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Autore Discussione: VITO LOPS.  (Letto 20481 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Dicembre 17, 2016, 02:44:04 pm »

Via alla grande rotazione sui mercati.
Cosa cambia per bond, azioni, oro e valute

Di Vito Lops 15 dicembre 2016

La Federal Reserve ha alzato i tassi di interesse di 25 punti base portando il costo del denaro all’ingrosso negli Usa nel nuovo range compreso tra 0,5% e 0,75%. Questa notizia era ampiamente attesa e non ha “sconvolto” più di tanto gli investitori. Ciò che non era atteso era il programma che la banca centrale ha per il 2017: alzare i tassi altre tre volte, anziché due come atteso dai mercati. Tecnicamente quindi si tratta di una sorpresa che, non a caso, si è subito riverberata sulle quotazioni finanziarie dei vari asset.

Il rendimento dei Treasury a 10 anni è balzato dal 2,5% al 2,6%. È salito anche quello del Bund tedesco (da 0,32% a 0,37%) ma meno rispetto al tasso del “cugino” americano. Di conseguenza lo spread Usa-Germania (in questo momento certamente più interessante rispetto allo spread Italia-Germania) si è impennato sul territorio inesplorato di 221 punti base.

Seguendo il rialzo dei tassi il dollaro si è rafforzato su scala globale. Il dollar index - che ne confronta l’andamento con le altre sei più importanti valute globali - è balzato ai massimi da 13 anni. Il cambio euro/dollaro è sceso ampiamente sotto quota 1,05, come non accadeva dal 2015. Il rafforzamento del dollaro, unitamente alla ritrovata propensione al rischio degli investitori (accelerata come spesso accade dall’esigenza di fare cassa e quindi performance a fine anno) sta indebolendo l’oro che anche oggi cede quasi il 2% (negli ultimi due mesi ha perso quasi il 20% neutralizzando buona parte del guadagno che aveva messo a segno da inizio anno).

L’indebolimento dell’euro sta dando nuova linfa alle Borse europee che sono reduci da settimane spumeggiante. In 10 giorni Piazza Affari ha guadagnato il 16%. Wall Street resta su valori prossimi ai record storici. La Borsa statunitense - essendo gli Usa un’area più sicura della più prospetticamente turbolenta Eurozona - si è rivelata con un +8% da inizio anno finora la valvola di sfogo dell’abbondante liquidità che deriva dalle politiche espansionistiche tenute negli ultimi anni dalle banche centrale e dalla rotazioni tecniche di asset finanziari.

    Lo scenario 15 dicembre 2016
I tre motivi per cui la «stretta» Fed non allarma i mercati

In questo momento gli investitori stanno vendendo le obbligazioni - perché i tassi stanno salendo e di conseguenza i prezzi, che si muovono in maniera inversa, “devono” scendere - e comprando azioni. Un fenomeno noto come la “grande rotazione”. Dai bond all’equity.

La domanda è, a questo punto, fino a quanto potrà durare questo trend che, come ogni tendenza, ha un inizio e una fine. Soprattutto considerato che Wall Street viaggia con un rapporto prezzo/utili (secondo i calcoli dell’economista e premio Nobel Robert Shiller) oltre 28 volte. Un multiplo da bolla.

Secondo molti esperti c’è una soglia tecnica. Quando i Treasury Usa saranno venduti a tal punto da far sì che il nuovo rendimento (a parità di cedola) si impenni dal 2,6% al 3%, sarà il segnale che potrà partire la “rotazione reverse”. Ovvero gli investitori che oggi stanno vendendo bond e comprando azioni, potranno iniziare a fare l’opposto: vendere azioni (che rischiano l’effetto bolla) e ricomprare obbligazioni Usa a tassi di partenza molto più interessanti. Quale sarebbe appunto il 3%.

Qualora l’investitore europeo volesse replicare questa strategia è bene che sappia che è probabile che se il Treasury arriva al 3% probabilmente contestualmente il dollaro si sarà ancor più avvicinato alla parità con l’euro. A quel punto il rischio cambio (ovvero un eventuale recupero dell’euro sul dollaro) potrebbe mettere in difficoltà quel 3% di partenza che sarebbe, nell’ipotesi, garantito dai titoli di Stato Usa.

Il mercato è, come sempre, paragonabile a una fisarmonica. Le classi di investimento si muovono sempre con una certa logica che ne riflette armonie (o trend) del momento. Tenendo fede al vecchio adagio “nessuno ti regala mai niente”.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2016-12-15/via-grande-rotazione-mercati-cosa-cambia-bond-azioni-oro-e-valute-123526.shtml?uuid=ADZ0RXEC
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« Risposta #16 inserito:: Gennaio 14, 2017, 06:41:25 pm »

ATTESA PER LA DECISIONE
Ecco perché la decisione di Dbrs sul rating è così importante

    –di Vito Lops 13 gennaio 2017

Gli scaramantici possono aggiungere ai market mover del giorno - la pronuncia da parte dell’agenzia canadese Dbrs sul rating dell’Italia - il fatto che questa decisione sia arrivata di “venerdì 13”. Ma più della numerologia conta la sostanza dei fatti. Si tratta di una decisione non da poco perché da essa dipende quanto “costerà”, in termini di garanzie, alle banche chiedere in prestito liquidità alla Bce. Cerchiamo di capire perché.

    L’Analisi
Il voto Dbrs e le vere incognite sulle banche

Il primo punto da capire è che quando una banca commerciale europea chiede un prestito di liquidità alla banca delle banche, la Banca centrale europea, lo fa dando in pegno un collaterale. Una garanzia. Un po’ come quando una famiglia chiede un mutuo e dietro quel prestito la banca chiede in garanzia l’ipoteca sulla casa. I titoli di Stato italiani sono una delle garanzie che le banche possono dare alla Bce per chiedere la liquidità. Sono accettati dalla Bce e, in più, alle banche italiane può far comodo dato che in portafoglio ne detengono un controvalore superiore ai 400 miliardi di euro.

Ma quanto valgono i titoli di Stato italiani per la Bce? Quanta liquidità può prestare alle banche in cambio di un BoT o BTp? Il punto è questo. Perché dal valore attribuito dalla Bce dipende anche la trattenuta sul prestito, tecnicamente chiamata nelle stanze di Francoforte haircut. Il valore attribuito dalla Bce dipende a sua volta dal rating che il Paese che emette quel titolo governativo può esibire. Sebbene vi siano numerose agenzie di rating al mondo, la Bce prende in considerazione il giudizio di quattro agenzie: le americane S&Poor’s e Moody’s, la francese Fitch e la canadese Dbrs. Per la Bce non è importante che tutte e quattro le agenzie abbiano un giudizio “A” per applicare le condizioni di miglior favore, ovvero il minor taglio possibile sul prestito. È sufficiente una “A” tra le quattro agenzie.

Ecco perché il giudizio di Dbrs - il downgrade era prevedibile perché ad agosto l’agenzia aveva aperto una procedura di revisione del rating con outlook negativo - era molto atteso. Dbrs era rimasta l’unica agenzia (delle quattro monitorate dalla Bce) ad avere un giudizio mite sull’Italia: “A-low”. Bastava un notch, un solo gradino in giù, e anche Dbrs si sarebbe unita al giudizio delle altre tre sorelle del rating che da diverso tempo hanno fatto scendere l’Italia dal livello “A” in “Serie B”. E così è stato.

Questa bocciatura, quindi, aumenterà la trattenuta che la Bce chiederà sui titoli di Stato italiani dati in pegno dalle banche quando chiedono liquidità.

Se sei al piano “A” e dai un BoT come garanzia la Bce ne trattiene solo lo 0,5%. Ma se retrocedi in serie “B” la Bce ne trattiene il 6%. Così, se dai in garanzia un BTp nel primo caso la trattenuta è al 6%, mentre nel secondo più che raddoppia al 13%.

Ovviamente la decisione non riguarda teoricamente solo le banche italiane ma tutte quelle che hanno in portafoglio titoli governativi italiani e che intendono darli in garanzia per ottenere finanziamenti dalla Bce.

Secondo i calcoli di Rabobank- che risalgono allo scorso agosto - le banche italiane attualmente hanno prestiti presso la Bce per 142 miliardi di euro. Il downgrade da parte di Dbrs dovrebbe aumentare le garanzie necessarie per sostenere questo prestito di circa 10 miliardi.

    L’ANALISI 6 gennaio 2017
Primi esami per il BTp ma il vero test sarà «politico»
Gli esperti, comunque, sono divisi sull’impatto di un eventuale downgrade. Perché, come ci raccontiamo da tempo, le difficoltà che stanno affrontando le banche europee non sono legate a una mancanza di liquidità. Di questa ce n’è fin troppa. Ad esempio, come ricorda Bankitalia, il collaterale depositato in Bce dalle banche italiane eccede del 40% quanto necessario a ottenere i prestiti Bce.

Va poi detto che i titoli di Stato italiani sono solo una fetta di un’enorme lista di titoli eligible, quelli accettati in garanzia dalla Bce.

E allora dove sta il problema? Potrebbe essere più politico che tecnico. Un downgrade non fa piacere a nessuno. Lo scorso agosto, quando aveva appreso dell’apertura della procedura di revisione da parte di Dbrs, il Tesoro in una nota non aveva nascosto la sua irritazione: «La nostra opinione è che ci sia una violazione delle regole e stiamo valutando se ci sono le condizioni per contestare la decisione di rivedere il rating al di fuori del normale calendario di pre-annunciato».

Un downgrade non fa piacere a nessuno. Tanto meno all’Italia, che nonostante negli ultimi 10 anni di crisi sia stata “costretta” a generare record di avanzi primari (mentre la maggior parte degli altri Paesi reagiva alla crisi ampliando il deficit fiscale), resta ancora la terza economia dell’Eurozona.

twitter.com/vitolops
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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2017-01-13/oggi-dbrs-decide-rating-paese-ecco-perche-e-cosi-importante-102529.shtml?uuid=AD2kYHXC
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« Risposta #17 inserito:: Gennaio 29, 2017, 08:48:53 pm »

Titoli di stato
Perché lo «spread dell’inflazione» penalizza l’Italia e il debito pubblico

    –di Vito Lops 27 gennaio 2017

Se c’è una cosa buona che fa l’inflazione è quella di abbattere il costo reale di un debito. Se però i tassi sul debito aumentano più dell’inflazione siamo punto e a capo. Il costo reale (depurato per l’inflazione) di quel debito anziché diminuire aumenta. Ed è quello che rischia di accadere in Italia se l’andazzo degli ultimi mesi diventerà (più o meno) strutturale.

Il rendimento del BTp a 10 anni è passato dall’1,2% della scorsa primavera agli attuali 2,23%. Questo aumento non impatta ovviamente sulle casse dello Stato in merito allo stock di titoli a cedola fissa già emessi ma sui nuovi titoli. E lunedì il Tesoro emetterà nuovi titoli in asta a medio-lungo termine (5 e 10 anni) per quasi 10 miliardi e qui le cedole (e di conseguenza il costo nominale del debito) saranno certamente più alte rispetto alle precedenti emissioni.

Questo perché sul mercato secondario dei titoli di Stato i BTp in circolazione già scontano (non potendo farlo sulla vecchia cedola che è fissa, lo fanno sul prezzo che si è allontanato a quota 91 rispetto ai 100 a cui verrà rimborsato il titolo a scadenza) un tasso del 2,23%. Ed è su questi livelli che dovrebbe attestarsi quindi il costo della nuova cedola a 10 anni che il Tesoro andrà a vendere lunedì.

Ciò che conta, però, non è il costo nominale debito ma quello reale. E questo dipende, come visto, dall’inflazione. Tanto più è alta l’inflazione tanto sarà nella sostanza meno costoso per il Tesoro rimborsare gli interessi sul debito. Viceversa più l’inflazione è bassa più sarà caro in termini reali il monte interessi da rimborsare.

In questa fase, a livello globale, stiamo assistendo a un generale aumento dei tassi di interesse. Perché gli investitori si aspettano un rialzo futuro del costo del denaro da parte delle banche centrali (a partire dagli Usa che già hanno avviato questo percorso con due strette negli ultimi 13 mesi a cui potrebbe aggiungersi un’altra a giugno e poi a ruota, fra 1-2 anni, nell’Eurozona). Le banche aumenteranno i tassi solo però se allo stesso tempo l’inflazione attesa continuerà a dare segnali di normalizzazione.

C’è un grafico che misura l’andamento delle stime nel medio termine dell’inflazione. Lo consulta tutti i giorni il governatore della Bce Mario Draghi. È l’indice “5y5y Eurozone inflation”: stima ad oggi come sarà l’inflazione fra 5 anni e per i prossimi 5 anni. Dato che l’obiettivo della Bce è quello di mantenere la stabilità dei prezzi su un livello «inferiore ma vicino al 2%» nel medio termine, è questo il grafico da prendere in considerazione per provare a intercettare le prossime mosse monetarie dell’istituto di Francoforte.
LE ASPETTATIVE DI INFLAZIONE FRA 5 ANNI (E PER I PROSSIMI 5) NELL'EUROZONA
Dati in percentuale
2012OttAprOttAprOttAprOttAprOtt1,01,21,41,61,82,02,22,42,62,8

Come dimostra il grafico, il tasso di inflazione atteso è aumentato di 50 punti base in pochi mesi. Ad agosto la stima “5y5y” era pari all’1,3%. Oggi siamo vicino all’1,8%: 50 punti base appunto. Questo ci aiuta a capire come mai il rendimento del Bund tedesco è passato da 0 allo 0,48% nello stesso arco temporale. Gli investitori stanno semplicemente adeguando il rendimento delle obbligazioni rispetto alle mutate previsioni inflative.

Al di là delle stime e dei dati che mediano fra più Paesi, però, il costo reale del debito si paga di anno in anno in base a quella che è stata l’inflazione generata dal singolo Paese.

Questi dati ci dicono che oggi l’Italia ha una spinta inflativa meno forte rispetto all’area euro nel suo complesso. A dicembre, su base annua, il livello generale dei prezzi è cresciuto dello 0,5%. Molto meno rispetto all’1,6% della Spagna, all’1,7% della Germania e all’1,1% medio dell’area euro.
IL CONFRONTO TRA L’INFLAZIONE IN ITALIA, SPAGNA ED EUROZONA
Dati in percentuale
Italia Eurozona Spagna
20092010Lug2011Lug2012Lug2013Lug2014Lug2015Lug2016Lug-2-101234

Se questo “spread tra le inflazioni dei diversi Paesi” proseguirà vorrà dire che nei prossimi mesi all’Italia costerà di più in termini reali, nel raffronto con gli altri Paesi, rimborsare il debito. E ancor di più se consideriamo anche che i tassi nominali sul debito stanno aumentando molto più in Italia che altrove. Basti pensare che a marzo il BTp a 10 anni esprimeva un tasso di interesse dell’ 1,25% mentre il corrispettivo Bonos spagnolo era considerato più rischioso e “pagava” l’1,51%. Oggi la situazione si è capovolta. Quel BTp è andato al 2,23% (quindi 100 punti base in più) mentre il Bonos è più o meno rimasto lì (1,57%). In 10 mesi l’Italia ha perso nei confronti della Spagna quasi 100 punti base nominali sul titolo decennale. Senza considerare la minor inflazione che sta generando. Il che vuol dire che in Spagna per quest’anno quel costo dell’1,5% verrà abbattutto dall’inflazione dell’1,6% mentre quel 2,23% italiano sarà limato solo di 50 punti base (se l’inflazione resterà sui livelli attuali).

A onor della “macro-cronaca” va poi detto che probabilmente le aspettative di inflazione nel medio-periodo probabilmente peccano di eccessivo “entusiasmo”. Se infatti osserviamo l’andamento dell’ “inflazione core” (quella che non conteggia i beni energetici e le materie prime agricole) notiamo una straordinaria stabilità: l’area euro pare imballata intorno allo 0,9%.
L’ANDAMENTO DELL'INFLAZIONE CORE
Sono esclusi i beni energetici e i prodotti agricoli non lavorati. Dati in percentuale
Italia Eurozona Spagna
20112012Lug2013Lug2014Lug2015Lug2016Lug-0,50,00,51,01,52,02,53,0

Questo ci dice che l’inflazione generale sta avendo una fiammata negli ultimi mesi in virtù dell’aumento del costo delle materie prime. Nell’ultimo anno infatti il prezzo del petrolio è praticamente raddoppiato: da 28 a 56 dollari al barile. Ma dato che l’inflazione si calcola anno su anno, è ragionevole ipotizzare che, salvo un nuovo raddoppio del prezzo del petrolio, la spinta inflativa delle materie prime tenderà a ridursi nei prossimi mesi/anni.

E allora perché gli investitori stanno comunque puntano su un aumento dell’inflazione anche nel medio-periodo (5y5y all’1,8%)? Molto semplicemente perché si aspettano che nei prossimi anni i governi dei Paesi europei (anche qui trascinati dagli Usa come first mover) adottino politiche fiscali più espansive che aumentino il potere d’acquisto della fascia medio-bassa della popolazione, l’unica in grado di impattare sull’ “inflazione core”.

Ma si tratta di una scommessa. Peraltro con ostacoli non semplici da superare: si veda il principio del pareggio di bilancio novellato nell’articolo 81 della Costituzione o le ritrosie di Bruxelles a derogare sul vincolo del deficit/Pil al 3%. Con questi paletti come potranno i Paesi europei adottare politiche fiscali aggressive nei prossimi anni a tal punto da stimolare l’inflazione?

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http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2017-01-27/perche-spread-dell-inflazione-penalizza-l-italia-e-debito-pubblico-121951.shtml?uuid=AEYJeDJ
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« Risposta #18 inserito:: Marzo 05, 2017, 11:20:10 pm »

Ecco lo spread che ci avvisa quando le azioni sono a rischio bolla

Di Vito Lops 03 marzo 2017

I mercati finanziari sono pieni di indicatori. Di dati ce ne sono fin troppi. Analisti e operatori ogni giorno si trovano di fronte a un overload di numeri e informazioni di fronte ai quali non sempre è facile capire quale direzione prenderà nelle ore successive il flusso di capitali.

Uno degli indicatori più utilizzati dai tecnici, ma che spesso resta nell’ombra ai più, è lo spread tra l’earning ratio yield (il rapporto tra l’utile per azione degli ultimi 12 mesi e il prezzo corrente di mercato) di una Borsa rispetto al rendimento dei titoli a 10 anni espresso dallo stesso Paese o area geografica.

È molto utile perché fotografa in tempo reale il costante duello tra azioni e titoli governativi. Se un Paese è affidabile, è giustificato che vi sia uno spread (un differenziale) tra azioni e bond, proprio perché le azioni sono tendenzialmente una classe di investimento più rischiosa rispetto ai titoli di Stato. E questo spread misura proprio il premio al rischio che un investitore “riceve” per il fatto di investire in un asset potenzialmente più pericoloso.

Quando questo spread si attenua, si riduce anche il premio al rischio e i titoli di Stato diventano di conseguenza più attraenti. Oppure, leggendo l’altro lato della medaglia, può voler dire che le azioni sono diventate un po’ carucce. In sostanza, il “gioco” di detenere azioni anziché bond inizia a valere meno della candela.

Bene, osservando oggi l’andamento di questo spread negli Usa si ricava un’indicazione interessante.
LA DIFFERENZA TRA GLI UTILI PER AZIONE A WALL STREET E IL RENDIMENTO DELLE OBBLIGAZIONI USA A 10 ANNI
Earning ratio yield dell'S&P 500 versus Treasury a 10 anni

Man mano che le azioni a Wall Street stanno macinando record (mercoledì l’indice Dow Jones ha superato per la prima volta la soglia dei 21mila punti e il più corposo S&P 500 ha sorpassato per la prima volta nella storia i 2.400 punti) sta calando l’earning ratio yield delle stesse azioni (che si ottiene dividendo l’utile per azione degli ultimi 12 mesi per il valore corrente di Borsa dell’azione). L’earing ratio yield (che è l’inverso del price/earning, un altro multiplo molto utilizzato) dell’S&P 500 è sceso al 4,39 per cento. Un dato decisamente basso rispetto agli ultimi anni. Basti pensare che nel 2012 era al 7%, nel 2009 a 9% e lo scorso anno oltre il 5 per cento.

    L’Analisi
Listini Usa, se l’euforia irrazionale riempie il vuoto

Allo stesso tempo sta aumentando il rendimento dei Treasury (i titoli di Stato Usa) per via dell’aumento dell’inflazione. Il tasso decennale è salito al 2,5%, 100 punti base in più rispetto allo scorso settembre. Di conseguenza lo spread tra le due classi di investimento si sta riducendo. Siamo a 192 punti (1,92%).

Il premio al rischio di investire a Wall Street è sceso: ovvero le azioni, a fronte di una maggiore volatilità sul prezzo, “promettono” oggi “appena” l’1,92% annuo in più rispetto ai titoli di Stato Usa. Lo scorso anno il premio al rischio era superiore al 3 per cento. Nel 2011 oltre il 6 per cento.

Per trovare un livello così basso bisogna tornare indietro nel tempo, esattamente al 2010. Quell’anno, in cui lo questo speciale “spread” scese anche sotto l’1%, Wall Street perse il 13% in due mesi, segnando il peggior andamento bimestrale di sempre.

Questo non vuol dire che Wall Street - che continua ad apprezzarsi in scia alle promesse, per ora non corroborate nei fatti da piani sostanziali, del nuovo presidente Donald Trump - è inevitabilmente destinata a una forte correzione. Ma in ogni caso può offrire a risparmiatori e investitori uno spunto di riflessione in più. Prima di operare in un mercato che inizia, lo dicono i numeri, a surriscaldarsi.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2017-03-03/ecco-nuovo-spread-che-ci-avvisa-quando-azioni-sono-rischio-bolla-122337.shtml?uuid=AECkIHh
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« Risposta #19 inserito:: Marzo 28, 2017, 11:39:31 am »

Quanto manca alle Borse per rivedere i record? Alla Germania il 2%, all’Italia il 150%, al Giappone 28 anni

    –di Vito Lops 17 marzo 2017

A giorni la Borsa tedesca potrebbe ritoccare il massimo storico raggiunto il 10 aprile 2015, a quota 12.390 punti. Grazie al +5% messo a segno da inizio anno il listino azionario principale in Germania, il Dax, è a soli 2 punti percentuali dal ritornare laddove il territorio che ne segue è inesplorato. Lo stesso vale per le Borse di Londra e New York che sono a meno di un punto percentuale dal top che però hanno già aggiornato in questo 2017, qualche seduta fa.

    La borsa di Milano 16 marzo 2017

Piazza Affari sfonda 20mila punti. Ai massimi da 14 mesi

Questi tre listini (Usa, Regno Unito e Germania) stanno vivendo il loro momento più alto. Ma non è così per tutte le Borse. Il Cac 40 di Parigi dovrebbe salire del 38% per riportarsi nella sua espressione più alta, quei 6.944 punti toccati il 4 settembre del 2000. Anche Piazza Affari dovrebbe fare un salto quantico nel tempo per respirare aria di record. Sono passati oltre 17 anni (era il 6 marzo del 2000) da quando il listino delle blue chip milanesi toccò 50.108 punti. Oggi naviga a quota 20.000: vuol dire che necessita di un balzo del 150% per mettersi in pace con la storia.

Ci sono poi casi ancor più eclatanti come quello della Borsa di Lisbona, a cui manca una performance del 226% per tornare in auge (o, se vogliamo, ha perso il 69% dai suoi momenti più felici) e quello della Borsa di Atene che dista il 905% dal picco che risale al 17 settembre del 1999.

A livello temporale c’è però chi batte la Grecia. L’indice Nikkei di Tokyo annovera la sua peak performance addirittura al 29 dicembre del 1989, 28 anni fa. Per riproporsi su quei livelli dovrebbe raddoppiare il proprio valore. Mentre alla Cina manca un +54% per riesplorare i massimi del 2015.
QUANTO MANCA ALLE BORSE PER RIVEDERE I MASSIMI STORICI

L’analisi dell’andamento delle Borse spesso aiuta a raccontare anche la storia economica e l’andamento dei singoli Paesi. Da questa speciale “classifica di distanza dei valori azionari dai picchi” possiamo ricavare che il Giappone sta pagando ancora la “giapponesizzazione” dell’economia, oppure che Stati Uniti e Germania sprizzano salute. Così come che Atene e Lisbona arrancano mentre l’Italia è ingessata, ancora lontana dal momento di massimo fulgore.

Non bisogna però commettere l’errore di associare algebricamente la Borsa di un Paese al cuore dell’economia di quel Paese. In un’economia sempre più globalizzata - dove le multinazionali dichiarano utili nei Paesi dove è più agevole ottenere risparmi fiscali - le carte si rimescolano un po’. E non sempre i listini sono rappresentativi dell’economia domestica. Ad esempio la maggior parte delle aziende quotate sul listino spagnolo hanno una forte connessione con l’economia brasiliana. Quindi se l’indice Ibex corre non è necessariamente detto che i cittadini spagnoli stiano, in quanto a standard di vita, correndo di pari passo.

    Scenari sui mercati 23 febbraio 2017

Perché (dopo Mosca) Milano è la Borsa peggiore da inizio anno

Un altro fattore che può distorcere il collegamento tra una Borsa e lo stato di salute generale delle imprese domestiche riguarda il sovrappeso che un settore può avere nella composizione di un indice. Ad esempio il Ftse Mib di Milano - che calcola l’andamento ponderato dei 40 titoli più importanti - è sbilanciato sui titoli finanziari che hanno un peso superiore al 30%. Quindi se le banche se la passano male, l’immagine dell’intero listino ne risulta oltremodo penalizzata.

Il fatto che un indice non sia necessariamente lo specchio di un Paese emerge chiaramente anche dal confronto del Ftse Mib con il Ftse-Italia All Stare. Al primo, come detto, manca un +150% per rivedere i massimi. Al secondo - che annovera anche imprese più piccole, di media capitalizzazione, ma più rappresentative del tessuto produttivo italiano, occorre “appena” un 17% per tornare al picco del 20 luglio 2015.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2017-03-17/quanto-manca-borse-rivedere-record-germania-2percento-all-italia-150percento-giappone-28-anni-183306.shtml?uuid=AEM7Wbo
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« Risposta #20 inserito:: Giugno 17, 2017, 10:53:26 pm »

Il Bitcoin crolla del 24% in quattro giorni. Perché è sulle montagne russe

•   –di Vito Lops
•   15 giugno 2017

Da inizio anno il Bitcoin vale il 140% in più. Se però si osserva la quotazione della scorsa settimana - quando negli scambi intraday la criptovaluta più gettonata è arrivata a toccare quota 3.000 dollari - e la si confronta con quella di oggi (2.283) si scopre che in quattro sedute il Bitcoin ha perso il 23,9% del proprio valore.
Un’escursione al ribasso talmente violenta che a questo punto chi ha deciso recentemente di acquistare nelle varie piattaforme elettroniche che lo consentono la moneta digitale più famosa del web comincia a chiedersi se abbia commesso un grosso errore. Se, come avviene quando si è nel bel mezzo di una tipica bolla finanziaria, sia rimasto con il cerino acceso in mano.
È presto per dirlo, così come è al momento francamente complesso tacciare il Bitcoin e il fenomeno generale delle cripto valute come una moda passeggera o una bolla destinata certamente a implodere.
Di certo bisogna dire che non si tratta della prima volta che il Bitcoin subisce i contraccolpi della volatilità. A fine 2013 valeva già oltre 1.100 dollari. Meno di un anno dopo era scesa sotto i 400 dollari. Dopodiché, a partire dal 2015, è iniziato un forte trend rialzista sfociato con la clamorosa accelerazione partita lo scorso autunno che ha portato la valuta da 700 a 3.000 dollari.
L’ANDAMENTO PAZZO DEL BITCOIN
La volatilità sulla criptovaluta più utilizzata al mondo
GenMarMag5001.0001.5002.0002.5003.000
Le ultime sedute però sono state particolarmente nefaste per la quotazione che, come detto, si è depressa in poche ore di quasi un quarto del valore. Non aiuta in tal senso un report di Morgan Stanley secondo cui il Bitcoin, e più in generale le cripto valute, non potranno affermarsi in futuro né come delle valide monete né come delle interessanti forme di investimento finanziario. Secondo la banca d’affari il Bitcoin è una modalità scomoda per i pagamenti di beni e servizi che non potrà reggere il confronto con la praticità e la solidità oggi garantita dalle carte di debito e credito.
Il peccato capitale di cui soffrirebbe il Bitcoin è la sua volatilità. Talmente elevata che lo rende troppo difficile per affermarsi come mezzo di pagamento.
Una secca bocciatura al Bitcoin e alla sua ascesa, così come - per estensione - alla seconda criptovaluta del pianeta, Ethereum. Del resto lo avevamo già detto: il Bitcoin ha degli innegabili punti di forza - che in parte giustificano la folle corsa negli ultimi mesi - ma anche una potenziale estrema fragilità.
Tra i punti di forza c’è la sua stessa natura di moneta limitata. Secondo le regole per l' “estrazione” fissate dall'ideatore (noto con lo pseudonimo Satoshi Nakamoto) il Bitcoin tende asintoticamente al limite di 21 milioni, limite che dovrebbe essere raggiunto a una trentina d'anni dalla nascita. Quindi stiamo parlando di una potenziale risorsa limitata. Che sia limitata è fuor di dubbio. Che diventi una risorsa dipende - e questo è il destino comune a tutte le valute, digitali o cartacee - da quanto verrà accettata come mezzo di scambio.
“Secondo Morgan Stanley il Bitcoin è una modalità scomoda per i pagamenti di beni e servizi che non potrà reggere il confronto con la praticità e la solidità oggi garantita dalle carte di debito e credito”
La scommessa è tutta qui: si rafforzerà come mezzo di pagamento? Quante piattaforme in futuro accetteranno Bitcoin nell’e-commerce? Per acquisire credibilità una criptovaluta ha bisogno di un andamento costante e poco volatile. Una qualità che nell’ultima settimana il Bitcoin ha dimostrato di non possedere ancora. Perché può bastare un report o una decisione politica di un Paese di non accettarlo per minarne le fondamenta e la crescita.
A conti fatti il Bitcoin non è quindi né promosso né bocciato al test dei mercati finanziari. Per ora è (solo) rimandata.
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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2017-06-15/il-bitcoin-crolla-24percento-quattro-giorni-perche-e-montagne-russe-181318.shtml?uuid=AEpNkLfB
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« Risposta #21 inserito:: Luglio 02, 2017, 04:59:01 pm »

IL BILANCIO DEI PRIMI SEI MESI
Piazza Affari, mini-rally con le banche
Di Vito Lops 01 luglio 2017

Un semestre così in Borsa mancava da diverso tempo. Dobbiamo tornare indietro al 2009, quindi otto anni fa, per incrociare performance simili a quelle messe a segno dall’azionario in questo 2017. In sei mesi la capitalizzazione globale delle Borse è lievitata di 9mila miliardi e viaggia oggi sui massimi di tutti i tempi a quota 75.770 miliardi di dollari.

Dei 30 indici delle più grandi Borse al mondo, soltanto quattro (Cina, Canada, Israele e Russia) hanno registrato una performance negativa. Per tutti gli altri listini big il leit motiv è stata la crescita. È stato il semestre della tecnologia: l’indice Nasdaq ha aggiornato per ben 38 sedute il massimo storico, chiudendo i primi sei mesi con un rialzo del 14% (+27% in 12 mesi). Va però detto che nelle ultime settimane sull’hi-tech Usa è aumentata la volatilità, il che lascia presupporre una possibile correzione alle porte.

SONDAGGIO ASSIOM FOREX-RADIOCOR 30 giugno 2017
Borse, più incertezza tra gli operatori. Pesano politica e inflazione
Tencent Holdings, il più importante produttore mondiale di videogiochi, e WeChat, il più popolare social network locale, sono balzati del 40%. Alibaba, il più grande mercato elettronico asiatico, è salito del 60%. Questi titoli hanno aiutato l’indice Msci Asia ex Japan ad archiviare una performance di metà anno superiore al 20%.

Più contenute ma comunque solide le performance degli indici che inglobano la “old economy”. L’S&P 500 e il Dow Jones hanno incamerato un apprezzamento dell’8% superando la media delle Borse europee (+6,5%) che in ogni caso hanno dimostrato una ritrovata verve grazie all’aumento degli utili societari. Il Ftse Mib di Piazza Affari - nonostante da metà maggio abbia perso il 5,5% - chiude il primo semestre con un rialzo del 7%, soprattutto grazie al recupero del settore bancario (+17%). In linea generale hanno sofferto i titoli del settore energetico. L’ “oil and gas” europeo è arretrato dell’11%, quello italiano del 16%. Un dato che fa il paio con l’andamento del petrolio: a inizio anno un barile costava 54 dollari mentre ieri (qualità Wti) non superava i 45 (-16%). Del resto il calo del petrolio ha stupito molti analisti che invece a gennaio si erano sbilanciati a favore delle quotazioni del greggio. Così come le previsioni ipotizzavano un ulteriore rafforzamento del dollaro e un rialzo dei tassi dei titoli di Stato Usa. Delle tre, nemmeno una. Il petrolio, come visto, ha subito un calo a doppia cifra con un ribasso massimo rispetto ai picchi dell’anno del 23%. Il dollaro, anziché rafforzarsi in funzione delle politiche monetarie restrittive della Fed (che in questa prima metà dell’anno ha alzato due volte i tassi di interesse) si è indebolito. Il dollar index - che sintetizza l’andamento del biglietto verde rispetto alle sei principali divise del pianeta - è arretrato del 7,5%.


DOPO L'ANNUNCIO DEL RIASSETTO  30 giugno 2017
Scatta Unipol e scende UnipolSai, per analisti aumentano chance M&A
Ancor più marcato il cross con l’euro che è passato da 1,05 a 1,14, segnando un corposo +8,5%. Quanto ai titoli di Stato Usa, il rendimento dei Treasury a 10 anni è sceso dal 2,45 al 2,26%, circa 20 punti base in meno. E questa non è una bella notizia perché, a fronte di una Fed impostata sul rialzo dei tassi (ne ha promesso un altro entro l’anno e tre nel 2018), il fatto che i tassi sulla parte lunga del debito vadano in controtendenza indica in un certo qual modo che gli investitori sono scettici sulla capacità da parte dell’economia Usa di assorbire, in termini di futura crescita economica, l’avviato percorso di normalizzazione dei tassi.

Nell’Eurozona invece, rispetto a inizio anno, oggi i tassi sono più alti. Il Bund a 10 anni si attesta allo 0,47 % (0,18% a gennaio) e il corrispettivo BTp al 2,16% (1,74% a gennaio). Ma gran parte di questo rialzo è arrivato nell’ultima settimana quando i principali esponenti della Bce hanno rilasciato dichiarazioni “vaghe” a proposito dell’avvio del tapering, il processo di riduzione degli stimoli che prima o poi l’istituto di Francoforte sarà chiamato ad annunciare. Molti investitori temono che l’abbrivo sia a settembre e quindi nelle ultime sedute hanno iniziato ad alleggerire le posizioni in bond governativi dell’area euro. Va detto che anche in questo caso gli analisti non ci hanno preso. A inizio anno era quasi unanime il parere sulle obbligazioni: dopo 35 anni di rialzi il mercato nel 2017 sarebbe sceso. Questa prima metà a livello globale ci dice il contrario: la capitalizzazione mondiale di bond è cresciuta di 3mila miliardi di dollari, vicinissima a quota 48mila miliardi.

LA GIORNATA DEI MERCATI  30 giugno 2017
Borse, semestre si chiude con Milano a +7%. Londra maglia nera con +2,4%
In ogni caso per il semestre che verrà non bisogna sottovalutare il fatto che le banche centrali più importanti- che più delle promesse per ora non realizzate di Trump hanno guidato gli investitori fino ad ora - difatti si avviano ad alzare quasi coralmente i tassi o a drenare gli stimoli. Oltre alla Fed (che dal 2015 ha alzato il costo del denaro quattro volte) anche la Bank of England e la Banca del Canada hanno comunicato che potrebbero a breve alzare i tassi. Senza dimenticare la Bce che, se non sarà a settembre, in ogni caso fra qualche trimestre probabilmente avvierà la riduzione degli acquisti di bond. Potrebbe quindi anche essere che nei prossimi mesi gli investitori inizino a dare ragione alle previsioni - fino a questo punto completamente sbagliate - fatte dagli analisti a inizio anno.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2017-06-30/piazza-affari-mini-rally-le-banche--211758.shtml?uuid=AEFlZ9oB
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« Risposta #22 inserito:: Novembre 16, 2017, 08:43:24 pm »

BORSA

Perché Piazza Affari fa +15% da inizio anno ma i manager vendono

Di Vito Lops
15 novembre 2017

Da inizio anno il FTSE MIB di Piazza Affari ha guadagnato circa il 15% riportandosi fino a 22.300 punti (anche se negli ultimi giorni ha frenato), livelli che non vedeva dall’estate 2015. Certo, l’indice che mostra l’andamento delle 40 blue chip del listino milanese è lontanissimo dal massimo storico, quei 50.108 punti toccati il 6 marzo del 2000. Ma la performance del 2o17 indica se non altro che da parte del mercato c’è una rinnovata fiducia sull’indice italiano delle large cap. Non dimentichiamo che a settembre l’agenzia di rating Standard and Poor’s ha addirittura promosso (per la prima volta dal 1988) il rating sull’Italia. Altra nota positiva.

Se però si spulciano gli internal dealing, le compravendite di azioni operate dagli “internal dealer” (ovvero da amministratori, manager, dipendenti e soci del gruppo) emerge un quadro meno solido. Nell’ultimo trimestre solo in quattro occasioni (Fineco Bank, Banco Bpm, Mediobanca e Bper Banca) sono stati registrati acquisti di azioni da parte degli internal dealer. Nella maggior parte dei casi le operazioni compiute ai piani alti sono state di segno opposto: vendite.

Ci sono poi case history che non t’aspetti, come quella di Intesa Sanpaolo dove negli ultimi 12 mesi non solo non si registrano acquisti, ma ci sono state ben 13 operazioni di vendita da parte degli azionisti di “primo pelo”. L’istituto di credito è accompagnato da altre 11 società in questa speciale classifica.

Dalle parti di Atlantia gli internal dealer non acquistano azioni da novembre 2016, così come per Enel e Telecom Italia. In quest’ultimo caso, a dir la verità, non si registrano neanche vendite in quello che pare un encefalogramma piatto ai vertici.

I rialzi di Borsa non si sposano quindi - stando al grado di fiducia che vi stanno ponendo i protagonisti che vivono “dall’interno” le aziende di Piazza Affari - con un livello di entusiasmante fiducia sul futuro.

I tempi in cui gli amministratori scendevano in campo con mega-investimenti - come quello del 2014 quando l’ad di Fca Sergio Marchionne annunciò l’acquisto di 335mila azioni per un controvalore di 2,6 milioni di euro - sembrano lontani anni luce.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2017-11-14/piazza-affari-guadagna-16percento-gennaio-e-manager-che-fanno-vendono--183453.shtml?uuid=AElhaSBD
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« Risposta #23 inserito:: Dicembre 23, 2017, 09:28:00 pm »

Borse da record: ci sono 100mila miliardi di motivi per chiamarla bolla o è tutto vero?

Di Vito Lops
05 dicembre 2017

La tanto attesa approvazione della riforma fiscale da parte di Donald Trump sta dando nelle ultime ore un nuovo impulso ai mercati azionari proiettando la valutazione globale delle Borse verso il record (fino a poco tempo fa difficilmente immaginabile) di 100mila miliardi di dollari. O 100 trilioni, per dirla come piace agli americani. In ogni caso siamo in un territorio inesplorato per i mercati azionari che a questo punto scatena il canonico dibattito tra gli addetti ai lavori: bolla o non bolla?

LA CAPITALIZZAZIONE GLOBALE DELLE BORSE

Dati in miliardi di dollari. (Fonte: Bloomberg)
2013Lug2014Lug2015Lug2016Lug2017Lug40.00050.00060.00070.00080.00090.000100.000110.000

Per molti esperti il 2017 avrebbe dovuto essere l’anno del “Cigno nero”. Invece rispetto a gennaio le Borse valgono 32mila miliardi in più, circa quanto il Pil di Usa ed Eurozona messi insieme. A questo rialzo hanno contribuito una serie di motivi. A partire dall'effetto Trump e dalla sua promessa (e ora anche approvata) riforma fiscale. Dall'elezione del magnate, lo scorso novembre Wall Street è salita del 15% (aggiornando costantemente nuovi record) e le Borse mondiali complessivamente si sono apprezzate di 35mila miliardi di dollari. L’altra grande spinta arriva dai tassi ultra bassi delle banche centrali che rendono poco competitivo il mercato obbligazionario rispetto ai dividendi offerti dalle azioni.

Ecco perché i tassi non possono né scendere né salire (troppo). «È la Goldilocks economy»
In questo scenario - che gli esperti definiscono Goldilocks economy, l’“economia dei Riccioli d’oro” dove l’inflazione è bassa e l’economia globale cresce oltre il 3% annuo senza intoppi - le Borse continuano a rappresentare l’ultimo miglio degli investitori. Le certezze di un tempo inziano ad essere obsolete. Su tutte, quella secondo cui i cicli rialzisti non durano oltre 8 anni. E invece per Wall Street, la Borsa faro, siamo già al nono anno consecutivo di espansione. E non è detto - con tutti i dubbi del caso - che il 2018 sia appannaggio delle Cassandre.
Per capire che direzione potranno seguire le azioni nei prossimi mesi bisogna analizzare le valutazioni. In questi casi - per quanto in passato in alcuni casi si sia rilevato insufficiente e lacunoso - il multiplo prezzo/utili attesi si rileva un buon termometro per misurare eventuali stati febbrili.

Le valutazioni delle Borse globali
Il multiplo prezzo/utili. (Nota:(*) Stime)

Indice   P/E 2017 *   P/E 2018*   Crescita utili 2017*   Crescita utili 2018*
Indice   P/E 2017 *   P/E 2018*   Crescita utili 2017*   Crescita utili 2018*
Italia   20,2x   13,9x   +22,6%   +45,3%
Stoxx 600   16,3x   15,0x   +20,5%   +8,8%
Stoxx50   16,0x   14,9x   +18,0%   +7,7%
Stati Uniti   20,1x   18,2x   +9,6%   +10,8%
Regno Unito14,8x   14,0x   +26,9%   +5,7%
Francia   15,5x   14,5x   +13,2%   +7,1%
Germania   14,5x   13,1x   +9,4%   +10,5%
Spagna   14,3x   13,3x   +20,0%   +7,5%
Media Ue+Usa   15,9x   14,7x   +16,8%   +8,3%
Brasile   16,0x   13,4x   +47,5%   +19,5%
Russia   7,4x   6,4x   +9,0%   +15,6%
India   23,2x   19,2x   +12,7%   +22,1%
Cina   20,4x   16,9x   +28,9%   +20,3%
Media emergenti   16,7x   14,0x   +24,5%   +19,4%
Fonte: Factset

Secondo le elaborazioni del consensus di Factset per il prossimo anno la media tra Borse europee e degli Stati Uniti indica delle valutazioni di Borsa inferiori a 15 volte gli utili attesi per fine 2018. Nel dettaglio gli analisti si aspettano una crescita degli utili societari in Europa e Usa dell’8,3% rispetto al 2017. Il che porterebbe le attuali valutazioni a 14,7 volte gli utili. Wall Street - che di solito quota a premio rispetto all’Europa - si proietta, ipotizzando un aumento degli utili del 10,8%, a 18,2 volte gli utili attesi. Prezzi non certo a buon mercato, ma che escluderebbero il pericolo di una bolla. Ancora più “con i piedi per terra” da questo punto di vista l’Europa. Se i profitti cresceranno dell’8,8% il prossimo anno i prezzi dello Stoxx 600 varrebbero 15 volte gli utili. Si tratta di livelli storicamente non pericolosi.
Perché i junk bond europei rendono quanto i titoli di Stato Usa
Il punto è però se le stime sugli utili per il 2018 siano credibili o no. «Se i tassi rimarranno bassi non c’è ragione per considerare eccessivo l’ottimismo attuale sugli utili attesi - spiega Guglielmo Manetti, vice direttore generale di Intermonte Advisory e gestione - . Così come se dovessero confermarsi le previsioni di una crescita globale del Pil del 3,8%, sui livelli del 2017. Se invece per svariati motivi le attuali proiezioni dovessero rivelarsi eccessive, l’ipotesi di una correzione non è da escludere. Ma al momento non possiamo usare la parola “bolla” nonostante l’equity globale sia al top di sempre».
Insomma, se tutto procederà come ci si aspetta le Borse potrebbero anche superare senza imbarazzo l’attuale soglia dei 100mila miliardi di dollari. Ma va detto che questo equilibrio - lo stesso su cui si poggia del resto la Goldilocks economy - è piuttosto fragile.
È infatti innegabile che i mercati finanziari stiano convivendo oggi con una bolla sul mercato obbligazionario. Gli acquisti, negli ultimi anni, di bond da parte delle banche centrali hanno portato i tassi dei governativi europei su livelli artificialmente bassi scatenando a cascata una bolla anche sulle obbligazioni private a basso rating (high yield). Mentre le azioni viaggiano sul velluto, il contorno (obbligazioni) è costellato da profonde incertezze.
È quindi sufficiente che qualcosa vada storto perché “Riccioli d’oro” - un equilibrio mai visto tra macroeconomia, Borsa, volatilità e ottimismo - assuma le sembianze di un Cigno nero.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2017-12-04/borse-record-ci-sono-100mila-miliardi-motivi-chiamarla-bolla-o-e-tutto-vero-180621.shtml?uuid=AEDNi7MD

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« Risposta #24 inserito:: Marzo 29, 2018, 06:25:52 pm »

“FANG” ECONOMY IN CRISI

I tre motivi per cui Facebook e gli altri big dell’hi-tech stanno mandando in tilt i mercati

Di Vito Lops 
28 marzo 2018

Il 12 marzo del 2000 scoppiava la bolla dei titoli Internet. Il 12 marzo del 2018 i titoli tecnologici più importanti del pianeta hanno avviato una scia ribassista che al momento non è dato sapere quando terminerà. Da allora, in appena due settimane di contrattazioni, Facebook ha perso il 17%, ovvero 75 miliardi di capitalizzazione. Amazon ha perso il 5% proprio mentre puntava dritto ai 1.000 miliardi di capitalizzazione. Le vendite non hanno risparmiato nessuno: Apple ha perso il 13%, Twitter il 21%, Netflix il 12%.

LA GIORNATA DEI MERCATI  28 marzo 2018
Tecnologici k.o. in Borsa. A Wall Street affondano Amazon e Tesla
Nel complesso il valore borsistico della cosiddetta Fang economy (un acronimo che comprende Facebook, Apple, Netflix e Google) è diminuito dal 12 marzo di 280 miliardi. È come se un sesto del Pil italiano fosse andato in fumo nel giro di poche sedute di Borsa.

Nell’era degli algoritmi finanziari - che oggi governano il 66% degli scambi sui mercati - il crollo dell’alta tecnologia della Silicon Valley è riverberato sulle altre classi di investimento. Così anche altri settori sono stati coinvolti e, nel complesso, le Borse globali dal 12 marzo hanno perso qualcosa come 3.500 miliardi di dollari.

L’EX SPIN DOCTOR DI TRUMP  23 marzo 2018
Cambridge Analytica, Bannon attacca Facebook: «Prende gratis le nostre vite e le rivende»
Come mai? Che cosa sta succedendo? Sono almeno tre i motivi per cui i titoli tech stanno soffrendo scatenando a cascata una fase di fragilità sui mercati. Tutto è partito dal caso Cambridge Analytica, la società di consulenza accusata di aver utilizzato dati prelevati da Facebook per influenzare la campagna elettorale delle ultime presidenziali Usa vinte da Donald Trump. Questa scoperta ha aperto il vaso di Pandora su temi molto complicati, come privacy, vendita dei dati a società esterne a fini di marketing da parte dei social network, e via discorrendo.

La questione è ora approdata al Congresso Usa. Si teme un giro di vite che possa limitare l’operatività dei social network che, a parte buone dichiarazioni di facciata e impegni filantropici, difatti hanno in mano il patrimonio del secolo, ovvero enormi banche dati sulla base delle quali noi utenti siamo tutti profilati e pertanto facilmente “vendibili” a fini di pubblicità mirate. I fatturati miliardari di Facebook e dei suoi concorrenti ruotano intorno ai big data di cui dispongono.

ATTUALITÀ  20 marzo 2018
Privacy e Social, i rischi nascosti in un click
Se la politica dovesse regolamentare e frenare questo settore è evidente che ci potrebbero essere delle ripercussioni sul giro d’affari. Ed ecco perché in questa fase gli investitori stanno alleggerendo, anche con una certa violenza (mentre oggi Facebook abbozza un timido recupero Netflix, per citarne uno, crolla del 12%).

Sempre la politica potrebbe intervenire per penalizzare un altro colosso del settore come Amazon. Il presidente Usa Donald Trump avrebbe detto di voler aumentare le tasse a carico della società di Jeff Bezos. Secondo un rapporto di Axios per il presidente americano il colosso dell'e-commerce «sta uccidendo» il business dei grandi centri commerciali e dei negozi tradizionali.

La politica e una maggiore disciplina regolamentare e fiscale sui colossi hi-tech non sono l’unica paura degli investitori.

LO SCANDALO DATI  27 marzo 2018
Apple, Ibm e Tesla contro Facebook. E la Silicon Valley si spacca sul datagate
La seconda è legata a singole storie di autogol societari giunti con un tempismo da legge di Murphy. Tra queste storie c’è quella di Tesla, la società più famosa al mondo nel campo delle auto elettriche di lusso. Il fondatore e numero uno Elon Musk non ha fatto in tempo a criticare Facebook annunciando di essersi cancellato e invitando gli altri a fare altrettanto (seguendo l’hashtag #deleteFacebook) che la sua azienda è stata colpita da una notizia pesantissima.

La reazione in Borsa è stata molto forte (ieri -8%, oggi -10%) dopo che la società ha comunicato di non essere in grado di fornire spiegazioni sull'incidente mortale di venerdì scorso, nel quale è deceduto il conducente della Model X andata a fuoco dopo una collisione. Intanto l’agenzia di rating Moody's ha abbassato il rating a “B3” da “B2” con outlook negativo anche a seguito dei ritardi nella produzione della berlina Model 3.

Questi due fattori ribassisti vengono peraltro accelerati da un terzo: la volatilità sui mercati in questo inizio d’anno si è impennata. Gli investitori sono consapevoli che sul mercato dei bond si è ormai gonfiata una bolla (alimentata dagli acquisti delle banche centrali degli ultimi anni) mentre le azioni vengono da nove anni di rialzi consecutivi e comprarle oggi costa caro. In questo senso le difficoltà del settore hi-tech potrebbero essere usate come l’occasione che molti aspettavano per dare il la alla stagione delle prese di profitto.
twitter.com/vitolops

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-03-28/i-3-motivi-cui-facebook-e-altri-big-dell-hi-tech-stanno-mandando-tilt-mercati-174054.shtml?uuid=AEHmDXP
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« Risposta #25 inserito:: Luglio 16, 2018, 10:25:25 am »

FINANZA E MERCATI
15 Luglio 2018 Il Sole 24 Ore domenica

Le banche offrono ancora il variabile allo 0,5% per finanziamenti inferiori al 50% del valore dell’immobile Possibile negoziare il fisso con uno spread dello 0-0,1%, l’Euribor a tre mesi atteso sopra l’1% solo nel 2023

Ultima corsa ai mutui in saldo, tasso fisso all’1,4%

La Bce ha annunciato che la politica espansiva (quantitative easing) terminerà con il 2018. Ma se il Qe è stato la molla principale che ha spinto le banche ad allentare gli spread sui mutui e a praticare tassi nominali prima d’ora mai così bassi, la sua fine non sembra genererà l’effetto opposto. Almeno nell’immediato. Dalle ultime offerte si evince che i tassi da saldo proseguono e sono addirittura più bassi ora rispetto a quelli proposti in primavera. Oggi è possibile stipulare un tasso variabile, nelle migliori condizioni (quando il mutuo è inferiore alla metà del valore dell’immobile), allo 0,5%. I migliori fissi sono intorno all’1,4%. La cosa sorprendente è che sui fissi è ancora nutrito il numero di banche che – nonostante Draghi abbia annunciato la fine del piano espansivo – applica spread tra lo 0 e lo 0,1%. Essendo lo spread il margine lordo che la banca si prefigge di ottenere dal mutuo ed essendo in molti casi prossimo allo 0 significa: 1) che molte banche considerano oggi il mutuo un prodotto ponte per attirare clienti a cui vendere successivamente prodotti più profittevoli; 2) che nel futuro le banche immaginano di acquistare il denaro all’ingrosso a tassi più bassi rispetto a quelli attuali e di trasformare la differenza di questa operazione di “tesoreria” in un utile da agganciare indirettamente al mutuo. Comunque sia, vista dal lato dei mutuatari – tanto quelli che si apprestano a chiedere un nuovo finanziamento quanto quelli che giustamente valutano un cambio in corsa delle vecchie condizioni attraverso le modalità della rinegoziazione (con la stessa banca) o della surroga (con un’altra banca) – si tratta di ottime notizie. Perché se la fine del Qe può essere un segnale in apparenza restrittivo, ci sono altri fattori che allontanano il momento in cui i tassi torneranno a salire con forza e quindi a costituire una fonte di preoccupazione per la categoria dei debitori. A partire dalla politica monetaria. Il governatore della Bce ha fatto capire che resterà accomodante. Dal 2019 la Bce non acquisterà più nuovi titoli sui mercati aperti (è questo il Qe) ma continuerà a ricomprare quelli che detiene in portafoglio e che andranno in scadenza. L’operazione di reinvestimento (cedole comprese) indica che la liquidità finora immessa non sarà drenata ma, molto semplicemente, non sarà incrementata. La seconda “buona” notizia – che spiega perché la stagione dei saldi dei mutui prosegue – arriva dall’inflazione. Quella “core”, depurata dai prezzi dei beni più volatili, ovvero alimentari ed energetici, a giugno dovrebbe scendere all’1% rispetto all’1,1% di maggio. Questo livello di inflazione è molto lontano dal target della Bce (vicino al 2%) e pertanto rappresenta un freno a future manovre restrittive.
Tutto ciò si riflette nei valori dei contratti “future” degli indici Euribor. Un mese fa gli investitori ipotizzavano che l’Euribor a 3 mesi – a cui è agganciata la maggior parte dei mutui a tasso variabile – sarebbero tornati sopra la soglia dell’1% a dicembre 2022. A distanza di un mese invece lo scenario è cambiato a favore dei mutuatari. Le aspettative ora danno l’Euribor a dicembre 2022 allo 0,83% e solo a giugno 2023 oltre l’1%.
Le dichiarazioni di Draghi, il dato sull’inflazione e altri dati macro che evidenziano un rallentamento della crescita dell’economia dell’Eurozona (a luglio l’indice Zew che misura la fiducia degli investitori in Germania è crollato ai minimi dal 2012) hanno spostato di sei mesi l’asticella rialzista dell’Euribor. Questo non potrà che salire – da oltre 1.000 giorni viaggia sottozero e in settimana quotava a -0,32% - ma lo farà ancor più lentamente di quanto si ipotizzava appena un mese fa.
Lo stato di quiete riguarda anche l’universo del tasso fisso, soluzione oggi preferita dalle banche nel momento in cui erogano o surrogano (perché sono consapevoli che a questi tassi così bassi non rischiano più di perdere in futuro il cliente attraverso surroghe di primo livello o la oggi molto gettonata “surroga della surroga”). In questo caso dobbiamo osservare come si stanno muovendo gli indici Eurirs. In settimana l’indicatore a 20 anni è tornato all’1,39%, livello che non vedeva da fine maggio, ovvero da quando la crisi politica italiana (il “caso Savona”) aveva spinto gli investitori a rifugiarsi sul Bund tedesco facendone scendere il rendimento e indirettamente anche il valore degli Eurirs, ad esso collegati.
La notizia è che ora la crisi politica sembra in parte rientrata ma gli Irs sono su quei livelli. Per le stesse ragioni (Draghi accomodante, inflazione in calo e dati macro dell’Eurozona deludenti) che stanno allontanando rialzi significativi dell’Euribor. Le famiglie non sono indifferenti alla nuova fase di saldi. Secondo Crif, infatti, a giugno, dopo 15 mesi consecutivi di calo delle richieste, le domande di mutui (sia nuovi che surroghe) sono aumentate del 3,6%

L’unica incognita sul futuro riguarda lo spread deciso dalle banche. Se queste continueranno a tenerlo pressoché azzerato sui fissi e intorno allo 0,7% sul variabile (a cui però va sottratto l’Euribor se negativo, cosa che è sempre bene verificare) i saldi proseguiranno anche quando il Qe andrà in pensione.

@vitolops
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Vito Lops

Da - http://www.quotidiano.ilsole24ore.com/edicola24web/edicola24web.html?testata=S24&edizione=SOLE&issue=20180715&startpage=1&displaypages=2
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« Risposta #26 inserito:: Ottobre 01, 2018, 09:03:01 pm »

DOPO LA «MANOVRA DEL POPOLO»

Piazza Affari dopo il Def perde 20 miliardi in un giorno
–di Vito Lops 28 settembre 2018

La reazione a caldo dei mercati finanziari all’innalzamento del deficit/Pil dall’1,6% (proposta del ministro dell’Economia Giovanni Tria) al 2,4% (dato inserito nell’aggiornamento del Def ieri notte) è stata piuttosto violenta. Piazza Affari ha chiuso l’ultima seduta della settimana con un calo del 3,7% (dopo un picco intraday vicino a -5%). Lo spread BTp-Bund, che nel corso della giornata si era impennato fino a quota 280, ha terminato a quota 267, posizionandosi in ogni caso sui livelli di agosto. Il rendimento del decennale è salito al 3,25% rispetto al 2,9% della vigilia. Le tensioni sull’Italia trascinano al ribasso anche la moneta unica che torna sotto quota 1,16 (1,158) accusando un ribasso quotidiano superiore al mezzo punto percentuale.


DOPO L’ACCORDO SUL DEFICIT AL 2,4% 28 settembre 2018
Spread chiude a 267. Piazza Affari perde il 3,7% con le banche a picco
A conti fatti in una sola seduta la capitalizzazione di Piazza Affari è scesa di 20 miliardi, da 636 a 616 miliardi. Se il conteggio però parte dai massimi di maggio (701 miliardi) il passivo azionario attribuibile allo scarso gradimento degli investitori sulle politiche che il nuovo governo intende mettere in atto sfiora i 90 miliardi.

Ci sono però dei segnali che indicano che al momento non siamo di fronte al panic selling. In momenti come questo gli operatori si concentrano sulla curva dei rendimenti e osservano lo spread tra i titoli a 10 e quelli a 2 anni.

Oggi i BTp a 10 anni rendono il 3,2% e quelli a 2 anni l'1,15%. Il differenziale è quindi superiore ai 200 punti base. A maggio, nei momenti di tensione più alta quando i rendimenti dei biennali avevano superato il 3%, questo spread si era praticamente annullato. Quindi finché c'è spread (e almeno nell'orbita dei 200 punti base) tra questi due titoli, c'è speranza che il quadro non peggiori.


IL COMMISSARIO AGLI AFFARI MONETARI  28 settembre 2018
«Manovra del popolo», Moscovici avverte: «Quando un Paese si indebita si impoverisce»
Con questo “venerdì nero” - con le quotazioni che tuttavia nel finale sono un po’ risalite rispetto ai minimi di giornata - gli investitori hanno lanciato un chiaro messaggio al governo: bisogna evitare lo scenario peggiore (scontro con Bxuxelles) e trattare. Si apre quindi una delicata fase di trattative che potrebbe durare due mesi (entro fine novembre la Commisione europea dovrà dare il nullaosta alla legge di Bilancio). Ne è consapevole anche il commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, che ha definito la manovra «fuori dai paletti Ue» sottolineando allo stesso tempo che «non abbiamo nessun interesse ad aprire una crisi tra la Commissione e l'Italia, nessuno ha interesse a farlo perché l'Italia è membro importante della zona euro». A confermare il dialogo anche il vicepremier Luigi Di Maio: «Ora parte l'interlocuzione».


twitter.com/vitolops

da - https://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-09-28/piazza-affari-il-def-perde-un-giorno-20-miliardi-172451.shtml?uuid=AEoq04AG&cmpid=nl_morning24
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« Risposta #27 inserito:: Novembre 23, 2018, 01:44:05 pm »

Ecco perché le Borse hanno perso 15mila miliardi nel 2018

   Di Vito Lops 23 novembre 2018

Il grafico delle Borse globali parla chiaro. Da ottobre la capitalizzazione mondiale dei listini è scesa a 72mila miliardi di dollari. In meno di due mesi il valore di mercato delle aziende quotate è sceso di circa 8mila miliardi. Si tratta della seconda brusca correzione del 2018 dopo quella intercorsa nel range 26 gennaio/9 febbraio. Anche in quel caso il calo si è attestato intorno agli 8mila miliardi, da 87mila a 79mila miliardi. Nel complesso, tra alti e bassi, sommando la portata delle due correzioni la capitalizzazione delle Borse è scesa dai massimi dell’anno di circa 15mila miliardi di dollari.

PER SAPERNE DI PIÙ / Il «Black Friday» delle Borse

Con Wall Street (ieri chiusa per il Thanksgiving Day e oggi aperta metà giornata per il Black Friday) che ha praticamente azzerato i guadagni da inizio anno e le Borse europee che viaggiano mediamente con un ribasso dell’8% (ma Piazza Affari -15% e Francoforte -13% fanno peggio) senza dimenticare il calo di oltre il 20% delle Borse cinesi, tecnicamente in territorio “Orso”, il 2018 rischia di lasciare un brutto ricordo finanziario in qualsiasi area geografica.

    Dopo il voto usa 08 novembre 2018
Borse alla svolta, così traballano i quattro pilastri del grande rally
Eppure il 2018 è stato uno degli anni migliori dal punto di vista della crescita degli utili. Negli Usa gli eps (earnings sper share, in italiano utili per azione) sono aumentati di oltre il 20% grazie all’innesto delle politiche fiscali espansionistiche volute dal presidente Donald Trump. In Europa la crescita dovrebbe chiudersi intorno al 10%. Doppia cifra anche per Regno Unito, Giappone e Paesi emergenti.

E allora come mai le Borse, al di là dei dividendi, hanno perso terreno e sono tutt’ora all’interno di un trend debole che secondo alcuni analisti potrebbe mettere a repentaglio il canonico rally di fine anno?

La risposta è semplice: gli investitori si muovono in anticipo. E in questo momento, attraverso la brusca correzione partita ad ottobre (che ha portato titoli come Apple a perdere in qualche settimana un quarto del valore) i mercati stanno aggiornando nei prezzi il peggioramento delle stime degli utili. Come evidenzia il grafico elaborato dagli analisti di Columbia Threadneedle investments, nel 2019 la crescita degli utili per azione rallenterà vistosamente. Le aree più sviluppate (Usa, Europa, Giappone e Regno Unito) perderanno la doppia cifra e dovrebbero registrare un incremento tra il 6% e l’8%. L’unica area che dovrebbe mantenere una crescita degli utili a doppia cifra dovrebbe essere quella dei Paesi emergenti anche se anche da quelle parti è prevista una frenata rispetto al 2018.

LA CRESCITA DEGLI UTILI PER AZIONE
Le stime degli analisti. (Fonte: Columbia Threadneedle investments e Bloomberg)
Fino a poco tempo fa le Borse erano sintonizzate su prospettive migliori per il 2019 ma nelle ultime trimestrali c’è stata una raffica di revisioni al ribasso da parte delle società sui conti del quarto trimestre e sulle stime per il 2019 e questo ha portato gli investitori a vendere l’azionario, riposizionandolo su un quadro di espansione dei profitti decisamente più modesto.

La notizia buona quindi è che il 2019 sarà un altro anno di crescita globale (il Pil del pianeta dovrebbe aumentare del 3,6%) e di crescita degli utili per le aziende quotate nei principali listini. La notizia cattiva - che nelle ultime settimane i mercati stanno prezzando con vendite robuste - è però che i profitti cresceranno meno di quanto precedentemente previsto.

Piazza Affari in saldo del 20% è l’altra faccia dello spread
Come mai gli utili cresceranno meno? Innanzitutto perché ogni ciclo espansivo segue una curva e il picco è stato già toccato. E poi ci sono altri motivi, tra cui la guerra commerciale in corso tra Stati Uniti e Cina (che impatta anche sui grandi esportatori europei), le incognite legate alla Brexit. Alcuni gestori inseriscono nell’elenco dei market mover ribassisti anche il crescente “rischio Italia”. Anche se al momento questo rischio resta confinato a livello domestico, dato che è solo l’Italia - attraverso uno spread BTp-Bund più ampio di 200 punti base rispetto a maggio e valutazioni di Piazza Affari a sconto rispetto al resto d’Europa del 20% - a pagarlo.

Ovviamente vale anche il bicchiere mezzo pieno. Se uno di questi fattori depotenzianti dovesse perdere forza (ad esempio se la guerra commerciale tra Usa e Cina si attenuasse o se il governo italiano trovasse un accordo con Bruxelles sulla manovra di bilancio) ci sarebbe tecnicamente spazio per una revisione al rialzo delle stime. Perlomeno fino alla prossima recessione. Che in ogni caso ci sarà anche se non è dato al momento sapere quando. Con l’unica certezza che gli Stati Uniti (avendo iniziato ad alzare i tassi a fine 2015) sarebbero più preparati ad affrontarla rispetto all’Eurozona che sta facendo una fatica terribile a tirare il costo del denaro dalle sabbie mobili (è a quota 0 da 33 mesi).

twitter.com/vitolops
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Da - https://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-11-22/ecco-perche-borse-hanno-perso-15mila-miliardi-2018-170912.shtml?uuid=AEFWnDlG
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« Risposta #28 inserito:: Dicembre 01, 2018, 11:24:28 pm »

Borse, è tornata la curva di Philips. E ora gli investitori hanno paura

  Di Vito Lops 28 novembre 2018

Per anni è stata data per spacciata. Morta e sepolta. Invece la curva di Phillips - quella teoria secondo cui tra tasso di disoccupazione e inflazione c’è una relazione forte e inversa - è tornata. Negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione è scivolato a ottobre al 3,7%, il livello più basso degli ultimi 49 anni. Mentre il tasso di inflazione - che tra fine 2014 e inizio 2015 era sceso sottozero in scia a forti pressioni deflazionistiche - adesso è salito al 2,5% con punte nel corso dell’anno vicine al 3%.

Dati alla mano queste due grandezze macro sono tornate a muoversi in modo inversamente proporzionale. Ad influenzarsi in modo elastico l’un l’altra. E quando questo accade è per una semplice ragione: vuol dire che buona parte dell’inflazione viene alimentata dall'aumento dei salari. La crescita dei salari è infatti tipica delle fasi in cui la disoccupazione raggiunge il minimo fisiologico (solitamente tassi di disoccupazione tra il 3% e il 4% sono fisiologici perché fotografano la quota di lavoratori che si sposta per cambiare lavoro). In questi casi la forza lavoro ha più potere contrattuale e quindi i salari tendono ad aumentare.

Ecco perché le Borse hanno perso 15mila miliardi nel 2018
Viceversa quando il tasso di disoccupazione è alto i salari tendono a scendere (e con essi il tasso di inflazione) proprio perché è il datore di lavoro ad avere maggiore potere contrattuale, secondo la legge di equilibrio tra domanda e offerta. Questo secondo caso si è registrato nel 2009 - come si evince chiaramente dal grafico - quando l’economia statunitense stava pagando lo scotto della bolla dei derivati subprime. Così, mentre la disoccupazione raggiungeva il 10% l’inflazione scivolava nelle sabbie mobili della deflazione (- %).

Tra il 2014 e il 2015 invece gli Stati Uniti hanno sperimentato nuovamente la deflazione ma a differenza del 2009 il tasso di disoccupazione era sceso sotto il 6% in un trend che poi ha proseguito costantemente al ribasso. In questa parentesi la curva di Phillips è andata in testacoda e in molti hanno iniziato a scriverne i titoli di coda, mettendo in discussione quanto scritto nei manuali di economia.

EFFETTI INDESIDERATI 06 febbraio 2018
Quando le buone notizie in economia fanno male alle Borse
Anche perché nel frattempo il quadro economico globale è cambiato. C’è chi nel frattempo ha teorizzato la teoria “dell’Amazonification” per spiegare il fenomeno della pressione al ribasso sui prezzi esercitata dal commercio elettronico e, in generale, dall’innovazione tecnologica.

Ma quest’anno tanto negli Stati Uniti quanto in Germania (Paese dove disoccupazione e inflazione hanno seguito negli ultimi anni una tendenza simile agli Usa) i salari sono ripartiti.

Una buona notizia per molti ma che non piace affatto agli investitori. Così come accaduto lo scorso febbraio, anche le ultime proiezioni sull’inflazione (relativamente alla componente salari) hanno spaventato le Borse. Da ottobre è infatti in atto una correzione che ha portato i principali indici mondiali a cedere tra il 5% e il 10% e, a livello generale, ha ridimensionato la capitalizzazione globale dell’azionario di circa 8mila miliardi.

Francoforte DAX 30
Come mai? «Per diversi anni la curva di Phillips è stata smentita, perché in Usa e Germania, nonostante viaggiassero su livelli molti bassi di disoccupazione, non sono ripartiti i salari - spiega Andrea Carzana, fund manager european equities di Columbia Threadneedle - . Adesso invece stanno risalendo e questo è uno dei motivi per cui il mercato si aspetta una crescita più bassa dei profitti per il 2019».
LA CRESCITA DEGLI UTILI PER AZIONE
Le stime degli analisti. (Fonte: Columbia Threadneedle investments e Bloomberg)

Dietro quindi il forte calo delle Borse a partire da ottobre c’è anche questo. «Il rialzo dei salari è uno dei fattori più importanti - continua Carzana -. Ovviamente non è l’unico: non bisogna dimenticare infatti le tensioni geopolitche come la guerra commerciale tra Usa e Cina e gli effetti della Brexit così come il rallentamento dell’economia cinese. Per noi gestori è tuttavia un’opportunità. Perché ci saranno molte aziende che non saranno in grado di traghettare l'aumento dei salari sui prezzi al consumatore e saranno quindi costrette a ridurre i margini. E queste aziende sono da vendere».

«Dall'altro lato - prosegue il gestore - ci sono compagnie che hanno il cosiddetto pricing power, ovvero la capacità di aumentare il prezzo dei beni e servizi senza che questo penalizzi la domanda. Molte di queste aziende sono state penalizzate in Borsa nelle ultime settimane, colpite dal trend ribassista. Ma questo offre ai noi gestori l’occasione per accumulare posizioni in ottica selettiva e a prezzi più bassi proprio su queste aziende che si riveleranno resilienti all’aumento dei salari. Per questo motivo credo che il 2019 sarà un anno in cui la gestione attiva farà la differenza in termini di performance».

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Da - https://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-11-27/borse-e-tornata-curva-phillips-e-ora-investitori-hanno-paura-161232.shtml?uuid=AEImEJoG
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« Risposta #29 inserito:: Dicembre 15, 2018, 11:21:33 pm »

Oro, come lo scontro Usa-Cina sta cambiando la mappa dei beni rifugio

Di Vito Lops 11 dicembre 2014

È evidente che in questa fase gli investitori sono in tensione. Wall Street viaggia sui minimi da 8 mesi e - conti alla mano nella prima decade - rischia di vivere il peggior dicembre degli ultimi 16 anni. Non se la passano bene neppure le Borse europee, scivolate sui livelli più bassi degli ultimi due anni e neppure i listini asiatici con l’azionario cinese entrato a pieno regime in un clima “Orso”, considerato che da inizio anno Shenzen perde il 29% e Shanghai il 22%.

Dai massimi di gennaio (quando la capitalizzazione mondiale delle Borse aveva superato 87mila miliardi) l’azionario globale ha perso oltre 15 miliardi di dollari, quasi quanto il Pil dell’Eurozona per intenderci. In questi momenti gli investitori tendono a spostare i capitali su strumenti finanziari più difensivi, quelli meglio equipaggiati per affrontare le fasi di turbolenza. Tuttavia la mappa dei beni rifugio si sta modificando: dei cinque strumenti accreditati a svolgere questa funzione (oro, Bund, yen, franco svizzero e dollaro) solo tre stanno attraendo gli investitori. Tra questi, l’oro è tornato assoluto protagonista.

   RISPARMIO 10 agosto 2018
Ecco quali sono i beni rifugio in caso di tempesta sui mercati
Non è un caso che da inizio ottobre - quando è partita l’attuale fase di avversione al rischio che al momento non è dato sapere quando terminerà - l’oro è l’asset che si è apprezzato di più. Il metallo giallo ha messo a segno un rimbalzo del 5%, tornando sui livelli della scorsa estate. Il rialzo dell’oro conferma per due motivi che in questo momento gli investitori hanno paura e stanno visualizzando il futuro come rinchiuso in un bicchiere mezzo vuoto:

1) sia nella precedente correzione di febbraio (quando Wall Street e le Borse europee persero il 10% in tre settimane) che nello storno di agosto l’oro non era stato acquistato ma era addirittura sceso a riprova del fatto che quei ribassi non avevano preoccupato più di tanto gli investitori. L’oro è infatti considerato una sorta di rifugio di ultima istanza. Gli acquisti sul metallo giallo non partono in tutte le correzioni, ma solo in quelle più marcate;

2) a questo giro l’oro è il più comprato tra i beni rifugio nonostante si stia apprezzando anche un altro porto sicuro della finanza, ovvero il dollaro, con la cui quotazione l’oro è solitamente legato da un andamento inverso. Nella norma quando sale il dollaro l’oro tende a deprezzarsi e viceversa. Questo accade proprio perché l’oro è quotato in dollari. Il fatto che nelle ultime settimane l’oro stia salendo nonostante la forza del dollaro rafforza l’idea del pessimismo degli investitori;

Come visto, oltre all’oro sta salendo il dollaro. Il dollar index - un indice che ne sintetizza l’andamento ponderato con le altre principali valute globali - si è rafforzato di quasi due punti percentuali negli ultimi due mesi.

    “L’oro è il più comprato tra i beni rifugio nonostante si stia apprezzando anche un altro porto sicuro della finanza, ovvero il dollaro, con la cui quotazione l’oro è solitamente legato da un andamento inverso”

Il terzo asset che conquista la palma simbolica dei beni rifugio preferiti è il Bund. Il decennale governativo tedesco si è apprezzato del 2,2% da ottobre con il rendimento - che viaggia al contrario rispetto al prezzo - sceso allo 0,24%. Gli investitori comprano Bund nonostante la Germania rischi di entrare in recessione tecnica (dopo aver chiuso in calo il terzo trimestre il Pil potrebbe scendere anche nel quarto visto il -10% di vendite accusato dal settore auto a novembre). Evidentemente al momento questi fattori non interessano: conta di più la forza della Germania e il suo ruolo di roccaforte dell’Eurozona, con un avanzo commerciale clamoroso.

Mentre si conferma in fase calante come porto sicuro il franco svizzero che nelle ultime settimane, tanto nei confronti del dollaro quanto sull’euro, non si è apprezzato. Qualche anno fa sarebbe andata diversamente perché lo standing della divisa elvetica come bene rifugio era ai massimi.

    Scenari finanziari 25 settembre
Cambia il vento sui mercati. Ritorno sui beni rifugio in attesa della Fed
Novità assoluta poi di questa correzione è che anche lo yen non si stia comportando come bene rifugio. La divisa nipponica non solo non si è apprezzata, ma da ottobre ha perso un po’ di terreno tanto sul dollaro quanto sull’euro. Se la variazione negativa nei confronti del dollaro la si può spiegare con la straordinaria forza del biglietto verde - che sta beneficiando delle politiche di Trump tanto sul tema della guerra commerciale quanto sulla riforma fiscale che avvantaggia le imprese Usa che rimpatriano capitali e quindi “acquistano” dollari - la debolezza dello yen sull’euro in fasi di tensioni finanziarie è un’assoluta novità. Se non per il fatto che lo yen in questo momento sta riflettendo la debolezza dell’economia giapponese, il cui Pil nel terzo trimestre si è contratto dello 0,6%. Anche Tokyo sta pagando i rischi di un contagio in tutta l’Asia degli effetti dello scontro commerciale tra Usa e Cina. Quindi anche la divisa nipponica, per anni considerata il bancomat mondiale degli investitori, è scossa dagli effetti della guerra dei dazi innescata da Trump lo scorso aprile.
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    Vito Lops. Vito Lops, giornalista professionista, dal 2004 è redattore e social media editor al Sole 24 Ore. Segue i mercati finanziari, gli sviluppi macroeconomici internazionali e i prodotti di investimento. ...
       
Da - https://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-12-10/dazi-ecco-come-scontro-usa-cina-sta-cambiando-mappa-beni-rifugio-174127.shtml?uuid=AEZkbKxG
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