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Autore Discussione: WALTER PASSERINI  (Letto 3514 volte)
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« inserito:: Gennaio 28, 2012, 06:22:21 pm »

28/1/2012

Il ruolo del sapere

WALTER PASSEERINI

Si sa quanto Mario Monti sia «sgombro da pregiudizi ideologici» e sia incline all’approfondimento come freno al decisionismo, ma il suo «orientamento a superare il simbolismo» del valore legale dei titoli di studio e della laurea nulla ha potuto, per ora.

L’avvio di un dibattito pubblico rischia però, se lasciato agli schieramenti politici, di finire nella tagliola della non-discussione ideologica e non può essere lasciato né nelle mani dei «dilettanti» né in quelle dei «professionisti», dei soli professori. Del resto persino Luigi Einaudi ci aveva provato, ma nemmeno lui era riuscito se non ad essere ricordato per quegli inutili tentativi. Tre sono le condizioni per un dibattito efficace. La prima è la presenza obbligata di un sistema di valutazione e di comparazione (benchmarking) sulle singole «fabbriche delle lauree». E questo è difficile in un Paese che sfugge alle classifiche e a un sistema trasparente di premi e punizioni, ostacolato da tutte le consorterie.

Senza una valutazione indipendente e degli standard sugli atenei e sui corsi di laurea non vi può essere valutazione e quindi merito. La seconda condizione è la dispersione universitaria avvenuta nella complicità e nel silenzio in questi ultimi dieci-quindici anni. Le università di provincia, di città e di sottoscala sono cresciute a dismisura, sulla spinta della proliferazione dei corsi di laurea, triennali e magistrali, che sono ancora oltre cinquemila. Senza un disboscamento selettivo e una dislocazione funzionale di didattica e ricerca (obbligatoria per chi si chiama università e non vuole essere una semplice scuoletta più o meno professionale), abolire il titolo legale è pura velleità.

La terza condizione è data dal mercato, nel bene e nel male. Nel bene, perché già oggi le imprese più attente non si fanno gabbare da roboanti titoli di laurea ottenuti, anche prima dei 28 anni, in modeste officine del sapere; nel male, perché nelle politiche di student branding si possono compiere veri misfatti, come quello di dare prestigio e attrattività a dei puri marchi, privi di sostanza e ricchi di immagine, o a pseudocriteri di produttività, basati sulla complicità tra corpo insegnante e corpo studentesco. Serve un dibattito alto sul ruolo e sul valore del sapere, in un Paese che sembra prediligere il successo dei furbi, anche se ignoranti, alla responsabilità dei competenti.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9703
« Ultima modifica: Agosto 26, 2012, 05:39:17 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 03, 2012, 09:54:35 am »

3/4/2012

La vera sfida è inventarsi un impiego

WALTER PASSERINI

L’ecatombe di posti di lavoro continua. Se non fosse un gioco cinico, non ci resta che scommettere quando la disoccupazione tra i 15 e i 24 anni supererà il 33% (è al 32,6% nel quarto trimestre 2011) e quando quella generale supererà il 10% (è al 9,6% alla fine del 2011).
Accadrà molto presto, perché il 2012 sarà l’anno peggiore dell’occupazione, dove verranno a convergere i posti perduti dai precari con quelli dell’esaurimento delle casse integrazione. Che fare, se non ci si vuole rassegnare alla sconfitta? Anziché litigare sui numeri (sono pochi, sono troppi), varrebbe la pena tentare un’agenda per un patto a favore dei giovani, un manifesto per l’intraprendenza.

Cinque le aree per un intervento efficace. La prima è quella della formazione e dell’orientamento. I ragazzi che dopo la maturità si iscrivono all’università rischiano di diventare vuoti a perdere. La casualità delle scelte non può essere addossata né ai giovani né ai loro genitori.

I «drop out» e i «neet» sono diventati un fenomeno sociologico, ma le colpe sono quelle della mancanza di un orientamento sia scolastico che di transizione, dalla scuola al lavoro.
La seconda area è l’inadeguatezza dei servizi all’impiego, pubblici e privati. Solo il 6% viene intercettato dagli intermediari professionali e il prevalere del tam-tam e del passaparola, impregnato di familismo e localismo, non riesce a intercettare i posti vacanti, che alcuni stimano in 500 mila. La terza area è quella delle retribuzioni e del sostegno al reddito. I giovani sono precari e sottopagati. Tutte le indagini lo confermano. Oltre al mancato incontro tra domanda e offerta, c’è anche lo spreco di risorse ad alto potenziale, passato dal «brain drain» al «brain waste», dalla fuga dei cervelli al disprezzo di quelli che restano. Il livello degli stipendi dei giovani talenti italiani è troppo basso. Far parte della Generazione mille euro è offensivo e penalizzante per lo stesso studio, per la formazione, che è sempre meno ascensore sociale e sempre più uno stigma da sfigati.

Il basso livello delle retribuzioni dei giovani si ripercuote, ed è la quarta area, sul futuro delle pensioni, su quella che viene chiamata la bomba previdenziale. Se oggi gli stipendi sono bassi, domani le pensioni dei giovani rischiano di essere un assegno di povertà e non ci sarà posto per il reddito minimo di cittadinanza.

Infine, ed è un asse imprescindibile, è necessario lanciare un piano per il lavoro autonomo e imprenditoriale dei giovani. È questa l’inversione di tendenza che dobbiamo compiere, la rivoluzione culturale che dobbiamo attuare. Il 97% del sistema delle imprese è di piccole e piccolissime dimensioni. Non possiamo illudere i nostri giovani che potranno avere un futuro da dipendenti, finché i posti saranno sempre più a lungo occupati dai loro padri.
Dobbiamo, possiamo invece lavorare, creando un tessuto culturale, di servizi, di finanziamenti, di sostegni che trasformino le nuove generazioni nei nuovi artigiani del futuro. Su questo vanno chiamati a raccolta i principali media, che concorrano alla formazione di una diversa cultura del lavoro, da dipendente a intraprendente. È necessario creare una nuova generazione di imprenditori, di lavoratori autonomi, di consulenti e di professionisti. Il lavoro sarà sempre più fare impresa. E lo slogan è quello del rettore di Harvard, nei panni di Larry Summers, che nel film «The social network» così strapazza gli atletici gemelli Winklevoss: «I migliori allievi di questa università non sono quelli che escono e trovano un lavoro, ma quelli che escono e un lavoro se lo inventano».

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9957
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 12, 2012, 05:06:45 pm »

11/7/2012

La riforma labirinto

WALTER PASSERINI

Ci voleva l’Ocse a riportarci coi piedi per terra e a capire quanto siamo lontani da un paese moderno

E non vale il detto mal comune mezzo gaudio: l’Italia è un’anomalia, e ha un numero di disoccupati fuori registro, soprattutto giovani e di lunga durata. La frattura del mercato del lavoro tra precari e tutelati ha prodotto guasti. Ma ora si aggira un nuovo dualismo tra mercato del lavoro reale e virtuale, che rischia di fare ancora più danni. L’esempio è la cosiddetta riforma del mercato del lavoro, che registra uno scarto tra i richiami dell’Ocse e la reale capacità di creare posti di lavoro. Approvata a fine giugno e ritoccata di nuovo con dieci emendamenti contrattati dalla maggioranza in modo bipartisan, la riforma ha avuto una gestazione di oltre cinque mesi, ma oggi viene criticata da tutti: partiti, sindacati, imprese, professioni. Ci vorrebbero la polizia scientifica o i carabinieri del Ris per fare la prova del dna e l’esame di paternità per capire di chi è figlia questa riforma: oggi sembra figlia di nessuno e nessuno, come è successo al piccolo Mario abbandonato alla clinica Mangiagalli, la vuole riconoscere assumendosene la paternità; né si vedono all’orizzonte domande di adozione. La riforma Fornero nel testo appena partorito e con le prossime integrazioni, nonostante i ripetuti sforzi del ministro del Lavoro, è lontana dalle premesse. Allora il ministro appena insediato parlava di ridurre le 47 formule contrattuali flessibili a favore di un contratto prevalente a tutele crescenti e di reddito minimo garantito. Il risultato è che le 47 formule sono rimaste tutte, anzi ne sono rimaste 46 (il contratto di inserimento è sparito), e molte sono state appesantite e ingessate. Sulla flessibilità in entrata sono aumentati i costi per collaboratori e partite Iva; sulla flessibilità in uscita la formulazione superblindata aumenterà il contenzioso; l’Aspi (assicurazione sociale per l’impiego), un piccolo barlume di politiche attive del lavoro, viene ridotta ma rinviata al 2014; i nuovi servizi all’impiego pubblici e privati, il fulcro delle nuove politiche attive del lavoro, vengono rimandati a novembre con una nuova delega e chissà quando vedranno la luce. Nel frattempo l’Ocse ci ricorda l’aumento della disoccupazione. Mette malinconia la concomitanza dei richiami Ocse sull’introduzione di politiche attive, molto di rito e virtuali, quando afferma che l’Italia è sulla strada giusta, senza dire quanto sarà ancora lunga prima di diventare un paese moderno e civilizzato, con il contestuale orgoglioso annuncio dei dieci emendamenti alla riforma contrattati dai partiti: un topolino rispetto alla montagna di senza lavoro. Quello che abbiamo visto in questi mesi, dopo una riforma delle pensioni approvata in venti giorni e alla quale avrebbe dovuto immediatamente seguire la riforma del lavoro, è l’affievolirsi della spinta riformatrice del governo tecnico e il suo rivelarsi, nonostante i molti riconoscimenti internazionali, ostaggio di una vecchia politica che ci stava portando nel baratro. E la sua metafora è la riforma del lavoro, figlia dei partiti prima ancora che del Parlamento, frutto di compromessi al ribasso e di veti incrociati, anziché di un disegno riformatore. Il puzzle del lavoro si sta completando, ciascuno ha aggiunto tessere al mosaico, ma il disegno è confuso e ha prodotto un labirinto. Non sappiamo quando arriverà il decreto sviluppo, altro tassello mancante, ma l’aria che si respira è quella di una vecchia politica che vuole tornare padrona. Anche su questo si gioca il successo del governo dei tecnici: incidere nella realtà malata, anche con rischi di cure da cavallo e con strascichi di iniquità sociale, prima che la politica, che non ha né facce né idee nuove, riprenda il sopravvento. Sembra di rileggere Agatha Christie nei «Dieci piccoli indiani» o in «Assassinio sull’Orient Express»: molti sono i colpevoli del misfatto, ma nessuno si dichiara responsabile. Non paghi dei guasti arrecati in passato ciascuno ha voluto fare la voce grossa e marchiare l’ultima stesura della riforma, indifferente al risultato ma per raggiungere un obiettivo: esserci nel teatrino della politica mediatica e virtuale, non importa come, ed essere subito pronto a rimarcare la distanza e a sparare a zero sul prodotto che si è appena contribuito a partorire.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10318
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« Risposta #3 inserito:: Luglio 25, 2012, 05:03:53 pm »

24/7/2012

E' presto per il funerale del posto fisso

WALTER PASSERINI

E’ presto per decretare il de profundis del posto fisso, anche se molti ne cantano il requiem da tempo. Le apparenze possono ingannare ma il posto fisso è vivo, ha qualche acciacco, ma non è affatto morto. I media hanno lanciato l’allarme, ma se guardiamo con attenzione i dati Unioncamere pubblicati ieri e strillati da radio e tv (dicono che solo un’assunzione su cinque è a posto fisso, il resto è precarietà), ci accorgiamo che non si tratta di dati a consuntivo ma di attese: nel terzo trimestre 2012, luglio, agosto e settembre prossimi, le imprese prevedono di assumere soprattutto con contratti a tempo determinato e flessibili. Si tratta del periodo in cui trionfa il lavoro stagionale e in cui, ci auguriamo, grazie al turismo, molti troveranno un po’ di lavoro. Le aspettative però sono intenzioni, non dati di fatto, importanti indicatori ma percezioni che possono cambiare.

La seconda osservazione è che, così come non si deve fare confusione tra lavoro e posto, altrettanto, insegnano gli economisti, non bisogna confondere lo stock con i flussi. Il rapporto tra lavoro fisso e lavoro flessibile nel nostro paese, che come sappiamo non brilla nel monitoraggio dei fenomeni e del mercato del lavoro, è oggi stimato, secondo una sorta di ferrea legge di Pareto, in 80 a 20: vuol dire che i contratti a tempo indeterminato complessivamente sono la stragrande maggioranza dei contratti di chi è al lavoro (80%), mentre lo stock di contratti flessibili e precari è al 20%.

Se lo stock rappresenta il magazzino del lavoro, il flusso ne fotografa le tendenze. E’ quindi vero che i contratti a termine nelle diverse forme sono in aumento, ma la struttura dell’occupazione italiana è molto più solida e stabile delle percezioni e dei flussi. Il posto fisso, in realtà il lavoro fisso, è vivo e vivrà, anche perché le imprese conoscono bene le soglie di flessibilità, oltre le quali non hanno interesse ad andare. Il campione Unioncamere è poi rappresentato da 60 mila imprese private di industria e servizi, in maggioranza sopra i 50 dipendenti, mentre noi sappiamo che numerose assunzioni avvengono in aziende sotto i 10-15 dipendenti: le imprese sondate sotto i 49 dipendenti sono il 3,9% del campione.

Leggendo con attenzione la qualità dei dati ci accorgiamo di altri fenomeni in chiaroscuro: cresce la richiesta di personale high skills e a elevato titolo di studio, cala la richiesta di generici, segno di una mutazione professionale in corso; ma nello stesso tempo persiste la difficoltà di reperimento di molte figure professionali soprattutto tecniche: se la media è il 15%, per alcune figure la difficoltà di trovarne il profilo supera il 35% (operai specializzati, operai provetti metalmeccanici), con punte per specialisti della salute (46%), tecnici informatici e della produzione (47%), tecnici di marketing e logistici (61,2%), specialisti in gestione d’impresa (64,5%). Un terzo delle entrate previste infine riguarda i giovani sotto i 29 anni, mentre cresce di tre punti la previsione di assunzione di donne (una su quattro è rosa).

Restano sullo sfondo le inadeguatezze della formazione, che non forma chi viene richiesto dal mercato, e della rete dei servizi all’impiego (chi ha un posto se lo tiene stretto perché perdendolo teme di non essere aiutato a trovarne un altro): il diritto al lavoro sarà sempre più diritto ai servizi per il lavoro. Mentre persiste il paradosso e lo stigma della somministrazione: quella a tempo indeterminato (chiamata spregiativamente staff leasing) viene ferocemente osteggiata; eppure, in questo caso, il lavoro sarebbe fisso e il posto mobile.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10365
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« Risposta #4 inserito:: Settembre 04, 2012, 10:37:15 am »

1/9/2012

Il capitale umano va ricostruito

WALTER PASSERINI

La ricreazione è finita, siamo in piena emergenza. Insieme ai temporali che annunciano la fine dell’estate, i dati dell’Istat ci riportano alla realtà del lavoro. Mentre l’agenzia di rating Moody’s preannuncia un calo del Pil italiano del 2% nel 2012 e un dato negativo anche nel 2013, i numeri Istat sulla disoccupazione rivelano una crisi senza ritorno e l’impietosa distanza tra la situazione reale e le proposte della politica.

Mentre i partiti guerreggiano sulla riforma elettorale, la realtà scatta una fotografia che ricorda i reportage del grande Sebastiao Salgado: oltre 2,7 milioni di disoccupati con un tasso che sconfinerà presto oltre l’11%; quasi 800mila posti persi in un anno; un tasso di disoccupazione dei giovani oltre il 35%; 2,5 milioni di lavoratori a termine; oltre 500mila part timer involontari. Se a questi aggiungiamo i lavoratori attualmente coinvolti nelle crisi e in cassa integrazione (500mila), i collaboratori (500mila) e gli scoraggiati e rassegnati, arriviamo a un esercito di 8 milioni di persone tra senza lavoro e precari, un popolo a forte e drammatico disagio occupazionale.

Mentre la politica autoreferenziata si trastulla per sopravvivere, i giornali e le televisioni ci offrono le metafore della crisi di un sistema economico: gli operai dell’acciaio, quelli del carbone e dell’alluminio. Metallurgici e minatori in carne ed ossa ci riportano ogni giorno alla realtà. Per la politica l’occupazione non è una priorità, mentre i cittadini sanno che è la vera emergenza, che sta frantumando la coesione sociale e psicologica e alimentando un disastro antropologico i cui costi sono tutti da quantificare. I costi della disoccupazione sull’economia sono invece chiari: per ogni punto di senza lavoro calano la ricchezza e il prodotto interno lordo e aumenta il debito pubblico. La disoccupazione crea povertà ai singoli ma anche a tutto il sistema. Ogni senza lavoro è un consumatore mancato, con un effetto domino pesante nel ciclo dell’economia. La stessa riforma del lavoro entrata in vigore il 18 luglio, di fronte a un quadro in rapido peggioramento, non riesce ancora a dispiegare i suoi effetti e a contrastare una situazione fuori controllo. Ci vorrebbe un patto per la produttività, per lo sviluppo, ma soprattutto per il lavoro, con una doppia strategia, una per il medio e lungo termine e una per l’immediato, qui ed ora. E’ sbagliato, come politici e classi dirigenti spesso fanno, aspettarsi la soluzione dalla realtà.

Molti pensano che la domanda riprenderà quando l’economia si rimetterà in moto, in un gioco tautologico ed illogico che non frena la crisi. Non è il caso di dividersi tra keynesiani e liberisti, un dibattito vecchio e stucchevole, ma oggi, qui ed ora, è urgente varare una strategia per l’emergenza occupazionale, che coinvolga governo, imprese e parti sociali, sul breve e non solo sul lungo termine (quando, come diceva Keynes, saremo tutti morti). E’ necessario iniziare a ricostruire il capitale umano necessario al nuovo sviluppo e a un nuovo modello economico e sociale. Si tratta di investimenti che hanno efficacia nel tempo. Le divisioni sull’articolo 18 diventano risibili di fronte alla catastrofe, così come la guerra tra precarietà e flessibilità acquista contorni più concreti.

Urge una riforma immediata degli ammortizzatori sociali, un suo avvio anticipato, e soprattutto serve una riforma dei servizi all’impiego, pubblici e privati, che assistono impotenti alla valanga dei senza lavoro. I media devono cercare più di costruire che solo denunciare, devono favorire un clima di cooperazione solidale. La priorità in questo momento è creare nuovi posti di lavoro, anche a costo di un nuovo intervento statale, su progetti e opere pubbliche, oltre che private. E vanno offerti in misura massiccia incentivi e contributi alle imprese che assumono personale. Senza un po’ di ossigeno alle imprese, un volano ai consumi e la riduzione dei senza lavoro l’economia non riparte. Così moriremo liberisti, ma con il dubbio di troppi rimpianti keynesiani.

www.lastampa.it/lavoriincorso

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10479
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