della comunità e dei popoli, è aggressore. Costui lede gravemente un diritto che è della persona: il diritto alla sicurezza, alla pace. E, riprendendo la precisazione sopra evidenziata, dico che è aggressione alla pace tutto ciò che mortifica la persona umana nei suoi diritti, nella sua dignità.
La Carta Costituzionale, mettendo al centro la persona e dicendo: «La Repubblica riconosce», esprime un principio che condanna qualunque dittatura. La Repubblica, cioè lo Stato, quando nasce, si inchina agli uomini e alle donne che lo hanno messo al mondo e riconosce che costoro, prima che lui nascesse, erano già, per propria natura, titolari di diritti primari di fronte ai quali ha un dovere: riconoscerli, realizzarli e difenderli affinché non ci sia nessuno che questi diritti li abbia scritti ma non vissuti.
Le mortificazioni alla persona: anzitutto il no alla verità. Quante volte si è parlato e discusso di tanta menzogna che ha in parte connotato l’impostazione marxista.
Ma non è finita la menzogna. Occhi aperti e timpani ben tesi: non è finita!
Inoltre il no a quanto è giusto, mortifica la persona. È lesione della parità, dei diritti, della dignità, dell’eguaglianza sempre e comunque. E la
non eguaglianza davanti alla legge, non è una ferita grave alla giustizia? Me lo chiedo in forza della mia vocazione primaria di magistrato.
E, da ultimo, il no alla solidarietà, alla fratellanza, all’amore, che è il vincolo naturale tra gli uomini; crea squilibri aggressivi, eccessivi non tanto fra ricchezza smodata e povertà, quanto tra la prima e la miseria che ferisce e offende gravemente la dignità della persona.
L’abbandono della persona nella miseria stride tragicamente con l’arroganza del potere, della ricchezza.
La pace è soprattutto un sì alla persona, alla vita, agli altri, a chi in particolare è più debole, ha più bisogno. È scegliere la via dell’integrazione di cui parliamo tanto. Esprimo qui, a modo mio, un pensiero: integrazione è scegliere la via che muta gli altri in noi. Prima pensavo che questi è altro, questi è diverso. D’un tratto, attraverso la solidarietà, la fraternità, la capacità di amore e la condivisione, scopro che questi è uguale a noi, è uno di noi!

La coesistenza di alleanza e pace

E, adesso, attenzione: per vedere la realtà nella quale viviamo: c’è Pace?
L’Italia dopo l’ultima guerra ha scelto una politica di alleanza e di solidarietà, per costruire la pace. All’interno, con la collaborazione fra tutti i partiti democratici. Quando De Gasperi rivolse questo invito, lo accolsero tutti, tranne i comunisti, il cui atteggiamento era spiegabile nella contrapposizione dei principî, e, con meraviglia di tutti, specie di noi giovani, anche i socialisti di Nenni, che preferirono l’alleanza con i comunisti di Togliatti.
Questo piano nasceva da un altro ben più ampio ed esterno: discendeva dalla situazione internazionale con la politica di pace e quindi di alleanze. Due capisaldi: Unione Europea – cito in sintesi il manifesto di Ventotene con Altiero Spinelli, la fede profetica nell’unità dell’Europa di De Gasperi, Adenauer e Schuman – e il Patto Atlantico.
Allora dell’Unione europea non c’era assolutamente nulla: c’erano soltanto persone, da noi chiamati «I profeti dell’Europa», che ci credevano fortemente.
L’alleanza è essenziale per la pace: più si hanno amici, più si ha forza per difenderla, sostenerla, portarla. Io stesso nasco in politica con il concetto di alleanza, che richiede la pari dignità. Alleanza e pace devono coesistere. Nel mio breve intervento al Senato ho espresso questa convinzione quando ho detto:

Non siamo chiamati a decidere, oggi almeno, ma a esprimere la nostra volontà politica.
Ecco, di fronte all’ipotesi di un intervento armato nei confronti dell’Iraq il mio parere, la mia risposta allo stato dei fatti è «no». Devo essere chiaro: è «no»! È un «no» senza incertezze, è un «no» senza subordinate.
Sono parlamentare dall’Assemblea Costituente, giugno ’46. Si stava allora elaborando il piano di grande alleanza difensiva che si concretò, nel 1948, nel Patto Atlantico per la pace.
Attraverso i decenni questa scelta è diventata scelta politica comune.
Ho sempre ritenuto, sempre!, punto essenziale della nostra politica estera l’alleanza con gli Stati Uniti e il legame limpido e forte nell’Europa. Rimango fermo in questa convinzione, in questa determinazione.
Proprio su questa base da ministro dell’Interno ho lottato contro il terrorismo con una serie di intese internazionali che ebbero grande efficacia e che partivano da un fondamentale accordo con gli Stati Uniti.
Dunque, alleanza libera, alleanza fedelissima, alleanza a pari dignità.
– I parlamentari che impediscono al presidente del Consiglio di ascoltare un dialogo non svolgono un compito né educato né intelligente.
Ma capita perché qui siamo eletti a suffragio universale e qualcuno pare più di suffragio che di universale (Scalfaro si riferisce, in questo inciso, alla lunga coda di senatori di Forza Italia che continuavano ad affluire ai banchi della presidenza del Consiglio durante gli interventi in aula, n.d.r.). –
Ho detto alleanza libera, alleanza fedelissima, alleanza a pari dignità. Perciò è indispensabile che siamo molti attivi nel prospettare, nel difendere le tesi della pace, le tesi del dialogo, le tesi della difesa della persona.
La guerra è il «no», il «no» più atroce alla persona umana.
A lei, signor presidente del Consiglio, a lei spetta in particolare questo compito, indubbiamente molto difficile, che è il compito di difendere insieme l’alleanza e la pace. È importante: insieme, alleanza e pace. Per impedire che il «no» alla guerra sia ritenuto o proclamato da servi sciocchi, un «no» all’alleanza.
Tutto ciò è possibile purché ne siamo fortemente convinti e non riserviamo, non portiamo nella mente e nell’animo deprecabili alternative.
Il dovere di essere a favore della pace è richiesto anche dall’articolo 11 della Costituzione: «L’Italia ripudia la guerra».
Leggendolo, è chiaro, lo diceva poco fa il senatore Cossiga, è chiaro che rimane aperta solo la via della legittima difesa. La legittima difesa per essere tale deve rispettare condizioni ben note, che non cito per non consumare tempo.
Il diritto per altro è la prima forza, la prima garanzia, non solo per i singoli, ma per i popoli.
Non vedo facilmente che l’ipotesi di una guerra per legittima difesa preventiva riesca a entrare, a trovare spazio in questo «ripudia» dell’articolo 11. Né possiamo costringere la Costituzione, sulla quali tutti noi abbiamo giurato, a interpretazioni forzate che sono contro ciò che la Costituzione ha espresso ed esprime, che sono contro a ciò che la Costituzione ha voluto e vuole.

Tocco due punti che mi sembrano focali.
Oggi, per responsabilità personale, ritengo essenziale per la politica estera dell’Italia, l’alleanza con gli Stati Uniti di America, come ritengo vitale l’esistenza dello Stato di Israele nella sicurezza, pena una tragedia dall’ampiezza imprevedibile.
Riconoscere gli Stati Uniti come perno delle alleanze non significa, proprio perché alleati, accettare una linea politica senza discuterla, come se il non discuterne fosse prova di fedeltà all’alleanza. Quando si dice: «Noi siamo così amici da essere d’accordo su tutto», mi pare che il destinatario venga trattato in modo meno consapevole. «Io sono d’accordo su tutto» prima che uno parli, è un discorso che non è molto lontano dal mandare uno a quel paese, anche se non si sa mai quale sia.
L’alleanza ha bisogno di lealtà, di dignità, di libertà.
E, sull’altro punto focale, guai a lasciare interrogativi sulla sicurezza dello Stato di Israele. Ma anche i palestinesi hanno diritto a un territorio, a una sovranità, a una indipendenza, a uno Stato, a una patria. O no? Chiamandosi palestinesi, ci sarà qualche aggancio con un territorio che non da oggi viene chiamato Palestina?
Dopo l’11 settembre dell’anno scorso si è rafforzata la solidarietà fra i paesi, che erano già alleati con gli Stati Uniti. Pure gli Stati non vincolati da alleanze con loro hanno espresso vicinanza e desiderio di dialogo. L’incontro Bush-Putin, che si diceva fosse in mente Dei, in quei giorni avvenne con un’accelerazione incredibile. Per il dialogo con la Cina, di cui si parlava forse ancora come un sogno di là da venire, ci fu l’incontro Bush-Jan Zemin, il capo della Cina che adesso ha passato ad altri la responsabilità di vertice nel partito.

La politica estera non può essere la politica delle pacche

Al momento di mandare gli alpini in Afghanistan, per il parlamento italiano unito nell’alleanza, sono nate divisioni e incertezze. Non entro in quella polemica. Faccio soltanto un ragionamento a latere. Coloro che in parlamento, dopo l’11 settembre, avevano detto sì all’alleanza, hanno avuto incertezze, hanno posto interrogativi. Vogliamo vedere se era capitato qualche cosa di nuovo o no? Era tutto come quando si è affermata l’alleanza? Io ritengo che c’erano due fatti fortemente nuovi.
Primo: il presidente degli Stati Uniti ha espresso una chiara volontà di guerra all’Iraq. Allora, non si parlava certo che ci sarebbe stata una seconda pagina dopo l’Afghanistan. L’ha espressa a tal punto da girare il mondo per ottenere adesioni non solo dagli alleati. Avere incertezze è una questione di alto tradimento? E qual è stato l’atteggiamento di Chirac con la Francia? E quello del cancelliere tedesco?
Secondo: riguarda la politica nostra. Il governo avrebbe fatto bene a dire fin dall’inizio, in Aula, che gli alpini non andavano in Afghanistan per combattere. Credo che sarebbe ingenuo pensare che, andandovi, non possano avere a che fare con le armi. Diverso è invece andare per combattere. Questa distinzione, in seguito, è stata abbastanza sottolineata, ma all’inizio non era chiara.
Ancora oggi, ritengo inaccettabile un fatto: la politica estera è stata interpretata dal nostro premier nell’ottica di una visione privatistica. Anzi, di una visione personale, che in un’intervista sintetizzai in una battuta più secca: «La politica estera non può essere la politica delle pacche…!»
La politica estera è quanto di più serio e delicato pone in essere un governo, che lo caratterizza e lo qualifica nei rapporti internazionali.
Allora, credo, ci fosse il dovere di chiedere garanzie per una vera pari dignità.

L’Italia ripudia la guerra

Dall’immediato dopoguerra la politica dell’Italia, democratica e repubblicana, è stata una chiara scelta di pace. Ogni alleanza è stata stretta per aumentare l’impegno della pace. Così è e così vogliamo che sia ancora oggi.
Fin dal termine della guerra, insieme alla politica di scelta della pace, titolare primo De Gasperi, ce n’è stata una seconda, fondamentale, sancita nell’articolo 11 della Carta Costituzionale: «L’Italia ripudia la guerra».
Se noi leggiamo con attenzione l’articolo, che significa no alla guerra di aggressione, no alla guerra per risolvere questioni fra i popoli, rimane possibile per l’Italia solo la guerra per legittima difesa.
Guerra legittima – secundum legem – non lecita. Questa è l’unica ipotesi che, giuridicamente, esce dall’interpretazione serena di questo articolo 11.
Ma la legittima difesa presuppone limiti, condizioni. La conosciamo nei rapporti privati ma, siccome parliamo di principî, vale egualmente in qualunque altro rapporto. Dunque, anche tra Stati. Teniamo conto che la legittima difesa può essere un dovere: se io sono per strada con un minore o una persona minorata che viene aggredita e non compio il mio dovere di protezione, finisco sotto processo. Lo Stato ha il dovere di difendere la sicurezza dei cittadini e non può dire di arrangiarsi.
C’è un pericolo, il terrorismo: lo Stato deve darsi da fare per prevenire, reprimere e studiare a fondo quali sono le ragioni che fanno nascere questa malattia.
Per quattro anni ho fatto il ministro dell’Interno. Il ministro dell’Interno ha il compito, che è del governo ma a lui è affidato, di prevenire e di reprimere. Quante volte, andando in Consiglio dei ministri, ripetevo: occorre studiare, indagare per vedere quali sono le motivazioni, le ragioni di questo fenomeno criminoso; perché quando c’è una malattia, c’è il dovere di studiarne le cause. Intervenire per curare, reprimere, è doveroso ma, se non si cercano le cause, non si arriva mai al dunque.
Ritengo di poter dire che dalla Costituzione a oggi la nostra politica estera, approvata dal parlamento, ha sempre rispettato l’articolo 11, e ha mantenuto con dignità e fedeltà le alleanze.
Abbiamo inviato militari presso altri popoli per difenderne la pace, la sicurezza e per aiuti umanitari. Ricordo i nostri militari uccisi quando è stato abbattuto un aereo che portava solo medicinali, aiuti e viveri.
Abbiamo avuto momenti caldi: l’invasione del Kuwait, uno Stato della comunità internazionale, da parte dell’Iraq. Quindi era giusto, come alleanza, intervenire. I Balcani, con la Serbia di Milos?evic´, il Kosovo. Poi, l’11 settembre…

Con il terrorismo, repressione o tentativi di dialogo?

Il terrorismo è male gravissimo che noi abbiamo dolorosamente conosciuto. È stata esperienza durissima.
Noi abbiamo vissuto la tragedia, che non potremo mai dimenticare, della cattura e dell’uccisione di Moro. Dissi allora, sul piano interno e sul piano internazionale (quando era difficile farsi capire anche dai ministri dell’Interno della Comunità!): nessuno vince questa battaglia da solo, nessuno vince il terrorismo da solo; ma attenzione – aggiunsi – nessuno perde da solo, perché se uno di noi nel proprio paese perde, travolge anche gli altri.
Di lì nacque la serie di accordi bilaterali che diedero notevoli risultati nella lotta al terrorismo. Iniziai con un accordo con gli Stati Uniti, dopo un incontro personale con Bush padre quando era il numero due alla Casa Bianca. Poi, accordi bilaterali con ciascun paese della comunità, del fronte mediterraneo dell’Africa, col Medio Oriente. Grazie a Dio, questa politica ha dato buoni frutti.
Vale ancora questo principio?
Da capo dello Stato, due volte all’anno parlavo al corpo diplomatico. In un discorso, facendo gli auguri di pace citai la Cecenia, perché in quei giorni erano uscite notizie che erano giunte anche a noi – il fenomeno della Cecenia è molto più lontano, ma era stato anche coperto. L’ambasciatore di Russia protestò dicendo: «Presidente, la Cecenia non c’entra. È una provincia. È un problema interno». «Ho fatto un augurio di pace, ambasciatore», fu la mia risposta, «non credo che sia offensivo». «No, ma guardi che non c’entra, perché quelli sono terroristi». «Ambasciatore, tutti i ceceni sono terroristi?». Terminò il colloquio.
Allora, mi chiedo: col terrorismo c’è solo repressione e nessun tentativo di dialogo? Se non si può dialogare direttamente, non ci sono mille strade per trovare alleati, amici, intermediari che aiutino a privilegiare il dialogo? Per conseguire questo obiettivo, bisogna crederci. Se si abbandona questa via, il terrorismo non finirà mai! Le azioni di guerra ci liberano dal terrorismo? Credo che ci abbiano liberato dal governo dei talebani che certamente è una fonte grossa di terrorismo. Spero che l’Afghanistan abbia pace, ma fino a quando sul posto ci sono tante truppe alleate è segno che qualche preoccupazione permane.
Non è che le azioni di guerra creano altre ragioni di violenza, altre forme di terrorismo? Sono pensabili azioni di guerra preventiva? Integrano la legittima difesa, che per noi è l’unica via che rende legittima la nostra partecipazione? Non la integrano. Non esiste legittima difesa preventiva. Non esiste neanche come capacità di concepirne il pensiero. E non possiamo calpestare impunemente la nostra Costituzione!
Vogliamo che anche un’azione di guerra possa conservare un’ultima presenza di eticità, un’ultima ombra di eticità? Guardiamo la tragedia del Medio Oriente. Come si fa a dire che è lecito l’atto del kamikaze? Quest’ultimo che è andato a morire dentro a un pullman dove c’erano giovani e studenti? Non si potrà mai dire che è ammissibile, accettabile uccidere volutamente degli innocenti.
Lo stesso Bush, nei primi giorni della sua presidenza, affermò che i palestinesi hanno diritto ad avere uno Stato. Io faccio una domanda più semplice: hanno diritto alla vita? L’invasione con distruzione e morti nei territori dei palestinesi è azione lecita, anche solo legittima? Punisce o no innocenti sapendo che sono tali? O quando l’uccisione è avvenuta, è sufficiente dire: «Siamo certi che questi è un terrorista e comunque lo avrebbe fatto»? È bene non avere questi poteri divinatori.
E il mondo che fa, sta a guardare? E l’Europa? Come c’è bisogno che diventi Europa politica!
Allora: diciamo sì alle alleanze, nei limiti della nostra Costituzione, che ci impone il no alla guerra se non per legittima difesa.
Occorre avere molta fede nel dialogo e averla ad ogni costo.
Se noi ci crediamo davvero, sono convinto che ce la faremo. Se saranno molti a credere nel no alla guerra, sono convinto che riusciremo ad affermare la pace. Occorre crederci. È l’augurio che faccio con intensità di amore: per quelli che devono decidere le sorti, per qualunque cittadino o cittadina che creda davvero nella pace.
Per questo, dopo avervi presentato questa impostazione e aver sottolineato ancora una volta qual è l’impegno di fronte alla politica di pace di ogni cittadino e dei cristiani in particolare, vorrei terminare in un modo semplice.
Qualche giorno fa mi è capitato, dovendone parlare, di riprendere in mano i testi, affascinanti per me, delle vite di san Francesco, di Tommaso da Celano e di san Bonaventura, e ho riletto più volte nel testamento di Francesco queste parole: «Il Signore mi rivelò che dicessimo questo saluto: il Signore ti dia Pace!».
Ecco, vorrei concludere dicendo soltanto questo: il Signore ci dia pace. Ci dia l’intelligenza per discernerla e l’amore e il sacrificio per attuarla.

(30 gennaio 2012)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/scalfaro-la-costituzione-presa-sul-serio/
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 31, 2012, 11:24:41 pm »

MicroMega ricorda Oscar Luigi Scalfaro, un Presidente davvero Custode della Costituzione

Scalfaro: Contro gli equidistanti

‘Nel ’94 diedi una valutazione che a taluni parve eccessiva, dissi che quel modo di far politica avrebbe corroso dall’interno (…) i principi e i valori della democrazia. Oggi, di cambiato, c’è solo che le stesse persone che allora erano inesperte hanno fatto esperienza’.


di Oscar Luigi Scalfaro, da MicroMega 4/2003

Viviamo una stagione di grande povertà, anzi di miseria politica. Nel senso di un’assenza di pensiero. E nel caso della formazione di Forza Italia, che è una formazione del tutto nuova della politica, quest’assenza di pensiero mi colpisce ancor più dell’assenza di ideali che pure, a parole, sono annunziati e proclamati in quantità. Il pensiero, invece, non è stato mai neppure annunziato. Abbiamo sentito spesso la frase: «Ho già reso un grandissimo servizio all’Italia, perché l’ho liberata dal comunismo». Beh, queste frasi lasciano un po’ senza fiato, non si sa come rispondere, visto che il comunismo era già finito, il Muro crollato da tempo (e perfino Pajetta, con grande onestà intellettuale, ne parlava al passato: «Vedo cadere tante cose nelle quali ho creduto», l’ho sentito con le mie orecchie. Ci volevamo molto bene, con Pajetta).

Ci è stato annunziato: «Siamo noi i veri liberali». Cosa vuole dire? A me la parola liberale fa venire in mente Luigi Einaudi. Pensatore liberale, economista liberale. Non liberista nel senso corrente, però. Ricordo ancora quando era governatore della Banca d’Italia e De Gasperi lo chiamò al governo, al ministero del Bilancio (non c’era nemmeno una sede, un ufficio, nulla), coi prezzi che salivano alle stelle e la moneta in caduta libera. E il solo annuncio di Einaudi al Bilancio bloccò l’inflazione e il crollo della moneta. Mi emoziono ancora nel ricordarlo, è l’esempio più classico di cosa vuol dire la fiducia politica, quell’imponderabile che quando c’è ha però la solidità del cemento armato. No, io parentele con Einaudi non ne vedo proprio.

E ancora: «Noi apparteniamo al mondo cattolico, i nostri punti di riferimento sono Sturzo e De Gasperi». Peccato che loro non sono più in grado di dire se accettano o meno l’accostamento, dunque chiunque può provare ad appropriarsene. Ma cosa c’è di cattolico nel leader della maggioranza e nel movimento che ha creato? Una devozione ufficiale alla Chiesa, e soprattutto ai desideri della chiesa anche con la c minuscola, questo certamente. Ma che cosa ha mai a che fare con Sturzo e con De Gasperi, con il loro pensiero politico gigantesco? Nulla, assolutamente nulla. I riferimenti alla tradizione liberale, a Sturzo, a De Gasperi, servono solo da messa in scena.

Certo, sull’altra sponda del Tevere ci sono timpani disposti ad ascoltare: sbagliando, lo dico con molto rispetto.
In questi giorni ricordiamo l’8 settembre. Ho ancora negli occhi le strade della periferia della mia città, Novara, le cascine in mezzo ai campi, e la gente che correva danzando, per gridare la gioia della guerra finita. E il mattino dopo colonne di uomini e di quadrupedi strappati all’esercito, che venivano condotti alla stazione perché c’erano già le SS che comandavano. Iniziava il periodo spaventoso dell’occupazione nazista.

Mi permetto di dire che, dopo quei tempi, quello che stiamo vivendo oggi è il periodo più negativo della nostra storia. Per assenza di valori, di principî, di riferimenti. Nel ’94 diedi una valutazione che a taluni parve eccessiva, dissi che quel modo di far politica avrebbe corroso dall’interno, come un cancro, i principî e i valori della democrazia. Oggi, di cambiato, c’è solo che le stesse persone che allora erano inesperte hanno fatto esperienza, ma l’impostazione è la stessa. In due anni, questa maggioranza ha prodotto almeno quattro leggi, in tema di giustizia, legate esclusivamente ad interessi privati, forti e intensi.
E quante volte, lungo i decenni, nelle aule parlamentari, quando ero giovane e quando lo ero meno, ma sempre in tempi non sospetti, ho ricordato che se viene meno la fiducia nei politici la democrazia vive una crisi grave, ma se si distrugge la fiducia nei magistrati la democrazia è già morta. Cosa è una legge lo impariamo già sui banchi di scuola: una norma generale, rivolta a tutta la comunità. Vale la pena ricordare il richiamo che la stessa Pacem in terris fa a questo proposito ricordando il Leone XIII di un’encliclica precedente alla Rerum novarum, che è interessante leggere alla lettera: «Né in veruna guisa si deve far sì che la civile autorità serva all’interesse di uno o di pochi, essendo essa invece stabilita a vantaggio di tutti».

Tempo fa hanno chiesto anche a me se ritenevo ci fosse oggi in Italia un regime. Preferisco sempre rispondere senza dare etichette ma elencando i fatti. Delle quattro leggi di cui parlavo, le ultime due hanno seminato pesanti interrogativi in fatto di costituzionalità. E l’ultima, quella che sospende gli eventuali processi per le cinque più alte cariche dello Stato (ma è evidente che una sola ne aveva bisogno) è una modifica che si è voluta introdurre con legge ordinaria. Mettendosi la Costituzione sotto i piedi.

Ripeto: una ingiuria alla Costituzione. Leggiamo l’art. 3. Dice che tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge. Ma nel momento in cui si stabilisce che per cinque di essi che sono ai vertici dello Stato – non mi interessano le motivazioni – i processi vengono sospesi per la durata della carica, è di tutta evidenza che si tratta di una eccezione alla regola generale. Se non è un’eccezione questa! È lapalissiano che sarebbe stata necessaria una legge costituzionale. Altrimenti ogni cittadino avrebbe diritto di dire: chiedo che si sospenda il mio processo, perché ho l’influenza, perché ho un impegno, perché vado all’estero e mi farò vivo quando torno. Non ho condiviso gli interventi anche di ex presidenti della Corte costituzionale – credo spinti dalla benevola intenzione di fornire una sponda al Quirinale – che hanno sostenuto la liceità della legge ordinaria.

Di fronte a tutto questo le preoccupazioni non possono non esserci. Non mi sento di dire: sta crollando tutto, arriva la marcia su Roma del nuovo fascismo. Stiamo calmi. Non agitiamoci. Però non nascondiamoci la realtà. È evidente che è già stato messo in sofferenza l’articolo 3 della Costituzione. E questo per riuscire a stare nei tempi giusti per bloccare un processo in corso. E pensare che noi siamo un paese fondatore dell’Unione europea! Dove l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge è riaffermata anche nel progetto di Carta. E non basta. L’articolo 21 della Costituzione dice che ogni cittadino può esprimere liberamente il proprio pensiero. (Quando abbiamo votato questo articolo non abbiamo aggiunto un 21 bis che dicesse: ogni cittadino deve avere un pensiero. No, questo è facoltativo!) In che condizioni è allora questo principio se osserviamo con attenzione le condizioni dell’informazione e della comunicazione radiotelevisiva? Domanda retorica. Nella Pacem in terris papa Giovanni ci ha solennemente ricordato che ogni essere umano ha diritto all’obiettività nell’informazione.
È in atto uno sgretolamento dei valori su cui è nata la Repubblica, un lavoro di tarme che sta «intaccando» il legno forte della Costiuzione.

Un inciso: sono sconcertato di fronte a uomini politici che sentono sistematicamente il bisogno di spiegare e reinterpretare quanto hanno appena detto. Hanno persino dei portavoce, per farlo. Si ha l’impressione che desiderino addirittura non essere chiari. Si parla di «grandi comunicatori», ma poi i portavoce si devono affannare a spiegare che il leader voleva dire l’opposto di quanto ha appena comunicato, e al seguito tutta una serie di esponenti della maggioranza che hanno il compito quasi ufficiale di dire che è stato male interpretato, che sono stati i giornalisti a equivocare, le opposizioni a strumentalizzare, che al massimo era una gaffe, un paradosso sul filo dell’ironia… Davvero triste: per queste attività non riesco a trovare altra qualificazione che quella di servile. Terribilmente e inintelligentemente servile.

Lei, direttore, mi poneva prima il tema della guerra in Iraq. Parliamo allora della guerra di Bush. E della grande manifestazione del 15 febbraio 2003, oltre cento milioni di cittadini in tutte le capitali del mondo. (Formidabile. Ero sul palco anch’io, a testimoniare una comune scelta di pace. Mi emoziono ancora quando ci penso, quando ne parlo. Anche ora, qui con lei. Perché i garanti della Costituzione sono molti, il capo dello Stato, il parlamento, la Corte costituzionale, lo stesso governo. Ma garante vero è il cittadino). Il presidente del Consiglio, all’epoca anche ministro degli Esteri, disse pressappoco così: «Noi siamo amici dell’America, io sono amico di Bush, quindi stiamo con lui comunque». Un discorso inaccettabile sul piano politico e sul piano umano. Nella nostra tradizione culturale latina ci sono le parole, che ci sembravano misteriose quando ce le insegnavano i maestri elementari: amicus Plato, sed magis amica veritas. Proprio all’amico devi dire che sbaglia, quando sbaglia.

Di fronte a tutto questo, come cittadino devo essere preoccupato? Sì. E in particolare per come si accetta in silenzio e si subisce passivamente questa deriva. Questa specie di torpore mentale, di acquiescenza, che poi è il non voler prendere posizione, al fondo del quale c’è magari l’inconfessato interrogativo: «E se questi rimangono? Anche io devo campare, perseguire i miei progetti…». Forse non ne hanno neppure consapevolezza, ma il risultato è l’acquiescenza, il silenzio. Nel caso della guerra è stato macroscopico. Si esprime nella frase: la guerra ormai c’è stata, cosa fatta capo ha, capitolo chiuso, andiamo avanti.
Ma ora è lo stesso Bush a dire che ci vuole l’Onu. Di fatto un bell’atto di pubblica umiltà, da parte di chi aveva detto: «O fate come dico io o andiamo avanti da soli». Che Bush sia parzialmente impantanato è un dramma per tutti, in primo luogo per i poveri soldati che ci lasciano la pelle. Per uscirne oggi Bush invoca l’Onu, ma per non sembrare sconfitto aggiunge: però il comando dobbiamo tenerlo noi.

Come si esprime l’acquiescenza? Anche con una certa rassegnazione. Ho incontrato persone che erano venute a Roma da molto lontano, per la manifestazione per la pace, con disagi, figli piccoli, e che ora dicono: «La guerra c’è stata, è finita, ci sentiamo sconfitti». Purtroppo non è finita, come ciascuno può vedere. E non siamo stati affatto sconfitti, perché le nostre preoccupazioni sono state più che confermate. Se si fosse dimostrato che Bush aveva ragione non avrei avuto difficoltà a riconoscerlo. Ma invece ogni giorno di più vediamo come fossero a dir poco esasperate le «ragioni» invocate per l’intervento. E fa impressione che questo accada in un paese che ha distrutto dei suoi uomini politici perché avevano distorto di una virgola la verità, e che ha sempre rimproverato gli altri di non avere analogo culto della verità. E che ha fatto una guerra in nome di ragioni – sostenute con ostinazione – che non dirò non vere ma certo a tutt’oggi non provate. Non provate dagli ispettori Onu e non provate da loro stessi una volta giunti sul posto. E noi, e loro, e Bush saremmo quelli andati a portare in Iraq la democrazia? Ma la democrazia nasce dalla verità, senza la verità non è nulla, perché l’uomo stesso è nulla senza la verità. Bush vuole portare la civiltà? Ma un patrimonio di civiltà non si può imporre. La pace non si può imporre, lo ricorda la Gaudium et spes del Concilio Vaticano II. Nessun valore positivo si può imporre senza rispettare la dignità della persona. Saddam era un dittatore sanguinario, ha sterminato i curdi e tutti gli oppositori, ma non gli fu contestato nulla perché non conveniva.

E non è tutto. È nato un sistema che negli Stati Uniti qualcuno ha ritenuto di poter presentare come un pensiero. La guerra preventiva. Ma una guerra preventiva non può essere di legittima difesa, dunque è una guerra di aggressione, dunque è contro il diritto internazionale. La nostra Costituzione, invece, con l’art. 11, è una conferma splendida del diritto internazionale. Se noi accettassimo la nuova teoria di Bush saremmo dunque anche contro le norme specifiche della nostra Costituzione.

No, non è accettabile la logica dell’«ormai è andata, cosa fatta capo ha». Una cosa ingiusta rimane ingiusta, una scelta immorale rimane immorale, una decisione illegale rimane illegale. Mi si dirà, ecco qui, vuole ricominciare con l’elenco delle leggi ad personam? Anche. Perché archiviare è sbagliato. Non ci si può chiamar fuori da una realtà che ci coinvolge. Bisogna svegliarsi. Anche il mondo cattolico deve svegliarsi. Ai tempi della Costituente fu capace di svegliarsi. So bene che qualcuno dirà: questo vuole rifare la Dc. Io voglio solo ricordare a tutti i cittadini, e dunque anche ai cittadini cattolici, che hanno il dovere di tutelare la libertà e la democrazia. Che non sono guadagnate e garantite una volta per sempre. Chi ha una visione trascendente certamente non ha nessun diritto in più ma ha la certezza di dover rispondere, oltre che alla propria coscienza, anche a un altro e più alto tribunale.

E allora: di fronte ad un male in atto, si mettono da parte tutte le altre divergenze e si lavora insieme, per combatterlo. Con uno sforzo enorme di unità di intenti, di volontà di lavorare insieme sui programmi. Ho ricordato prima l’8 settembre. Vivo quei ricordi in modo personale ma intensamente. Quel giorno dei giovani sono partiti per la montagna. Partirono anche miei amici. Io ero magistrato, avevo vinto da poco il concorso e come magistrato ero tornato in congedo dalla vita militare. E ricordo quando cominciai a frequentare la sera tardi le riunioni con persone che avevano le mani in pasta in un’azione che è durata fino all’aprile del ’45, con persone che non sono più tornate. Ricordo quel terribile inverno del ’44 quando rasentammo anche un pizzico di disperazione. Pensavamo e dicevamo: «Forse non finisce più». Che parentela c’era tra un cattolico e un comunista? Nessuna. E tra un cattolico e un liberale? Ben poca. E con coloro che si chiamavano i verdi, e poi del Partito d’Azione? Eppure si stabilì un’unità di intenti, di volontà, come un blocco unico di cemento armato, a partire da due valori, indisgiungibili, il sì alla libertà e il no alla dittatura. Un no irriducibile. Poi, vinta la dittatura, tutto è diventato più faticoso, intanto però si era chiusa una partita.

Ecco perché non bisogna mai confondere l’imparzialità, che è un dovere, con l’equidistanza. Ricordo le discussioni alla Costituente sui sacri principî, quando stava già maturando il Patto atlantico e i comunisti facevano una grande campagna per l’equidistanza, la neutralità. Ricordo quando venne in Italia Fiorello La Guardia, che era stato sindaco di New York e che in quel momento era il responsabile degli aiuti all’Europa. Fu ricevuto nel salone della Lupa di Montecitorio. Con il suo italiano che ci ricordava Cric e Croc disse: «In Italia tutti parlare di Stato cuscinetto, Italia neutrale, Italia paese materasso. Ma se voi fare paese materasso, tutti mettere sedere sopra!».

Ecco, io ho sempre ripetuto: non si può essere equidistanti tra i ladri e i carabinieri. Chi dice di essere equidistante sta già con i ladri. È per questo che ho reagito più di una volta. Ho persino fatto un accenno al presidente della Camera, verso il quale sono legato da antico e profondo affetto, per invitarlo a non parlare da predicatore apostolico, che fa piovere i sacri principi egualmente su tutti, su colpevoli e innocenti.
Ieri ho sentito mio dovere telefonare al capo dello Stato per dirgli che il suo comunicato [di netta contrapposizione alle dichiarazioni di Berlusconi sulla psiche disturbata dei magistrati] era bello e buono. Ho sentito questo dovere, perché il documento della presidenza diceva esplicitamente: «In riferimento a…». È ovvio che vi siano uffici come quello del magistrato, o a maggior ragione come quello dello stesso capo dello Stato, che impongono di essere al di sopra delle parti. Ma essere al di sopra delle parti non significa essere equidistanti.
Che poi il presidente del Consiglio abbia fatto a quel punto davvero marcia indietro, io sono meno ottimista. Mi fermo nel giudizio perché il buttare le braccia al collo del capo dello Stato per ripetere che si è totalmente d’accordo con lui – e ricominciando magari poco dopo tutto daccapo – suona come tattica.

Lei vuole il mio pensiero sulla proposta per le europee. Proposta avanzata da Romano Prodi. Ecco, ho l’impressione che questa proposta nasca un po’ a tavolino. Questo non vuol dire che manchi di contenuti e di ragioni. Ma la politica ha le sue esigenze, e una di queste vuole che una proposta politica quando nasce risponda già a un’attesa, a una volontà nell’opinione della gente. Il politico è un po’ un corifeo che raccoglie un sentimento diffuso, un desiderio, una volontà: e la esprime. Se la esprime in anticipo può essere che sia perfino profetico, ma forse quella proposta non ha ancora raggiunto la maturità di una voce che trova un’eco immediata, e che faccia dire: ecco, ha espresso proprio quello che stavo pensando, che anch’io volevo dire.

Io, allora, intendo questa proposta innanzitutto come un invito a essere uniti. Ogni invito all’unità mi trova favorevole perché, ripeto, ritengo l’unità d’azione una condizione vitale. Divento invece più perplesso quando vedo che secondo alcuni questa proposta dovrebbe diventare il momento generatore di un diverso modo di essere dell’intera politica italiana. Il modo anglosassone, della Gran Bretagna ma anche degli Stati Uniti, di una politica fondata su due soli partiti contrapposti. Per la Gran Bretagna abbiamo giustamente una grande ammirazione. Ma si tratta di un paese che viene da una lunghissima e diversa tradizione di libertà. Una democrazia che funziona pur non avendo una Costituzione scritta!

In Italia ci muoviamo in una tradizione e in un contesto diverso. E non lo giudico meno maturo, perché non credo che noi siamo alle elementari e il mondo anglosassone al liceo. Penso che abbiamo solo un modo diverso e diversamente articolato di esprimere la ricchezza della vita politica. Si ricorda della Cosa 2? Giuliano Amato, persona di grande cervello, propose un percorso tecnicamente ineccepibile, ma che mancava forse del necessario sentimento corale.

E ora guardiamo ai movimenti. Io comincio facendo un passo indietro. Parlando dell’8 settembre ho ricordato i diversi partiti, comunista, democristiano, socialista, azionista, liberale eccetera. Questi partiti volevano dire, allora, l’intera società italiana. La rappresentavano globalmente. Iscritti e non iscritti, simpatizzanti e semplici elettori. L’opinione pubblica, tutta. Nascevano come movimenti di pensiero, ma avevano alle spalle una tradizione di sofferenze, di galera, di tribunale speciale. Erano profondamente radicati nella società. Oggi mi pare che questa capacità di rappresentare in toto la società si sia un po’ attenuata, e per varie ragioni. Ma guai se, criticando i partiti, li si vuole escludere.
Eppure la mobilitazione della società civile rimane essenziale. Preciso: il mobilitarsi di persone che abbiano una capacità di pensiero, di pensiero politico e soprattutto di scelte.

Io solitamente evito di entrare nel merito di particolari questioni politiche. Ma è un fatto che oggi si sentono spesso discorsi del genere: «Basta, non mi faccio più convincere a votare per questa maggioranza. Ho visto cose che non posso accettare nel modo più assoluto. Basta!». Qualche secondo di silenzio, e poi: «Ma anche questi della sinistra, così divisi, così sempre contrari, così…». Questo discorso può anche essere comprensibile ma non è accettabile. È tirarsi fuori. È lavarsene le mani. È mettere le premesse per rifare lo stesso errore al momento del voto.

Ma il fenomeno di un’insoddisfazione della società civile verso i partiti dell’opposizione, certamente esiste. È una realtà. Mi domando: se alle europee ci saranno più liste dell’opposizione, non è ipotizzabile che in ciascuna di esse si faccia spazio a personalità della società civile, senza che diventi necessaria una lista a sé stante? Perché in astratto, se fossimo sulla luna, una lista a sé stante non dovrebbe turbare, consentirebbe di raccogliere voti che altrimenti potrebbero «restare a casa». Ma proviamo a immaginare come sarebbe strumentalizzato il solo annuncio, cosa direbbero le televisioni, come insisterebbero sulle nuove divisioni, sul fatto che la gente non si sente rappresentata dal centro-sinistra. Temo che alla fine, tirate le somme, questa lista autonoma, espressione della società civile e autonoma dai partiti, finirebbe per essere di danno.

Tempo ancora ce n’è, per trovare soluzioni. Oggi la soluzione migliore mi sembra quella che ogni lista dia lo spazio più ampio a persone della società civile. Perché ci sono settori di elettorato il cui consenso non si riesce a raccogliere candidando solo esponenti di partito. Ho sempre davanti agli occhi, sullo schieramento opposto, il caso Guazzaloca, a Bologna. Dove sembrava che il Pci, e poi i suoi eredi, non potessero essere sconfitti mai. E invece anche l’amico Cofferati che dovrà sfidarlo sa che riuscire a sconfiggerlo non sarà facile. Guazzaloca sa toccare corde sensibili di una parte della società civile. Si presenta in modo accattivante, talvolta come se fosse super partes, al di sopra dello scontro tra gli schieramenti di partito. Ma in sostanza porta i voti allo schieramento di destra. Se il centro-sinistra non intercetta questo modo di rapportarsi alla politica, non lo conquista, rischia di non trovare la via del successo elettorale. Non si vince con la somma algebrica dei partiti di opposizione, questo è certo.

Lei mi richiama a un’altra considerazione. Nella stessa opposizione c’è chi sostiene che il governo Berlusconi sia semplicemente un cattivo governo di destra, come ce ne sono tanti in Europa. Io, come ho già ricordato, respingo questa domanda. Preferisco passare direttamente all’elenco dei fatti che confliggono con la Costituzione, che fanno da tarli alla democrazia.
Così ci sono tanti che dicono: «Se parlate troppo contro, fate il gioco della maggioranza». Discorso che non accetto. Un conto è l’esasperazione della polemica immediata, un altro è tener ferma la critica sulle questioni essenziali. Se si vuole, per un momento facciamo pure fermare le bocce, ma non cessiamo mai di ricordare che ci sono fatti, dichiarazioni, leggi che colpiscono e disgregano la Costituzione. Non sono d’accordo con chi dice: «Ormai sono cose fatte, non perdiamoci più tempo». No: sono cose fatte, ma dobbiamo continuare a discuterle, a ricordarle, a criticarle per quanto sono negative e dannose.

Infine, torniamo un momento alla stagione dei movimenti. Io una volta dissi esplicitamente, scatenando l’applauso della platea a cui fu riferito: «Vorrei conoscere quelli che stanno dando vita ai girotondi, per andare da ciascuno di loro, e dire grazie». E ricordo che allora qualcuno arricciava il naso, ma io ho ribadito che le democrazie hanno vita in proporzione all’adesione che hanno. E quelle erano e sono adesioni alla democrazia. Sono adesioni ai valori irrinunciabili della democrazia, e per questo i girotondi vanno ringraziati. La partecipazione è essenziale. Ripeto ad ogni incontro con il pubblico: «Ognuno di voi, di noi cittadini, è responsabile della Costituzione». Se la partecipazione dei cittadini viene meno, se la democrazia perde il mondo dei movimenti, torna ad essere una democrazia minoritaria, una democrazia debole.

Bisogna partecipare. Con quale metodo? Scendendo in piazza, organizzando manifestazioni, ma sempre al fine di inserirsi nell’assunzione pubblica di responsabilità specie al momento del voto. È dunque essenziale che il voto sia come un mattone che si aggiunge ad altri per la costruzione comune. Un voto di dissenso che avesse l’aristocratico orgoglio della solitudine, è meno di una manciata di sabbia. Scendere in piazza è scegliere, è scegliere pubblicamente. È l’adempimento di un dovere di fronte alla democrazia.

(30 gennaio 2012)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/scalfaro-contro-gli-equidistanti/
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 31, 2012, 11:34:00 pm »

31/1/2012

Quando Scalfaro difese l'Italia all'Onu

FRANCESCO PAOLO FULCI*

Caro direttore, ho letto con commozione le parole della figlia Marianna, per la scomparsa del Padre, il Presidente Emerito della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro: «Se ne è andato da uomo forte, con lo stesso coraggio che ha avuto in vita».

Proprio così: uno statista dallo straordinario coraggio, assolutamente intransigente nella difesa del bene e dei supremi interessi dell’Italia e della pace, anche nell’agone internazionale.

Era il Mercoledì Santo dell’aprile 1996 quando Oscar Luigi Scalfaro parlò all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, a New York. La grande aula del Palazzo di Vetro era gremita all’inverosimile, con le 182 delegazioni diplomatiche, accreditate a quel tempo all’Onu, tutte attentissime.

La preparazione dell’evento - ero all’epoca il Rappresentante Permanente d’Italia fu abbastanza laboriosa. Anzitutto per la data, alla vigilia di Pasqua, quando lo stesso Segretario Generale, Boutros Ghali, era assente, come lo erano molti Capi delle Missioni Diplomatiche: il rischio era che il Presidente parlasse in un’aula semi-deserta.

Ma, soprattutto, era il momento in cui imperversava la battaglia per la riforma del Consiglio di Sicurezza: Germania, Giappone, Brasile, India, Nigeria si battevano con grande determinazione per ottenere un seggio permanente in Consiglio di Sicurezza, da cui l’Italia ed altri Paesi, come Canada e Messico, Indonesia, Pakistan, Egitto, sarebbero stati irrimediabilmente emarginati ed esclusi. In più, Paesi del calibro di Usa, Francia, Gran Bretagna e non pochi altri appoggiavano, ostentatamente almeno, i «great pretenders» al seggio permanente: una coalizione avversa cosi potente, da far tremare le vene ai polsi.

Preoccupati dalla prospettiva che il presidente Scalfaro potesse pubblicamente sollevare dalla massima tribuna mondiale un tema così acceso e controverso, gli ambasciatori di alcuni dei Paesi aspiranti al seggio permanente mi fecero sapere che, se ciò fosse avvenuto, essi si sarebbero alzati abbandonando platealmente l’Aula seguiti dalle loro delegazioni.

Una vera e propria minaccia, quindi, di creare un incidente diplomatico!

Com’era mio dovere, ne accennai al telefono in via riservata al Presidente, che non mi sembrò preoccuparsene più di tanto. Ed infatti, venuto il momento, egli pronunciò sul tema parole di eccezionale coraggio e fermezza per quell’aula ieratica e ovattata, rimaste impresse nella mia mente. Disse tra l’altro: «Su questo tema (n.d.r. la riforma del C.d.S.), si decida coinvolgendo il maggior numero di Stati. Stiamo attenti! Un Olimpo di Paesi potenti potrebbe aumentare il distacco e quindi ridurre l’interesse degli esclusi, mortificandone la volontà politica e forse spingendoli al margine con la pericolosa sensazione di far solo numero, di diventare spettatori. Tutti gli Stati devono sentirsi attori. Nessuno decida per “devozione” verso Stati più forti o di cui si ha più bisogno. Facciamo in modo che ciascun stato abbia un solo scopo: servire meglio la pace».

L’allocuzione del Presidente della Repubblica italiana fu salutata da una «standing ovation» dei delegati. Coloro che avevano minacciato di uscire dall’Aula, si guardarono bene dal farlo. Anzi furono visti anch’essi nell’interminabile fila di diplomatici che, uno dopo l’altro, vennero a stringere la mano al nostro Presidente alla fine della seduta.

Fu una pietra miliare nella difesa di un fondamentale interesse dell’Italia, (che rischiava il «declassamento»), dell’Europa (che avrebbe visto consolidarsi un direttorio franco-britannico-tedesco), delle stesse Nazioni Unite (che avrebbero peggiorato il loro attuale «deficit» di democrazia).

Da allora sono trascorsi sedici anni e i «grandi pretendenti» continuano a vedere frustrate le loro pericolose ambizioni: il coraggio di Oscar Luigi Scalfaro paga ancor oggi, costituendo un esempio luminoso e sicuro per le generazioni presenti e future della diplomazia italiana.

* già Ambasciatore d’Italia all’Onu

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9712
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