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Autore Discussione: Addio FRUTTERO, mi ha insegnato la leggerezza  (Letto 3752 volte)
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« inserito:: Gennaio 16, 2012, 11:56:31 am »

16/1/2012

Addio Fruttero, mi ha insegnato la leggerezza

Lo scrittore morto ieri nella sua casa di Castiglione della Pescaia a 85 anni

Il Manzoni… bisogna leggerlo, assolutamente». Se n’è andato con il suo scrittore preferito sulle labbra, Carlo Fruttero. E con un sorriso, perché nelle ultime settimane sorrideva sempre. Sorrideva e viaggiava. Chiudeva gli occhi e andava in Inghilterra, in Cina, in Giappone, ma anche a Passerano e a Canelli. In posti dove non era mai stato e in altri che non visitava da tempo. Cosa ci andasse a fare, lo sapeva soltanto lui. Quando tornava indietro, non si perdeva nel racconto dei particolari. Diceva solo che aveva visto una certa strada, una certa faccia, un ricordo oppure un sogno ancora mai sognato. Aveva fretta di partire di nuovo. «La borraccia, riempitemi la borraccia. E la valigia. È pronta la mia valigia? Insomma, sbrigatevi. Quando mi portate via di qui? Devo fare un altro viaggio, devo andare a Torino!».

Da quando si era trasferito definitivamente in Maremma, nel comprensorio in cui tanti anni prima aveva comprato casa accanto all’amico Italo Calvino, Torino era di continuo nei suoi pensieri.

Come La Stampa. Ne aveva sempre qualche copia sul letto, ma se volevate davvero fargli un regalo, bisognava portargli l’edizione locale, quella con le pagine della cronaca cittadina. Ah, era uno spettacolo vederlo spuntare dalle lenzuola per avvolgersi in quei fogli di carta che parlavano di quartieri e personaggi nei quali aveva ambientato i suoi romanzi, ma soprattutto la sua vita. Non c’era storia minore che non attirasse la sua curiosità. Tanto a farla diventare maggiore ci pensava lui, chiosandola con un aneddoto o una riflessione che la elevavano a fatto universale.

Non aveva paura di morire, Carlo. Era solo preoccupato dalla difficoltà dell’impresa. «Non pensavo che andarsene sarebbe stato così lungo» ha continuato a ripetere fino a ieri. Proprio lui che amava gli articoli e le frasi brevi. Dal giorno in cui me lo ha insegnato, applico ai miei testi il famoso emendamento Fruttero: «Nel dubbio, togli. Togli sempre. Cominciando dagli aggettivi». Togliere ogni peso superfluo alle parole, alle relazioni umane e ai pensieri era il suo modo di essere leggero rimanendo profondo: la lezione di Calvino.

Non aveva paura di morire, ma ne sentiva la responsabilità verso i vivi. Le figlie, i nipoti, gli amici, i lettori. Persino verso di me. Mentre scrivevamo la storia d’Italia in 150 date, era lui a mettermi fretta. «Ho il timore di andarmene prima della fine e di lasciarti a metà strada. Che so, nel ’38 o nel ’72…». La sentiva anche verso il suo Paese: «Stanno arrivando tempi duri. Bisogna che io non muoia. Non posso prendere congedo proprio adesso. Sarebbe una fuga. Ma vedrai, ce ne tireremo fuori anche stavolta. Non dimenticarti chi siamo… L'Italia, no?».

La morte, avrebbe detto Marcello Marchesi, lo ha colto vivo. Ultimato da settimane il suo necrologio, stava dettando un altro libro alla figlia Maria Carla, talmente in sintonia con lo spirito del padre da saperne interpretare anche i sospiri. La biblioteca ideale di Carlo Fruttero: una sorta di giro del mondo in 80 titoli di cui ragionava da tempo con Fabio Fazio e che sarebbe stato, e mi auguro sarà, il suo testamento culturale.

Non era un provinciale, come non lo sono i torinesi che hanno i piedi per terra ma la testa alta e gli occhi capaci di guardare lontano. Eppure quest’uomo che ha letto e amato libri scritti in tutte le lingue del mondo, ultimamente aveva riscoperto i classici di quella che era la sua patria, bene o male. Si era preso una autentica cotta per Pinocchio - «un innamoramento senile», scherzava - mentre quella coi «Promessi Sposi» era una lunga e solida storia d’amore che di recente aveva conosciuto un ritorno di passione.

«Il Manzoni… bisogna leggerlo, assolutamente». Lo ha ripetuto fino all’ultimo, fino alla partenza del viaggio che non lo porterà più a Torino ma in un altrove che gli auguro sia lieve con lui e come lui. Avrei altri cento aggettivi per salutarlo, ma qui scatta inesorabile l’emendamento Fruttero. Così ne salvo uno solo, il suo preferito. Leggero.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/hrubrica.asp?ID_blog=41
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 16, 2012, 12:00:40 pm »

Cultura

16/01/2012 - la lezione

Fruttero, un maestro del disincanto

Fruttero, leggero e pieno di idee

di M. Gramellini

Negli ultimi mesi aveva giocato a limare con le figlie il proprio annuncio funebre

ERNESTO FERRERO
Torino

Ciò che rende la morte effettivamente misteriosa, diceva Carlo Fruttero, è che nessuno ne può parlare per esperienza diretta. «Staremo a vedere» è tutto quello che si può dire del «singolare fenomeno». Con l'amico Lucentini sorrideva dell’idea di un Dio-salvagente, chiamato all’ultimo momento, come fosse il 118, a correre in soccorso dell'Io individuale che altrimenti annegherebbe nel gran mare del non essere. Gli risultava incomprensibile tutto questo attaccamento al nostro Io: «Questo casuale e in fondo estraneo, eterogeneo miscuglio di mediocri virtù e poverissimi vizi». Possibile venerarlo al punto di sperarlo immortale?

È con questo atteggiamento di spettatore vigile e disincantato che Carlo ha vissuto i suoi ultimi mesi, seguendo la cronaca con la solita curiosità, giocando a limare con le amorevoli figlie l’annuncio funebre: «Circondato dall’affetto dei suoi cari…». Diceva che «dopo» gli sarebbe piaciuto un party in giardino. Magrissimo, estenuato, adagiato su molti cuscini, non aveva perso il suo humour settecentesco, pungente ma mai malevolo, una sigaretta sottile tenuta con eleganza tra le dita, con una sorta di ironica sprezzatura. L’ultima volta che l’avevo visto, in estate, gli teneva compagnia l’assordante concerto delle cicale della pineta di Roccamare; verso sera sarebbe toccato alle rane. Lui rievocava con un guizzo da gourmet la bontà di certi brodi di rana di tanti anni fa, nel vercellese. Adesso non se ne trovano più, quelle poche arrivano dalla Cina sotto vuoto.

Ricordando nell’estate 2002 Lucentini appena scomparso, Carlo raccontava di quando andava a trovarlo nella sua cabane in pietra tra Fontainebleau e Nemours, accanto a un canale su cui passavano lentamente chiatte pensose. La sera passeggiavano lungo l'argine o per villaggi deserti, discutendo fittamente di problemi costruttivi dei loro romanzi, fumando senza soste. Si sentivano come i fumeurs obscurs di cui parla Valéry rievocando le sue camminate notturne con Mallarmé: due puntini di brace nell'oscurità. Quei due punti rossi, così fermi e discreti, li abbiamo seguiti a lungo con divertito piacere, con grata adesione. Perché rappresentavano anche l'estrema linea di difesa contro la «prevalenza del cretino», ormai inarrestabile; e un raro esempio di manutenzione del sorriso in tempi poco allegri. Carlo diceva che qualcuno li aveva paragonati a Bouvard e Pécuchet, vedendoli sempre così indaffarati, fermi col mento in mano davanti alla macchina da scrivere, a falciare l'erba davanti alla casa di Franco, o piantar chiodi in una scala pericolante. Ma contrariamente ai due ex copisti, loro di fiducia nel progresso tecnologico non ve avevano proprio. Preferivano definirsi «meccanici trafelati» che cercavano di aggiustare l’aggiustabile, cacciavite e chiave inglese alla mano. Di certo erano dei grandissimi artigiani, veri pronipoti di Flaubert: una lunga gavetta alle spalle, una padronanza perfetta dei ferri dei mestieri acquisita sul campo, prima in Einaudi, poi in Mondadori come direttori di Urania in tempi in cui, Sergio Solmi a parte, la fantascienza era relegata nel ghetto poco elegante delle pratiche commerciali. Esemplarmente flaubertiana in Carlo l'immane capacità di lavoro, il tenersi in disparte, il non partecipare ai riti della socialità letteraria. Fare le cose con estrema serietà senza mai prendersi troppo sul serio. Il contrario del vate, del profeta, del grillo parlante, del monumento equestre. In una delle ultime interviste, ha rivendicato con sommesso orgoglio l’esser rimasto estraneo ai vacui dibattiti della galassia intellettuale, il non aver mai pagato pedaggi. Poco più che ragazzo, aveva lavorato in Francia come operaio, il proletariato lo conosceva per esperienza diretta e non lo idealizzava, il fumo delle ideologie non l'aveva mai incantato. Non aveva mai pensato che il comunismo fosse un nuovo illuminismo. Ha sempre guardato la realtà in faccia per quello che è, senza cercare consolazioni o scappatoie, ma anche senza disperare. Non si è mai sentito, perché lavorava nei libri, il depositario di un qualche sapere superiore. Ha sempre adottato una linea di empirismo stoico: affrontare un problema alla volta con un massimo di professionalità, correttezza, onestà intellettuale, schiena diritta. Diceva che con Franco sorvegliava la situazione, spalla a spalla, le pistole all'erta. Certo, hanno dovuto sparare molto, ma mai con cattiveria o per acre moralismo. Semplicemente per la decenza: loro e di tutti.

Diffidava delle persone sicure di quello che dicono, che parlano di politica, di economia, di letteratura come se avessero capito tutto e sapessero esattamente cosa dire o, peggio, fare. Osservava che c’è in giro una confusione permanente e generalizzata, molto chiacchiericcio, pettegolezzo, voyeurismo e poca verità umana, poca sostanza. Non gli sono mai piaciute le consorterie, le associazioni, i gruppi, i branchi, le cosche. Ha evitato accuratamente di diventare uno di quegli intellettuali carichi di onorificenze che tengono lezioni in prestigiose università, trafficano in premi importanti e imperversano nei talk show. Da Carlo e dal suo amico Franco abbiamo imparato cosa possano produrre l’ironia, l’allegra e micidiale esattezza della satira, le parole chiare, la limpidezza del tratto, l’amore maniacale per il dettaglio, la leggerezza conoscitiva del gioco, la capacità di vedere i caratteri degli uomini e il piacere di ritrarli, la qualità della scrittura. I puntini rossi delle loro sigarette nel buio della notte ci mancheranno molto.

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/438423/
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 16, 2012, 12:02:43 pm »

Cultura

16/01/2012 - personaggio

Gorlier: "Il mio amico Fruttero grande inventore di storie"

Fruttero «aveva un senso dell’umorismo spiccatissimo» dice Gorlier

«L'americanista Bonetto» ricorda lo scrittore scomparso

Maria Teresa Martinengo
Torino

È un pezzo di vita che se ne va. L’amicizia con Carlo Fruttero è nata nel 1937, a undici anni, in prima ginnasio al Gioberti, quando siamo diventati compagni di banco. Adesso mi viene in mente una banalità, ma che parla del nostro rapporto umano. Mi viene in mente che quando eravamo nella Gioventù del Littorio pagavamo due lire per andare in curva a vedere la Juventus, di cui eravamo e siamo sempre rimasti tifosi accaniti». Al professor Claudio Gorlier, l’amico americanista - l’americanista Bonetto de La donna della domenica, il best seller scritto da Fruttero con Franco Lucentini -, la notizia della scomparsa del romanziere torinese arriva inaspettata.

«Ci eravamo un po’ persi - ricorda il professore - da quando lui si era trasferito in Toscana, ma per una vita ci siamo visti spessissimo. Uno dei nostri appuntamenti fissi era la partita della Juve. E in quelle occasioni lui mi raccontava le storie che inventava. Tante storie, a volte nemmeno raccontabili, “outré”, estreme. Si divertiva e diceva, “questa non me la pubblicherebbero mai”». Ma sopra tutto la Juve. «Quando abitava in via Juvarra e sua moglie era già malata, a volte mi diceva “Vorrei tanto venire da te a vedere la partita, ma come faccio a dirlo a mia moglie...?”».

Sono piccoli frammenti inediti della biografia di un grande - «Fruttero non ha raggiunto la fama che avrebbe meritato», sospira Gorlier - che l’amico offre al cronista: «Finito il ginnasio, il padre costrinse Carlo ad iscriversi al liceo scientifico. Dopo la Liberazione, da privatista, prese poi la maturità classica. Si iscrisse a Lettere, ma diede solo pochi esami. Giusto per non partire militare. Non si è mai laureato, non gliene importava».

Da ragazzo, Fruttero abitava in via Villa della Regina, Gorlier in corso Regio Parco. «Durante la guerra - ricorda Gorlier - c’era una regola: se i bombardamenti avvenivano dopo una certa ora, il mattino dopo, a scuola, i professori non interrogavano. Una domenica, alle 7 di sera, eravamo in piazza Castello a fare due passi quando suonò l’allarme. “Evviva, domani non interrogano”, fu la sua reazione. Ecco, un esempio della sua capacità di fare ironia sul tragico, di cui era maestro».

Indisciplinato, insofferente delle regole, provocatore («ha presente quando da Fabio Fazio, inavvertitamente, si accendeva una sigaretta?»). E simpatico. «La Repubblica di Salò aveva reclutato anche i nati nel primo semestre del ‘26. Siccome io ero di maggio, mentre Fruttero era di settembre, io ero diventato clandestino. Continuavamo a scriverci, ma per non destare sospetti fingevamo di essere donne. Per avvalorare la nostra finzione, nelle lettere parlava dei lavori ai ferri che stava facendo... Era così, aveva un senso dell’umorismo spiccatissimo. Per questo, a scuola, i docenti lo guardavano un po’ storto, perché scherzava sempre, faceva battute». Come quella che l’amico americanista ricorda, al ritorno di Fruttero da Parigi, nel ’47. «Amavamo la cultura francese e Gide in particolare. Lui era riuscito a procurarsi l’indirizzo di Gide ed era andato a trovarlo. “Interessante?”, gli chiesi. Carlo: “Una delusione, mi ha fatto gli stessi discorsi che mi fa mio padre”».

Scrittore Fruttero sentiva di doverlo diventare già nella Torino di allora. «Ci divertivamo a scrivere - ricorda Gorlier -. Fruttero, quando era all’Einaudi, collaborava anche con Avanti!. Italo Calvino sosteneva che uno brillante come lui avrebbe dovuto essere chiamato da giornali importanti. “Sarebbe un grande giornalista”, diceva. Ma nessuno, tranne me, pensava che era uno scrittore».

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/438395/
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