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Autore Discussione: Adriana CERRETELLI  (Letto 21387 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Aprile 23, 2015, 11:08:28 am »

Se la fine di Atene è la fine dell’euro

Di Adriana Cerretelli 23 Aprile 2015

Prima, a distrarre l’attenzione generale, era la crisi russo-ucraina all’apice della sua violenza. Ora è la crisi dell’immigrazione incontrollata che si rovescia sulle coste europee. Nessuno contesta gravità e pericoli di entrambe per la futura stabilità dell’Europa. Piano piano e senza fracasso, però, la terza crisi del momento, quella greca, potenzialmente la più devastante nell’immediato, scivola verso l’abisso.

Ormai a Bruxelles e dintorni se ne parla come di un fatto acquisito, una strada senza uscita. «Il quadro giuridico non permette di soccorrere la Grecia» afferma un negoziatore. Forse che c’era, quel quadro, ai tempi dei precedenti salvataggi di Atene? I Trattati Ue li vietavano. Eppure alla fine il Fondo salva-Stati fu fatto e la Bce si mosse per soffocare l’incendio speculativo che divorava l’euro.

Oggi si respira rassegnazione. Come se volesse dissociarsi da una decisione che, se ci sarà, sarà tutta e soltanto sua, l’Europa si mette in lutto preventivo. Aspettando il peggio, i funerali di Atene. «I greci non sono seri, il governo Tsipras non offre niente di concreto. Impossibile aiutarli», si insiste. Ma proprio lunedì il governo ha approvato il decreto per rastrellare fondi dalle casse di comuni ed enti locali, più di 1,5 miliardi, per pagare stipendi, pensioni e creditori. Si fa così anche in Olanda, l’avrebbero rassicurato i “mentori” Ue. Ma la Grecia è in piazza per gridare di nuovo «basta austerità».
 
Basta? La vulgata vuole che il Paese abbia incassato gli aiuti senza pagarne lo scotto. Le cifre smentiscono tra il 2008 e il 2013 il Pil greco è sceso del 27%, la spesa pubblica reale del 35%, i disoccupati sono arrivati al 28%. Il deficit strutturale è calato del 20% del Pil tra 2009 e 2014, il bilancio primario del 12%, come il disavanzo dei conti correnti. Sforzo irrilevante? Ancora insufficiente? Tutto positivo, visto il raddoppio del debito malgrado la parziale ristrutturazione?

Altro leitmotiv. Non si possono fare sconti alla Grecia che non collabora: sarebbe un regalo ai partiti populisti e uno schiaffo ai governi dei sacrifici.

Allora perché la Francia è stata appena risparmiata da una multa da circa 4 miliardi che avrebbe dovuto pagare per non aver rispettato il tetto del 3% di deficit negli ultimi otto anni, gli stessi del calvario greco? Nonostante la grazia ricevuta, Parigi ora rifiuta di fare i tagli strutturali richiesti, li riduce quasi a metà «per non compromettere la ripresa». In questo caso nessuno insorge né richiama l’intangibilità delle regole Ue, i patti da rispettare.

Come si fa a chiudere gli occhi davanti a un Paese grande ricco e arrogante e a infierire su uno povero e allo stremo anche per l’eccesso di sacrifici che gli è stato imposto? Come si giustifica la Caienna delle regole per alcuni e la flessibilità per altri?

La Grecia è testardamente indisciplinata, si ripete. La Francia no? Eppure continua a godere di spread e tassi “tedeschi” che non merita. Sì, ma se crolla la Francia crollano l’euro e l’Europa, se cade la Grecia non succederà quasi niente, Grecia esclusa. Questa l'ultima verità rivelata ma niente lo prova. Al contrario. Dopo 13 anni di vita, la gracilità politica e di consensi dell’euro potrebbe riservare pessime sorprese a democrazie in balia dei sondaggi quotidiani, prive di cultura e sensibilità europee, guidate da leader nazionali incapaci di guardare oltre gli ostacoli, se non fa loro comodo. Ampiamente dotati però del coraggio dell’irresponsabilità collegiale.

A loro difesa sventolano l’alibi dell’irresponsabilità della Grecia insolvente. La Grecia, 2% del Pil dell’euro e 3% del debito, non è mai stata un mostro di virtù pubbliche. Lo si sa da sempre. Come si sa che è stata salvata per salvare gli investimenti delle banche tedesche e francesi. Come si sa che, rigore o no, non potrà ripagare i debiti. Se abbandonata al suo destino, affonderà dunque nel marasma più nero. Ma prima o poi, complice l’interdipendenza, quell’atto di incoscienza collettiva ricadrà su euro ed Europa. Non sarebbe meglio una sana Realpolitik, meno costosa per tutti?

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-04-23/se-fine-atene-e-fine-dell-euro-071419.shtml?uuid=ABj4s2TD
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« Risposta #16 inserito:: Aprile 23, 2015, 05:22:47 pm »

L’Europa del cinismo

Di Adriana Cerretelli
Martedì 21 Aprile 2015

Nonostante ami proclamarsi campione mondiale della difesa dei diritti umani e si fregi con orgoglio del premio Nobel per la pace, l’Europa non è facile alla compassione. Ancora meno alla solidarietà. Quando nell’estate del 2013 il siriano Bashar Assad rovesciò armi chimiche sui propri civili presunti ribelli, rumoreggiò immediato lo sdegno ma poi i Governi Ue preferirono voltare la testa. L’anno scorso nel Mediterraneo sono morti 3.200 emigranti senza sortire reazioni degne di nota in fatto di concrete azioni comuni.

Con buona pace di allarmi, proteste e sollecitazioni italiane.
Il 2015 però è cominciato con due violenti pugni nello stomaco all’Europa dell’indifferenza e dell’inazione. Prima a Parigi l’attacco del terrorismo islamico alla sede di Charlie Hebdo: 12 morti, una grandiosa manifestazione che ha raccolto 2 milioni di persone sugli Champs Elysées e poi un vertice Ue fatto di tanti buoni propositi e promesse di maggiore cooperazione intra-Ue. Si vedrà.

Ora l’annegamento in un solo week-end di 900 emigranti davanti alle coste libiche, 1.800 dall’inizio dell’anno. A fronte di 24mila arrivi e 10mila salvataggi riusciti. «È in gioco la reputazione dell’Europa. Non si può avere un’emergenza europea e una risposta solo italiana», avverte da Lussemburgo il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, ricordando che dei 278mila irregolari residenti attualmente nella Ue, 171mila sono entrati dall’Italia.

Dopodomani a Bruxelles si terrà, come chiesto dall’Italia, un vertice straordinario sull’immigrazione dei 28 leader Ue. Di nuovo tante promesse e pochi fatti? Forse no. Questa volta, pare, l’Europa s’è desta davvero. Schiacciata dalla forza di numeri e di interessi che sembrano far breccia nel suo coriaceo cinismo.

Dopo aver pubblicamente “criminalizzato” Mare Nostrum per attivismo nei salvataggi, equiparato a un invito a delinquere per i trafficanti di esseri umani, ora la Germania e i suoi alleati del Nord e dell’Est fanno marcia indietro. Riconoscono che, all’evidenza, la fine della costosa operazione italiana, cui è subentrata in novembre l’europea Triton in formato ridotto e bilancio pari a un terzo, ha reso più incerti i controlli della frontiera mediterranea.

Dunque si parla di raddoppiarne i fondi. Si pensa a una più equa distribuzione degli immigrati che richiedono asilo insieme alla creazione di campi ad hoc in Medio Oriente e NordAfrica per evitarne viaggi suicidi. Si discute su come affrontare il teorema impossibile del crocevia libico.

Finalmente, insomma, saremmo a una svolta epocale, con l’instabilità del Mediterraneo destinata a diventare quello che è: un problema di tutti e non di pochi. Anche perché, con un reddito medio pro capite 30 volte superiore a quello della maggioranza dei Paesi africani, cioè con un divario 10 volte più grande di quello che divide Stati Uniti e Messico, l’Europa resta e resterà una calamita irresistibile per i più poveri.

In attesa di decisioni concrete, il condizionale è d’obbligo. La pressione migratoria è enorme e destinata a salire tra guerre, caos e terrorismo che infiammano il bacino mediterraneo e oltre. Ma almeno altrettanto condizionante – e paralizzante - per i Governi è la pressione anti-immigrazione, non importa se legale o no, che scuote tutti i paesi da Nord a Sud, Svezia, Finlandia, Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia, rafforzando i partiti populisti e euroscettici.

Il che non aiuta né maggiori investimenti nella stabilità del Mediterraneo né la spartizione degli immigrati magari per quote, tanto più quando è impossibile prevederne i flussi ma poi è perfettamente lecita, una volta accolti, la loro libera circolazione nell’Unione. Lo stesso vale per la Libia: intervento militare escluso ma alternative nebulose.

All’Europa non basta, dunque, aver capito che la normalizzazione del Mediterraneo è un interesse primario che non può più ignorare. Resta il grande punto interrogativo sui tempi e modi per arrivarci con l’approccio comune che serve.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-04-21/l-europa-cinismo-072606.shtml?uuid=ABVyLrSD
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« Risposta #17 inserito:: Luglio 12, 2015, 04:53:38 pm »

L’Europa eviti il suicidio collettivo

Di Adriana Cerretelli
Lunedì 06 Luglio 2015

Molto più che la vittoria netta di Alexis Tsipras è la sconfitta bruciante e clamorosa dell’Europa e dell’eurozona. Uno shock che alla lunga potrebbe avere conseguenze ancora più devastanti di quello che, esattamente dieci anni fa, vide a sorpresa Francia e Olanda bocciare per referendum il progetto di Costituzione europea e di lì scattare la silenziosa ma inarrestata involuzione intergovernativa dell’Unione.

Guerra psicologica e aperte intimidazioni da Bruxelles e dintorni paradossalmente non sono bastate ad addomesticare un popolo, quello greco, furiosamente filo-europeista e filo-euro (80%) ma prostrato da un durissimo quinquennio di austerità. Che, nelle intenzioni dei creditori, dovrebbe continuare ancora a lungo ma senza, almeno finora, nessun sollievo sul fronte di un debito ritenuto da tutti insostenibile.

Il 61% dei greci ieri ha detto no al rigore senza remissione. Ma non ha detto no all’euro e men che meno all’Europa.

Sono gli europei che fin dal principio hanno forzato un’equazione inesistente, non prevista dai Trattati ma accarezzata con convinzione da chi, e sono molti, considera la Grecia e il suo risanamento una partita persa, il governo attuale semplicemente insopportabile, le sue richieste inaccettabili perché ne scatenerebbero subito altre, e per questo vede Grexit come la liberazione: indolore politicamente perché Tsipras ora l’avrebbe, sostengono, servita su un piatto d’argento e finanziariamente perché l’avvenuto rafforzamento della governance dell’euro combinato con l’arsenale di misure della Bce ne consentirebbe la salvaguardia senza costi né traumi eccessivi. Anzi, divorzio prezioso per fare la moneta unica più forte e coesa.

Illusioni. Mai in passato le secessioni dalle politiche comuni (difesa, immigrazione, giustizia, sociale, moneta), pretese da Irlanda, Gran Bretagna, Danimarca, Svezia tanto per citare qualche nome, ne hanno corroborato il successo. Al contrario, nella migliore delle ipotesi, ne hanno complicato l’attuazione e danneggiato l’efficacia.

Integrità e irreversibilità fanno parte del Dna dell'euro. Che non contempla espulsioni, più o meno ben mascherate. Per questo Grexit equivarrebbe a un suicidio collettivo. Presto, forse già oggi, potrebbe rivelarsi incontrollabile il ballo delle Borse e degli spread sui mercati. E i primi a soffrirne potrebbero essere i Paesi più deboli come Portogallo, Spagna e Italia, come sempre a vantaggio dei più forti.

Questa volta gli investitori potrebbero però mostrarsi severi con l’intera area per comprovata incapacità, in 5 mesi di negoziati, di regolare un problema minore come quello greco (2% del Pil, 3% del debito): cosa succederebbe domani, si chiederebbero, se il problema diventasse portoghese, spagnolo o italiano? O addirittura francese?

Facile da pilotare cominciando ad abbandonare le banche greche al collasso in cui già si trovano, Grexit rischierebbe di trasformarsi in un enorme boomerang per l’Europa: e non solo perché, in un momento di insicurezze generalizzate dentro e fuori dalle sue frontiere, scaricherebbe un Paese di importanza geo-politica non marginale. Non solo perché, oltre a destabilizzare se stessa oscurando il proprio futuro, esporterebbe instabilità nell’economia mondiale fragilizzando una ripresa che non riesce a irrobustirsi.

Ma anche e soprattutto perché si accanirebbe contro un partner e un popolo che hanno avuto il torto di esprimere dissenso da regole e politiche che, anche quando applicate nel modo più serio e rigoroso, finora hanno prodotto encomiabili virtù di bilancio ma non altrettante virtù di sviluppo economico.

Se anche la Germania, l’indiscusso campione europeo, cresce poco sopra l’1%, forse sarebbe opportuna qualche autocritica, il ripensamento del modello europeo, dei suoi parametri e delle sue regole e dei suoi tabù per metterlo al passo con economia e competitori globali, per dargli quella spinta che da sole le riforme strutturali, la modernizzazione di sistema non bastano a imprimergli. Ci vuole la volontà politica di stare insieme senza ambiguità e senza retro-pensieri. Ma oggi più che mai ci vuole lungimiranza, la fine dei dogmi intoccabili, una nuova dottrina europea coraggiosa e innovativa. Non la rottura dei negoziati con Atene.

Invece, quando Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, avverte il governo che l’uscita della Grecia potrebbe costare miliardi al bilancio tedesco in pareggio, perché i profitti della Buba che vi confluiscono risentirebbero in negativo dei costi dell’operazione, illustra in modo esemplare quanto troppo ci si concentri, nell’Europa che conta e decide, sugli interessi particolari, sia pure importanti, perdendo di vista l’interesse generale.

Grexit non può essere ridotta a una mera partita contabile. Atene è le radici, la storia, la cultura, la democrazia europea. L’Europa non si può dimenticare un pezzo fondamentale della sua identità. Adesso sarebbe ora che la Grecia facesse altrettanto.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-07-06/l-europa-eviti-suicidio-collettivo-070324.shtml?uuid=ACiY2WM
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« Risposta #18 inserito:: Luglio 12, 2015, 06:12:44 pm »

Grexit, il veleno dei luoghi comuni

Di Adriana Cerretelli
10 luglio 2015Commenti (2)

Greci: cinici, bari, irrecuperabili. Tedeschi (e nordici): modelli di virtù, vittime innocenti, ingiustamente condannate a pagare i debiti altrui.

Se questa è Europa, meglio un taglio netto, Grexit e un nuovo euro, questa volta quello dei migliori.

Questo sillogismo è l'alibi morale che domenica a Bruxelles fornirà la giustificazione ai 28 capi di Governo dell'Unione per decretare con sollievo la cacciata della Grecia e la sua inevitabile discesa agli inferi. A meno che un piano credibile di riforme del Governo Tsipras, le dissuasive pressioni americane e lo scoppio della bolla cinese con i rischi di contagio globale che si porta dietro, non facciano il miracolo di riportare l'Europa alla ragione convincendola a non farsi del male da sola.

Ma davvero le semplificazioni manichee, il trionfo di apodittici luoghi comuni, che oggi guidano gli assalti dei partiti anti-sistema come la paludata propaganda dei partiti “perbene”, offrono un quadro onesto e veritiero della realtà europea? Quando si afferma che la Germania paga troppo per un euro inquinato dalla presenza greca e i suoi cittadini soffrono troppo per i bassi tassi che deprimono conti e risparmi, si tace sui benefici, 90 miliardi, che quei tassi fruttano alle casse dello Stato e all'orgoglio tedesco del pareggio di bilancio per il secondo anno consecutivo. Per non dire dei vantaggi competitivi per le loro imprese.

Quando si decantano le virtù dell'economia e delle riforme tedesche, precisa Gerhard Schick, economista e deputato verde al Bundestag, si trascurano due cose: mini-tassi, cambio favorevole e prezzi in discesa sono i tre shock positivi incassati per inerzia dalla nostra economia con il semplice passaggio dal marco all'euro. Le riforme invece hanno perso slancio: una crescita media che da anni oscilla intorno all'1% non esprime dinamismo. Vivacchia. La Germania ha urgente bisogno di cambiare, continua Schick in un incontro alla think tank Bruegel. «Deve ristrutturare il debito dei governi regionali e locali dove, usiamo ripetere in Germania, la Grecia non è così lontana. Deve migliorare l'efficienza dell'erario, visto che ogni anno perdiamo 10 miliardi di entrate fiscali per evasione, e semplificare il sistema Iva».

Non è uno scherzo né uno scambio inconsulto di paese: ironicamente alcuni problemi da risolvere sono gli stessi in Grecia e in Germania. Però la Grecia è irrecuperabile, ricattatrice, diversa da tutti gli altri paesi mediterranei, sbagliato ammetterla nell'euro: «C'è stato un tempo in cui si diceva lo stesso di noi, che non avremmo mai potuto diventare democratici», ricorda Schick. C'è stato anche un tempo in cui il Trattato di Versailles impose alla Germania oneri insostenibili creando risentimenti nazionali che sfociarono nella II guerra mondiale. Ma un altro in cui, era il 1953, le fu rimesso il 60% dei debiti e fu la ricostruzione.

Possibile che chi porta sulla pelle i segni delle ferite inflitte da eccessi, vendette e stupidità altrui non li conosca abbastanza da evitarli? E che chi ha conosciuto anche una solidarietà generosa e decisiva per il suo futuro non sia in grado di uscire dagli schemi contabil-punitivi per abbracciare con la Grecia la stessa logica di riconciliazione che ha fatto la pace e la prosperità dell'Europa nel dopoguerra? Già, ma i greci barano, non rispettano le regole. Le prime a rompere il patto di stabilità nel 2003 furono Francia e Germania. «Eravamo nella stessa situazione dei greci, dovevamo scegliere tra riforme strutturali e obblighi europei di risparmio. Nemmeno noi saremmo stati in grado politicamente di reggere il processo di riforma facendo più risparmi.

Scegliemmo le riforme, lo rifarei anche oggi» ricorda Joschka Fisher, ministro degli Esteri dell'allora Governo Schroeder. La Francia invece ha continuato a violare le regole anti-deficit fino a incorrere nelle multe, che le sono state però risparmiate con spregiudicate contorsioni interpretative. In nome del superiore interesse europeo. Perché nessuna grazia alla Grecia, a dispetto dei cattivi e disinibiti maestri? Il Governo Tsipras è inaffidabile, i greci fannulloni, evasori e truffaldini, lo Stato inesistente, dice la martellante vulgata imperante. Vero? In parte sì. Nel 2014 però la Grecia ha ridotto del 10,7% la spesa pubblica (in Italia è salita dello 0,2), il più alto taglio Ue.

Negli ultimi 5 anni il saldo di bilancio strutturale è migliorato di 20 punti, quello della bilancia corrente di 16. Ma il debito è schizzato dal 120 al 180 %, complice una recessione paurosa figlia della Troika. I Governi precedenti però hanno rispettato solo il 30% degli impegni presi. Ora invece da quello di Tsipras se ne pretende l'attuazione “blindata” del 100% come pre-condizione alla concessione di nuovi aiuti. Perché? Tsipras non appartiene all'establishment politico europeo, è un leader di estrema sinistra che tra i tanti ha il torto di contestare il pensiero unico dominante in nome di una politica di crescita che renda sostenibili i debiti e restituisca fiducia e futuro alla Grecia come all'Europa. Grexit sarà indolore ma esemplare e ricompatterà l'euro: l'ultimo luogo comune di questa vigilia. Finanziariamente è tutto da dimostrare, come economicamente. Gli americani giurano che sarebbe la “Lehman 2” dell'economia mondiale. Politicamente sarebbe il disastro: l'Europa fondata sulla paura è un cemento inconciliabile con la democrazia.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-07-10/grexit-veleno-luoghi-comuni-071541.shtml?uuid=AChpSEP&fromSearch
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« Risposta #19 inserito:: Luglio 19, 2015, 05:48:00 pm »

I pericoli sottovalutati dell’Europa dei diktat

Di Adriana Cerretelli con un commento di Carlo Bastasin13 Luglio 2015

Una volta gli ultimatum si davano al nemico per dargli la scelta tra guerra e capitolazione. In Europa la pratica era caduta in disuso negli ultimi 70 anni. Evidentemente mai niente è definitivo. Oggi in un contesto diverso, l’Eurozona, tornano i diktat senza i cannoni e sono diretti ai partner, che in genere è difficile assimilare alla categoria dei nemici.

Doveva essere, quello di ieri a Bruxelles, l’ultimo vertice dei 19 capi di governo dell’euro sul caso Grecia. Doveva essere il teatro dell’accordo per dare il via ai negoziati per il terzo salvataggio del Paese in cambio di nuovo rigore e riforme, dopo che Alexis Tsipras era andato a Canossa coprendosi la testa di cenere e accettando di capitolare di fronte a tutte le richieste dei creditori, anzi offrendo anche qualcosa di più per porre fine all’asfissia finanziaria del Paese. Invece del vertice della ricucitura è diventato quello dei diktat.

    Se si spezza l’asse Berlino-Parigi
I partner (?) hanno dato tre giorni, per l’esattezza 72 ore, ad Atene per ottenere l’approvazione parlamentare di 1) la riforma del sistema Iva con allargamento della base imponibile, 2) il miglioramento della sostenibilità del sistema pensionistico in vista di una riforma globale, 3) l’adozione di un Codice di Procedura civile per accelerare i processi e ridurne i costi, 4) la salvaguardia dell'indipendenza dell’Ufficio di Statistica, 5) la piena attuazione delle regole del Fiscal Compact con introduzione di tagli automatici alla spesa in caso di deviazioni dai target di surplus primario, previa approvazione della Troika, 6) la trasposizione della direttiva che regola il bail-in in caso di default delle banche.

Solo dopo il via libera vincolante a tutte queste misure, accompagnato dall’approvazione parlamentare anche di tutti gli altri impegni contenuti in un elenco di 4 pagine stilato dai ministri dell’Eurogruppo e presentato al vertice, «potrà essere presa la decisione di avviare i negoziati» per far fronte al fabbisogno greco calcolato in 82-86 miliardi, banche incluse. È previsto anche il conferimento in un Fondo indipendente, gestito dalle autorità elleniche sotto la supervisione della Troika, di beni greci per 50 miliardi da privatizzare per abbattere il debito.

«Qualora nessun accordo fosse raggiunto, alla Grecia si offrirà l’uscita dall’Eurozona, con possibile ristrutturazione del debito». L’aut aut è inequivocabile, le richieste quasi impossibili da soddisfare: da anni l’Europa rivendica invano quelle riforme che ora vuole tutte e subito. Tanto da legittimare il sospetto di una provocazione mirata a ottenere Grexit. Facendo ricadere su Atene la responsabilità politica.

«Non faremo un accordo a qualsiasi prezzo. In questi mesi è stata persa la moneta più importante, la fiducia» ha chiarito Angela Merkel entrando al vertice e smentendo contrasti con Wolfgang Schäuble, il suo ministro delle Finanze. «Faremo l’accordo se tutti lo vorranno davvero» ha risposto Tsipras.

Atmosfera di estrema tensione, i leader europei spaccati a metà, 50% a favore della cacciata di Atene, 50% contro. Da una parte il cancelliere, riconosciuto campione di ogni mediazione politica, questa volta meno incline a praticarla se non di fronte a un accordo-capestro con la Grecia blindato nell’esecuzione, difendibile al Bundenstag.

Dall’altra il presidente francese François Hollande, difensore stentoreo e determinato della permanenza della Grecia nell’euro in nome della sua irreversibilità. Sul collo l’ombra di Marine Le Pen e del suo Fronte Nazionale che, nello strappo ellenico, troverebbe la breccia per inseguire la diserzione della Francia, la fine della moneta unica e dell’Europa.

In mezzo un Paese con l’acqua alla gola che, nella migliore delle ipotesi, è destinato a finire sotto una soffocante tutela europea e non può permettersi il lusso di ribellarsi al tallone dei partner né alle loro condizioni draconiane. Salvo optare per la logica del tanto peggio tanto meglio. Che però alla fine può anche prevalere quando l’alternativa si riduce a scegliere tra peste o colera, comunque tra una disperazione o l’altra.

Ancora non si sa se il diktat dell’Eurogruppo, fotocopia perfetta della proposta tedesca presentata da Schäuble ai colleghi, sarà sottoscritto dai capi di governo dell’euro e firmato anche da Tsipras. I negoziati continuano...

Comunque finirà, la partita scriverà una pessima pagina della storia europea. La peggiore dalla fine della seconda guerra mondiale. La Grecia ha le sue colpe e nessuno le nega. Ma i suoi interlocutori non sono senza peccato, Germania in testa. La Grecia però resta un dettaglio della storia europea, invece se ne è fatto un monumento inutile e dannoso alla causa collettiva. Dimenticando che oggi le priorità sono altre: crescita economica, sicurezza, consenso dei cittadini, un posto da protagonista nella competizione globale in difesa di una vecchia civiltà altrimenti condannata al declino.

Se alla fine sarà messa alla porta dalla furia punitiva del Nord con un accordo inaccettabile e se la Francia perderà la battaglia, la Grecia finirà malissimo ma per l’Europa e la Germania alla lunga andrà peggio. Nel mondo globale non si vince da soli né in pochi, nemmeno i più Grandi possono illudersi di riuscirci.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-07-13/i-pericoli-sottovalutati-dell-europa--diktat-065901.shtml?uuid=ACn7baQ

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« Risposta #20 inserito:: Febbraio 10, 2016, 12:18:11 pm »

Il realismo dei mercati toglie alibi all’Europa

Di Adriana Cerretelli
9 Febbraio 2016

Tra la tragedia di Aleppo e quella di Atene corre un filo che rischia di scrivere la tragedia europea. Cinquantamila nuovi disperati in fuga da bombe e morte in Siria premono alle frontiere della Turchia. Si aggiungono ai 2,5 milioni che già vi risiedono, pronti a tentare la via del mare per raggiungere la Grecia e da qui risalire attraverso i Balcani verso il Nord dell’Unione.

Germania la meta preferita. Prostrata dalla crisi economico-finanziaria, da tensioni sociali e rigore senza fine in cambio degli aiuti europei per la sopravvivenza, la Grecia corre verso l’isolamento geo-politico. Ufficialmente tutti, governi e Commissione Ue, si sbracciano per negarlo ma i mercati li smentiscono spudoratamente.

Il crollo della Borsa di Atene ieri è un segnale inequivocabile della crisi di fiducia nel Paese e nel suo futuro europeo: fuori da Schengen e fuori dall’euro.

Dopo la pausa estiva, il rischio Grexit torna a colpire con carica doppia. Virtualmente letale. Ma la tempesta sui mercati non risparmia nessuno, tanto meno l’Italia.

Chi salverà la Grecia questa volta? E chi salverà l’Europa da se stessa?

Nel week-end i ministri degli Esteri Ue, insieme a quelli non–Ue dei Balcani, hanno discusso di rinforzi da inviare ai confine greco-macedone per sigillarlo chiudendo la strada ai profughi in arrivo da Sud.

La Macedonia ieri ha annunciato il raddoppio del reticolato di 30 chilometri che la separa dalla Grecia. Che dunque potrebbe diventare un immenso campo profughi abbandonato al proprio infausto destino tra l’indifferenza di chi continua a spacciarsi come partner ma si comporta altrimenti con l’alibi - come potrebbe mancare? - della comprovate lacune elleniche su controllo e gestione delle frontiere nazionali, che sono anche europee.

Ma chi oggi nell’Unione è a prova di reprimende su questo fronte?

«Presa in mezzo tra la crisi politica di Angela Merkel in Germania e le promesse, finora vacue, della Turchia di Tayyip Erdogan di limitare il flusso dei rifugiati, la Grecia potrebbe finire stritolata dalle altrui inadempienze più che dalle proprie.

Nel tentativo di rintuzzare in casa le crescenti contestazioni della sua politica della porta aperta e fermare il suo continuo calo di popolarità alla vigilia di tre importanti elezioni regionali, il cancelliere ieri è andato ad Ankara, per un secondo incontro con i turchi in meno di un mese, questa volta con in tasca tre miliardi sonanti di aiuti Ue.

Per ora la Turchia non sembra precipitarsi a fermare i flussi per fare un favore all’Unione: sono partiti in 900mila l’anno scorso riversandosi in Grecia per poi risalire verso la Germania. Né l’inverno ha finora rallentato le partenze.

Forse anche per questo Merkel e il premier turco hanno annunciato ieri che giovedì, alla riunione dei ministri della Difesa atlantici, chiederanno il supporto della Nato per sorvegliare l’Egeo.

Più passa il tempo nella sostanziale inazione e più la crisi rischia di sfuggire di mano. Insieme alla tenuta dell’Europa. Alla quale tutti, paradossalmente, chiedono concessioni, nazionali naturalmente.

La Merkel ne ha bisogno dall’Unione, dai sui vicini e dalla Nato per restare salda in sella. L’inglese David Cameron per evitare Brexit. Il francese Francois Hollande per tornare ad esistere politicamente. L’italiano Matteo Renzi per ottenere maggiori margini di manovra sul bilancio. Idem per Portogallo e Grecia, mentre la Spagna tenta tra mille difficoltà di formare il nuovo Governo. L’Austria rivendica 600 milioni per coprire i costi sostenuti per i rifugiati. I maggiori paesi dell’Est restano arroccati sul rifiuto di partecipare alla loro riallocazione.

Mancano otto giorni al nuovo vertice dei 28 leader dell’Unione: nessuno può permettersi il lusso di un fallimento ma le premesse di un successo oggi appaiono più che labili. La politica continua a ostentare impotenza di azione e di leadership. Economia e Borse ne risentono ma pagano anche incertezze e frenate in arrivo dal mondo globale. In questo panorama desolante quando il presidente della Bce Mario Draghi dà la scossa ai Governi su conti pubblici e riforme fa impeccabilmente il suo mestiere (troppo spesso invano).

E quando i governatori centrali di Francia e Germania insieme invocano maggiore integrazione dell’eurozona e un euro-ministro dell’Economia per promuovere la crescita economica a lungo termine, hanno ragione. Anche se tutti purtroppo in questo momento parlano all’Europa dell’irrealtà.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-02-09/il-realismo-mercati-toglie-alibi-all-europa--073254.shtml?uuid=ACBxTUQC
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« Risposta #21 inserito:: Febbraio 23, 2016, 10:26:50 am »

Il rischio del patto tra due debolezze

Di Adriana Cerretelli20 febbraio 2016

Sembrava, anzi alla vigilia molti lo davano per certo, che sarebbe stato tutto in discesa il vertice europeo anti-Brexit: quasi un atto notarile per apporre 28 firme in calce a un testo prenegoziato. Però, più l'appuntamento si avvicinava, più l'ottimismo facilone si dileguava, gli attriti tra Paesi membri si moltiplicavano fino alla drammatizzazione del “o la va o la spacca”, “adesso o mai più” che l'altro ieri ha aperto la riunione dei 28 leader dell'Unione. Un'altra giornata di trattative e infine ieri a tarda sera l'annuncio dell'accordo.

Che gli inglesi fossero negoziatori notoriamente coriacei lo si sapeva. L'Europa lo scoprì a sue spese ai tempi di Margaret Thatcher. E anche se forse oggi il Regno di sua Maestà non è più quello di allora, David Cameron nella partita si giocava la carriera: non poteva rientrare a Londra a mani semi-vuote e nemmeno con un'intesa troppo esile per sostenere al referendum l'urto con un un paese largamente euroscettico.

Per questo al di là del solito mantra da tutti condiviso, e tra l'altro ripescato dal laburista Tony Blair, sull'Unione meno burocratica, più semplice nelle regole e competitiva nelle politiche, Cameron voleva ben altro: un largo rimpatrio della sovranità nazionale su mercato unico, integrazione dei servizi finanziari e banche, libera circolazione dei lavoratori con benefici sociali al seguito. Pur non volendo aderire alla moneta unica, pretendeva poi di non subire la supremazia del blocco euro e ancora meno la pulsione dei partner verso «un'Unione sempre più stretta», come da Trattati Ue.

Di bizzarro in questa battaglia c'era che, tra clausole di opt-out e meccanismi Ue per le cooperazioni rafforzate, Londra da anni vive in auto-isolamento da molte politiche europee. È difficile quindi afferrare la vera sostanza delle sue attuali rivendicazioni: a meno di non credere che l'obiettivo non sia la difesa da presunte prevaricazioni altrui ma la conquista di un diritto di veto su ambizioni presenti e future dei partner. «Vogliono prendere il meglio dei due mondi senza mai pagare dazio», riassume un negoziatore europeo.

Ed è proprio questo sospetto che ha provocato la generale levata di scudi al vertice: se la Gran Bretagna voleva rimpatriare la propria sovranità, i suoi interlocutori non erano certo disposti a svendere la propria e neanche quella europea finora faticosamente costruita.
Era partito da qui un braccio di ferro interminabile, con la Francia di Hollande capofila del partito schierato a tutela degli interessi collettivi continentali, Germania e Italia comprese, non meno che di quelli nazionali : niente regali all'insularità britannica, che di mezzo ci sia la City, il codice europeo unico di regolamentazione bancaria (impossibile raddoppiarlo), l'integrità del mercato unico finanziario e non, la libertà europea di fare salti in avanti, con chi lo voglia, verso un'Unione sempre più compatta e coesa.

Meno netta invece l'opposizione alla richiesta inglese di limitare temporaneamente i benefici sociali per i lavoratori Ue. I 13 anni rivendicati da Londra ma bocciati senza appello dai Paesi dell'Est sono diventati 7. Se in questo caso Cameron ha incontrato meno resistenza in difesa del principio fondamentale della libera circolazione delle persone è perché altri Paesi, Danimarca in primis ma anche alcuni Laender tedeschi, intenderebbero copiarne il modello.

La verità è che oggi l'Europa prova a fare la voce grossa perché sa di giocarsi nel negoziato con gli inglesi la credibilità del suo progetto integrativo e un'identità esistenziale già messa a durissima prova da profonde divisioni e nazionalismi interni sempre più aggressivi. In realtà da tempo l'Europa è diventata molto più inglese di quanto non appaia a prima vista. Molto più liquida e meno governabile rispetto anche solo a dieci anni fa. Paradossalmente questa entità allo sbando e priva di collanti che accomunino, lenta nelle decisioni e scarsa di leadership ora che Angela Merkel traballa sotto il peso della politica di apertura ai profughi, dovrebbe piacere agli inglesi che dovranno decidere se uscirne o no. Invece sembra che in questo agglomerato confuso e anarcoide, che gioca a scaricabarile sui rifugiati, molti non vedano oggi l'interesse né l'utilità di restare.

Alla fine l'accordo è arrivato. Senza vincitori né vinti. Un patto tra debolezze contrapposte, comuni a chi vuole più Europa come a chi ne vuole meno. Forse non valeva la pena di spendere tanto tempo per cambiare qualcosa che non cambiasse quasi niente.

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« Risposta #22 inserito:: Marzo 23, 2016, 05:57:43 pm »

La commozione non basta

Di Adriana Cerretelli
23 marzo 2016

Il solito festival europeo di emozioni, deprecazione generale e retorica solidaristica. Da Madrid a Londra, da Parigi a Bruxelles lo sghembo quadrilatero del terrore jihadista semina morti e feriti a centinaia, si allarga e non promette remissione. Al contrario. Ma il vero problema non sono loro, i kamikaze dell’Islam e chi gli sta dietro, li organizza e finanzia nell’ombra. Il vero problema siamo noi, le nostre società dal pianto facile ma brevissimo di fronte all’orrore della macelleria a ripetizione, delle città rese invivibili dalla paura del nichilismo di pochi: dura poco però, il tempo di dimenticare aspettando un nuovo attentato e ricominciare il ciclo sterile della commozione mordi e fuggi, seguita dalla semi-inazione che comunque ancora non riesce a essere davvero comune.

Intendiamoci: nessuno può condannare l’Europa perché ama il suo pacifico tran-tran, la sua relativamente grassa e comoda way of life, una rassicurante normalità quotidiana. Ma nessuno può illudersi sul terrorismo islamico: non ha alcuna intenzione di abbandonarci a breve.

Dunque basta rimozioni collettive: ci fanno solo male e non risolvono niente. Si limitano a evocare lo spettro di Monaco. Naturalmente le polemiche si sprecano in queste ore.

Bruxelles è un simbolo dell’Europa, il cuore delle sue istituzioni e della Nato, città ferita anche con la complicità della propria “belgitude”: 19 comuni, 19 corpi di polizia solo di recente ridotti a 6 ma malati di incomunicabilità tra loro, di connivenze con corruzione e malaffare, di patti indecenti con il mondo sommerso della delinquenza che spesso marcia indisturbata di conserva con le cellule del terrore. Bruxelles, la capitale europea che tra qualche anno rischia di ritrovarsi a maggioranza musulmana e già ospita il maggior numero di foreign fighters in un paese multilingue che perde identità nell'eccesso delle sue diversità. Del resto Bruxelles è anche la città da cui partì il kamikaze che il 9 settembre 2001, due giorni prima dell'attentato alle Torre Gemelle, uccise In Afghanistan Ahmad Massud, il Leone del Panshir eroe della resistenza anti-sovietica.

Belgio e Francia, due vicini che non si amano granché: a Parigi le barzellette sull'ottusità belga circolano quanto quelle sui carabinieri in Italia. Anche per questo dialogo e collaborazione tra intelligence e polizie non funziona molto.

In Europa non va meglio. Qualche passo avanti ma stentato: la sfiducia reciproca tra strutture giudiziarie e di tutela della sicurezza domina a tutto vantaggio dei terroristi. Il famoso PNR, il registro europeo dei passeggeri aerei ritenuto, non solo dagli americani, uno strumento di lotta decisivo, non riesce a vedere la luce. Come una seria politica europea integrata sulla sicurezza comune. Come un’efficace politica estera nella cintura delle crisi circostanti.

Tutto vero in queste polemiche, tutti pezzi di analisi ineccepibili dell'ennesima emergenza europea irrisolta. Anche se si tende sempre a parlare degli attentati che purtroppo ci sono stati, mai di quelli scongiurati: oltre 300 nel 2015 secondo i dati Europol. Segno tangibile che, dopo tutto, c'è anche qualcosa che funziona nell'Unione.

Ma il problema di fondo è un altro. I terroristi non sono degli alieni ma i vicini della porta accanto, quasi sempre con in tasca il nostro stesso passaporto. Anche per questo spesso imprendibili. Per combattere questa “guerra civile” su scala europea, che ne sfrutta abilmente le libertà senza frontiere, sono fondamentali nell'immediato banche-dati comuni e sistematici scambi di informazioni tra servizi e forze dell'ordine nel segno della fiducia reciproca, tutta da creare, per prevenire e reprimere gli attentati.

Ma quegli strumenti non servono per risolverla alla radice. Per riuscirci, e tanto più ora che si misura con la grande ondata dei rifugiati in maggioranza musulmani e per non condannarsi in prospettiva al disastro, l'Europa deve trasformare l'attuale scontro in un costruttivo incontro di civiltà. Basta ghetti o periferie off-limits per cominciare ma basta anche con le favole: l'Islam smetta di definirsi pacifico e noi di far finta di crederci. I moderati musulmani escano allo scoperto isolando davvero i loro figli degeneri.

E noi europei finiamola di rifugiarci nel relativismo culturale che divide e non aiuta a creare ponti. Riscopriamo con coerenza il valore dei valori fondamentali della nostra identità. Solo intavolando un dialogo tra pari, nella convinzione dei meriti dei rispettivi patrimoni culturali, l'Europa potrà scommettere su un futuro diverso e più ricco di opportunità. Pacificazione e integrazione sono sfide di lunga lena ma si deve cominciare adesso per realizzarle dopodomani. L'alternativa per la società europea è rassegnarsi a sopportare la compagnia del terrorismo.

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« Risposta #23 inserito:: Aprile 23, 2016, 12:10:49 pm »

Se Berlino gioca col fuoco e «brucia» l’Europa

Di Adriana Cerretelli
22 Aprile 2016

Decisamente la Germania gioca con il fuoco quando prova a scaricare all’esterno, come fa in questi giorni, il peso delle sue tensioni e contraddizioni interne: quasi che l’outsourcing, inaugurato con l’emergenza rifugiati esportata in Turchia, non sia l’eccezione ma la nuova regola della sua politica europea.

Gioca con il fuoco perché le divisioni intra-europee sono sempre più solide, stabilità e riprese economica sempre più fragili e incerte. La supplenza di Mario Draghi da sola non può fare miracoli, tanto meno quando le sue scelte sono criticate ad alta voce dal maggiore azionista di riferimento, complicandone l’efficacia, erodendo la credibilità internazionale della Bce come istituzione europea forte e condivisa.

Il bersaglio è noto: l’indipendenza e la politica monetaria dell’Eurotower, i bassi tassi che assillano banche, assicurazioni e fondi pensione tedeschi, incoraggiano l’ascesa di movimenti populisti e anti-europei, in breve devastano gli equilibri politici ed economici del paese. Contro Mario Draghi in questi giorni sono partiti attacchi a raffica ma quello più velenoso (poi rimangiato) è arrivato da Wolfgang Schauble, il potente ministro delle Finanze.

Il presidente della Bce ieri ha rintuzzato tutte le accuse: il nostro mandato, ha puntualizzato, è perseguire la stabilità dei prezzi per tutta l’eurozona e non solo per la Germania, il mandato è stabilito dal Trattato costitutivo, noi obbediamo alla legge europea e non ai politici perché siamo indipendenti per statuto. Oggi il Consiglio è stato unanime nel difendere l’indipendenza della Bce e la scelta dell’attuale politica monetaria. Che del resto non è diversa da quelle attuate in gran parte del mondo. E funziona ma ha bisogno di tempo. «Certo, se ci fossero anche le riforme strutturali, gli effetti sarebbero più rapidi».

Draghi ha fatto un impeccabile richiamo all’ortodossia blindata nell’atto costitutivo dell’eurozona: la stessa ritenuta inviolabile dai tedeschi, evidentemente però se applicata agli altri.

Lo dimostrarono del resto nel 2003, quando decisero che il patto di stabilità andava loro stretto e quindi ne violarono le regole. Il sospetto che Berlino oggi sia tentata di ripercorrere quella strada nasce dalla fragorosa irruzione nel dibattito ieri anche di Angela Merkel, con frasi palesemente ambigue: «La Bce è indipendente nella gestione delle sue politiche, ha un mandato chiaro. Ma è legittimo che in Germania si discuta del fatto che ci sono stati tassi di interesse molto più alti. Questo non va confuso con l’interferenza nella politica indipendente della Bce, che io sostengo».

Una volta erano i presidenti francesi a lanciarsi in simili contorsioni semantiche per essere immancabilmente bacchettati dai tedeschi, che non a caso pretesero una Bce indipendente, proprio anche per evitare simili digressioni pubbliche sui livelli dei tassi ai massimi livelli politici.

Altri tempi. Altra Germania. Altra Europa, più equilibrata e coesa. Non l’attuale, rissoso condominio di separati in casa.

Oggi ad Amsterdam i ministri finanziari dell’Eurogruppo, presente come sempre Draghi, affronteranno tutti i nodi più spinosi dell’Eurozona: la crescita che stenta a irrobustirsi e alla lunga minaccia sostenibilità dei debiti pubblici e stabilità delle banche, la riluttanza dei Governi ad accelerare sulle riforme e della Germania a investire parte dei suoi surplus eccessivi nella ripresa dell’area, l’unione bancaria monca e il trattamento dei titoli sovrani nei bilanci degli istituti di credito, la semplificazione del patto di stabilità e la difficoltà di rispettarlo, la governance del futuro.

Gli scontri sono assicurati. Forse per l’occasione qualcuno potrebbe ricordare a Schäuble che è stato proprio il suo gran rifiuto a praticare una politica economica più attiva e dinamica in Germania e in Europa ad aver implicitamente affidato alla Bce il complito di supplirvi con una politica monetaria espansiva e la mutualizzazione mascherata dei rischi attraverso il suo bilancio (visto che quasi nessuno lo guarda).

O che è stato un policy-mix sbagliato, figlio di una indiscutibile dottrina tutta tedesca, a scaricare su Draghi il compito di rilanciare economia e inflazione con misure non ortodosse che ora a Berlino si criticano senza voler capire che non possono tutto, senza il fattivo contributo dei Governi.

Naturalmente le colpe dell’Europa piombata in una crisi a tutto tondo vanno equamente spartite tra tutti i suoi Stati membri. Ma proprio perché la crisi cominciata nel 2009 e tuttora irrisolta ne ha fatto il dominus incontrastato, ricade inevitabilmente sulla Germania il carico della maggiore responsabilità.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-04-22/se-berlino-gioca-col-fuoco-e-brucia-l-europa-071359.shtml?uuid=ACIJeIDD
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« Risposta #24 inserito:: Giugno 18, 2016, 11:57:11 am »

L’EDITORIALE

Esorcismi finanziari ma la politica è senza scudo

di Adriana Cerretelli - 17 giugno 2016

Non si vuole fare sorprendere, questa volta, l’Europa. E tanto meno soccombere a speculazione e isteria dei mercati. Per prevenire e al tempo stesso scoraggiare la grande paura di Brexit con la sua carica di destabilizzazioni al seguito, in queste ore e a tutti i livelli si stanno approntando gli strumenti dei più sofisticati esorcismi finanziari.

La mobilitazione è generale, coinvolge i Governi, con Bce e Fmi in prima linea. Ne hanno parlato ieri a Lussemburgo i ministri delle Finanze dell’Eurogruppo nell’ultimo incontro prima del referendum inglese del 23 giugno, per concordare gli ultimi dettagli delle operazioni. E ribadire l’invito a restare.

Con una ripresa fragile, la deflazione in agguato, le Borse in altalenante discesa, la vulnerabilità del settore bancario, bund e simili in territorio negativo, di sicuro nessuno può permettersi di rischiare lo scontro a mani nude con uno shock finanziario incontrollato.

Sullo shock politico, altrettanto inevitabile in caso di divorzio ma non altrettanto immediato, per ora si preferisce invece glissare: scaramanzia, malriposto senso del pudore, confusione di idee e di intenti, banale incapacità di reagire a breve, impotenza consapevole, difficile dirlo.

Forse la scarsa voglia di guardarsi allo specchio, di provare a penetrare le ragioni profonde della propria crisi di identità e delle spinte centrifughe che alimenta, non viene da una scelta di vigliaccheria e disimpegno collettivo ma nasce da un soprassalto di lucidità, di spietato cinismo.

In questo momento l’Europa sa di non essere in grado di riaggregarsi ma solo di disaggregarsi: sempre meno la fiducia reciproca, la solidarietà e i minimi comuni denominatori, sempre più le crepe nella stabilità politica dei suoi Governi, più populismo, nazionalismo e euroscetticismo nelle sue democrazie provate da una lunga crisi economica e sociale. Meglio dunque non scavare troppo tra gli istinti perversi generali, affidarsi alla corrente degli eventi e aspettare (anche le elezioni francesi, olandesi e tedesche dell’anno prossimo) per non rischiare, con un precipitoso esercizio di volontarismo a tavolino, di rompere il giocattolo invece di ripararlo. O di provocare tragici gesti inconsulti, come quello che ieri a Londra ha falciato la prima vittima politica di Brexit e dell’intolleranza che alimenta.

Questa inedia europea per certi aspetti virtuosa, in quanto figlia della brutale constatazione dei propri limiti, trova la sua giustificazione anche nella sorda guerra interistituzionale che da troppo tempo tormenta l’Unione. I suoi cittadini non riescono più a percepire l’Europa come il gigante buono che distribuisce pace e benessere. La vedono piuttosto come un Moloch invasivo e troppo esigente. Con un gran paradosso: i loro Governi hanno un atteggiamento identico verso le istituzioni comuni, che pure essi stessi si sono dati e alle quali hanno delegato poteri esclusivi e indipendenti.

È questa sconcertante identificazione di sentimenti tra base e vertici, l’ansia generale di riappropriarsi della sovranità fin qui ceduta e comunitarizzata, a paralizzare l’Unione sfaldandola a poco a poco. “Brexizzandola” a prescindere, indipendentemente dal destino di Brexit.

Gli esempi, quasi quotidiani, si sprecano. Il più eclatante è il rapporto tempestoso tra la Bce di Mario Draghi e la Germania, con il primo costretto a rintuzzare gli attacchi della seconda sventolando i Trattati e la propria indipendenza per statuto. Meno vistoso ma anche più insidioso il rapporto tra Governi e una Commissione Ue che negli anni, a differenza della Bce, ha ceduto terreno, trasformandosi da organo di iniziativa legislativa e di mediazione tra posizioni e interessi nazionali conflittuali in istituzione subalterna, notaio della deriva intergovernativa europea.

Quando prova a rialzare la testa, come spesso avviene con la squadra Juncker, viene subito richiamata all’ordine. Accadde l’estate scorsa nel pieno di Grexit. E ora con le critiche aperte alla sua gestione interpretativa, troppo libera e politicizzata a detta di tedeschi e olandesi, del patto di stabilità. Mano troppo morbida con Spagna e Portogallo che non rispettano le regole anti-deficit. Con l’Italia su flessibilità e debito, come pure il Belgio, accusa a voce alta il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem. Meglio sostituirla con un organo indipendente che applichi automaticamente le regole, minacciano da tempo i tedeschi.

Non è solo il consenso: anche le strutture europee vanno dunque lentamente sfarinandosi nella complice distrazione dei più. Per questo gli ammortizzatori finanziari anti-Brexit oggi sono indispensabili ma non bastano: in assenza di quelli politici si limiteranno a tamponare i contraccolpi dell’ennesima crisi mal gestita, che andrà da aggiungersi all’arsenale europeo prossimo alla saturazione.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-06-16/esorcismi-finanziari-ma-politica-e-senza-scudo-221249.shtml?uuid=ADRRodd
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« Risposta #25 inserito:: Luglio 01, 2016, 05:35:01 pm »

L’Unione chiuda le sue crepe

  di Adriana Cerretelli
29 giugno 2016

Se è vero che in due giorni, dopo il sì alla Brexit, la sterlina è precipitata ai minimi da 30 anni, le Borse hanno bruciato una cifra pari al Pil del Belgio, alcune grandi banche meditano di partire dalla City privata del passaporto europeo, industrie del calibro di Toyota e Honda guardano altrove, gli investimenti languono, l'economia viaggia verso la frenata, è probabile che il passare del tempo e lo scontro con la realtà, per ora molto punitiva, raggeli molti entusiasmi nelle file dei separatisti.

Se il tempo, l'incertezza e i guasti evidenti potrebbero riportare gli inglesi con i piedi per terra e la lucidità ritrovata nella salvaguardia dei loro interessi nazionali, quello stesso tempo, le stesse incertezze e i guasti paralleli rischiano di mettere l'Europa dei 27 con le spalle al muro, in balia delle divisioni politiche interne ma, ancor più, degli assalti speculativi dei mercati, con il sistema bancario nel mirino e lo sguardo concentrato sui Paesi più vulnerabili, Italia in testa. A Bruxelles non ha riservato sorprese ieri sera, né qualcuno se lo aspettava, l'ultima cena di David Cameron a un vertice europeo.

Si sapeva già che notifica di Brexit e ricorso all’art. 50 del Trattato per avviare i negoziati sul divorzio, erano rimandati a settembre, all’arrivo del nuovo primo ministro e alla sua decisione. Non a caso a fine settembre, il 27, si terrà per discuterne il vertice informale dei 27 a Bratislava.

Tre mesi di attesa però possono essere un’eternità, quando l’incertezza dilaga offrendo occasioni insperate alla speculazione sui mercati, dove le banche da tempo denunciano fragilità diffuse e certo non hanno bisogno di nuove spallate: non a caso l’allarme di Mario Draghi sulla tenuta delle istituzioni finanziarie, come sull’impatto di Brexit sulla crescita economica dell’eurozona, è suonato forte e chiaro ieri al vertice. E ascoltato.

Tutto vogliono oggi i leader europei fuorché, nel bel mezzo della secessione britannica, una nuova estate bollente, il remake di quella del 2012 raffreddata alla fine dal famoso “whatever it takes” del presidente della Bce. Tutto vogliono fuorché vedere il settore bancario in tempesta in un’eurozona dove magagne, opacità, scheletri negli armadi non sono monopoli esclusivi di nessuno ma abbastanza distribuiti da eccitare gli appetiti di speculatori, all’assalto di un’unione bancaria europea ancora molto incompiuta, nonché le preoccupazioni dei governi.

Naturalmente tra i troppi crediti deteriorati e il grande carico di titoli di Stato accumulati nei bilanci, l’Italia resta, a torto o a ragione, il grande anello debole del sistema. O almeno questa è l’opinione dei mercati. Per questo la crisi va fermata prima che scoppi. E con tutti i mezzi. Se la si lasciasse scatenare, diventerebbe poi molto più difficile e costoso riportarla sotto controllo.

Ma questi tre mesi di apnea negoziale, potenzialmente devastanti sul fronte finanziario, potrebbero rivelarsi anche sul fronte politico una tregua avvelenata per l’Europa che cerca di reagire compatta alla sua prima devastante sconfitta storica ma stenta a mimetizzare ansie, dubbie e lacerazioni sulla linea da prendere in concreto con Londra.

Niente negoziati fino a che non sarà attivato l’art. 50: su questo punto tutti d’accordo. Il resto è caos e tensioni. Impazzano le polemiche contro la triplice tedesco-franco-italiana riunitasi a Berlino alla vigilia del vertice, contro le parziali declinazioni di partnership, dai 6 Paesi Fondatori alle incursioni della coppia franco-tedesca. C’è l’attacco ufficiale all’attuale assetto istituzionale comunitario.

I Paesi dell’Est chiedono la testa del presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker, caprio espiatorio da sacrificare sull’altare di Brexit, anche se non si capisce perché. La Polonia di Kaczinski va oltre e denuncia «il fallimento della visione europea del Trattato di Lisbona, all’origine dell’esplosione dell’euroscetticismo in Francia e Olanda». Il governo di Varsavia presenta un piano per elaborare un nuovo Trattato e «spostare il centro del potere istituzionale dalla Commissione agli Stati membri, cioè al Consiglio europeo» chiedendo anche le teste di Juncker e del polacco Donald Tusk.

La Polonia in realtà non inventa niente di nuovo, semplicemente esaspera il sistema intergovernativo che da tempo muove l’Unione. Segno dei tempi, come Brexit ha dimostrato, come annunciano i sommovimenti politici in Olanda e Francia e, in fondo, anche in Germania, che tutte andranno alle elezioni nel 2017, cioè nell’anno in cui dovrebbero cominciare i negoziati per Brexit.

Le manovre sugli assetti istituzionali futuri si incrociano con i disaccordi sui tempi del divorzio da accordare agli inglesi. Angela Merkel, il cauto pompiere europeo, non mette fretta, come i Paesi del Nord. Francia e Italia preferirebbero accorciare l’attesa, l’europarlamento minimizzarla.

Stamattina a Bruxelles ci sarà il primo vertice a 27, senza Londra. Tutte le crepe nella coesione europea rischiano di venire a galla. C’è da sperare che non impediscano di bloccare sul nascere i focolai di una crisi bancaria. L’Europa di oggi non ne ha proprio bisogno.

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    Adriana Cerretelli.

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-06-28/l-unione-chiuda-sue-crepe-234513.shtml?uuid=ADEwrxk
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« Risposta #26 inserito:: Luglio 18, 2016, 12:09:27 pm »

L’accelerazione di Londra

    –di Adriana Cerretelli 15 luglio 2016

I paralleli sono sempre antipatici e, a volte, sono anche sbagliati. Nel caso specifico lo shock è lo stesso, si chiama Brexit. I contraccolpi rischiano di essere devastanti per la maggioranza degli inglesi che l’hanno voluto come per l’Europa che lo subisce. Dal 23 giugno, il fatidico giorno del no, la reazione dei mercati è stata pesante per tutti, al di là e al di qua della Manica. Le convergenze finiscono qui.

La Gran Bretagna ha accelerato al massimo i tempi della risposta interna: dimissioni a raffica e quasi istantanee dei grandi protagonisti della scommessa referendaria, cambio di Governo in 20 giorni e ieri, 24 ore dopo il suo insediamento, l’annuncio di un prossimo cambio di passo della politica economica del Regno in predicato di divorzio dall’Unione.

Anche se ha deluso sull’immediata riduzione dei tassi, la Banca d’Inghilterra lascia intendere che si muoverà in agosto, quando potrà meglio valutare l’entità del rallentamento della crescita economica provocato da Brexit. Deciso ad agire di concerto con il governatore, il nuovo cancelliere della Scacchiere, Philip Hammond, preannuncia subito rottura con la strategia del predecessore: niente bilanci rettificativi o d’urgenza, invece frenata sulla politica di austerità.

«Visto che lasciamo l’Ue, dobbiamo farlo in modo da proteggere l’economia britannica»: in concreto, il processo di riduzione del deficit continuerà ma cambieranno «ritmo e parametri di riferimento».

In altre parole, per minimizzare i costi dell’abbandono, la politica monetaria ed economica inglese diventerà più espansiva, si allontanerà dal modello europeo per farsi più americana. Non che fin qui l’approccio di Londra sia stato in regolare sintonia con quello continentale. Tutt’altro. Solo che ora la spinta autonomista sembra destinata ad accentuarsi. Per provare a cavalcare con le mani completamente libere il mondo e la globalizzazione. Scavalcando la dimensione europea: però solo fino a un certo punto, visto che ieri Hammond ha contestualmente promesso di difendere a spada tratta gli interessi della City, assicurando alla florida industria finanziaria che vi è accasata l’accesso al mercato unico Ue, passaporto europeo compreso, cioè alla licenza che oggi consente a chi opera da Londra di poterlo fare su tutto il mercato europeo. Anche se l’Europa non pare affatto condividere e la Francia ha già detto no.

L’uscita della Gran Bretagna non arriverà prima del 2018, anche perché le elezioni dell’anno prossimo in Olanda, Francia e Germania non consentiranno di farlo prima. Però il Governo di Theresa May non perde tempo nell’indicare il nuovo corso. Perché, dice il suo cancelliere, «se c’è una cosa dannosa per l’economia è l’incertezza, la crisi di fiducia che scoraggia le imprese che vogliono investire, aprire nuovi impianti, creare lavoro».

Terremotata dallo stesso shock, con implicazioni anche più gravi per il contagio separatista che potrebbe portarsi dietro e il raffreddamento di una ripresa economica già piuttosto stentata, l’Europa per ora rifugge dal “nuovismo”, fedele alla strategia merkeliana del passo dopo passo, calibrato sullo scorrere degli eventi.

Brexit è stato il detonatore di una crisi bancaria europea con epicentro l’Italia? Va fermata subito però senza sconfessare le regole vigenti, piuttosto sfruttandone al massimo tutti gli spazi per ridurre al minimo destabilizzazione economica e finanziaria e impopolarità dell’Europa presso cittadini e risparmiatori.

È evidente che senza banche sane, liberate della zavorra delle sofferenze accumulate, l’economia non riesce a ripartire: gli enormi sforzi della Bce, finora poco premiati dai risultati, sono del resto la spia tangibile di una malattia che ha radici profonde quanto finora trascurate. È altrettanto evidente che una ripresa solida passa per riforme strutturali ben fatte, iniezioni di liberismo ed efficientismo all’inglese nonché per un rigore più temperato e convincente piani di investimento su scala continentale.

Sarebbe sbagliato però non riconoscere che da mesi, sia pure con calma (troppa), qualcosa si muove: le regole si fanno meno arcigne, gli spazi di manovra nazionale si ampliano, si afferma un approccio più ragionevole. Naturalmente ci vuol altro per muovere il pachiderma Europa afflitto da troppe crisi. Bisognerebbe anche agire in fretta perché più languono disoccupazione e insicurezze sociali e più prosperano i populismi, nazionalismi, euroscetticismi di ogni colore.

La Gran Bretagna si sta imbarcando nella sua solitaria rivoluzione copernicana con tempestività e il coraggio di reinventarsi cercandosi un nuovo posto al sole. Sarebbe ora che l’Europa provasse a imitarla un po’. La crescita economica non può più attendere. E nemmeno un nuovo ordine europeo.

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« Risposta #27 inserito:: Ottobre 28, 2016, 06:49:36 pm »

Alibi
Di Adriana Cerretelli 25 ottobre 2016
Forse il Ceta non è morto ma ormai si aggira come uno zombie tra le macerie della politica commerciale europea.

Il gran rifiuto della Vallonia impedisce al Belgio di ratificare l’accordo di libero scambio tra Unione e Canada, quindi di raggiungere la necessaria approvazione unanime a 28. Quindi di tenere il previsto summit bilaterale che dopodomani a Bruxelles avrebbe dovuto apporre il sigillo conclusivo a 7 anni di negoziati difficili ma alla fine soddisfacenti per tutti.

Se non scaturisse dalle libere dinamiche delle regole europee e democratiche, sarebbe raccapricciante la fronda di un mini-parlamento regionale, rappresenta 3,5 milioni di persone, che impedisce a oltre mezzo miliardo di europei e a 35 milioni di canadesi di beneficiare dell’aumento del libero scambio.

Potrebbe perfino apparire una vicenda marginale, da non drammatizzare troppo perché prima o poi troverà una soluzione, magari entro l’anno, se non rischiasse di affondare, con la credibilità negoziale dell’Unione, un’intesa che ne accoglie quasi tutte le rivendicazioni e promette di potenziare del 20% l’interscambio e la crescita dell’economia di 12 miliardi di euro all’anno, 9 miliardi di dollari per il Canada. Numeri magici in questi tempi grami.

Potrebbe, se non fosse che è l’ultima espressione della “politica dei no” che sta sfiancando l’Unione senza pietà. La bocciatura della Vallonia arriva infatti dopo il no della Danimarca a una maggiore integrazione nella politica Ue degli Interni e della Giustizia. Dopo il no dell’Olanda, per referendum consultivo (votanti, 30% del totale), alla ratifica dell’accordo di associazione Ue-Ucraina già provvisoriamente in vigore. Dopo il no all’Unione degli inglesi, il più devastante.

«È in atto una rivoluzione democratica trainata da Internet che cambia la società, come a suo tempo la stampa. La politica deve cambiare, soprattutto quella europea, la più antiquata con le sue soluzioni anni ’70 per problemi anni ’50», commenta brutale un osservatore olandese.

Nella nuova metafisica del no, all'assalto di ogni ordine costituito, nazionale, europeo, globale, c'è dentro di tutto: insicurezze crescenti dei cittadini, paure del nuovo, del diverso, del più forte, del più competitivo, del futuro. C'è furore emotivo e trionfo dell'irrazionalità, spesso frutto di scarsa conoscenza o di abili manipolazioni esterne. In democrazia il consenso è ineludibile, non importa se spesso le società o loro agguerrite minoranze non sanno quel che si fanno quando votano contro il libero commercio e l'Europa, grandi motori di sviluppo e lavoro. O per i muri e l'arroccamento nazional-identitario.

«È un testo-marmellata, 300 pagine di Trattato, 3000 di annessi, 2 dichiarazioni interpretative e varie bilaterali» taglia corto il portavoce del parlamento vallone. Del Ceta non piace soprattutto l'ISDS, la clausola che crea un tribunale arbitrale permanente per risolvere le vertenze tra multinazionali e governi. L'ISDS oggi compare in 1.400 accordi commerciali bilaterali sottoscritti dai paesi Ue e in circa 3.000 nel mondo. In questo modo salterebbero gli standard sociali e ambientali europei, denuncia Paul Magnette, presidente della Vallonia e nuovo eroe anti-sistema che sogna, pare, di diventare premier del Belgio. In realtà il Ceta, si dice, ha la colpa di essere il fratello minore del Ttip, l'accordo con gli Usa in stand-by. Accusa pretestuosa. Il Ceta accetta tutto quello che il Ttip rifiuta: dazi industriali quasi tutti azzerati, mercato aperto per servizi e appalti pubblici a tutti i livelli di Governo, mutuo riconoscimento delle qualifiche professionali, forte protezione per investimenti e ben 143 indicazioni geografiche Ue. Tutela dei diritti del lavoro e dell'ambiente. Evidentemente nelle democrazie europee in transizione più degli interessi concreti oggi conta il governo delle emozioni no global, che esprimono il disagio di società spesso abbandonate a se stesse o alle risposte sempliciste dei populismi di varia matrice. Magnette l'ha capito, cavalca l'onda perché sa di esprimere gli stessi malumori che agitano le società tedesche, francesi, austriache, italiane, etc. Se non riuscirà a tranquillizzare gli elettori risolvendo presto il trinomio impazzito democrazia-commercio-politiche comuni, difficilmente l'Europa potrà resistere al popolo dei suoi sempre più numerosi Signor No.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-10-25/il-no-belga-all-intesa-ceta-e-democrazia-come-alibi-075245.shtml?uuid=ADSWHUiB
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« Risposta #28 inserito:: Gennaio 24, 2017, 06:06:05 pm »

Un pugno nello stomaco dell’Europa

Di Adriana Cerretelli

Sarà il pugno nello stomaco che servirà all’Europa per uscire dal suo autismo, ritrovare la volontà di esistere da protagonista smettendola di vivacchiare tra beata indifferenza, colpevole ignavia e metodica inazione nel nuovo mondo che le sta crollando addosso? Dovrà esserlo perché il 45° presidente degli Stati Uniti non le offre scelte alternative né scappatoie, semplicemente volta pagina e annuncia un nuovo ordine mondiale dove viene prima di tutto l’America, «di nuovo forte, sicura, prospera e orgogliosa», un’America patriottica, protezionista, revanscista e meno generosa con il resto del mondo.

Il primo documento della Casa Bianca di Trump
L’Europa è avvisata. Donald Trump farà sul serio. Sarà quasi certamente il salutare shock esterno che la costringerà a reagire al proprio quieto vivere e ai propri temporeggiamenti: a contarsi, riorganizzarsi e ricostruirsi su nuove architetture, nuove regole e nuovi Trattati. Del resto, ancora prima di approdare alla Casa Bianca, il neo presidente aveva provveduto a far piazza pulita di luoghi comuni, pilastri e certezze del Dopoguerra su cui per decenni l’Unione si è accomodata, convinta a torto della loro eternità.

Certo, la svolta americana la coglie nel momento peggiore, nel pieno di un anno elettorale importante, che vedrà alle urne Francia e Germania, i suoi pesi massimi, insieme a Olanda e forse anche Italia. Il 2017 si annuncia dunque come un anno perso: troppo rischioso prendere decisioni di respiro europeo in un’Unione che perde consensi popolari, dove democrazie e partiti tradizionali appaiono fragilizzati, i movimenti nazionalisti, euroscettici e anti-sistema hanno il vento in poppa.

Il gioco del surplace per altri 10-12 mesi rischia però di presentare all’Europa un conto salatissimo. Proibitivo? Se dovesse realizzare solo la metà delle promesse per far tornare grande l’America, il neo-presidente stravolgerà gli equilibri mondiali e l’Europa potrà a stare inerte a guardare solo a proprio rischio.

L’America e il popolo al primo posto
Di più. Trump ne ha pubblicamente stanato tutti i limiti e le debolezze, diventando di fatto la voce stentorea della sua cattiva coscienza, mettendola alle strette di fronte a se stessa e al mondo intero, davanti al quale oggi appare ancora più fragile e anche delegittimata: gli Stati Uniti sono il suo alleato storico e il principale partner economico (e viceversa), insieme fanno il 50% del Pil globale e un terzo degli scambi internazionali. Oggi però sono anche il maggiore critico.

Certo, smontare simili legami di interdipendenza costa a tutti ma, a meno che non provveda rapidamente a smentirlo con i fatti, Trump potrebbe essere tentato di giustificarsi dicendo che ormai l’Europa è un’entità inutile e inefficace, un peso morto più che un prezioso alter-ego, come una volta.

Per quanto approssimativa, la sua fotografia dell’Unione ne illumina i mali insieme agli incubi. Non gli basta infatti benedire Brexit e offrire a Londra un Trattato di libero scambio rafforzandone la posizione nei negoziati sul divorzio dall’Ue (non importa se l’accordo non è fattibile finchè gli inglesi sono nell’Unione). Trump va oltre evocando diserzioni future, mestando così nei torbidi di divisioni e spinte centrifughe europee, nelle crescenti difficoltà di integrazione e convivenza interna: dall’euro alla ripresa debole, crisi migratoria, terrorismo, sicurezza e difesa. Il tutto mentre la proiezione esterna si fa sempre più incerta e faticosa: dal Medio Oriente all’Africa, all’Est Europa con la Moldavia che ripudia l’intesa con l’Ue optando per la Russia e l’Ucraina che barcolla tradita.

Quando parla dell’Europa al servizio della Germania, Trump provoca ma dice mezze verità, toccando un altro nervo scoperto del club: per continuare a esistere, deve rafforzarsi e riformarsi al più presto ma non può poiché diffida di sé stesso, dei suoi soci (troppi?), dell’egemonia tedesca e dei suoi interlocutori deboli.

Se dice che la Nato è obsoleta esagera ma costringe l’Europa a fare quello che finora non ha mai voluto fare: assumersi più responsabilità e oneri finanziari per la difesa in un mondo, anche il suo, sempre più instabile, caotico e insicuro. E quando sembra flirtare con la Russia di Vladimir Putin, minacciandola di intendenza con lo storico antagonista, frusta la vulnerabilità europea, che riposa su una scelta di cinica pigrizia, anche ideologica, non di impotenza politico-strategica obbligata. L’elegia del protezionismo, invece, è un’arma a doppio taglio che alla lunga si ritorce su chi la usa.

È troppo presto per precipitarsi alle conclusioni, dando per scontato che su queste basi il rapporto transatlantico sia destinato a morire. Di sicuro, per resistere al ciclone Trump l’Europa dovrà cambiare, tornare a sua volta grande. Per molti aspetti parlare la sua stessa lingua. Ne sarà capace?

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    Adriana Cerretelli.

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2017-01-20/un-pugno-stomaco-dell-europa-231916.shtml?uuid=AE2DNlE
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« Risposta #29 inserito:: Luglio 16, 2017, 04:52:24 pm »

L’Italia e i baratti franco- tedeschi

–di Adriana Cerretelli

Ancora non è chiaro se questa volta l’Europa salterà davvero il fosso per diventare quello che non riuscì ad essere a Maastricht e cioè un’unione economica e monetaria vera, preludio di un’unione politica inevitabile.

Non è chiaro perché nulla si muove, perlomeno alla luce del sole, in attesa delle elezioni tedesche del 24 settembre. E perché l’unione spuria e azzoppata nata 25 anni fa, combinata con la grande crisi partita nel 2008, si è allevata in seno tali e tante divergenze economiche, squilibri finanziari, conflittualità di interessi e mutua sfiducia da complicare non poco la ricerca di una dottrina e di un’ambizione condivisa.

Ma quando c’è volontà politica, gli ostacoli sono superabili. Se si aggiungono le molte pressioni esterne, da Stati Uniti, Russia o Cina poco importa, l’auto-ricostruzione diventa la scelta obbligata della sopravvivenza nell’era globale. Il ritorno della ripresa economica che si va consolidando, l’elezione in Francia dell’europeista Emmanuel Macron, le sue apparenti affinità elettive con la Germania di Angela Merkel creano le condizioni per poter sperare in una nuova svolta storica.

Le premesse ci sono tutte, il progetto invece va scritto e ben calibrato per farlo decollare davvero. Dietro le quinte fervono sondaggi e trattative informali. Una cena ieri sera a Bruxelles, in margine alla riunione dell’Eurogruppo, ha riunito intorno a un tavolo Wolfgang Schäuble, Bruno le Maire e Piercarlo Padoan, ministri finanziari di Germania, Francia e Italia, i tre maggiori azionisti dell’eurozona. Anche in vista del Consiglio di cooperazione franco-tedesco di domani a Parigi.

A fianco di Macron che al suo primo vertice Ue, il 23 giugno scorso, non faceva che martellare in modo quasi ossessivo sul ruolo cruciale e l’esclusiva del rapporto franco-tedesco come chiave di qualsiasi rilancio europeo, Merkel l’aveva subito corretto sottolineando il contributo di tutti i Paesi.

Le discussioni a tre di Bruxelles sono avvenute nello stesso spirito inclusivo che muove i tedeschi. Per diverse ragioni: non farsi intrappolare dai francesi nella logica del direttorio “uber alles”, che ha sempre il suo peso ma non lo stesso che aveva in passato nella piccola Unione; non eccitare le diffidenze di molti partner allergici allo strapotere tedesco (e francese, se tale sarà nei fatti).

Coinvolgere infine al massimo livello l’Italia, come a Maastricht, perché interlocutore e problema di rilievo. La sostenibilità del suo enorme debito pubblico e delle sue banche gravate dai crediti inesigibili, malattia peraltro diffusa in quasi tutta l’area, rappresenta infatti la garanzia ineludibile della futura stabilità dell’euro. Per questo, tra l’altro, l'offensiva di Matteo Renzi contro Fiscal compact e regole Ue anti-deficit non fanno l’interesse del Paese ma lo danneggiano indebolendone una volta di più la reputazione di Paese maturo e, soprattutto, affidabile. La questione italiana e la sua evoluzione saranno dirimenti per il futuro dell’eurozona e ancora di più per il posto che l’Italia occuperà nell’organigramma della nuova Europa. Tanto più che non si sa quale piega prenderà, alla fine, l’intesa franco-tedesca e quindi l’assetto futuro dell’eurozona.

Macron ha messo le carte in tavola. Il suo polo economico dell’Uem, da affiancare a quello monetario, passa per la creazione di un ministro delle Finanze e di un bilancio dell’eurozona, con funzioni l’uno di coordinamento delle politiche economiche in chiave di rilancio dello sviluppo e l’altro di volano degli investimenti e camera di compensazione in caso di shock asimmetrici. In sintesi, più crescita, meno rigore, solidarietà nella stabilità.

I tedeschi, che vogliono la riforma dell’eurozona e per farla hanno bisogno della Francia ma diffidano, come sempre, delle sue vere intenzioni visto che in quasi un decennio non si è mai premurata di rispettare il tetto del 3% per il deficit, prima di muoversi intendono procurarsi precise garanzie.

La prima, la più importante per convincere la propria opinione pubblica al grande passo della solidarietà finanziaria (controllata) con i partner, sarebbe la conquista della presidenza della Bce nel 2019, alla scadenza del mandato di Mario Draghi. Il candidato di Merkel sarebbe Jens Weidmann, il “falco” oggi alla guida della Bundesbank. Boccone amaro da digerire per la Francia di Macron che, comunque, per vedere realizzate le sue ambizioni europee dovrà prima dimostrare di saper fare davvero le riforme che promette e rispettare le regole Ue anti-deficit. Boccone ancora più amaro per l’Italia che, se non approfitta dei prossimi mesi per fare ordine in casa, rischia di dover presto fare i conti con il rialzo dei tassi di interessi sul debito e un’Europa molto meno pragmatica e permissiva sui conti pubblici di quella degli ultimi anni.

In realtà, le discussioni sulla nuova Europa sono appena cominciate. Ci vorranno mesi prima di vederne la fisionomia definitiva. Per essere solida, duratura e protagonista nel mondo globale, una costruzione meno lacunosa e contraddittoria di quella di Maastricht, questa volta dovrà poggiare su pilastri meno fragili e incerti.

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