24/1/2012
Dal sussidio alla sicurezza sociale
PAOLO BARONI
Come per le liberalizzazioni si tratta di rompere un tabù. Il problema non è tanto cancellare o meno l’articolo 18, ma dare un segnale all’Europa, ai nostri partner, all’opinione pubblica internazionale, agli analisti, agli osservatori, agli investitori internazionali come ai mercati: far capire insomma proprio a tutti che l’Italia ha intrapreso un nuovo cammino. Di modernità.
L’esperienza di questi giorni, del resto, sta pagando. La manovra lacrime e sangue contenuta nel decreto Salva-Italia di dicembre non aveva emozionato più di tanto i mercati. Al contrario il pacchetto delle liberalizzazioni «a 360 gradi», con l’affondo sulle professioni, su benzinai, farmacisti e distribuzione del gas e tanto altro ancora, ha fatto sì che in pochi giorni il famigerato spread, il termometro della fiducia di cui gode l’Italia sui mercati, sia tornato a quota 400 recuperando un centinaio di punti in pochi giorni.
Sul lavoro il governo vuol fare il bis. Stringendo i tempi delle decisioni «30-40 giorni al massimo» per definire i punti della riforma, per fissare alcuni principi cardine che verrebbero inseriti in una apposita legge delega. Decisioni rapide e poi tempi più lunghi per emanare i singoli provvedimenti, per avere a disposizione tutto il tempo necessario a fare le cose per bene.
Il terreno sul quale il governo ha deciso di incamminarsi, ovvero le riforma dei contratti e degli ammortizzatori, però non solo è scosceso e pure franoso, ma è anche ricco di insidie. Ne sa qualcosa il ministro del Lavoro Fornero che ieri per illustrare le sue idee si è presentata a palazzo Chigi con un testo scritto, per calibrare aggettivi e dosare le parole. Tanta attenzione non è servita a passare però indenne il primo step del confronto con le parti sociali: i «tavoli telematici», ovvero la possibilità di scambiarsi i testi via mail per accelerare i tempi e superare il vetusto cerimoniale dei tavoli, sono stati subito bocciati (perché «serve una trattativa vera»), per non parlare poi dell’idea di mettere mano non solo ai contratti (oggi sono 42, decisamente troppi, e soprattutto troppo interpretabili a piacere), ma anche alla cassa integrazione.
Visto che di soldi in cassa non ce n’è, l’idea del ministro del Lavoro è quella di rivedere l’attuale struttura degli ammortizzatori sociali, restringendo l’attuale perimetro alla sola cassa ordinaria (magari limitata a 52 settimane), finalizzandola esclusivamente al rientro al lavoro. Tutto il resto via: via la cassintegrazione straordinaria, che oggi viene concessa per stati di crisi e ristrutturazioni, via soprattutto la cassa in deroga e tutto quell’insieme di strumenti che negli ultimi 6 anni (stime Uil) ci sono sì servite a «proteggere» in media 4 milioni di lavoratori all’anno, ma sono costate all’Inps, alle imprese (che versano una quota molto importante di contributi a questo scopo) e allo Stato qualcosa come 80 miliardi di euro. E via pure la possibilità, che spesso si verifica per ovvie ragioni di necessità, di cumulare assegno di cassintegrazione e lavoro in nero.
Cancellato tutto? Niente affatto. Si tratta però di far compiere al Paese, lavoratori, sindacati e imprese, un salto culturale passando da un sussidio tout-court, spesso elargito per mesi e mesi ad aziende decotte (oggi un operaio può percepire un sussidio per tre anni su 5 senza mai mettere piedi in fabbrica), senza più spazi di mercato (come definire altrimenti una impresa che arrivare alla cassa in deroga dopo un anno di cassa ordinaria e due di straordinaria?), a un modello di sicurezza sociale di tipo europeo. Che sostiene sì il reddito delle persone, magari ancor meglio dell’attuale cig, ma facendo leva su meccanismi che consentono ad un lavoratore espulso dal ciclo produttivo di seguire dei corsi, riqualificarsi e tornare rapidamente al lavoro mantenendo un robusto sussidio al reddito a qualsiasi età. Ma anche perdere il sussidio nel momento in cui si rifiuta una nuova occupazione.
Non sparirebbero insomma gli effetti della cassintegrazione (che però le imprese dovrebbero pagare direttamente, mentre ora contribuiscono al fondo dell’Inps) ma le risorse che questa assorbe potrebbero venire utilizzate in maniera più proficua a cominciare dall’introduzione di un reddito minimo garantito valido per tutti. Per accompagnare una riforma del genere, ovviamente i contratti dovrebbero essere modificati in maniera tale da accompagnare l’intera vita del lavoratore: dall’ingresso in fabbrica in maniera più o meno flessibile attraverso una sorta di contratto unico (durata 3 anni, con tutele progressive), alla gestione delle situazioni di crisi, all’uscita più o meno incentivata, arrivando anche a ipotizzare di poter cumulare a fine carriera lavoro part-time ed un pezzo di pensione. Una soluzione che, ad esempio, calza a pennello per figure come gli insegnanti o chi opera nel commercio.
Di conseguenza anche i servizi all’impiego andrebbero riconvertiti in funzione della nuova mission. Ed il tutto dovrebbe essere riassunto nelle sue linee guida in una legge delega da approvare rapidamente. Mettendo anche in conto che i decreti attuativi potrebbe essere poi emanati da questo governo come da quello successivo. L’importante è lasciare il segno, far vedere che l’Italia ha cambiato davvero strada. Ed incassare subito il dividendo.
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