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Autore Discussione: Adriana CERRETELLI  (Letto 21364 volte)
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« inserito:: Gennaio 18, 2012, 12:04:42 pm »

Il peso delle mancate risposte di Angela

di Adriana Cerretelli

18 gennaio 2012

Roma chiama. Fin de non recevoir, risponde, secca, Berlino. Altro che Merkmonti al posto di Merkozy.
Nella Germania di Angela Merkel oggi non ce n'è per nessuno: il rigore a senso unico è un dovere assoluto per tutti, la solidarietà invece non è e non sarà, a quanto pare, un diritto acquisito.

Anzi, la parola sembra sparita dal vocabolario tedesco, edizione 2011-12.

«L'Italia è un'economia forte, gli italiani sono in grado di aiutarsi da soli» ha scandito ieri il capo dei consiglieri economici della Merkel. Respingendo al mittente l'invito di Mario Monti a un ragionevole do ut des: in cambio del forte impegno italiano alla disciplina di bilancio, un gesto di incoraggiamento tedesco.

In concreto, un alleggerimento degli alti tassi di interesse che continuano a taglieggiare il servizio del nostro debito pubblico. Silenzio sul ruolo della Bce, anche se resta il convitato di pietra nella partita. Nein, nein, nein. Angela Merkel però gioca con il fuoco. Per non smentire in Germania il suo ruolo di castigamatti dei Paesi mediterranei indisciplinati, in breve per non rischiare di bruciarsi la carta che le ha permesso di risalire la china della popolarità, oggi oltre il 60%, il cancelliere non esita a mettere a rischio la tenuta dell'euro.

Sempre che non sia proprio questo il suo vero gioco: provocare una selezione darwiniana tra i suoi membri, liberandosi dei più deboli ma addossando proprio a loro la responsabilità dell'eventuale spaccatura (o collasso) della moneta unica.
Il sospetto diventa legittimo di fronte alla pretesa tedesca di ottenere dai partner la firma di una vera e propria cambiale in bianco con il nuovo patto fiscale: rinuncia alle sovranità nazionali sulle politiche di bilancio senza la garanzia di ammortizzatori o compensazioni di sorta, né in termini di solidarietà finanziaria né di stimoli alla crescita europea. Il tutto blindato in una nuova riforma dei Trattati europei.

Non è certo un sovversivo il premier italiano quando denuncia il rischio di «una crisi di rigetto» tra i cittadini europei, tra i quali già si contano 23 milioni di disoccupati. La Merkel dovrebbe sapere che i governi cambiano a Roma ma il ribellismo in Europa non fa parte del Dna dell'Italia. Che magari mugugna ma si adegua sempre alla disciplina, anche a prezzo di enormi sacrifici. E persino alla rinuncia della propria autonomia di bilancio, nell'atavica convinzione che il vincolo esterno sia una frusta provvidenziale per convincerci a vincere la riluttanza nazionale al cambiamento, alla perdita di rendite di posizione dure a morire.

Anche gli altri Paesi mediterranei si stanno tutti lentamente rimettendo in riga, Grecia compresa, se è vero che proprio ieri in una discussione a porte chiuse al Bundestag la Merkel stessa avrebbe riconosciuto che la crisi dell'euro andrebbe stabilizzandosi.
La Francia no. Da sempre nei momenti topici non ha esitato a rovesciare il tavolo europeo. È successo a metà degli anni 50 con il progetto di difesa comune europea, mai più resuscitato e nel 2005 con la bocciatura della Costituzione europea. Potrebbe succedere per la terza volta con il patto fiscale, magari in sede di ratifica. Già la perdita della tripla A è uno shock difficile da digerire per i francesi, perché sancisce la fine di ogni residua finzione di parità con la Germania. In breve la definitiva archiviazione del contratto franco-tedesco che aveva dato origine all'Europa comunitaria.

Un'umiliazione forse insostenibile per il Paese dalla grandeur ormai inesistente, quello che del progetto europeo amava ripetere, senza temere il ridicolo, «l'Europe c'est la France». Davvero questo Paese, a suo tempo fiero di avere strappato con la moneta unica alla Germania il condominio sul vecchio marco, ma oggi frustrato come non mai sarà ora disposto a consegnare a Berlino la sovranità sulle leve del bilancio francese? Si vedrà.
Certo le rigidità della Merkel, a meno che non vengano in qualche modo attutite, non aiuteranno l'intesa con Parigi: con Nicolas Sarkozy o, peggio, con il suo successore se sarà il socialista François Hollande che ha già bocciato il patto fiscale. Per questo è lungimirante l'appello di Monti a Berlino a non tirare troppo la corda del rigore e quindi dell'euro. Certo il premier chiede ossigeno per l'Italia ma pensa anche all'Europa. E alla Francia che diventa sempre pericolosa quando, come oggi, si ritrova con le spalle al muro, derubata della sua maestà europea.

Il Sole 24 ORE - Notizie (18 di 40 articoli)

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« Ultima modifica: Agosto 09, 2012, 05:55:20 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 10, 2012, 12:08:46 am »

Il «monocolo» tedesco

di Adriana Cerretelli

09 febbraio 2012

Salvo sorprese in extremis, la Grecia eviterà il baratro, e l'eurozona un salto nel buio dalle conseguenze ignote.
La convocazione questo pomeriggio a Bruxelles dei ministri dell'Eurogruppo sembra indicare che, dopo giorni e giorni di negoziati perennemente sull'orlo della rottura, un accordo globale è finalmente a portata di mano.

Che il secondo salvataggio di Atene si farà: con un nuovo pacchetto di aiuti da oltre 130 miliardi, con la cancellazione di 100 miliardi di debiti detenuti dai creditori privati. E la probabile partecipazione anche della Bce all'intera operazione.
In cambio il Governo Papademos accetta una nuova stretta da 3,3 miliardi nel 2012 tra tagli e riforme, compresi 15mila nuovi licenziamenti quest'anno nel settore pubblico, una riduzione del 20% dei salari minimi nel settore privato, salassi per sussidi ai pensionati, spesa sanitaria, investimenti pubblici.
Evitato il default ellenico, perlomeno ufficialmente, e scongiurato per l'euro l'atterraggio in terra incognita con l'amputazione di un suo Paese membro, arriverà finalmente per tutti il momento di tirare un sospiro di sollievo e intravedere la fine di una crisi apparentemente infinita? La cautela è d'obbligo. Per almeno due ragioni.

La risposta a irresponsabilità, trucchi e intemperanze del malgoverno greco è stata e resta monocorde: rigore, rigore e ancora rigore con l'accetta, accompagnato da riforme strutturali imposte brutalmente tutte e subito. Questo furore ideologico punitivo potrebbe prima o poi provocare una violenta reazione di rigetto. A livello sociale e politico (le elezioni di aprile sono alle porte). Con possibili effetti a macchia d'olio in altri Paesi dell'euro, a loro volta sottoposti a duri programmi di austerità. L'ascesa di partiti populisti ed estremisti, a destra come a sinistra, non è un rischio da sottovalutare in un'Europa in recessione, già assediata da 23 milioni di disoccupati.

La ricetta a senso unico, che somministra sacrifici pesantissimi ma disarticolati dalle prospettive di sviluppo, cioè dalla speranza di un riscatto in tempi ragionevolmente brevi, potrebbe finire per provocare un devastante corto circuito in un'eurozona vittima della politica del "monocolo" tedesco. In ultima analisi dell'insostenibilità della cura. Perché da sola l'austerità non solo deprime la crescita ma provoca meccanicamente l'aumento di deficit e debito pubblico, cioè aggrava i mali che dovrebbe combattere. Dando vita a una perniciosa spirale perversa senza fine. Dopo il patto di stabilità, è arrivato il "fiscal compact" che stringe ulteriormente la disciplina sui conti pubblici senza troppo guardare altrove.

Eppure l'esperienza delle crisi in Irlanda e Spagna, due Paesi che in fatto di deficit e debito pubblici ostentavano parametri più che eccellenti, avrebbero dovuto insegnare che questa strada a senso unico è un percorso minato. Ora con le cure da cavallo di rigore, senza gli ammortizzatori della crescita economica e degli stimoli a favorirla, si rischia di compiere lo stesso errore.
C'è però un'altra ragione per cui l'accordo con Atene potrebbe non concludere il calvario né della Grecia né dell'euro. Oltre un biennio di emergenza, di malanimo e crescenti diffidenze reciproche hanno disarticolato l'Europa come mai prima. Ormai si cavalcano alla leggera le formule di cooperazione "spezzatino": chi c'è c'è e per gli altri si vedrà.

Se fosse stato mantenuto il quadro d'azione comunitario, gli strappi di gruppo si potrebbero chiamare avanguardie di un'Europa nuova, più dinamica ed efficiente. Visto che ormai si naviga a vista su rotte sempre più intergovernative, le fughe in avanti di alcuni diventano i passi indietro di tutti, spinti a ritroso sul sentiero delle conquiste collettive che si appannano. In questa Europa che si sfilaccia e non si ama più, comunque finisca la vicenda greca l'euro pare condannato a una vita instabile e grama. Con i mercati eternamente sul collo alla ricerca di tutti gli spazi che si offrano alla loro fame speculativa.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-02-09/monocolo-tedesco-064634.shtml?uuid=Aaz746oE
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« Risposta #2 inserito:: Aprile 13, 2012, 12:19:34 am »

Il timoniere bendato

di Adriana Cerretelli

12 aprile 2012

Si fa presto a dire Spagna (come ieri si diceva Grecia) per spiegare la nuova tempesta di Pasqua che sta scuotendo Borse e mercati. Si fa presto anche ad accusare l'inesauribile, ottusa perfidia della speculazione che «non riconosce il giusto valore agli enormi sforzi di riforma spagnoli» come ha tenuto a sottolineare ieri il portavoce del ministero tedesco delle Finanze.

Troppo facile. Troppo comodo scaricare a turno sulle spalle di un solo Paese responsabilità e colpe che invece sono di molti. Anzi, di tutti i 17 dell'euro perché, volenti o nolenti e finché dura, una moneta comune comporta per il bene comune un bagaglio di diritti e di doveri collettivi. Che invece continuano clamorosamente a latitare.

Prova ne sia che la crisi scoppiata nel 2010 intorno all'epicentro ellenico, invece di indurre il club a serrare i ranghi, non ha fatto che dividerlo, approfondendo il divario tra soci del centro e della periferia, tra Nord e Sud, tra ricchi e poveri, spaccando di fatto un'area monetaria che, per restare il credibile retroterra di una moneta unica, dovrebbe integrarsi di più e non continuare a sfilacciarsi senza posa.

È la non-Europa il vero bersaglio dei mercati. Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna, Italia e anche Francia sono di volta in volta obiettivi-test per verificarne la coesione che non c'è o, quando fa finta di materializzarsi, lo fa regolarmente sull'orlo del baratro, in ritardo e con il contagocce. In breve con azioni insufficienti per essere davvero convincenti. In questo modo, invece di disarmarli, si invitano a nozze gli speculatori di tutto il mondo.

Il gioco all'auto-massacro dura ormai da due anni e nulla per ora indica che terminerà a breve. Anche se la partita si fa sempre più pericolosa. Per tutti. Dando in pasto ai mercati rigore e riforme da cavallo nei Paesi più indebitati e vulnerabili, Angela Merkel era convinta di riuscire a prendere due piccioni con una fava: raddrizzando partner indisciplinati e potenzialmente troppo onerosi e restituendo così una vita tranquilla all'euro. Sbagliato. Perché per essere sostenibile la cura ha bisogno di crescita economica ma rigore e riforme la producono solo nel medio-lungo termine. A breve creano o aggravano recessione e tensioni sociali, come dimostra la cronaca quotidiana dell'eurozona.

I mercati l'hanno capito tanto bene che, nel giorno in cui il Governo di Mariano Rajoy ha annunciato nuovi tagli per 10 miliardi a istruzione e sanità (oltre ai 27 già varati) per ridurre il deficit spagnolo al 5,3% nel 2012, invece di premiarlo sono tornati a bastonarlo sugli spread.

Come stanno facendo con l'Italia di Mario Monti. Nella convinzione che austerità e riforme senza crescita finiscono per elidersi a vicenda. In una spirale perversa che non recupera stabilità ma, mandando lo sviluppo in picchiata, condanna il riequilibrio dei conti pubblici come la modernizzazione e la convergenza del sistema-euro alle fatiche di Sisifo.

Con la recessione in casa che si appesantisce, ormai il messaggio rigorista lascia dunque sui mercati il tempo che trova. In assenza di una autentica strategia e volontà politica europea, la Bce da sola più di tanto non può fare. La sua maxi-iniezione di liquidità alle banche ha guadagnato una tregua, non la pace. Non è servita a tonificare l'economia ma ha dato margini alle banche, tra l'altro italiane e spagnole, per acquistare titoli di Stato calmierando i tassi. A quelle stesse banche ora in sofferenza perché hanno in carico troppi bond sovrani, "intossicati" dalle prospettive di crescita negativa.

Comunque la si guardi, la svogliata politica di pseudo-salvataggio dell'euro sta arrivando a un punto morto. In un clima di distrazione quando non di fastidio diffuso.

La Francia di Nicolas Sarkozy, ligia al credo tedesco, è concentrata sulle imminenti presidenziali: vuole vincere contro il socialista François Hollande che rifiuta il rigore senza crescita. L'accoppiate Monti-Cameron che, all'ultimo vertice europeo sventolando la lettera dei 12, aveva fatto della crescita europea il suo cavallo di battaglia sembra essersi persa per strada in piena afasia. La Germania della Merkel spera cinicamente di riuscire a tirare a campare fino alle elezioni del settembre 2013 senza dover battere cassa al Bundestag per nuovi aiuti ai partner in difficoltà. Spera sempre di riuscirci costringendoli in una camicia di forza che li metta in grado di non nuocere e magari le permetta anche di sfruttare le loro vulnerabilità.

La sua però è una scommessa molto rischiosa. Perché i mercati, che ieri hanno lasciato parzialmente invenduta un'emissione di bund decennali a tassi storicamente bassi, stanno dimostrando di non avere più la sua stessa fiducia sui benefici dell'austerità a senso unico. E di considerare che i 17 dell'euro sono tutti sulla stessa barca. Peccato che il timoniere tedesco continui a non volerlo ammettere e, così facendo, rischi di condannare all'inutilità gli enormi sacrifici che impone ai membri più deboli dell'equipaggio.

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« Risposta #3 inserito:: Maggio 10, 2012, 11:57:13 pm »

Eurozona

È il momento di crescere

10 maggio 2012

Il Sole-24 Ore Milano


Le elezioni del 6 maggio hanno evidenziato la rottura tra la politica e i cittadini europei. Ora bisogna abbandonare il verticismo e la fissazione dell’austerity e far ripartire le economie attraverso solidarietà e integrazione.


Adriana Cerretelli

Basta Europa dei prepotenti, dei padroni che riconoscono solo la legge del più forte. Basta con l'Unione degenerata in una piramide feudale, in cima un grande Stato, l'unico davvero sovrano, e sotto la pletora di vassalli, valvassini e valvassori agli ordini. Basta con l'Europa inconcludente dei proclami: scandalosa quando la crisi economica morde, l'austerità fa il resto e il lavoro si trova sempre meno.

Mai prima d'ora, prima della super-domenica elettorale appena archiviata, si era toccato con mano e con tanta brutalità lo sciagurato divorzio tra l'Europa, le sue classi dirigenti e i suoi cittadini. Una rottura maturata sotto le coltri di un progetto comune che non solo ha perso velocità ma ha finito per rinnegare spirito e politica delle origini ostinandosi a ignorare la realtà: scontento e frustrazioni sempre più diffuse, i problemi della gente. Da qui la perdita di consenso popolare. Non è ancora un plebiscito negativo ma quasi. A questo punto o l'Europa riparte e torna a essere Europa oppure prima o poi muore. Per ricucire con i suoi popoli ha urgente bisogno di due cose: crescita economica e politica.

Per cominciare, recupero della dinamica democratica a tutti i livelli, inter-istituzionali compresi, ripudio di ogni deriva "direttoriale", riscoperta della comunità di diritto e relativa eguaglianza degli Stati di fronte alla legge oltre che del principio dell'unità nella diversità (non nell'uniformità). Solo per questa strada si può sperare di guarire la crisi di fiducia, di superare il mare di diffidenze reciproche che oggi avvelenano la convivenza europea.

Senza però una crescita economica tangibile, e non declamatoria, senza nuovi posti di lavoro, ponti e autostrade trans-europee, reti digitali ed energetiche, in breve senza l'Europa delle opportunità e della speranza al posto di quella del rigore e della disperazione, dalla palude non si esce.

Sarebbe sbagliato illudersi che da sola la Francia socialista di François Hollande, che ha vinto puntando tutto sul rilancio dell'economia europea, possa superare le resistenze tedesche. Evitando così che altrove in Europa si ripeta l'incubo della Grecia, dove l'eccesso di rigore ha fatto saltare domenica anche i parametri della democrazia con l'abnorme ascesa degli estremismi di ogni colore. Per riuscirci Parigi ha bisogno di formare una sorta di santa alleanza che faccia da solido contrappeso allo strapotere della Germania, che finora ha dilagato anche perché non ha trovato argini credibili.

Premesso che i binari della crescita nel rigore sono stretti ma obbligati per aprire un serio dialogo con Angela Merkel, premesso che Hollande pare accettare con convinzione il binomio, l'intesa con l'Italia di Mario Monti e con la Commissione Barroso, con la Spagna di Mariano Rajoi, Portogallo, Grecia, Belgio e anche Olanda sembra solo questione di tempo. Il vertice straordinario Ue del 23 maggio potrebbe essere il momento per testare nuove alchimie di potere insieme a ricette concrete per far ripartire l'economia.

Impresa non facile. Di idee sul tappeto ce ne sono molte: dai project bond per finanziare grandi infrastrutture all'aumento del capitale Bei, dal riorientamento dei fondi strutturali Ue non spesi alla tassa sulle transazioni finanziarie in parte per aumentare il bilancio Ue. Fino agli eurobond in un futuro non ravvicinato. E ancora: l'introduzione della golden rule per scorporare gli investimenti in sviluppo durevole dal calcolo dei deficit, l'interpretazione più flessibile del fiscal compact per allungare i tempi del risanamento dei conti pubblici rendendolo socialmente ed economicamente più accettabile.

Sono però tutte idee che in un modo o nell'altro chiamano in causa solidarietà e coesione, cioè lo spirito europeo che nell'ultimo biennio di crisi è mancato. O che, a danni ormai fatti, è stato tolto in extremis con il forcipe dei mercati dalla pancia di miopie e egoismi nazionali imperanti.

La crescita economica è indispensabile ma, per essere davvero europea e sostenibile, in prospettiva postula altro. Più integrazione a tutti i livelli. L'aggiornamento dello statuto della Bce, dei suoi obiettivi e margini di manovra dopo 10 anni di euro e l'avvenuta globalizzazione di economie e mercati. Un modello di società e sviluppo al passo con tempi. L'Unione politica. Senza, difficilmente l'euro potrà vivere a lungo.

La sfida è ciclopica. Passa per una controrivoluzione culturale alla riscoperta dell'Europa perduta. Fattibile? Di certo la rimessa in moto dell'economia è il primo passo per riconciliarsi con i cittadini, perché un progetto che distrugge la crescita non può attirare consensi. Il resto verrà se si ricostruirà la fiducia anche tra i Governi: se tutti torneranno a parlarsi alla pari, nel rispetto reciproco e riscoprendo il valore dell'interesse comune in un mondo globale dove l'Europa diventa sempre più piccola. E deve imparare ad agire in fretta.
Sul web

    Articolo originale – Il Sole-24 Ore it

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« Risposta #4 inserito:: Agosto 09, 2012, 05:50:38 pm »

I nervi scoperti di Berlino

di Adriana Cerretelli

7 agosto 2012

Di questi tempi sono davvero troppi i nervi scoperti in Europa. Né potrebbe essere altrimenti dopo due anni e mezzo di una brutta crisi che non passa, l'euro sempre in bilico sul vuoto, sfiducia e incomunicabilità crescenti tra gli Stati. In quel clima di «dissoluzione psicologica» europea denunciato da Mario Monti nell'intervista a “Der Spiegel”.

Un'intervista-verità. Politicamente coraggiosa perché parla a un pubblico tedesco non solo del disagio e dei sacrifici mediterranei, del preoccupante scontro Nord-Sud sul quale l'Europa rischia di schiantarsi ma anche di una Germania non priva di zone d'ombra, comunque perfettibile e ben lontana dal rappresentare quella Città del Sole europea che troppo spesso ha la pretesa di essere. Paradossalmente il presidente del Consiglio non dice niente di nuovo sugli attuali tormenti della politica europea (che non c'è) o sui sentimenti anti-tedeschi che da molti mesi covano non solo in Italia ma in tutta l'Unione, anche nei Paesi nordici più virtuosi.

Però li sintetizza in modo conciso ed efficace. Al punto da promuovere di fatto l'Italia a graffiante portavoce delle istanze euro-sud, ora che la Francia di François Hollande ha fatto una scelta di campo decisamente mitteleuropea, prendendo le distanze dalla sua vocazione mediterranea nonostante i tanti spunti emersi in una campagna elettorale ormai dimenticata. Monti però non cerca né vuole creare divisioni. Cerca l'Europa che si sta dissolvendo, tenta di recuperarla per i capelli a forza di coesione, fiducia, solidarietà. Di semplici verità invece di pregiudizi e propaganda: come il fatto che l'Italia ha bisogno di sostegno morale e non finanziario, che finora di aiuti ne ha dati all'Unione e non ne ha mai incassati. Che il debito italiano sarebbe al 120,3% e non al 123,4% se quei soldi non fossero stati versati. Che le banche francesi e tedesche hanno beneficiato degli aiuti dati alla Grecia, quelle italiane no, con il risultato che di fatto Roma ha dato di più di Parigi e Berlino. Che con gli alti tassi che oggi paga sui titoli di Stato l'Italia di fatto sovvenziona i bassi tassi tedeschi. La Germania, si sa, ama impartire lezioni agli altri. Non riceverne.

Soprattutto quando sono puntuali e inattaccabili. La levata di scudi contro Monti è stata dunque immediata, travolgente e by-partisan. Quasi tutta concentrata però sul presunto attentato alla democrazia parlamentare tedesca compiuto dal nostro quando dice l'ovvio e cioè che «se i governi hanno le mani completamente legate dai rispettivi parlamenti, senza nessuno spazio negoziale, sarà più probabile il collasso dell'Europa di una sua maggiore integrazione». Bundestag strapotente e intoccabile: una sentenza della Corte di Karlsruhe oblige.

La stessa Corte che, tra l'altro, di fatto terrà in ostaggio fino a metà settembre euro ed Europa insieme alla nascita dell'Esm, il fondo salva-Stati permanente che dovrebbe intervenire con la Bce per calmierare gli spread italiani e spagnoli. Per nessun europeo, come per nessun tedesco, esiste una causa giusta su cui immolare la sovranità parlamentare. Ma dove era e dove è l'attuale esercito di indignati tedeschi quando con il 6-pack e il fiscal compact si sancisce il diritto europeo di intrusione nelle decisioni parlamentari di bilancio o quando, come propone Angela Merkel, si promuove con l'unione fiscale l'esproprio subito delle sovranità nazionali sulle leve della spesa pubblica in cambio, forse domani, della mutualizzazione del debito dell'eurozona?

Se il sacrificio della normale dinamica democratica è ritenuto uno fondamentale rimedio anti-crisi, perché fa scandalo auspicare qualche spazio di manovra per il Governo di Berlino per rispondere con tempestività alla crisi evitando inutili e spesso astronomici costi aggiuntivi? Forse in Germania vige una legge sul doppiopesismo che consente di fare agli altri quello che non si vuole sia fatto a sé. Dalla Grecia, alla Spagna, all'Italia il sentiero dell'austerità si inerpica sempre più stretto e faticoso. Per salvare l'euro tutti devono fare la loro parte. Se a dirlo è un italiano, si chiami Monti o Draghi, magari sorprende ma rientra nel normale gioco di squadra europeo. O dovrebbe. Sempre che l'Europa non sia diventato un arnese da buttare.


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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 19, 2012, 05:02:33 pm »

L'Europa dei passi indietro

di Adriana Cerretelli

18 ottobre 2012


Poche aspettative per oggi e domani, soltanto un «vertice europeo di tappa». In questa vigilia molti, tedeschi in primis, si affrettano a mettere le mani avanti sull'esito di un appuntamento che assomiglia fin troppo alla riedizione di quello di giugno. E non perché il suo successo spinga all'imitazione. Al contrario. Perché, in poco meno di quattro mesi, gli impegni presi allora per creare efficaci barriere antincendio e fermare la crisi dell'euro si sono impantanati nei confusi meandri delle divergenze interpretative, perfetto paravento degli irrisolti conflitti di interesse e di poteri nazionali.

E così oggi e domani a Bruxelles si terrà un vertice essenzialmente ripetitivo, per confermare che, nonostante tutto, le promesse di giugno saranno mantenute: sulla supervisione bancaria unica da affidare alla Bce come sulla ricapitalizzazione diretta delle banche da parte dell'Esm, il nuovo meccanismo europeo di stabilità nel frattempo divenuto teoricamente operativo. Anche se quasi certamente il calendario originario non verrà rispettato.
È molto improbabile, infatti, che il nuovo sistema di vigilanza centralizzata riesca a scattare dal 1° gennaio anche se, al contrario del suo ministro delle Finanze, Angela Merkel insieme tra gli altri a Italia e Francia vorrebbe stringere i tempi. Germania a parte, a remare contro la scadenza ravvicinata ci sono anche altri Paesi, dentro e fuori dall'euro. Anche se dietro le quinte si starebbe preparando una soluzione ad hoc per la Spagna, qualora si facesse avanti in novembre con una formale richiesta di aiuti per le sue banche (o forse anche altro), per non costringerla a veder lievitare il debito dei 60 miliardi di cui ha bisogno (il 6% del suo Pil).

Strana Europa quella che si riunisce oggi e domani al vertice di Bruxelles. Malata di mutua sfiducia e crescente assenza di consenso popolare, da una parte sfida la relativa clemenza che perdura sui mercati rimandando le decisioni su vigilanza e codice di condotta dell'Esm e impedendo così alla Bce di far ricorso ai suoi "bazooka" anti-spread e non. Dall'altra, pur rallentando l'attuazione degli impegni di giugno che la doterebbero di un prezioso arsenale anti-crisi da mobilitare a breve, se necessario, non esita ad accelerare la corsa verso riforme radicali di medio termine: coraggiose ma forse premature quando le riforme già annunciate, vitali per i più deboli, segnano il passo per ragioni di comodo varie, di contrapposizione di interessi e freni elettoral-ideologici.
«Solidarietà e integrazione devono andare di pari passo» ha mandato a dire ieri a Berlino il presidente francese François Hollande. In perfetta sintonia con la posizione di Mario Monti. Tanto più che la pessima retorica populista del Nord, che si ostina a chiosare sul presunto "dolce far niente" del Sud, è smentita dai fatti. Nell'ultimo biennio il deficit medio dell'eurozona è crollato dal 6,5% al 3,2%, il debito viaggia ormai sotto il 92%. Negli ultimi otto mesi la bilancia commerciale è passata da un deficit di 27 miliardi a un surplus di 47, grazie alla ripresa dell'export mediterraneo, in particolare di Grecia, Spagna e Italia. Il tutto tra recessione (-0,3%), disoccupazione oltre l'11%, salari in discesa e l'inflazione al 2,6% annuo.

Con il "sottile" patto europeo sulla crescita che procede a rilento, e la cosiddetta solidarietà europea che quando gioca lo fa a condizioni durissime per i malcapitati che la chiedono, pretendere anche, come fa Wolfgang Schäuble, un'ulteriore stretta sulle sovranità nazionali in fatto di bilancio e riforme strutturali, diventa un esercizio politicamente spericolato. Tanto è vero che la Merkel ha fatto sapere che se ne parlerà al vertice ma con cautela. Dopo che l'eurozona ha già digerito 6 pack, fiscal compact e 2-pack, cioè tre accordi che imbrigliano gli spazi di manovra dei Paesi membri e legittimano anche il diritto di intrusione europea negli iter decisionali nazionali, ora il ministro tedesco propone di creare un super-commissario europeo con il potere di respingere i bilanci nazionali o di sospenderne l'attuazione qualora non rispettino le regole di stabilità.

A garanzia dell'attuazione delle riforme economiche, poi, in futuro gli Stati dovrebbero firmare "contratti individuali" con Bruxelles: altra idea tedesca sul tavolo del vertice, sia pure presentata nel rapporto Van Rumpuy. Il contentino in tutto questo sarebbe la creazione di un fondo per l'eurozona in grado di stabilizzarla in caso di shock asimettrici o di distribuire aiuti ai riformisti più ambiziosi. «Se dal 2000, invece delle raccomandazioni Ue ignorate ci fossero stati questi contratti, non saremmo arrivati alla crisi di oggi» commentava ieri un diplomatico europeo. «Prima di andare oltre quello, che è già molto, che abbiamo già deciso su disciplina e controllo sui bilanci, cominciamo a metterlo in pratica» gli replicava un altro, di idee opposte.
Vertice di tappa, certo, quello che va a incominciare. Ma con disgressioni sul futuro prossimo e decisioni da mettere in bella copia già in dicembre, per avviare negoziati concreti nel 2013. A Bruxelles si annunciano scontri al calor bianco.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-10-18/leuropa-passi-indietro-063620.shtml?uuid=AbpcfGuG
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« Risposta #6 inserito:: Ottobre 20, 2012, 04:09:28 pm »

Il risveglio francese

di Adriana Cerretelli

20 ottobre 2012

Ha finalmente riaperto gli occhi la Bella addormentata francese. A risvegliarla non è stato il Principe azzurro ma una fattucchiera tedesca ormai tanto sicura di sé e delle sue arti da volerle somministrare questa volta una pozione esagerata. Ha ottenuto l'effetto contrario. Approfittando della relativa tregua sui mercati, preoccupata di compiacere al massimo i propri elettori chiamati alle urne nel settembre prossimo, pretendeva, la fattucchiera, di riuscire a continuare a rallentare a suo piacimento gli aiuti da erogare, via Esm e Bce, ai Paesi euro in difficoltà in barba all'accordo Ue di giugno.

E al tempo stesso di concludere al più presto, e in cambio di niente, l'assalto alle sovranità di bilancio altrui, creando un super-commissario europeo con diritto di veto, senza nemmeno aspettare l'entrata in vigore di tutte e tre le riforme che hanno già abbondantemente ed efficacemente imbrigliato i margini di manovra dei partner. «L'Europa non è un riformatorio» le aveva mandato a dire François Hollande alla vigilia del vertice di Bruxelles. Poi poco prima dell'incontro, rompendo l'etichetta felpata della diplomazia, con una sortita decisamente inconsueta il presidente francese ha espresso pubblicamente il suo dissenso dalle posizioni di Angela Merkel: «Il tema di questo vertice non è l'unione di bilancio ma l'unione bancaria, cioè il rispetto degli impegni che abbiamo preso il 29 giugno».

Capisco, ha aggiunto con una punta di veleno, che il cancelliere abbia scadenze elettorali e quindi discrepanze di calendario, ma con la Germania abbiamo una responsabilità comune, che è quella di portare l'eurozona fuori dalla crisi. Dopo un triennio al cloroformio, che ha visto la Francia come il grosso del club dell'euro allo sbando, succubi delle proprie debolezze e quindi in balìa delle decisioni, peraltro spesso pasticciate e confuse, di una Germania senza argini, ora l'Europa sembra pronta a tornare Europa, cioè una famiglia plurale e dialettica che fa gioco di squadra: l'Europa migliore che forse un giorno ritroverà così anche il consenso dei suoi popoli.

Se i prossimi mesi confermeranno nei fatti la svolta del presidente francese, potranno finalmente crearsi le basi per uscire davvero dalla crisi e ricostruire l'Europa su basi più solide, moderne e adeguate alle sfide globali. I primi risultati positivi si sono visti subito al vertice. Il risveglio di Hollande insieme all'attivismo dell'Italia di Mario Monti, alla determinazione della Spagna di Mariano Rajoy e alla preoccupazione dei Paesi medio-piccoli (non solo mediterranei) sono riusciti per ora ad arrestare l'involuzione verso un'unione sempre più sbilanciata e divisa, alla lunga perniciosa per tutti in quanto politicamente, socialmente ed economicamente insostenibile. E in fondo anche ad evitare alla Germania di farsi del male da sola.

In uno stato di crescente isolamento. Niente super-commissario ai bilanci con diritto di veto. La Merkel si è ritrovata in minoranza. Per ora il suo progetto finisce nel cassetto. Non è escluso che ne possa uscire in futuro, adeguatamente limato e corretto, in un'Europa "normale" che abbia ritrovato gli strumenti di un dialogo alla pari e di un'integrazione più spinta ma anche più equilibrata. Su aiuti ai Paesi in difficoltà e unione bancaria ha vinto il compromesso all'europea. La vigilanza unica, che a regime interesserà tutte le oltre 6mila banche Ue, dovrà attendere almeno fino alla fine del 2013, come vuole la Germania. Mario Draghi del resto aveva anticipato al Parlamento europeo che, per renderla operativa, ci vorrà più o meno un anno.

Nell'attesa si è deciso di chiudere entro l'anno almeno i negoziati sulle regole di accesso agli aiuti Esm: ci penseranno i ministri dell'Eurogruppo, anche se per la ricapitalizzazione diretta delle banche spagnole la strada resta tutta in salita. Non è quello che auspicavano Francia, Italia e Spagna ma si spera che il segnale basti a convincere i mercati che sull'unione bancaria l'Europa fa sul serio.

Ed è intenzionata a fare il possibile per tenere la Grecia a bordo. Quasi tutti i problemi aperti restano irrisolti. Altri si annunciano. L'inglese David Cameron ha ribadito che porrà il veto in novembre sul bilancio pluriennale dell'Unione. Però la resurrezione politica della Francia in Europa, la nuova grinta di Hollande, se non si perderà per strada, promette tempi nuovi o meglio antichi: la ripresa di un processo di integrazione consensuale e democratico scandito dal principio dell'unità nella diversità. Lasciando Bruxelles ieri la Merkel ha affermato di «tenere molto» ai suoi rapporti con Hollande nonostante le rispettive diversità. Buon segno per l'Europa.

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« Risposta #7 inserito:: Dicembre 12, 2012, 06:02:35 pm »

La strada stretta (ma obbligata) di Italia e Europa

di Adriana Cerretelli

11 dicembre 2012


Sui desiderata europei, trasparenti e spesso anche conclamati, non ci sono mai stati dubbi. Ora che Mario Monti ha deciso di gettare la spugna lo stupore si alterna ai timori su stabilità e futuro della terza economia dell'euro.

«L'Italia non è la Grecia» amava ripetere un alto esponente della Bundesbank al tempo dei negoziati di Maastricht. «Perché, se si muove in modo avventato, a differenza della Grecia, è in grado da sola di rovesciare la barca della moneta unica». Vent'anni dopo, quel giudizio che riassume il grande incubo europeo non deve rischiare di diventare una profezia. Per questo si respira tensione a Bruxelles e dintorni.
Mario Monti è una personalità molto apprezzata in Europa. E sui mercati: i sussulti di ieri, per certi versi fisiologici, sono stati eloquenti. Naturalmente nessuno nell'Unione a 27 può seriamente pensare di sottrarre i paesi membri al libero gioco della democrazia elettorale. Gli intermezzi tecnocratici non possono che avere una durata limitata.
Però la prospettiva di un rientro da protagonista di Silvio Berlusconi sulla scena politica manda in fibrillazione molte cancellerie. Non è il cambio della guardia a Roma a preoccupare. Ci mancherebbe. Si temono le divisioni e lacerazioni che hanno segnato quella stagione.

Preoccupa e molto, invece, il rischio di vedere interrotto il cammino di consolidamento dei conti pubblici, delle riforme strutturali in larga parte ancora da fare e del recupero di credibilità del paese. In breve, si teme di veder riapparire lo spettro dell'instabilità e insieme dell'evanescenza italiana. Che soltanto un Governo forte, scaturito da un chiaro ed inequivocabile mandato delle urne, è in grado di garantire. Agli occhi di Bruxelles il Pd di Pierluigi Bersani ha le carte in regola, a patto di neutralizzare l'ipoteca di alleati allergici all'agenda del rigore e delle riforme. E questo vale per chiunque, sinistra, centro o destra, offra queste garanzie.
L'Italia ha bisogno di Europa. Ma anche l'Europa ha bisogno di Italia. Di un interlocutore solido, serio e responsabile capace di mediare, se necessario, tra le sue molte asperità e mille contraddizioni. Soprattutto nei prossimi mesi nel corso del nuovo round di delicate riforme istituzionali che, prima o poi, dovrebbero sfociare in più integrazione e in nuove cessioni di sovranità nazionali su bilancio, riforme, politiche sociali e fiscali.

Già oggi del resto, sul filo delle ultime riforme anti-crisi che hanno rafforzato la governance dell'euro, i margini di manovra dei Governi sono molto limitati. I conti pubblici in equilibrio sono un traguardo obbligato. Come la riduzione del debito. Ancora non lo è ma presto lo diventerà anche il recupero di competitività globale attraverso impegni contrattuali vincolanti per le riforme strutturali. Patti e Trattati Ue a parte, ci pensano poi i mercati a mantenere la pressione per cambiamento e modernizzazione dei sistemi-paese, sanzionando in tempo reale i renitenti a disciplina e riforme.
Illusorio immaginare di cambiare il corso delle cose (a meno di non far saltare il tavolo). L'aveva promesso il socialista François Hollande, facendo della crescita economica europea il suo cavallo di battaglia elettorale per temperare la gelida stretta dell'austerità. Una volta all'Eliseo, la sua Francia si sta mettendo in riga sul modello tedesco senza grandi guizzi. Illusorio anche credere che un'eventuale vittoria in autunno della socialdemocrazia tedesca, magari alleata con i verdi, allenterebbe la morsa dell'austerità sull'euro-sud.
Sono due le molle che potrebbero indurre la Germania a diluire un po' la linea del rigore: la prova provata che, in dosi eccessive, contraddice i suoi obiettivi (come in Grecia, dove fa salire il debito invece di farlo scendere) e l'arrivo della recessione anche dentro i suoi confini.

In entrambi i casi l'austerità non sarà rimessa in discussione, perché ritenuta strumento necessario a carburare una crescita sostenibile. Però sarà finalmente ammortizzata da stimoli europei all'espansione economica, agli investimenti nell'industria, nell'innovazione, nelle infrastrutture, nell'energia.
Per l'Italia in recessione per la quarta volta in 10 anni, con la disoccupazione giovanile e non in viaggio verso nuovi record e le risorse di bilancio che latitano, sarebbe una provvidenziale boccata di ossigeno: la spinta allo sviluppo finora mancata, in grado di evitare il salto nel buio del depauperamento e della deindustrializzazione del paese. Per il nuovo Governo il prezioso viatico di un'Europa "amica" e non più soltanto arcigna.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-12-11/strada-stretta-obbligata-italia-063526.shtml?uuid=AbbG0vAH
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« Risposta #8 inserito:: Febbraio 11, 2013, 11:44:44 pm »

L'industrial compact che serve all'Europa

di Adriana Cerretelli

06 febbraio 2013


In Italia il futuro dell'Ilva resta in bilico. In Belgio Arcelormittal annuncia nuove chiusure di impianti e 1.300 licenziamenti dopo analoghi smantellamenti in Francia. Oggi ci sarà una manifestazione a Strasburgo, dove è riunito in plenaria l'Europarlamento. Tutti, lavoratori e deputati, invocano una politica industriale europea per uscire dall'emergenza e invertire il declino economico e sociale del continente. Ma il vertice Ue che si apre domani a Bruxelles ignorerà il tema. Deciderà invece nuovi tagli al bilancio comune nel prossimo settennato 2014-20, in particolare nelle politiche per la competitività futura.

Eppure, fuori dalla cronaca pura, il quadro appare ancora più drammatico. Tra il 2003 e il 2011 la produzione di acciaio in Cina è cresciuto del 208%, in Europa è calata dell'8%. I primi dieci produttori del mondo sono tutti asiatici, sei cinesi. Arcelormittal, il numero uno, ha sede legale a Lussemburgo ma è indiano. Per trovare il primo nome europeo in classifica, Thyssen-Krupp, il simbolo stesso dell'industrializzazione tedesca d'antan, bisogna scendere al 19° posto.

Per l'auto il panorama non è più confortante. Mercato europeo in picchiata nel 2012, -8,2%, il livello più basso dal 1993, contro +5% cinese. Produttori alle corde sotto il peso di sovra-capacità che cercano disperatamente di ignorare da sempre. Intanto gli emergenti crescono, inesorabili. Aerospaziale e chimica detengono ancora la leadership mondiale: fino a quando? Si potrebbe continuare a lungo.

Nell'Europa in recessione si è fatto il Fiscal compact per stringere la cinghia del rigore nei conti pubblici. Si disserta di "growth compact" ma chissà se mai vedrà la luce in un'Unione il cui Paese leader, la Germania, ha un cancelliere convinto che «la crescita sia il premio della virtù» e forse per questo si appresta, d'intesa con l'inglese David Cameron, a tagliare ancora, al vertice Ue di domani e dopo a Bruxelles, il bilancio pluriennale Ue 2014-20, compresa la voce investimenti in infrastrutture, ricerca e innovazione.

Di "industrial compact", di politica industriale europea, invece, si parla poco, anche se potrebbe diventare il nuovo motore dello sviluppo: il principio della fine della de-industrializzazione di un continente che si era illuso di poter imboccare senza danni la scorciatoia delle delocalizzazioni rinunciando a cuor leggero al manifatturiero per scoprire, complice la grande crisi economico-finanziaria, di aver sbagliato scommessa. Di dover ora correre ai ripari rilocalizzando, rimpatriando gli investimenti per fare crescita e quindi essere in grado di ripagare stabilmente i debiti.

Proprio perché è la polizza sul benessere futuro, la reindustrializzazione dell'Europa dovrebbe dunque diventare la madre di tutte le battaglie. Dovrebbe ma lo sarà? L'impresa è improba ma necessaria. Antonio Tajani, il responsabile Ue all'Industria, ha lanciato il sasso nello stagno di Bruxelles. Il 19 scorso la Commissione Barroso ha riunito per la prima volta un seminario sulla competitività.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2013-02-06/lindustrial-compact-serve-europa-064013.shtml?uuid=AbV78cRH
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« Risposta #9 inserito:: Febbraio 27, 2013, 05:17:44 pm »

L’allarme italiano parla all’Europa

27 febbraio 2013
Il Sole-24 Ore Milano

    Tom Janssen

Gli italiani hanno bocciato Mario Monti e il protettorato di Angela Merkel, sabotando la sua strategia di congelare la crisi dell'Unione fino alle elezioni tedesche di settembre. Ora l'integrazione deve riprendere.

Adriana Cerretelli

Angela Merkel ha fatto di tutto per sgombrare dalla sua strada verso le elezioni di settembre il pericolo di nuovi sussulti di instabilità europea.

In Italia ha giocato a fondo la carta Monti, senza però andare oltre i tanti attestati di stima per evitare l'effetto boomerang prodotto l'anno scorso in Francia dal suo esplicito sostegno a Nicolas Sarkozy.

Poi ha ricucito in qualche modo con il successore, François Hollande. E per salvaguardare la quiete sui mercati è arrivata a depenalizzare il mancato rispetto degli impegni anti-deficit di Parigi con una lettera in cui la Commissione Ue ufficializza la nuova linea flessibile nell'applicazione delle regole. Come nei fatti era già accaduto con Grecia, Portogallo e Spagna.

La strategia del cancelliere non ha funzionato. Il responso delle urne in Italia ha clamorosamente riaperto la piaga dell'instabilità, dentro e fuori dai suoi confini. Come prevedibile, i mercati sono ripartiti all'attacco. L'Europa trema e, per ridurre i danni, sogna il commissariamento del nostro paese, il suo eterno ritorno nei ranghi dei sorvegliati speciali, de jure e non solo de facto. Insieme a Grecia & Co.

Con il suo scatto di nervi elettorale l'Italia in realtà travalica la dimensione nazionale dello scontento per mettere l'Europa, sempre sfuggente, di fronte a una serie di verità scomode, di nodi volutamente irrisolti che cominciano, come si vede, a venire al pettine. E rischiano di rimettere in croce l'euro non tanto per la riesplosione della questione italiana quanto perché l'Italia, terza economia del club, mette a nudo tutti i problemi della moneta unica finora rappezzati a metà oppure accortamente tenuti sotto il tappeto.

Il voto di domenica racconta molto di più della diffusa insofferenza verso la politica del rigore e delle tasse in un paese prostrato da recessione e disoccupazione. Esprime la rivolta contro i bramini di un sistema che, dopo aver deciso di entrare nella moneta unica, non ha fatto le scelte conseguenti per restarci: non si è modernizzato, né auto-riformato, non si è "sborbonizzato" né liberalizzato per diventare più competitivo mettendosi al passo con i partner. Creando così nella gente la falsa illusione che si potesse sempre tirare a campare come prima perpetuando grandi e piccole rendite di posizione senza mai pagarne lo scotto.

Invece no. Ma gli italiani non sono i soli in Europa a non aver fatto i conti con la scelta della moneta unica. È da qui che esplode il dilemma: «Più o meno Europa», «Stare o non stare nell'euro». Il dilemma non è solo italiano ma è la domanda proibita, molto più diffusa di quanto non si creda, tra i membri del club e aspiranti tali.

Nasce e cresce in un quadriennio di crisi, capace di offrire solo la risposta dogmatica del rigore e delle riforme forzate alla tedesca, senza gli ammortizzatori della crescita e men che meno della solidarietà intra-europea. Addirittura senza, se del caso, il ricorso alla normale dinamica democratica in nome di una presunta più efficace opzione tecnocratica. Il tutto mentre si accentua la frattura Nord-Sud e l'Europa e la sua industria non cessano di perdere quote sul mercato globale.

I sacrifici non piacciono a nessuno. Men che meno a chi in giro per le sue capitali, non a torto, nota che «l'Europa ha i soldi per salvare le banche ma non per far ripartire crescita e lavoro». I mercati, d'altra parte, hanno bisogno di certezze sulla futura tenuta e integrità dell'euro per recuperare la calma. Basterà e fino a quando la garanzia Draghi ora che l'Italia rischia di scoperchiare il vaso di Pandora dei troppi problemi irrisolti dell'euro e dell'Unione?

Proprio mentre dovunque si disgrega il consenso popolare all'Europa, paradossalmente la moneta unica ha bisogno per resistere ai suoi guai interni di accelerare sull'integrazione varando la triplice unione, bancaria, di bilancio e politica. Cioè di decidere una volta per tutte se accettare davvero un destino condiviso fino in fondo a tutti i livelli e secondo l'ormai prevalente e pervasivo modello tedesco.

Le elezioni in Germania e le europee che seguiranno nel 2014 hanno momentaneamente congelato dibattito e negoziati, allontanando di alcuni mesi il momento della verità, delle scelte tra le troppe contraddizioni che fanno l'Europa. Ma le inquietudini restano, anzi crescono un po' dovunque. Anche nella Francia di Hollande.

Basterà la flessibilità delle regole sul rigore concessa dalla Merkel a tenere a bada i mercati tirando avanti fino a settembre senza grandi drammi? L'Italia ha tirato un sonoro campanello di allarme in Europa. Sarebbe pericoloso ignorarlo. Per tutti.
Sul web

   
Dalla Germania

L’ultima vittima di Angela Merkel

Angela Merkel è riuscita a perdere le elezioni italiane?

La stampa tedesca constata il “caos politico italiano” associandolo al fallimento della politica di austerity voluta dalla cancelliera.

La Süddeutsche Zeitung sottolinea che

    il freddo realismo con cui Berlino ha insistito sulle riforme nell’Ue è percepito come un diktat ostile. Monti e Bersani – ma anche Berlino e Bruxelles – non sono riusciti a far capire agli italiani che la cura drastica porterà alla guarigione.

A questo punto è meglio rifiutarsi di seguire Merkel nella sua politica economica, consiglia il giornalista Eric Bonse su Cicero. Sarkozy in Francia, Mark Rutte nei Paesi Bassi e ora Mario Monti in Italia hanno dimostrato che “imparare da Angie significa imparare a perdere!”

    Resta da capire perché tutto questo rimbalzi su Merkel. Attorno a sé crea solo terra bruciata, e non ci dicano che questo non ha nulla a che vedere con la sua politica…

Una risposta prova a fornirla la Frankfurter Allgemeine Zeitung. Il quotidiano conservatore attacca i “partiti politici degenerati che possono continuare a saccheggiare” l’Italia:

    Questa pietra miliare della destabilizzazione del paese e dell’Unione è stata possibile soltanto grazie a una legge elettorale sconcertante che alcuni politici astuti – nota bene, durante il governo di Berlusconi – hanno cucito su misura per le necessità del Cavaliere. […] 357, cifra storica di queste elezioni, è la somma degli anni dei quattro candidati e del presidente. Per i milioni di giovani italiani che in questo paradiso di deputati arricchiti non trovano lavoro, né formazione, né pensione, né università in grado di funzionare, dopo queste elezioni non cambierà nulla.

da - http://www.presseurop.eu/it/content/article/3467921-l-allarme-italiano-parla-all-europa
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« Risposta #10 inserito:: Marzo 21, 2013, 04:41:24 pm »

Non bisogna avere esitazioni

di Adriana Cerretelli

21 marzo 2013


Con un buon toccasana a portata di mano, con l'esplicito beneplacito di Bruxelles e con un paese che boccheggia nella recessione carico di disoccupati, nessun Governo dovrebbe più avere esitazioni nè tentennamenti. Ma agire subito per sbloccare i crediti delle imprese verso la pubblica amministrazione. Una manna da 70-80 miliardi.
Dovrebbe farlo al più presto per almeno tre ottime ragioni.

La prima: il rilancio della crescita non può essere lasciato deliberatamente in frigorifero quando, come ha affermato ieri il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, solo il pagamento di una prima tranche del debito, per esempio da 48 miliardi, potrebbe tradursi nella creazione di 250 mila posti di lavoro in 5 anni e nell'aumento del Pil dell'1% annuo nei primi 3 anni e dell'1,5 a partire dal 2018. L'Italia non può e non deve rassegnarsi all'impoverimento e alla de-industrializzazione e neppure a restare in eterno all'ultimo posto nella scala europea dello sviluppo. Perché non c'è decrescita felice per nessuno : se la torta si rimpicciolisce, le fette da distribuire saranno sempre più minuscole. Per tutti.

La seconda si chiama Cipro, l'ennesimo disastroso salvataggio europeo che rischia di fare più male che bene a coesione e credibilità della zona euro nonché alla sua governance collettiva. Con il rischio, alla lunga, di indurre nuove rigidità nella gestione del club al posto delle recenti aperture per un'applicazione delle regole ragionevolmente più flessibile.

La terza è, salvo sorprese, la longevità molto ridotta del Governo Monti. Nei suoi 15 mesi di vita ha fatto tanto rigore e niente sviluppo. Ora gli si offre l'occasione di chiudere in bellezza, di prendere finalmente una decisione che fornisca una vitale boccata di ossigeno a un sistema produttivo allo stremo. Sarebbe un peccato non coglierla. Il tempo stringe per tutti ma soprattutto per le imprese in crisi di liquidità. Di giorni utili per passare ai fatti non ne restano molti. Meglio non buttarli via.

Il paese ne ha bisogno. Non ci sono più alibi europei da invocare per bloccare il dossier nei cassetti. «Nessuno può più accusare l'Europa di lasciar morire le imprese con la rigidità delle sue regole anti-deficit e anti-debito», commentava qualcuno ieri a Bruxelles.

Lo stesso Vittorio Grilli lo ha riconosciuto nell'intervista al nostro giornale: «Dopo il via libera della Commissione europea non vedo ragioni per non procedere con un provvedimento d'urgenza per sbloccare i pagamenti della pubblica amministrazione». Se è vero che siamo davanti a un'emergenza e io credo che sia vero, ha aggiunto il ministro dell'Economia, è giusto partire il prima possibile.

«Ci stiamo lavorando con estrema urgenza, poi toccherà a Monti decidere quando spingere il bottone».
Con la dichiarazione congiunta Tajani-Rehn, blindata per iscritto e resa nota lunedì a Roma, sono cadute tutte le riserve europee: la liquidazione dei debiti commerciali pregressi, vi si legge, potrà essere annoverata tra i cosiddetti «fattori attenuanti» nella valutazione di deficit e debiti.

In breve, l'inevitabile aumento una tantum del debito italiano, che deriverà dai pagamenti dovuti alle imprese italiane, non comporterà l'automatica e finora temuta violazione del patto di stabilità. D'altra parte il rigore con cui l'Italia di Monti ha imbrigliato il deficit dentro i limiti europei stabiliti le ha parallelamente aperto margini di flessibilità sul fronte degli investimenti produttivi.

Per una volta è stato il testardo gioco di squadra Roma-Bruxelles, il palleggio tra il ministro agli Affari europei Enzo Moavero e il commissario Ue all'Industria Antonio Tajani, a superare ostacoli che all'inizio sembravano inamovibili. Da una parte la battaglia per favorire la crescita rendendo le regole dei patti europei più "intelligenti". Dall'altra la crociata per sveltire i pagamenti in Europa, cancellando una volta per tutte il record negativo dell'Italia (180 giorni) e rimuovendo il macigno dell'enorme debito pregresso che soffoca le imprese e la ripresa.

A questo punto tocca a Monti «spingere il bottone» e dare una sferzata allo sviluppo. Perché non al Consiglio dei ministri di oggi? Sarebbe un peccato, in fondo, regalare la medaglia ai suoi successori.

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« Risposta #11 inserito:: Settembre 09, 2013, 09:07:14 am »

Se l'Europa cambia pelle

di Adriana Cerretelli
8 settembre 2013

Tensioni e liti euro-americane tappezzano da anni le stanze del G-20. Almeno quanto le divisioni intra-europee. Il vertice di San Pietroburgo ha ribadito questo consumato copione. Però con alcune varianti che confermano almeno tre cose.

Primo, la globalizzazione dell'economia non facilita quella degli interessi, al contrario. Con il risultato che non la governance multilaterale non solo non decolla ma diventa ogni giorno più difficile, quasi impossibile: l'impotenza dell'Onu "docet", il naufragio del Doha Round sulla liberalizzazione del commercio internazionale pure, gli sterili balletti del G-20 oggi sulla Siria, ieri sulla grande crisi finanziaria e i modi per uscirne, anche.

Secondo, di sicuro non aiuta il relativo declino dell'Occidente che, ancor più che nella perdita di terreno economico nei confronti dei grandi paesi emergenti, si manifesta nella clamorosa sconfessione per ignavia dei suoi valori fondamentali. Come non aiuta la pallida leadership americana, l'imbarazzante debolezza della presidenza di Barak Obama.

Terzo, il rachitismo dell'Europa divisa sulla scena globale, quindi la sua irrilevanza, non fanno notizia da tempo. Ma questa volta è successo di peggio. L'Europa è implosa sulle contraddizioni della sua non-politicaestera comune, della sua non-politica di euro-difesa. Sulle sue velleità di "soft power" che altro non sono che l'ipocrita coniugazione di disvalori radicati in società sempre più deboli, ripiegate su se stesse. Alla deriva. Se, nonostante il suo tentativo di salvare la faccia con la coalizione dei Dieci, l'America di Obama è stata messa in croce a San Pietroburgo, sulla Siria l'Europa è andata letteralmente in pezzi.

Chiamata a misurarsi sul terreno che da sempre pretende esserle il più congeniale, quello del rispettodei diritti umani fondamentali e dei trattati internazionali che, tra l'altro, vietano l'uso di armi chimiche, non ha trovato di meglio che fare un passo indietro, nascondendosi dietro il comodo schermo dell'Onu, di un'autorizzazione a un attacco contro Damasco che quasi certamente non ci sarà mai, visto la ferma opposizione della Russia di Vladimir Putin.

Intendiamoci, nessuno invoca venti di guerra anche perché nessuno sottovaluta i rischi di un intervento nella polveriera siriana, il potenziale destabilizzante per l'intera regione, le vie del petrolio, l'economia e la pace mondiali. Da qui a far finta di niente sulle migliaia di civili ammazzati, a puntare su improbabili miracoli di negoziati diplomatici ancora tutti da convocare, il passo però è davvero troppo lungo. O perlomeno dovrebbe esserlo per tutti. Invece no.

Con l'eccezione della Francia di Francois Hollande (che però assomiglia un po' troppo a quella di Nicolas Sarkozy che si mise alla testa della campagna di Libia nella vana speranza di recuperare popolarità in casa) e della Gran Bretagna di David Cameron paralizzata dalla bocciatura Parlamentare, l'Europa ha suonato la ritirata sventolando le nobili bandiere dell'Onu. Guidata dalla Germania di Angela Merkel (attenta, nell'imminenza delle elezioni, a non rischiare corti circuiti con la propria opinione pubblica), l'Europa al G-20 ha preferito isolare la Francia e schierarsi con Putin e con la Cina piuttosto che con l'America di Obama. Il cancelliere è arrivato a rifiutarsi di firmare (salvo ripensamento in extremis) il documento sponsorizzato dalla Casa Bianca e firmato da 10 paesi, tra cui l'Italia, in cui si limita ad auspicare una forte punizione per la Siria di Assad.

Resta che a San Pietroburgo il "neutralismo" tedesco l'ha fatta da padrone, anche perché in perfetta sintonia con gli umori delle pubbliche opinioni europee, in un momento di crisi conclamata in Francia e Inghilterra, le due potenze militari europee indispensabili per creare una credibile politica estera e di difesa comuni.
Dal G-20, dunque, il primo gesto di leadership politica a tutto tondo della Germania in Europa e nel mondo che segue la leadership economico-monetaria ormai ampiamente consolidata? Molto probabile, vista la preoccupante dissolvenza degli altri grandi attori della scena europea.

Sarebbe esagerato (e infondato) ipotizzare la rottura del legame transatlantico, anche perché Berlino è tra i massimi promotori del negoziato in corso su un grande patto economico Usa-Ue. Però le affinità elettive della Germania con Russia e Cina non sono nuove: potrebbero approfondirsi sul filo di interessi comuni, non necessariamente coincidenti con quelli Usa. Nell'imperante anarchia multilaterale potrebbe essere questa la svolta di San Pietroburgo. In cantiere per dopodomani.

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« Risposta #12 inserito:: Marzo 15, 2014, 07:59:15 am »

Usa-Ue la vera sfida al Dragone cinese

di Adriana Cerretelli
14 marzo 2014

C'è chi, proiettando le tendenze dell'ultimo decennio sul prossimo, prevede entro il 2020 il grande balzo in avanti della Cina sulla scena mondiale con il sorpasso degli Usa, l'Europa alle corde e comunque ormai legata a doppio filo commerciale a Pechino (si veda Il Sole 24 Ore del 27 febbraio).

Altri, invece, partendo da cifre e fatti inoppugnabili, scommettono sulla carta dell'economia transatlantica come unica risposta forte alle nuove sfide dell'era globale.

Europa e Stati Uniti insieme per tener testa al dragone e contenerne gli ardori. In gergo si chiama Ttip, Partnership transatlantica su commercio e investimenti, la ricetta per crescere di più e competere da posizioni di maggior forza con gli emergenti.

Avviata nel luglio scorso, l'iniziativa è già al quarto round negoziale che si conclude oggi a Bruxelles. Non è una strada in discesa, ma si vorrebbe concludere in fretta, entro fine anno. Il potenziale di un accordo è talmente invitante che dovrebbe aiutare a superare molte divergenze.

In un'economia transatlantica che è già la più grande e ricca del mondo, vale più del 50% del Pil mondiale in valore e il 40% in termini di potere di acquisto, movimenta 5 trilioni di dollari di scambi commerciali all'anno e occupa oltre 15 milioni di lavoratori, si calcola che il patto potrebbe carburare la crescita su ciascun lato dell'Atlantico di altri 100 miliardi di dollari annui. Con tutti i nuovi posti di lavoro del caso.

Forse ancor più del fatto che Usa e Ue sono la prima fonte e destinazione dei rispettivi investimenti diretti all'estero, quello che colpisce nell'ultimo studio, appena pubblicato, su L'economia transatlantica 2014, è il forte grado di interdipendenza reciproca che oscura le "ombre cinesi" che tormentano l'immaginario in Occidente.

L'Europa, per esempio, dal 2000 a oggi ha attirato il 56% degli investimenti globali Usa contro l'1,2% della Cina. In Irlanda gli americani hanno investito il sestuplo, in Olanda il quadruplo che a Pechino. La Gran Bretagna da sola ha assorbito il triplo degli investimenti Usa diretti nei Bric, cioè in Cina, India, Russia e Brasile messe insieme. La Germania ha incassato più di tutta l'America centrale, Messico compreso. L'Italia, con 34,5 miliardi, più dell'India (27,7). Per le società Usa l'Europa è la principale fonte di profitti esteri, 230 miliardi di dollari nel 2013, il 57% del totale, più di quanto abbiano fruttato Asia e America Latina insieme. Nonostante la crisi dell'euro abbia falcidiato gli investimenti europei negli Stati Uniti, questi restano comunque il quadruplo di quelli cinesi. E si potrebbe continuare a lungo sciorinando cifre.
Non c'è niente da dimostrare, in fondo, sulla profondità dei legami economici transatlantici che esistono da tempo e prosperano allegramente. C'è invece da sfruttare, meglio di quanto non si sia fatto finora, il loro enorme potenziale.

Dopo aver a lungo snobbato la vecchia Europa, tutto assorbito dal Pacifico, il presidente Barack Obama, che il 26 marzo sarà a Bruxelles per il vertice Ue-Usa, si è ricreduto. Ha capito che solo creando un solido mercato transatlantico, da 800 milioni di persone con alto potere di acquisto e di innovazione tecnologica, in grado di fissare norme e standard mondiali, avrebbe potuto tener testa al rimescolamento di equilibri di potenza sulla scena globale.

Il negoziato continua ma gli ostacoli da superare sono immensi, tanto che c'è chi teme che alla fine la montagna partorirà un topolino. L'Europa ha paura di uscire schiacciata dal braccio di ferro con gli americani, un po' come il junior partner anche se è il più "vecchio". Poi ci sono gli scontri cultural-economici sulla carne agli ormoni, sugli Ogm e il cibo-Frankenstein, in breve sugli standard di sicurezza alimentare, di tutela dei consumatori. E della privacy, dopo gli scandali sullo spionaggio dei cittadini americani.

«Non passeranno», giura Karel De Gucht, il negoziatore europeo. Ma gli americani da sempre interpretano le preoccupazioni Ue come una forma mascherata di protezionismo: non capiscono perché gli europei mangino di gusto le loro bistecche a New York ma poi ne vietino l'import. Bisognerà trovare un modo per intendersi. Questa volta con il Ttip si gioca una partita strategica a lungo termine, il posto dell'Occidente nei futuri equilibri globali, non un semplice accordo commerciale. Nessuno può permettersi il lusso di arrendersi alle difficoltà.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2014-03-14/usa-ue-vera-sfida-dragone-cinese-071117.shtml?uuid=ABtzKz2
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« Risposta #13 inserito:: Marzo 19, 2014, 12:14:08 pm »

Bruxelles aspetta segnali forti dall'Italia

Adriana Cerretelli
19 marzo 2014

Qualche cauta apertura di credito condita di belle parole e molti incoraggiamenti ad agire presto e bene. Però niente assegni in bianco né concessioni fino a quando non si cominceranno a vedere risultati concreti. Questo passa oggi il convento europeo all'Italia e di questo si devono per ora accontentare il governo Renzi e il suo calendario riformista.

Sia pure con toni diversi, il messaggio è stato univoco a Parigi come a Berlino. Nessuno si attende che sarà diverso quello che scaturirà dal vertice Ue che si terrà domani e dopo a Bruxelles. Più che un nuovo campione da laboratorio, l'Italia di Renzi appare un ben noto esemplare, potenzialmente deludente, finito per l'ennesima volta sotto osservazione. Troppe volte il Paese ha preso impegni poi non mantenuti, troppe volte ha tradito attese e promesse.

L'Europa e soprattutto l'euro hanno però un disperato bisogno di un'Italia stabile e risanata, del recupero di crescita e competitività della terza economia della zona: sarebbe altrimenti illusorio credere nella prossima soluzione del teorema delle incertezze collettive europee. Hanno quindi urgente bisogno delle riforme di Renzi attuate insieme al rigoroso rispetto della tabella di marcia per risanare la finanza pubblica.

Le ambizioni del premier e le preoccupazioni europee dunque oggi coincidono perfettamente tra loro, come l'interesse nazionale si identifica con quello generale europeo. Da qui a dire che per questo la strada dei risanamento e della modernizzazione del sistema-Paese sarà più agevole, appare però prematuro. Un passo troppo lungo visti i negativi riscontri del passato e le finora insuperate resistenze agli imperativi di un cambiamento ormai improcrastinabile da parte di lobby e gruppi di potere inossidabili. Con un'aggravante: a poco più di due mesi dalle europee di fine maggio, la riluttanza alle riforme, alla rinuncia di laute rendite di posizione consolidate nel tempo, potrebbe trovare l'alleato ideale nel crescente anti-europeismo del Paese creando una miscela esplosiva, ancora più difficile da neutralizzare per chi ci voglia provare.

L'Italia di Matteo Renzi in realtà non ha più alternative. Oggi è presa tra due fuochi, cui può sfuggire soltanto rassegnandosi a smentire la cattiva reputazione accumulata in Europa. Deve fare i conti da una parte con lo spettro di una procedura Ue anti-squilibri macroeconomici eccessivi (e possibili sanzioni) che potrebbe scattare a fine giugno in assenza di risultati tangibili sulle riforme strutturali annunciate. Dall'altra con il fiscal compact, cioè con l'impegno a ridurre il debito pubblico (133% del Pil) a partire dal 2016 di circa 45 miliardi all'anno per i prossimi vent'anni per riportarlo al tetto del 60% fissato da Maastricht.

Ci vuole una crescita sostenuta, almeno del 2,6% calcolano a Bruxelles, per mettere il bilancio italiano al riparo dall'incubo degli aggiustamenti insufficienti e delle manovre aggiuntive. Quest'anno rimedieremo un +0,6%, dopo il -1,9 dell'anno scorso. Mancano all'appello 2 punti di Pil per avere uno sviluppo in grado di darci sicurezza finanziaria. Soltanto le riforme strutturali possono assicurarlo liberando il potenziale di crescita oggi soffocato dalla giungla dei vincoli inutili, da inefficienze burocratiche e malagiustizia civile, dal cattivo funzionamento del mercato del lavoro.

Se da qui a fine giugno Renzi riuscirà a strappare risultati concreti su questi fronti, a dare segnali forti e provati della volontà e, soprattutto, di una capacità riformatrice in grado di avviare una catena di effetti virtuosi nel Paese, quasi certamente l'Europa, che oggi non è disposta a fargli sconti, non si limiterà a stare a guardare.

Al contrario, potrebbe riconoscergli l'agognata flessibilità negli impegni assunti per ridurre deficit (a zero) e debito, magari concedendo all'Italia più margini di manovra negli investimenti. Magari evitando di richiamarla all'obbligo di destinare al taglio del debito tutti i guadagni derivanti da mini-spread e mini-tassi di interesse, tenendo conto dei cosiddetti "altri fattori rilevanti". Come la necessità di dare impulso alla crescita, appunto. E sapendo che le riforme richiedono tempo, almeno qualche anno, per sortire effetti positivi. Potrebbe, il condizionale è d'obbligo. Finora Renzi ha ottenuto il beneficio del dubbio. Che non durerà a lungo se non seguiranno fatti convincenti. Ci sono poco più di tre mesi per riuscirci.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-03-19/bruxelles-aspetta-segnali-forti-italia-064056.shtml?uuid=ABEeb23
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« Risposta #14 inserito:: Marzo 24, 2014, 05:21:59 pm »

I compiti a casa restano una prova ineludibile

Di Adriana Cerretelli
22 marzo 2014

«Di sicuro non soffre di subalternità ideologica e men che meno psicologica», commentava ieri un diplomatico di lungo corso al termine del vertice Ue di Bruxelles, il primo di Matteo Renzi l'Europeo. Nella due giorni del summit e prima negli incontri di Berlino e Parigi, l'interessato del resto ha fatto di tutto per presentarsi come il giovane premier italiano ed europeista che cavalca l'Europa per addomesticarla e migliorarla, di sicuro non per subirla in modo supino.

L'approccio è nuovo. Smentisce in modo clamoroso quello fideistico, quasi clericale, con il quale tradizionalmente (salvo rare eccezioni) i politici italiani si sono abbeverati al verbo europeo. Anche se più in sintonia con la nuova Europa che avanza, l'atteggiamento sorprende e sconcerta chi in Europa era abituato a trattare con un'Italia indisciplinata ma mite, prigioniera di complessi di inferiorità che facevano anche comodo a molti.

Renzi no. La sua Italia non sarà più, l'ha ripetuto ancora ieri, quella che si presenterà a Bruxelles con il cappello in mano, a prendere ordini e a sottoporsi a commissioni d'esame. E se è vero che oggi si ritrova a pagare per i debiti del passato, è ancora più vero, dice il premier, che ora intende pagare per i debiti del futuro, che sono crescita, occupazione, scuola e innovazione.

Parole. Un uragano di parole. Di promesse. Di meraviglie riformiste da realizzare in fretta. Musica per le orecchie dei suoi interlocutori, soprattutto per la Germania di Angela Merkel che non vorrebbe altro per cominciare a dormire sonni più tranquilli sulle sorti dell'eurozona e della sua terza economia anchilosata da gravi disfunzioni strutturali.

Parole convincenti? Se sulle riforme l'Europa attende il premier al varco dei fatti prima di pronunciarsi, sui conti pubblici lo segue con malcelata preoccupazione: avverte un profumo di eresia, di intolleranza alla disciplina. Di qui il sospetto che forse i numeri non tornino con rischi di manovre correttive e mancanza di coperture sufficienti per fare le promesse riforme, nonostante le rassicurazioni in contrario.

Rispetto del vincolo del 3% per il deficit? No, ni, sì, però… Flessibilità nell'utilizzo dei margini di bilancio al di sotto della soglia? Sì sacrosanto, beh forse, vedremo, aspettiamo il Dep… Fondi strutturali Ue per oltre 12 miliardi a rischio (perché non ancora spesi, N.d.R.)? Va trovata una soluzione ai meccanismi burocratici, l'Italia è un contribuente netto del bilancio Ue, non può perdere gli aiuti perché i cofinanziamenti nazionali sono bloccati dal patto di stabilità... Fiscal compact, che dal 2016 ci imporrà di tagliare il debito pubblico di oltre 45 miliardi all'anno? E' un impegno preso, lo confermiamo però i soldi vanno usati per pagare il futuro, non il passato...
Indicazioni contraddittorie, messaggi ondivaghi che suscitano sgradevoli incertezze e diffidenze nei partner che in passato sono già inciampati nelle "furbizie" nostrane risoltesi a nostro danno e che sono anche gli stessi che dovranno decidere se darci o no fiducia, se renderci o no un po' meno rigida la gabbia delle regole Ue nella quale ci troviamo.
Per incassare dividendi sicuri, la novità Renzi dovrebbe fare esattamente il contrario: capovolgere la sensazione europea della solita Italia all'arrembaggio confuso e disordinato dei codici di condotta di un'Europa che invece con la crisi si è data regole sempre più ordinate, precise e invasive.

Per questo i famosi compiti a casa restano il banco di prova ineludibile, la vera discriminante che plasmerà il nostro rapporto con l'Europa. Solo dopo averli fatti, i compiti, si potrà cominciare a discettare, anche a ragione, sui patti «anacronistici», sulla senilità di un'Europa indubbiamente sclerotica in molte giunture e non abbastanza flessibile nell'abbraccio con l'economia globale e le sue sfide.
Non sarà però con l'illusionismo, risanatore o riformatore che sia, che si riuscirà a ricostruire immagine e ruolo dell'Italia in Europa. Solo con risultati inoppugnabili alla mano Renzi potrà recuperarne la credibilità. E solo così farà davvero l'interesse delle famiglie italiane di cui si preoccupa. Quell'interesse si chiama sviluppo, lavoro, fiducia nel futuro.

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-03-22/i-compiti-casa-restano-prova-ineludibile-081611.shtml?uuid=ABawzr4
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