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Autore Discussione: PAOLO BARONI. Chi vince, chi perde  (Letto 2776 volte)
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« inserito:: Gennaio 21, 2012, 11:00:22 pm »

21/1/2012

Chi vince, chi perde

PAOLO BARONI

Chi vince e chi perde la partita delle liberalizzazioni? Un po’ tutti (ma non tutti): se ha un senso intervenire su privilegi e corporazioni per alleggerire i pesi ch impediscono al Paese di spiccare il volo è bene che sia i «piccoli» sia i «grandi» rinuncino ad uno spicchio dei loro privilegi. Se ogni categoria, lobby o potentato accetta di fare anche un solo passo indietro l’intera collettività può avere grandi benefici.

Le famiglie certamente avranno dei vantaggi,ma più sul fronte dei servizi che su quello dei prezzi (ieriun cartello di associazioni di consumatori stimava infatti che rispetto alle prime ipotesi di decreto il risparmio annuo sarà di 465 euro anziché di 900). Le imprese, non portano a casa i rimborsi dei crediti della pubblicaamministrazione attraverso i Btp ma ottengono l’istituzione di un Tribunale ad hoc per sbrigare le loro vicende (dalle cause tra soci alla class action alle truffe sui marchi) ed una bella sventagliata di semplificazioni. Chi opera nell’edilizia beneficerà di minori tasse e minor burocrazia. Senz’altro tutte le imprese avranno vantaggi dall’abolizione delle tariffe minime e massime dei professionisti, che certamente in quanto lobby perdono qualcosa. I notai limitano un po’ i danni: saranno 500 in più e non 2000 come sembrava a metà giornata.

I benzinai ottengono la fine dei contratti di esclusiva con le compagnie, la possibilità di vendere anche prodottinon oil e self service senza limiti fuori dai centri abitati. I petrolieri devono fare un passo indietro ma arginano le perdite e alla fin fine nonè per niente detto che gli automobilisti risparmieranno davvero qualcosa sul costo del pieno. Forse, in un futuro prossimo venturo costerà di meno il gas, una volta che Snam, la rete gas e tutto il resto, verranno staccate dall’Eni.

Il «Cane a sei zampe» non si oppone a questo intervento, unica lobby di Stato a non opporre resistenza al contrario delle Ferrovie, che hanno fatto muro facendo sparire dal tavolo la separazione delle rete gestita dalla loro Rfi. Ma la questione non è archiviata: se ne dovrà occupare la nuova Authority che vigilerà su tutte le infrastrutture e di trasporti.

Per i commercianti sfuma la possibilità di fare saldi e promozioni senza limiti, ma resta in piedi l’odiatissima liberalizzazione degli orari. Nel braccio di ferro tra farmacisti e parafarmacisti, di certo perdono i farmacisti visto che il loro numero aumenterà di 5000 unità. Conservano però l’esclusiva sui farmaci di fascia C e non avranno più vincoli su turni e orari. Misure che tutte assieme certamente danneggiano le parafarmacie. Che ora si uniscono al coro di chi protesta.

E i taxisti? Le loro norme ieri sono state tra le più discusse nel corso della maratona del consiglio dei ministri: la gestione delle loro licenze è passata più volte dai sindaci all’Authority sui trasporti. E alla fine è rimasta in piedi questa soluzione sgradita ai tassisti. Che però ottengono la possibilità di ricevere indennizzi una tantum qualora le loro licenze perdessero di valore ed il divieto di poter cumulare più licenze. Di contro arrivano le licenze part-time ma anche la possibilità di lavorare in più comuni.

Potrebbero vincere i giovani, se davvero le misure di apertura delle professioni, per la creazione delle nuove imprese e di stimolo di nuovi settori prenderanno presto forma. L’idea di poter costituire una società spendendo appena un euro è un bel colpo d’ala, se diventerà rapidamente una possibilità reale sarà certamente un aiuto importante per abbattere uno dei livelli di disoccupazione più alti d’Europa.

Un po’ vince anche l’ambiente, perché son sparite le norme che rendevano più facili le trivellazioni.

In generale vince il Paese, a patto però che le misure decise ieri vadano avanti spedite e, soprattutto, a condizione che il Parlamento non le annacqui come è accaduto in passato.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9673
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 25, 2012, 10:02:35 am »

24/1/2012

Dal sussidio alla sicurezza sociale

PAOLO BARONI

Come per le liberalizzazioni si tratta di rompere un tabù. Il problema non è tanto cancellare o meno l’articolo 18, ma dare un segnale all’Europa, ai nostri partner, all’opinione pubblica internazionale, agli analisti, agli osservatori, agli investitori internazionali come ai mercati: far capire insomma proprio a tutti che l’Italia ha intrapreso un nuovo cammino. Di modernità.

L’esperienza di questi giorni, del resto, sta pagando. La manovra lacrime e sangue contenuta nel decreto Salva-Italia di dicembre non aveva emozionato più di tanto i mercati. Al contrario il pacchetto delle liberalizzazioni «a 360 gradi», con l’affondo sulle professioni, su benzinai, farmacisti e distribuzione del gas e tanto altro ancora, ha fatto sì che in pochi giorni il famigerato spread, il termometro della fiducia di cui gode l’Italia sui mercati, sia tornato a quota 400 recuperando un centinaio di punti in pochi giorni.

Sul lavoro il governo vuol fare il bis. Stringendo i tempi delle decisioni «30-40 giorni al massimo» per definire i punti della riforma, per fissare alcuni principi cardine che verrebbero inseriti in una apposita legge delega. Decisioni rapide e poi tempi più lunghi per emanare i singoli provvedimenti, per avere a disposizione tutto il tempo necessario a fare le cose per bene.

Il terreno sul quale il governo ha deciso di incamminarsi, ovvero le riforma dei contratti e degli ammortizzatori, però non solo è scosceso e pure franoso, ma è anche ricco di insidie. Ne sa qualcosa il ministro del Lavoro Fornero che ieri per illustrare le sue idee si è presentata a palazzo Chigi con un testo scritto, per calibrare aggettivi e dosare le parole. Tanta attenzione non è servita a passare però indenne il primo step del confronto con le parti sociali: i «tavoli telematici», ovvero la possibilità di scambiarsi i testi via mail per accelerare i tempi e superare il vetusto cerimoniale dei tavoli, sono stati subito bocciati (perché «serve una trattativa vera»), per non parlare poi dell’idea di mettere mano non solo ai contratti (oggi sono 42, decisamente troppi, e soprattutto troppo interpretabili a piacere), ma anche alla cassa integrazione.

Visto che di soldi in cassa non ce n’è, l’idea del ministro del Lavoro è quella di rivedere l’attuale struttura degli ammortizzatori sociali, restringendo l’attuale perimetro alla sola cassa ordinaria (magari limitata a 52 settimane), finalizzandola esclusivamente al rientro al lavoro. Tutto il resto via: via la cassintegrazione straordinaria, che oggi viene concessa per stati di crisi e ristrutturazioni, via soprattutto la cassa in deroga e tutto quell’insieme di strumenti che negli ultimi 6 anni (stime Uil) ci sono sì servite a «proteggere» in media 4 milioni di lavoratori all’anno, ma sono costate all’Inps, alle imprese (che versano una quota molto importante di contributi a questo scopo) e allo Stato qualcosa come 80 miliardi di euro. E via pure la possibilità, che spesso si verifica per ovvie ragioni di necessità, di cumulare assegno di cassintegrazione e lavoro in nero.

Cancellato tutto? Niente affatto. Si tratta però di far compiere al Paese, lavoratori, sindacati e imprese, un salto culturale passando da un sussidio tout-court, spesso elargito per mesi e mesi ad aziende decotte (oggi un operaio può percepire un sussidio per tre anni su 5 senza mai mettere piedi in fabbrica), senza più spazi di mercato (come definire altrimenti una impresa che arrivare alla cassa in deroga dopo un anno di cassa ordinaria e due di straordinaria?), a un modello di sicurezza sociale di tipo europeo. Che sostiene sì il reddito delle persone, magari ancor meglio dell’attuale cig, ma facendo leva su meccanismi che consentono ad un lavoratore espulso dal ciclo produttivo di seguire dei corsi, riqualificarsi e tornare rapidamente al lavoro mantenendo un robusto sussidio al reddito a qualsiasi età. Ma anche perdere il sussidio nel momento in cui si rifiuta una nuova occupazione.

Non sparirebbero insomma gli effetti della cassintegrazione (che però le imprese dovrebbero pagare direttamente, mentre ora contribuiscono al fondo dell’Inps) ma le risorse che questa assorbe potrebbero venire utilizzate in maniera più proficua a cominciare dall’introduzione di un reddito minimo garantito valido per tutti. Per accompagnare una riforma del genere, ovviamente i contratti dovrebbero essere modificati in maniera tale da accompagnare l’intera vita del lavoratore: dall’ingresso in fabbrica in maniera più o meno flessibile attraverso una sorta di contratto unico (durata 3 anni, con tutele progressive), alla gestione delle situazioni di crisi, all’uscita più o meno incentivata, arrivando anche a ipotizzare di poter cumulare a fine carriera lavoro part-time ed un pezzo di pensione. Una soluzione che, ad esempio, calza a pennello per figure come gli insegnanti o chi opera nel commercio.

Di conseguenza anche i servizi all’impiego andrebbero riconvertiti in funzione della nuova mission. Ed il tutto dovrebbe essere riassunto nelle sue linee guida in una legge delega da approvare rapidamente. Mettendo anche in conto che i decreti attuativi potrebbe essere poi emanati da questo governo come da quello successivo. L’importante è lasciare il segno, far vedere che l’Italia ha cambiato davvero strada. Ed incassare subito il dividendo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9686
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