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Autore Discussione: Alberto Mingardi. Quando Pareto stroncò Marx  (Letto 4277 volte)
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« inserito:: Gennaio 28, 2012, 06:23:51 pm »

28/1/2012

Sanità e politica vanno separate

ALBERTO MINGARDI*

Caro direttore,

è giusto che un malato, all’uscita dall’ospedale, si veda consegnare un documento che riassume le spese affrontate per lui dal servizio sanitario? Per il senatore Ignazio Marino (La Stampa, 24 gennaio 2012) si tratterebbe di un contributo a una «democrazia partecipata». I malati informati del costo che rappresentano per la collettività potrebbero organizzarsi in «appositi comitati» e dare così un contributo per individuare miglioramenti nell’uso delle risorse.
È davvero così? Questa «bolletta sanitaria» male non fa ma attenzione a caricarla di troppe aspettative.
L’idea si fonda su una non automatica identificazione di ruoli. Il paziente è anche un contribuente, ma non tutti siamo pagatori e beneficiari del Ssn alla stessa maniera.
Le difficoltà nel controllare la spesa sanitaria sono legate in parte allo «spreco» che contraddistingue in questo ambito come in molti altri i sistemi pubblici, ma anche alle dinamiche demografiche. Gli over 75 consumano, dal punto di vista della spesa, 11 volte le risorse che «costano» i 25-34enni. Il 70% della spesa è assorbito dalla popolazione di pazienti cronici.
Informare i pazienti circa il costo delle prestazioni può servire a ricordare loro che nessun pasto è gratis: la sanità «gratuita» non lo è affatto. Tuttavia, questo è il classico caso in cui non ci si può appellare a una maggiore «morigeratezza» dei consumi individuali, per controllare la spesa.
La discussione dovrebbe avere luogo su ben altro: il problema non è avvicinare sanità e democrazia, ma allontanare sanità e politica.
Buona parte delle inefficienze del Servizio sanitario nazionale affonda le proprie radici nell’uso strumentale al consenso che ne è stato fatto. Di questo si discute quando si sottolinea la cronica incapacità di razionalizzare la rete ospedaliera italiana, ad esempio.
Uno studio dell’Istituto Bruno Leoni curato da Lucia Quaglino, di prossima pubblicazione, confronta la domanda (posti letto effettivamente occupati) con l’offerta da parte degli ospedali pubblici, dal 1995 al 2007, in una Regione pure «virtuosa» come la Lombardia. Grazie all’innovazione tecnologica, nell’ultimo quindicennio la durata media dei ricoveri si è molto ridotta: passiamo meno tempo in ospedale. Tuttavia, l’effetto sui posti letto offerti dal pubblico non si vede.
La domanda in capo al settore pubblico scende del 33% ma l’offerta si riduce solo del 7,6%. Si è determinato insomma un eccesso di capacità produttiva: che, se la sanità fosse un settore economico esposto alla concorrenza, sarebbe il segnale di una crisi imminente.
Questo accade persino nell’unica regione italiana che non è cronicamente in disavanzo - e che usa consapevolmente privati che hanno un ruolo non ancillare.
L’eccesso di capacità produttiva è frutto di una spesa per investimenti che risponde a una domanda di consenso. Non c’è esponente politico cui non piaccia tagliare il nastro di un nuovo ospedale.
Esattamente come da esigenze di consenso dipende la riottosità a tagliare la spesa corrente, che significa: personale, appartenente a categorie efficacissime (medici e infermieri in primis) nel «volantinaggio verbale» caro alla politica a tutti i livelli.
Gli ospedali privati lombardi sono riusciti ad adattare con più elasticità l’offerta alla domanda di posti-letto, minimizzando gli sprechi, proprio perché seguono il «motivo del profitto» e non quello del consenso.
Informare il paziente dei costi che si sono sostenuti per lui è un appello alla sua buona coscienza, ma non gli mostrerà il conto delle promesse elettorali e delle appassionate orazioni circa una sanità «pubblica e gratuita». La sanità italiana a livello «micro» è fatta di professionalità eccellenti e dedizione alla cura. Sono le decisioni macro che vanno «de-politicizzate».

*Direttore generale Istituto Bruno Leoni

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9704
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 09, 2016, 06:18:32 pm »

Il voto dei più colti dovrebbe pesare di più alle elezioni?
L’urna a due velocità di John Stuart Mill
Per il filosofo liberale il voto dei più preparati dovrebbe pesare di più.
Così, la Brexit avrebbe forse perso, ma non è una soluzione

07/08/2016
ALBERTO MINGARDI

Fino a poche settimane fa, le democrazia era uno dei pochi tabù dei nostri tempi. Mettere in dubbio il principio una-testa-un-voto significava auto-esiliarsi dal dibattito pubblico. Molto si ragionava, semmai, su come estenderne le frontiere: sanare il «deficit democratico» dell’Ue, sperimentare forme partecipative, esportare istituzioni democratiche dove non ci sono.
 
Ma non sempre il demos, quando vota, si rivela all’altezza delle aspettative dei democratici. La Brexit è stata la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso. Siccome da una parte c’era l’appartenenza al mercato unico con i suoi vantaggi e dall’altra un salto nel buio, l’esito del referendum è stato letto dagli sconfitti come il sintomo della crescente difficoltà di un voto «riflessivo». I «leaver», probabilmente, sentivano di aver perso il controllo sul proprio Parlamento e sui propri confini e hanno votato per riprenderselo.
 
Le élites novecentesche erano coinvolte in perenni conflitti ideologici. Oggi hanno valori in larga misura omogenei. Per questa ragione interpretano il dissenso non come una questione di diversi valori: ma come una forma di ignoranza. Sembrano dibattiti nuovi, ma non lo sono affatto. Non è nuova nemmeno l’incapacità di escogitare una soluzione convincente. A questo proposito, è interessante rileggere John Stuart Mill. Economista e pensatore politico, Mill fu fra i primi a battersi per il voto alle donne. Nelle sue Considerazioni sul governo rappresentativo (1861), sostiene il suffragio universale - ma «temperato» dal voto plurimo. «Le persone la cui opinione merita maggiore attenzione devono disporre di un voto più pesante».
 
Mill concepisce la libertà come autonomia, come possibilità di provare a costruire ciascuno la propria vita a proprio modo. Questa libertà va a vantaggio di tutti, perché una società più creativa è anche più innovativa e più prospera («Quando vi è più vita nelle singole unità, ve ne è di più anche nella massa che compongono», scrive nel saggio Sulla libertà) ma non può essere garantita dal principio di maggioranza. La massa tende a invidiare coloro che fanno cose nuove.
 
Fra i meccanismi per frenare il pericolo del dispotismo della maggioranza, Mill immagina il suffragio «a peso variabile», che consenta ai più istruiti di contare di più. A questo voto «pesante» si dovrebbe accedere con «esami volontari accessibili a tutti».
 Se questa proposta non è mai uscita dai libri, c’è una ragione. Ha un bel dire Mill che «i soggetti di un voto meno influente non dovrebbero sentirsi irritati per questo», e che «solo un pazzo» può offendersi perché «si riconosce l’esistenza di altri con opinioni e aspirazioni superiori alle sue». La società esiste proprio perché ciascuno ha competenze diverse dagli altri: il panettiere ha bisogno dell’idraulico e il sarto del pizzaiolo. Nessuno «si sente irritato» per questo. Ma la vita pubblica è un’altra cosa, e l’idea del suffragio universale implica l’equivalenza del valore delle opinioni. La «competenza» tecnica è un attributo che pretendiamo dal nostro medico o dal nostro idraulico; al più dagli “impiegati” dello Stato, dai poliziotti ai capi di gabinetto. L’indirizzo politico, però, è lasciato alla conta. In una democrazia «presa sul serio», davvero «uno vale uno».
 
Un secolo e mezzo fa, si pensava che governo popolare ed istruzione di massa sarebbero andate assieme. Per lo stesso Mill, «uno dei principali meriti di un governo libero è proprio quello di educare l’intelligenza e i sentimenti persino degli strati sociali più bassi chiamati a prendere parte alle decisioni». Il suffragio universale avrebbe costituito una sorta di palestra, l’abitudine a prendere decisioni ci avrebbe reso decisori migliori. È andata così forse in Svizzera, dove il frequente ricorso al referendum produce scelte sorprendentemente ponderate. Oggi un po’ dappertutto assistiamo al prevalere del voto istintivo. E questo avviene nelle società più scolarizzate di sempre, dove per giunta tutta l’informazione del mondo è disponibile al costo di un clic.
 
Forse ad essere sbagliato, ieri come oggi, è il modo d’impostare il problema. Le neuroscienze della politica suggeriscono che i pregiudizi sono molto più radicati di quanto sembra. L’elettore razionale, che legge i programmi e si sposta da sinistra a destra a seconda delle circostanze, è una fantasia. Che si voti «con la pancia» è probabile, capire chi propone cosa, e poi verificare che lo faccia, richiede fatica e tempo. Né i più colti ed informati sono liberi da pregiudizi.
 
Se non si può cambiare la natura umana per riformare la politica, forse si può ridurre l’ambito delle scelte a maggioranza. Svolte che incidono profondamente sullo status quo (come la Brexit) dovrebbero richiedere super-maggioranze, come avviene in Parlamento per la riforma della Costituzione. Oggi noi eleggiamo chi decide grosso modo della metà del Pil. L’elevato peso dello Stato è un argomento a favore della «competenza» nel gestirlo, ma la percezione che esso costi al cittadino metà del suo reddito consolida il bisogno del controllo. Se vengo tassato così tanto, non posso lasciare che decidano gli altri.
 
Se lo Stato governasse il 10% del Pil, il populismo farebbe meno paura: perché decisioni erronee o pregiudiziali produrrebbero danni decisamente inferiori. Forse è più semplice convincere il demos a riprendere sovranità sul proprio reddito, accettando una riduzione dei poteri pubblici, che a cedere il passo ai «competenti». Ci pensino, le élites.
 
Twitter @amingardi
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Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2016/08/07/cultura/lurna-a-due-velocit-di-john-stuart-mill-770dW2l7CG5CisisNhpRgN/pagina.html
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 16, 2017, 08:43:50 am »

Quando Pareto stroncò Marx

   Di Alberto Mingardi
12 agosto 2017

«Il libro di Karl Marx dovrebbe intitolarsi Il capitalista, piuttosto che Il Capitale». Questo perché del capitale non disconosce l’importanza, anzi «ammette che deve non solo riprodursi ma ancora aumentarsi per poter sviluppare “le forze produttive e le condizioni materiali che sole possono formare la base d’una società nuova”». «È il capitalista il nemico».

Per celebrare il centocinquantesimo anniversario del primo libro del Capitale di Marx, Aragno ripropone la prefazione che a Vilfredo Pareto chiese l’editore Guillarmin, un quarto di secolo dopo. In Italia il testo fu prontamente tradotto su L’Idea liberale e poi pubblicato in volume a Palermo.

Le critiche che Pareto muove a Marx sono essenzialmente due.

In primo luogo, quella del filosofo di Treviri è un’economia ormai obsoleta. Das Kapital manca di poco la rivoluzione marginalista, che finalmente chiarisce che cosa sia il valore.

Per Marx «è evidente che si fa astrazione dal valore d’uso delle merci quando si scambiano». Il valore di scambio sarebbe una sorta di espressione della “sostanza” che risiede nei beni: ovvero la quantità di lavoro.

In realtà, spiega Pareto, è vero proprio il contrario. Chi ha acqua a sufficienza non baratterà mai un bicchiere col proprio orologio perché in quelle circostanze «il valore d’uso… è molto minore per voi del valore d’uso dell’orologio». “Ma se siete morente di sete, voi accetterete con riconoscenza una simile proposizione, perché allora il valore d’uso nella quantità d'acqua che vi si offre è molto più grande del valore d’uso dell’orologio». Se si guarda alle ragioni di scambio «la considerazione del lavoro incorporato nella merce» non interviene per niente: contano invece le necessità e le preferenze delle persone che scambiano. L’idea che ciascuno si fa sul “valore d'uso” che riuscirà a trarne.

La seconda critica riguarda un punto cruciale per entrambi, Pareto e Marx: lo sfruttamento. L’opera di Marx è un’elencazione dei capi d’accusa a carico del capitalismo, responsabile grosso modo di tutti i mali dell’umanità. E tuttavia al padre del comunismo non riesce di dimostrare che la sua alternativa ridurrebbe il grado di sfruttamento, rispetto alle società in cui poco o tanto sopravvive la libera concorrenza.

Assodato che di capitale per produrre “cose” vi sarà sempre bisogno, «sarà sempre necessario che qualche essere umano abbia a decidere a quale scopo, a preferenza d’altri, dovrà essere impiegato il capitale esistente». Quali fabbriche mantenere in funzione, quando cambiare i macchinari che vi si impiegano, se e dove aprire un nuovo stabilimento, sono decisioni che hanno un costo, chiunque lo debba sostenere.

Per Marx, lo Stato potrà prelevare dal lavoro dei cittadini quanto serve per garantire «la riproduzione semplice e progressiva del capitale senza intervento alcuno del cavaliere dalla trista figura chiamato capitalista». Ma basta eliminare il capitalista per eliminare lo sfruttamento? Secondo Pareto è improbabile che «l’estensione delle attribuzioni dello Stato guarisca il male invece di peggiorarlo».

L’autore dei Sistemi socialisti scopre in fretta il gioco di Marx: considerare la miseria il frutto esclusivo del sistema capitalista quando essa in realtà lo precede di qualche millennio.

Feroce nemico degli establishment del suo tempo, e per nulla tenero lui pure con la borghesia quando essa si fa scudo dello Stato, per Pareto lo sfruttamento è un fenomeno più generale, legato all’essenza della politica.

Sappiamo dalle lettere a Maffeo Pantaleoni che in questo testo, sul quale lavorò per un paio d’anni, voleva fosse chiaro «che combattendo i socialisti non intendo punto assumere la difesa di politicanti-economisti come il Salandra». Contro Marx, Pareto non difende né lo status quo né l’allineamento dei poteri pubblici con altri sistemi di pensiero. Riteneva fosse «insostenibile di prendersela coi socialisti perché vorrebbero mutare artificialmente la distribuzione della ricchezza, e poi accettare i mutamenti artificiali che a loro pro vogliono fare certi sedicenti economisti» (7 marzo 1893).

Logico implacabile, gli argomenti di Pareto, che già conosceva la Storia e critica delle teorie dell’interesse del capitale (1884) dell'austriaco Bohm-Bawerk, sono cogenti e cristallini.

Come sottolinea il curatore Michele Bonsarto, Pareto dichiara di voler «sceverare la verità dall’errore», sezionare le principali affermazioni marxiane, farne una critica la più puntuale possibile.

Spinto anche da Pantaleoni, che aveva dei dubbi sull’efficacia della prima stesura, il successore di Walras non voleva trattare «l’argomento con verve», con la stessa vis polemica di cui aveva dato prova nei suoi scritti più brevi, perché «il sarcasmo di Voltaire è tollerato solo da chi è già convinto».

Pareto s’era ben accorto che il libro che voleva confutare «è il vangelo di un numero ognora crescente di uomini». E non bastava pertanto sbrigarsela «con due parole dicendo: il ragionamento di Marx è falso», perché bisognava seminare dubbi fra fanatici: «Procurare in tutti i modi di aprire gli occhi a chi li ancora li ha chiusi e perciò non limitarsi a una dimostrazione, ma provarle tutte, per vedere quale è più persuasiva» (18 aprile 1893).

Buone intenzioni che, almeno coi contemporanei, valsero a poco. La Critica sociale lo sbertucciò come «marchese, ingegnere e professore, chiamato a Losanna a sbriciolare le sue teorie anarchico-borghesi al popolo svizzero».

Vedremo se coi posteri, grazie a questa meritoria edizione e alle lezioni della storia, Pareto avrà più fortuna.

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