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Autore Discussione: VITO LOPS.  (Letto 21955 volte)
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« inserito:: Gennaio 12, 2012, 12:17:34 pm »

Perché le Borse andranno bene nel 2012. Maya permettendo

di Vito Lops

11 gennaio 2011

In tempi di vacche magre per le Borse (nell'ultimo anno Piazza Affari ha bruciato un quarto del valore, seguito al -12% del 2010) c'è chi preferisce affidarsi alle statistiche. Per provare a intercettere l'eventuale ritorno di un trend positivo. Ebbene, proprio secondo le statistiche sembrerebbe che il 2012 dovrebbe essere un anno positivo per i mercati azionari. Maya permettendo.

Uno dei maggiori conoscitori di statistiche sul mercato azionario statunitense è Jeffrey Hirsch. Tra le statistiche da lui individuate - come segnala un'analisi di Nicolò Nunziata, di Jc&Associati - è interessante monitorare l'andamento dell'indice americano S&P500, che solitamente influenza anche l'andamento degli altri indici azionari, in tre momenti:

1) tra le ultime 5 e le prime 2 sedute dell'anno ("Santa Claus rally");

2) nei primi cinque giorni di gennaio;

3) nel mese di gennaio (il cosiddetto barometro di gennaio).

«Dal momento in cui l'S&P500 guida tutti gli altri indici azionari - spiega Nunziata - è a nostro avviso importante se non seguire pedissequamente l'andamento delle statistiche, almeno tenerle in seria considerazione. Da un lato perché una statistica ha una valenza probabilistica: se ad esempio in un arco temporale rilevante un evento ha una elevata probabilità di avverarsi, un investitore attento e acuto può non tenerne conto. Dall'altro, perché l'elevato numero di investitori che in ogni caso ne tiene conto finisce, almeno parzialmente, per influenzare il mercato».

«In base al "Santa Claus rally", in assenza di una performance positiva del periodo che comprende le ultime 5 sedute borsistiche dell'anno che si sta concludendo e le prime due del nuovo anno, esiste un elevato rischio che l'andamento dell'S&P500 nel nuovo anno possa essere negativo. Viceversa, se queste sedute chiudono con un bilancio in attivo, c'è da aspettarsi un buon anno sul versante dell'equity».

E così si scopre che le prime statistiche elaborate da Hirsch che si possono sin da ora monitorare, offrono uno slancio ottimistico sull'andamento dei listini azionari nel 2012. Perché sia il primo Santa Claus rally (dalle qunt'ultima seduta dell'anno precendente alla seconda del nuovo anno, in questo caso dal 22 dicembre 2011 al 3 gennaio 2012) che il secondo indicatore (prime cinque sedute del 2012) hanno superato il test.

Nel dettaglio, il primo indicatore (andamento dell'S&P 500 dalla quint'ultima seduta del 2011 alla seconda del 2012) ha evidenziato un rialzo dell'1,86% e il secondo (prime cinque sedute del 2012) dell'1,83%.

Si tratta di statistiche fine a se stesse? Ci si augura di no, dato che dal 1950 per l'84,6% dei casi in cui nelle prime sedute di Borsa dell'anno c'è stato un segno positivo si è avuta la conferma per l'intero anno.

Quindi, a conti fatti, due indicatori su tre hanno superato l'esame. Manca adesso la prova del nove del "barometro di gennaio". «Quest'ultimo - conclude Nunziata - negli ultimi cinquanta anni ha avuto una percentuale di errore davvero bassa, inferiore al 15% di probabilità. Ci sono a nostro avviso serie condizioni per cominciare ad essere maggiormente ottimisti sull'indice azionario statunitense».

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Il Sole 24 ORE - Finanza e Mercati (1 di 7 articoli)

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« Ultima modifica: Gennaio 09, 2017, 06:04:54 pm da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 12, 2012, 04:38:24 pm »

Perché il salvataggio spagnolo non basta.

E perché banche italiane e BTp sono di nuovo in tensione

di Vito Lops

12 giugno 2012

Da inizio settimana, dopo l'annuncio nel week end del salvataggio da 100 miliardi alle banche spagnole, Piazza Affari, le banche italiane e i titoli di Stato italiani sono i più penalizzati dai mercati. Il listino milanese va peggio degli altri in Europa, trascinato al ribasso dai titoli bancari (che pesano per circa il 20% della capitalizzazione complessiva). Mentre lo spread BTp-Bund che viaggiava intorno ai 420 punti ha toccato oggi un picco fino a 486. Ma il salvataggio spagnolo non doveva essere una bella notizia tale da rasserenare gli investitori? Purtroppo così non è. Cerchiamo di capire perché.

Sulla stampa anglosassone è partito il walzer di articoli sul rischio contagio dell'Italia. Mentre questa mattina il direttore generale di Ftich, Ed Parker, ha gettato acqua sul fuoco dichiarando che «è improbabile che l'Italia chieda gli aiuti all'Ue» perché è in una situazione migliore rispetto alla Spagna, «ha un deficit molto basso, così come un deficit delle partite correnti e non ha problemi di banche».

Eppure, i titoli del credito italiani anche oggi procedono contrastati dopo il tonfo di ieri. Perché?

Il problema al momento risiede nella scarsa chiarezza sulle modalità del salvataggio delle banche spagnole. Si attingerà dal Fondo salva-Stati o dall'Esm (il nuovo meccanismo di stabilità permanente che dovrebbe partire a luglio dopo le ratifiche dei singoli Paesi)? La differenza, non specificata dalle autorità europee in una fase in cui i mercati (al netto delle componenti speculative) chiedono certezze, non è di poco conto.

Perché tutti i possessori di bond emessi dal fondo salva-Stati (Efsf) hanno lo stesso diritto di rimborso. Non esistono "senior" e "junior". I creditori sono tutti sullo stesso piano. In caso di default, totale o parziale, dello Stato destinatario degli aiuti la ristrutturazione del debito colpisce tutti in maniera uguale come è avvenuto con l'haircut del bond della Grecia. Mentre, una volta attivato il meccanismo permanente di stabilità i creditori non sono sullo stesso piano. Perché il Fondo Esm ha la statuto giuridico di creditore privilegiato. Quindi, soltanto dopo che è stato ripagato gli altri creditori possono aspirare a un rimborso dei crediti. Da ciò si deduce che nel caso il piano salva-banche spagnolo sia finanziato attraverso questo meccanismo, potrebbe esserci un chiaro disincentivo ad acquistare titoli spagnoli in quanto sarebbero rimborsati solo dopo i titoli "senior".

A questo punto veniamo all'Italia che ha una quota del 19,18% del Fondo salva-Stati e una del 17,3% nel nascituro fondo Esm. Percentuali che indicano che, in ogni caso, la sua partecipazione al salvataggio spagnolo non sarebbe irrilevante.

Ma ancora una volta le cose cambiano sensibilmente se si sceglie il Fondo salva-Stati o l'Ems. Perché nel primo caso il salvataggio fa lievitare il debito pubblico dei Paesi, nel secondo no perché i contributi all'Esm sono equiparati alle quote nel capitale dell'Fmi e quindi non vanno a pesare sull'indebitamento del Paese socio.

Se si decide di salvare le banche spagnole con il Fondo salva-Stati (opzione non gradita alla Germania) il debito pubblico dei Paesi è destinato a crescere, compreso quello italiano. Questo avrebbe un forte impatto sui bilanci delle banche italiane, molto esposti in BoT, BTp, CTz, ecc. Per l'esattezza esposte per 294 miliardi (a fine 2011 erano 209 miliardi) lievitati dopo che la Bce ha prestato 1.000 miliardi a condizioni agevolate alle banche europee nelle operazioni Ltro di dicembre e febbraio. Se il debito pubblico aumenta e si deteriora - a causa della crescente difficoltà nel ripagare gli interessi - il valore dei titoli di Stato italiani si deprezza e i bilanci bancari si svalutano.
E qui, nell'attesa di avere nuovi lumi dalle autorità europee, si chiude il cerchio.

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« Risposta #2 inserito:: Agosto 05, 2012, 07:41:14 pm »

I 10 paradossi dell'Eurozona nella calda estate della finanza

di Vito Lops

04 agosto 2012


La crisi dei debiti sovrani unita a un sistema finanziario internazionale ampiamente deregolamentato è una miscela esplosiva per la serenità dei mercati finanziari, mai come in questo momento simili a delle giostre, con violenti e quotidiani saliscendi. Resta il fatto che questi incresciosi movimenti di capitali da un asset all'altro stanno facendo allo stesso tempo fiorire dei paradossi. Ecco, in questa selezione, una raccolta dei 10 più eclatanti.

1) L'euro crollerà? E allora perché il Bund sprizza salute?
In molti hanno profetizzato seri rischi per la moneta unica europea negli ultimi tempi. A luglio, per citarne uno, il presidente del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde ha indicato che l'euro ha tre mesi di vita, in assenza di riforme sostenziali (così si è espresso anche il finanziere ungherese George Soros). Allora, se l'euro è davvero così messo male pare un controsenso rifugiarsi sul Bund tedesco (che infatti è intorno ai minimi storici) considerando che la Germania sarebbe pienamente invischiata in un'eventuale debacle dell'euro: alcuni studi indicano che con la rivalutazione del marco che ne conseguirebbe l'economia tedesca andrebbe immediatamente in profonda recessione con Pil in caduta di oltre cinque punti percentuali.

2) Spread su, Borse giù ma l'euro tiene
Se l'Eurozona è in crisi come mai la valuta che ne rappresenta l'area, pur avendo perso da inizio anno circa il 7% nei confronti del dollaro, tiene tutto sommato in questa fase di turbolenza finanziaria? Va certamente meglio di Borse (Piazza Affari è a -17% da marzo) e spread (che dai minimi di aprile sotto quota 300 viaggia ormai stabilmente sopra 450 punti).

3) Davvero In 15 mesi è cambiata la storia dell'Italia?
Ad aprile 2011 lo spread tra BTp e Bund era era di poco superiore a quota 100. Oggi, come visto è sopra 450 con frequenti escursioni oltre quota 500. Eppure nel frattempo, tra manovre lacrime e sangue, il governo Monti ha sinora applicato un mix di austerity da 65 miliardi di euro. È possibile che in appena poco più di un anno, e nonostante l'approvazione di riforme strutturali, il quadro dell'Italia sia così peggiorato rispetto a 15 mesi fa

4) L'Irlanda (salvata) sottrae imprese alla concorrenza
Come spiegare anche la gestione del salvataggio dell'Irlanda? Al pari di Portogallo e Grecia l'Irlanda ha ricevuto gli aiuti da parte della cosiddetta troika (Ue-Bce-Fmi): ovvero prestiti a tassi agevolati per oltre 70 miliardi di euro. Ma l'Irlanda ha ricevuto un altro straordinario aiuto: quello di poter applicare un'aliquota fiscale del 12,5% alle imprese. Un vantaggio non da poco che spinge naturalmente molte aziende dell'Eurozona a spostare la sede a Dublino penalizzando in questo modo gli altri Stati dell'area euro che non possono permettersi queste aliquote da semi-paradiso fiscale. Che Unione è quella che consente a uno dei Paesi di sfavorire gli alleati attraverso l'applicazione di una fiscalità di favore a uno dei suoi membri?

 5) La Bce è l'unica tra le big che non può stampare moneta
Le Banche centrali di Giappone, Svizzera, Inghilterra e Stati Uniti hanno in comune la facoltà di poter stampare moneta ponendosi difatti come prestatori di ultima istanza. La Banca centrale europea non può farlo. Questa mancanza di potere, che spesso agisce come formidabile deterrente contro attacchi speculativi, è considerata da molti economisti il primo problema da risolvere per risolvere una volta per tutte la crisi dei debiti sovrani dell'Eurozona.

6) Euribor
Se è vero che l'Euribor è il tasso a cui una media di 43 banche, prevalentemente dell'area euro, si prestano denaro fra loro, non si capisce perché sia così basso in una fase, come quella attuale, caratterizzata da una crisi generalizzata del mercato interbancario e dalla scarsa fiducia tra i vari istituti che preferiscono rivolgersi direttamente presso lo sportello della Bce per chiedere soldi. Certo, sull'Euribor così come per il britannico Libor, incombono pesanti accuse di manipolazione. Resta il fatto che, al di là di quelli che saranno gli accertamenti della giustizia, un Euribor così basso (3 mesi allo 0,38% e un 1 mese allo 0,15%) non si è mai visto nella storia dell'euro.

7) Stati Uniti e Inghilterra hanno un deficit/Pil simile alla Grecia
Il rendimento dei Tresaury statunitensi e dei Gilt britannici è in linea con quello del Bund tedesco: ovvero i mercati attribuiscono a Inghilterra e Stati Uniti un alto livello di affidabilità. È paradossale però se si guarda al fortissimo indebitamento dei Paesi anglosassoni (comprendendo debito pubblico, di imprese e famiglie) e al deficit/Pil che viaggia intorno al 10%, lo stello livello della Grecia.

Fico Le banche italiane valgono meno di McDonald's
Un altro paradosso di questa crisi finanziaria è che le banche italiane valgono in Borsa poco più di 50 miliardi di euro, un valore inferiore alla quotazione della sola McDonald's (74 miliardi) e di altre 84 aziende al mondo. La Apple, ad esempio, vale circa otto volte il sistema bancario italiano.

9) Indici di Borsa oscillano ormai come titoli derivati
Nelle ultime settimane gli indici di Borsa, in particolare quelli di Milano e Madrid, hanno subito violentissime oscillazioni al ribasso e al rialzo, con scostamenti anche superiori al 6%. Se in passato questi movimenti erano più rarefatti, adesso stanno diventando all'ordine del giorno. Avvicinando paradossalmente la volatilità di questi indici - e dei titoli a larga capitalizzazione che li compongono, molti dei quali nei portafogli di piccoli risparmiatori - a quella che si vede abitualmente nel mercato dei derivati (warrant, opzioni, ecc.).

10) Derivati ben oltre i livelli della crisi subprime
C'è chi ama ricordare che l'attuale crisi dei debiti sovrani è un'onda lunga della crisi dei derivati sui mutui subprime propagata nel mondo dagli Stati Uniti dall'estate del 2007. Da allora, secondo le indicazioni della Banca dei regolamenti internazionali, il mercato dei titoli derivati anziché diminuire, si è rafforzato. Tanto che oggi questi contratti valgono nove volte il Pil del pianeta. E questo, per dirla tutta, è il paradosso dei paradossi.

twitter.com/vitolops

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da - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2012-08-04/paradossi-eurozona-calda-estate-162259.shtml?uuid=AbZ7MXJG&p=2

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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 01, 2015, 11:42:00 am »

Euribor negativo, banche spiazzate.
Cosa cambia per i mutui? Occhio al contratto

Di Vito Lops
21 gennaio 2015

Alla fine è accaduto. L’Euribor a 1 mese, a cui sono agganciati molti mutui a tasso variabile stipulati e offerti in Italia (un’altra bella fetta è agganciata all’Euribor a 3 mesi) è sceso sottozero. Ieri questo tasso interbancario (che sintetizza il costo dei prestiti interbancari a 1 mese, anche se si basa su dichiarazioni delle banche e non su reali transazioni) è stato fissato a -0,002%. Briciole in termini numerici ma che ora pongono un importante interrogativo nei confronti delle banche che non erano attrezzate a questa evenienza.

Sì, perché il calcolo della rata di un mutuo a tasso variabile è effettuato di rata in rata (di mese in mese per la maggior parte dei contratti) sommando allo spread (la % fissa stabilita dalla banca a inizio del contratto che rappresenta il guadagno lordo degli istituti su un prestito) il tasso di indicizzazione scelto (il tasso Bce che in questo momento è positivo ed è pari allo 0,05% e per la maggior parte dei casi, Euribor a 1 e 3 mesi).

Dato che l’Euribor a 1 mese è sceso sottozero vorrà dire che tecnicamente il tasso finale dei mutui ad esso ancorati dovrebbe essere dalle prossime rate, seppur di 1 millesimo, inferiore allo spread. La domanda è: dato che il Tan (Tasso annuo nominale) del mutuo variabile è dato dallo somma tra spread ed Euribor, ora che questo indice è diventato negativo, le banche lo sottrarranno davvero?

È possibile? «La discesa dell'Euribor sotto lo zero era una eventualità probabilmente considerata poco realistica dalle banche, che adesso stanno valutando se e come gestire la cosa in termini di calcolo del tasso - spiega Roberto Anedda, direttore marketing di Mutuionline.it -. Difficile dire ora se davvero qualche banca prevedrà una pura somma algebrica tra un indice negativo e uno spread positivo, che in caso di Euribor sotto lo zero porterebbe ad un tasso finale inferiore allo spread previsto da contratto. Una opzione potrebbe essere quella di stabilire che il tasso non potrà scendere sotto il valore dello spread, ma si tratta di ipotesi che potremo verificare con i prossimi aggiornamenti dei contratti di mutuo o dai fogli informativi delle banche».

Certo, questo aggiornamento potrebbe essere fatto per i nuovi mutui, ma sui vecchi mutui le banche sono difatti spiazzate. A questo punto ai mutuatari non resta che porre personalmente il quesito allo sportello del proprio istituto per constatare se è pronto tecnicamente ad effettuare la somma algebrica (e quindi a sottrarre lo spread). In teoria, è sufficiente leggere il proprio contratto di mutuo. Se non è previsto diversamente, un Euribor negativo dovrebbe continuare ad essere sommato algebricamente (quindi sottratto) allo spread per ottenere il tasso finale del mese su cui calcolare la prossima rata.

In un basket di contratti visionati dal Sole 24 Ore non sono stati riscontrati “ombrelli sull'Euribor”, ovvero limiti oltre il quale l'Euribor non possa scendere per il calcolo della rata. Per cui in teoria questi contratti dovrebbero prevedere la sottrazione automatica dell'Euribor (quando negativo) allo spread fisso per ottenere il tasso su cui calcolare la nuova rata.

Lo stesso discorso vale per i mutui in franchi svizzeri concessi ai cittadini italiani (e tanto criticati in questi giorni dopo la decisione della Banca nazionale svizzera di lasciar liberamente rivalutare il franco sull’euro dopo aver bloccato il tasso di cambio per tre anni fino a 1,2, una decisione che costerà cara per i mutuatari italiani che devono rimborsare rate in franchi e percepiscono un reddito in euro). In questi giorni il Libor - il tasso interbancario svizzero utilizzato per indicizzare i mutui variabili elvetici - è sceso sotto 0, molto più pesantemente dell’Euribor. Il Libor a 3 mesi è addirittura sceso a -0,66%.

Al momento, visionando i fogli informativi delle banche italiane che propongono questi mutui in franchi, non si leggono indicazioni accessorie. Il che lascia pensare che anche in questo caso gli istituti siano stati spiazzati dalla rapida discesa sottozero degli indici interbancari e che, allo stesso tempo, non abbiano previsto un tetto sotto cui (a punto la soglia negativa) il tasso interbancario non possa scendere ai fini del calcolo della rata.

Del resto, la logica di un mutuo a tasso variabile, nell’era dei tassi negativi che stiamo vivendo in questo delicato momento di trappola della liquidità e deflazione nell’Eurozona, prevedrebbe appunto che i tassi interbancari negativi debbano essere sottratti (cioè sommati algebricamente) allo spread. Occhio quindi a come gestire questa fase in cui molti istituti potrebbero cercare di rinegoziare con il cliente in corsa il contratto, inserendo o praticando difatti quella clausola per essi tutelante che non hanno mai inserito perché non si sarebbero forse mai immaginati di operare in un mondo dove i tassi vanno al contrario.

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« Risposta #4 inserito:: Luglio 12, 2015, 05:11:12 pm »

La sfida del matematico Varoufakis tra la Teoria dei giochi e Machiavelli

Di Vito Lops
05 luglio 2015

La settimana scorsa era seduto al tavolo delle trattative con Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, la cancelliera tedesca Angela Merkel e compagnia bella. Con quelli che il ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, ieri ha definito in un’intervista «terroristi», parlando dei creditori che pretendono dalla Grecia fino all’ultimo centesimo di quanto prestato, con tanto di interessi agevolati.

Più volte l’economista Varoufakis, laureato in Matematica e Statistica, greco naturalizzato in Australia, prestato per l’occasione a fare il ministro delle Finanze del governo di Alexis Tsipras (alla guida del partito di estrema sinistra Syriza che dal 25 gennaio è alla guida del Paese ellenico) ha ricordato che dopo la Seconda Guerra Mondiale una buona parte del debito tedesco fu condonato dai creditori internazionali. Anche grazie a quel gesto dei Paesi europei, Grecia compresa - anche l’Italia che figurava tra i creditori - la Germania è ripartita.

Bene, il crollo del Pil greco, conseguenza della recessione dovuta ai piani di austerity e di risanamento imposti dai creditori internazionali, è tra i peggiori registrati dal 1870 ad oggi in un Paese attualmente ritenuto ad economia avanzata.

Il -25% fatto registrare dal prodotto interno lordo (reale) della Grecia tra il 2008 e oggi ha paragoni solamente con quanto avvenuto in altri Paesi a seguito della Grande Depressione del secolo scorso o delle due Guerre Mondiali.

Una tabella pubblicata dall'ufficio economico della Royal Bank of Scotland, su dati Maddison Database e Fmi, traccia una “classifica” delle recessioni più disastrose degli ultimi 145 anni.

Il Pil della Germania, tra il 1945 e il 1946, segnò un -66 per cento. Ancora la Grecia, nel 1938-1945, registrò un dato del -64 per cento. Il Pil dell'Italia, negli anni dal 1941 al 1945, crollò del 44%, mentre quello della Francia, tra il 1940 e il 1944, del 53%. Negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra, nel periodo 1919-1921, sempre l'economia italiana risultò tra le peggiori d'Europa, con un dato di pil pari a -25%, lo stesso registrato in questi anni in Grecia.

Nel secolo scorso vi fu una recessione disastrosa anche per gli Stati Uniti, il cui Pil, negli anni tra il 1930 e il 1933, precedenti il New Deal rooseveltiano, si contrasse del 29 per cento.

Difficile, quindi, discostare dal punto di vista macroeconomico la situazione della Grecia di oggi da quelle dei Paesi in crisi post-bellica. Questo Varoufakis lo sa ed è un tasto che muove nel momento in cui cerca di applicare la Teoria dei giochi nelle trattative con i creditori (qui la mappa del debito greco). Di cosa si tratta? È la teoria elaborata dal matematico John Nash che a sua volta si è ispirato a Nicolò Machiavelli e alla sua più grande opera “Il Principe”, scrivendo con ammirazione: «Nelle pagine di quel capolavoro si ha l'impressione che Machiavelli cerchi di insegnare a dei mafiosi come operare in modo efficiente e spregiudicato. Fornisce consigli tattici a principi crudeli ed egoisti, e nella sua opera descrive effettivamente i “giochi di corte” che venivano praticati nelle stanze vaticane e nei palazzi fiorentini».

La teoria dei giochi analizza le decisioni di un soggetto prese in situazioni conflittuali o di interazione con due o più rivali al fine di portare il massimo beneficio per tutti. Ci sono quattro elementi: i giocatori, le loro azioni, una strategia e le vincite. Prima dell’avvento di Syriza in Grecia i giocatori nell’Eurozona si conoscevano molto bene fra loro, così come le loro strategie (ad esempio l’ortodossia tedesca e un atteggiamento più moderato della periferia).

Con l’arrivo di Tsipras e del suo alfiere Varoufakis i vecchi equilibri sono saltati. È entrato un nuovo giocatore che si dà il caso sia un matematico, un ammiratore del genio matematico John Nash (lo conosceva personalmente) ma anche un esperto di Teoria dei Giochi, coautore con Shaun P. Hargreaves-Heap, del testo “Game Theory: A Critical text” (2004).

Da quello che è successo nelle ultime due settimane di trattative deragliate fino al referendum di oggi (che ha colto di sorpresa perfino i mercati) e allo scontro finale (Varoufakis ha detto che se vince il «sì», cioè se vincono i «terroristi creditori» «mi dimetto») è evidente che il “nuovo giocatore” stia provando a spiazzare i “vecchi giocatori” lanciando con il referendum una sorta di “Gioco del coniglio” in cui in due lanciano simultaneamente le auto verso un burrone.

Chi sterza prima per evitare il burrone fa la figura del coniglio. Ma se nessuno sterza, entrambi muoiono. Nei prossimi giorni scopriremo se qualcuno deciderà di sterzare prima del burrone.
twitter.com/vitolops

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DA - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2015-07-04/il-matematico-varoufakis-sta-sfidando-teoria-giochi-merkel-e-l-eurozona-come-andra-finire-201304.shtml?uuid=ACT3G0L
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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 28, 2015, 05:47:03 pm »

Mutui, le banche aprono la porta a chi ha già fatto la surroga.
Come fare

Di Vito Lops
21 ottobre 2015

La notizia c’è ed è che le banche hanno deciso di riaprire le porte al surrogatore seriale. Di chi si tratta? Di mutuatari che nel curriculum hanno già una surroga alle spalle, ovvero hanno già spostato il vecchio mutuo in un’altra banca per usufruire di condizioni migliori sul tasso e/o sulla durata.

Il 2015 sarà ricordato come l’anno del prepotente ritorno delle surroghe (hanno trainato la ripartenza generale del mercato delle erogazioni di mutui che nei primi sette mesi secondo l’Abi sono cresciute dell’82% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno). E sarà ricordato anche come l’anno in cui le banche sono tornate pimpanti sul prodotto mutui - riducendo gli spread e le spese complessive misurate dal Taeg (Tasso annuo effettivo globale) - anche perché i profitti delle banche sul trading sui titoli di Stato si sono affievoliti visto che i tassi di BoT e BTp sono in netto calo, anche per via della manovra di quantitative easing avviata lo scorso marzo dalla Banca centrale europea (attraverso la quale la Bce compra a prezzi alti i titoli di Stato che le banche private avevano comprato a prezzi più bassi negli anni della crisi favorendo discrete plusvalenze per l’universo degli istituti di credito).

I profitti sui titoli di Stato sono diminuiti e questo sta spingendo molte banche a riprendere l’antica vecchia via: generare margini dai prestiti, compresi quelli alle famiglie di cui i mutui ne sono l’eccellenza.

Di fronte però a un mercato immobiliare non ancora particolarmente reattivo le banche hanno spinto nella prima parte dell’anno sulle surroghe, cercando cioè di raccogliere con offerte più competitive clienti insoddisfatti che stavano pagando tassi più alti presso un’altra banca con il vecchio mutuo. Questo ha spinto molti a surrogare il mutuo, in prevalenza passando da fisso a variabile, ma anche da fisso a fisso, a condizioni più basse. C’è anche chi è passato dal variabile al fisso, approfittando della caduta dei tassi fissi che restano però decisamente più cari del variabile il cui costo è dato praticamente solo dallo spread perché l’indice Euribor a cui è agganciato è addirittura scivolato sotto zero e potrà continuare a scendere.

In questa prima tornata di surroghe sono stati però esclusi i “surrogatori seriali”, ovvero coloro che già hanno nel curriculum una surroga effettuata. Un pubblico non molto gradito dalle banche perché considerato “pericoloso” in termini di profittabilità. Quando una banca eroga un mutuo sostiene infatti una serie di costi fissi tra 1.500 e 2mila euro che riesce ad ammortizzare solo se il debitore resta tale per almeno 3-4 anni (anche per questo motivo nei piani di ammortamento si pagano nei primi anni molti più interessi che negli ultimi anni, in questo modo le banche si tutelano e incassano prima i profitti).

Se però il mutuatario si comporta come un adolescente che cambia operatore telefonico di mese in mese in base all’offerta più conveniente del momento e decide di surrogare il mutuo dopo 12-24 mesi le banche rischiano di non ammortizzare i costi fissi e di chiudere l’operazione in rosso. Per questo motivo finora hanno chiuso la porta a quello che viene definito “surrogatore seriale”, un cliente che ha già surrogato e, visto che lo ha già fatto, potrebbe farlo anche in seguito.

Ma adesso il quadro sta cambiando. Il mercato delle “prime surroghe” si sta un po’ affievolendo e a questo fenomeno non sta facendo da contraltare una ripartenza sprint delle vendite di immobili e di conseguenza di mutui d’acquisto. Così le banche pur di erogare mutui e cercare di raggiungere i budget che avevano fissato a inizio anno sono disposte a correre il rischio di erogare “mutui di surroga” a clienti che hanno già una surroga alle spalle, quindi potenzialmente “seriali”, nel quale caso non sarebbero profittevoli. Ma evidentemente il rischio vale la candela per delle banche improvvisamente vogliose di prestare la liquidità a tassi bassissimi (quando non negativi) che trovano sul mercato all’ingrosso dei capitali (come dimostrato dagli indici Euribor che da oltre 150 giorni sono negativi).

«La domanda di surroga sta lentamente sgonfiandosi. Dal nostro osservatorio rileviamo come questa sia passata dal 49% del totale richieste durante il secondo trimestre 2015 al 40% del terzo trimestre sino al 37% dell'attuale mese di ottobre- spiega Stefano Rossini, ad di MutuiSupermarket.it -. Parallelamente la domanda di mutui di acquisto si sta riprendendo ma non in maniera così rapida e decisa, con le compravendite residenziali cresciute nella prima metà dell'anno di un livello inferiore al 3% (e del 6% nel secondo trimestre, ndr). In questo scenario stiamo rilevando come alcune banche, con l'obiettivo di continuare ad alimentare la crescita delle proprie erogazioni di mutui sui prossimi mesi, inizino timidamente a considerare un segmento di potenziali mutuatari sino ad ora “abbandonato” e per certi versi “schivato”: il segmento dei mutuatari che hanno già surrogato una volta, magari qualche anno fa, e oggi intendono di nuovo surrogare il proprio mutuo approfittando di tassi ai minimi storici e spread vantaggiosi».

«Non dimentichiamo infatti che dall'introduzione della surroga nel 2007 post decreto Bersani, le surroghe hanno spiegato sempre da un minimo del 5% ad un massimo del 40% delle erogazioni a livello sistema e quindi stiamo parlando di un bacino di nuovi mutuatari sicuramente ampio e certamente interessante come profilo di rischio - prosegue Rossini -. Normalmente sono mutuatari che hanno sempre pagato regolarmente sia le rate del mutuo iniziale che del secondo mutuo di surroga, che hanno un livello di educazione finanziaria elevato e hanno una forte propensione al risparmio e che possono essere nuovi clienti con riferimento non solo al nuovo mutuo ma anche ad altri rapporti bancari e assicurativi correlati. Oltre a ciò, è necessario considerare che erogazioni di nuovi mutui ai tassi di oggi permetterebbero alle banche di avere una certa sicurezza sulla stabilità del nuovo mutuatario sui prossimi 4-5 anni, anni in cui i tassi variabili dovrebbero rimanere molto contenuti e i tassi fissi non dovrebbero ulteriormente ridursi. In altre parole, il rischio di una terza surroga potrebbe derivare solo dalla volontà del mutuatario di cambiare il proprio mutuo da tasso variabile a tasso fisso in un’eventuale situazione di rapido e deciso aumento dei tassi variabili, ma questo scenario di tassi Euribor in forte crescita appare quanto meno lontano nel tempo. Non sorprende quindi affatto registrare questi primi approcci del sistema bancario al cosiddetto segmento dei “surrogatori seriali».

twitter.com/vitolops
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DA - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2015-10-20/mutui-banche-adesso-riaprono-porta-surrogatore-seriale-cosi-surroga-bis-e-possibile-174112.shtml?uuid=ACH502JB&p=2
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« Risposta #6 inserito:: Febbraio 04, 2016, 11:23:15 pm »

In due mesi Piazza Affari ha perso un quarto del valore.
Chi sta davvero vendendo e perché?


Di Vito Lops
4 febbraio 2016

In due mesi Piazza Affari ha perso un quarto del suo valore. Osservando la tempesta finanziaria di queste settimane i progressi fatti negli ultimi anni in termini di ritorno alla crescita (seppur molto timido) e di risanamento dei conti pubblici (con il deficit/Pil sotto il 3% nonostante in questo momento ci sia bisogno di riattivare la domanda potenziando spesa e investimenti) sembra che non siano mai stati fatti. Così come pare che il quantitative easing della Bce non sia servito a molto - al di là di tenere basso l’euro, che peraltro si tiene basso anche perché gli Stati Uniti sono stati i primi ad invertire la politica monetaria con l’effetto di un rafforzamento globale del dollaro. Lo stesso «Qe» che invece, fatto dalla Fed con largo anticipo e già nel 2009, ha fatto raddoppiare la capitalizzazione a Wall Street in cinque anni.

Fondi sovrani arabi tra i venditori
Appare peraltro assai improbabile spiegare la caduta delle Borse (Piazza Affari è la peggiore ma le vendite colpiscono tutti i listini) con la caduta del petrolio. Una correlazione forzata, che lascia il tempo che trova. Anche perché un petrolio basso, un euro debole e una Bce prodiga di manovre espansive per quanto ritardate, dovrebbero fornire obiettivamente slancio alle aziende europee. E allora perché questa burrasca?
«Sono vendite dovute, qualcuno scarica - spiega Davide Biocchi, vincitore del premio Top Trader di Borsa Italiana - le vendite partono da Etf, panieri e certicate e poi vanno a pioggia sui mercati. Non è da escludere che stiano vendendo massicciamente i fondi sovrani dei Paesi produttori di petrolio, per coprirsi dalle perdite innescate sui conti pubblici dal ribasso del greggio». I grandi investitori, quelli che muovono i mercati, starebbero quindi vendendo al di là delle notizie, al di là dei fondamentali.

Il grafico
Incertezze sulla crescita globale
«Non è però da escludere che una buona parte delle vendite rifletta aspettative di un ritorno della recessione», conclude Biocchi. Lo spettro di una nuova recessione comincia ad aleggiare tra le cause di queste vendite, rafforzato anche dai dati macro diffusi ieri dagli Usa, dove l’indice dei servizi ha registrato il terzo calo di fila. E se i servizi della prima economia del mondo frenano, non è un bel segnale. Il che, nel breve, sta innescando vendite sul dollaro come si può notare anche dall’apprezzamento dell’euro sul biglietto verde da 1,08 a 1,11 in poche sedute.

Eppure secondo l’Fmi il Pil globale crescerà nel 2016 del 3,4%, più del 2,5% dello scorso anno. Quindi dov’è questa paventata recessione? Dov’è il rallentamento globale? «Dopo le aspettative di una crescita più robusta che si erano manifestate nei primi sei mesi del 2015 - dice Emilio Rossi, senior advisor di Oxford Economics e presidente di EconPartners - l'economia mondiale è entrata nel 2016 in un clima di incertezza sui mercati finanziari e con la domanda globale in rallentamento rispetto alle attese». Nella seconda metà del 2015 le incertezze hanno progressivamente iniziato a fare capolino. Negli Stati Uniti la crescita è rallentata. Il quantitative easing nell’Eurozona e in Giappone si sta mostrando meno efficace di quanto preventivato dalle banche centrali. Sulla Cina sono cresciuti i timori relativi al rientro dalla bolla immobiliare, alla svalutazione del renminbi e al pianificato ribilanciamento tra investimenti e consumi privati.

Il grafico
«In sintesi - spiega il presidente di EconPartners - nella fase finale del 2015 l'economia reale globale mostrava segni di debolezza superiori alle attese. Tuttavia i dati relativi al quadro dell'economia reale non erano tali da giustificare l'allarmismo verificatosi tra gli operatori ed erano coerenti con i rischi già noti. Dopotutto per il 2016 si prevedono tassi di crescita Per i paesi avanzati mediamente attorno al 2%, mentre gli emergenti grazie a Cina e India continueranno a essere i motori dell'economia mondiale, nonostante i timori sulla stessa Cina e sui paesi produttori di petrolio e commodity. Non è azzardato pensare - continua Rossi - che i programmi di vendita automatici abbiano giocato un ruolo fondamentale nel crollo finanziario di inizio 2016 e nella perdurante volatilità successiva».

Il mondo non cresce più come prima del 2008
Oggi i mercati finanziari sono globalizzati e i flussi finanziari rappresentano un multiplo del commercio di merci e servizi: di conseguenza, piccoli cambiamenti nelle aspettative possono provocare enormi spostamenti di capitali e una volatilità non coerente con l'andamento dell'economia reale. «La decisione - continua Rossi - di avviare il rialzo dei tassi di interesse negli Usa è stata la miccia che ha ingenerato una «fuga verso la qualità» generalizzata. In realtà, la capacità di crescita dell'economia globale è da vari anni condizionata da alcuni fattori che sembrano sfuggire ad analisti e policy makers. È almeno dal 2011 che le previsioni di pressoché tutti gli analisti si dimostrano eccessivamente ottimistiche sull'andamento dell'economia, mentre nel passato tendevano a distribuirsi tra ottimistiche e pessimistiche». Il minimo comun denominatore dell' “ottimismo” degli ultimi anni è da ricercarsi in una serie di elementi probabilmente sottovalutati nei paradigmi analitici dei ricercatori economici. Il fattore più comunemente citato è l'effetto di trascinamento della crisi del 2007-08, sviluppatasi in un circolo vizioso di blocco del sistema bancario, mancanza di credito, difficoltà per le imprese e per i bilanci pubblici, con effetto di avvitamento sul settore bancario. “In realtà, a distanza di otto-nove anni dall'inizio della crisi è ora di fare i conti con una realtà più amara: i fattori di debolezza dell'economia mondiale sono strutturali e in quanto tali ci accompagneranno ancora per molti anni a venire».

«La performance attesa a livello globale per il prossimo decennio - conclude l’analista - è inferiore tra il mezzo punto e il punto percentuale rispetto alla crescita verificatasi nel decennio precedente alla crisi Lehman. A livello globale si tratta di cifre impressionanti, anche perché storicamente c'è sempre stata un'area del pianeta in grado di compensare le debolezze delle altre aree. Difficilmente l'Europa o l'area Ocse avranno questo ruolo. Se a questo si aggiunge la considerazione che molto probabilmente le previsioni attuali sono ancora basate su modelli e parametri distorti in direzione dell'ottimismo, sarà bene che i policy makers prendano atto della necessità di politiche più coraggiose e soprattutto orientate alla ricerca e allo sviluppo di nuove tecnologie».

twitter.com/vitolops

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-02-04/in-due-mesi-piazza-affari-ha-perso-quarto-valore-chi-sta-davvero-vendendo-e-perche-094021.shtml?uuid=ACoLBSNC&p=2
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« Risposta #7 inserito:: Febbraio 09, 2016, 06:58:36 pm »

Borse, i segnali della tempesta perfetta: dal «rimbalzo del gatto morto» alla corsa all’oro
Di Vito Lops, con un articolo di Marco lo Conte

8 febbraio 2016

Parola d’ordine: liquidi. Il consiglio che gli addetti ai lavori danno ai risparmiatori in questa fase di turbolenza sui mercati finanziari è di assumere il più possibile posizioni liquide. Perché non è dato sapere al momento quando la tempesta si esaurirà. Ci sono infatti numerosi segnali che indicano che quello in corso (Piazza Affari -20% da inizio anno, ma vanno male tutti i listini su scala globale) non sia un ribasso giunto al capolinea.

Sale l’oro nonostante la bassa inflazione
Il primo segnale lo si può notare nell’andamento del prezzo dell’oro. Da inizio anno è salito del 10%. Anche oggi il metallo giallo viene comprato e torna a 1.170 dollari l’oncia, livelli che non vedeva dallo scorso autunno. «L'oro rimane un bene rifugio in momenti di elevata volatilità, ma non bisogna dimenticare che il dollar index (un basket di valute contro dollaro) si è deprezzato dell’1,8% e con l'euro del 2,9% da inizio anno, quindi l'effetto valuta ha contribuito in parte a questo trend positivo dell'oro - spiega Marco Aboav, macro portfolio manager di MoneyFarm -. Potremmo trovarci nel 2016 ad una guerra valutaria tra Paesi sviluppati tramite nuovi allentamenti monetari per importare inflazione: in Giappone è stato annunciato, in Europa potrebbe essere presentato a marzo, negli Stati Uniti gli stress test richiesti dalla Fed per le banche americane includono anche uno scenario con tassi negativi, ci si aspetta ulteriori svalutazioni della valuta cinese. Se la guerra valutaria fosse intrapresa da tutte le banche centrali dei paesi sviluppati, l'oro rimarrebbe l'unica valuta a beneficiarne». Certo, di mezzo c’è la svalutazione del dollaro che di per sé dà forza intrinseca all’oro e a tutte le materie prime quotate in dollari. Ma l’attuale guerra delle valute non è l’unico motivo che sta spingendo l’oro. «Quello che preoccupa - spiega Massimo Siano, capo per il Sud Europa di Etf Securities - è che il metallo giallo stia salendo pur in assenza di prospettive di aumento dell’inflazione». Si sa, infatti, che l’oro è un bene rifugio, ma lo è soprattutto nelle fasi che preludono a un’impennata dell’inflazione, dato che l’oro protegge dal rincaro del costo della vita.

Troppi rimbalzi “del gatto morto”
Un altro segnale da tempesta perfetta lo si legge osservando la prova di forza dei mercati azionari. Questa mattina nella prima mezz’ora di scambi Piazza Affari è arrivata a guadagnare oltre un punto percentuale. Ma il rimbalzo è durato pochissimo. Dopo un’ora l’indice perdeva già il 2% con un’escursione intraday di tre punti percentuali. Perché accade questo? «Sono i classici rimbalzi del gatto morto - spiega un esperto -. Quando cade da una grande altezza anche un gatto rimbalza ma questo non significa che non stia cadendo». Per spiegare lo stesso fenomeno si può usare anche la metafora del pescatore. «Durante le fasi ribassiste gli speculatori testano la forza del mercato e lo lasciano andare per un po’ - spiega un trader -. Se vedono che il mercato non ha una grande spinta, tornano di nuovo all’attacco. Un po’ come fa il pescatore con il pesce che ha abboccato all’amo. Dopo averlo acchiappato molla un po’ la presa per testarne la forza. Una volta scoperto che il pesce non ha grande forza per salvarsi con le proprie forze, il pescatore capisce che la presa è quella giusta e poi dà il colpo di grazia». I numerosi rimbalzi della prima mezz’ora delle ultime sedute non sarebbero quindi altro che dei test degli speculatori per testare la capacità del mercato di risollevarsi da solo. Ma se questo fa appena +1% dopo aver perso il 20% si capisce che non ha molta forza e quindi questo dà nuovo spazio agli speculatori per attaccare, per andare a mettere in risalto i punti di debolezza di un mercato.

Troppi punti deboli
E di punti di debolezza, in questo momento, ce ne sono fin troppi. Così come ci sono fin troppi capri espiatori che possono essere additati per giustificare le vendite. L’introduzione del bail-in (che sposta la responsabilità dei salvataggi bancari dagli Stati ai clienti della banca) in Europa e la mancanza di un’adeguata regolamentazione europea (non esiste al momento un fondo interbancario di salvataggio in Europa ma ogni Paese deve cavarsela da solo) offre un segnale di debolezza che gli speculatori stanno andando a scalfire. Un altro punto di debolezza riguarda il prezzo del petrolio. Si sa che c’è troppa offerta ma manca un accordo politico tra Paesi Opec e Paesi non Opec per ridurre la produzione. Questa, nella logica di uno speculatore, è manna dal cielo perché sa che fino a che non verrà trovata un’intesa in tal senso le probabilità di guadagnare andando all’attacco (con vendite allo scoperto) crescono.

La bolla dei Paesi emergenti
Altro elemento di incertezza, altro punto a vantaggio di volatilità e speculatori. La Federal Reserve avrebbe dovuto alzare i tassi a marzo. Ma non lo farà perché l’economia Usa rallenta e poi c’è una bolla nei Paesi emergenti (fortemente indebitati in dollari) che sta esplodendo lentamente ma è pronta ad esplodere con maggiore irruenza in caso di rialzo dei tassi.

twitter.com/vitolops

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2016-02-08/borse-ecco-segnali-tempesta-perfetta-rimbalzo-gatto-morto-corsa-all-oro-104102.shtml?uuid=ACXgelPC
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« Risposta #8 inserito:: Febbraio 10, 2016, 12:16:41 pm »

Perché l’effetto palla di neve ha colpito i mercati e quando potrà tornare il sereno

Di Vito Lops
09 febbraio 2016

Sui mercati finanziari si sta creando quello che in gergo tecnico viene definito “effetto palla di neve”. Le proporzioni e la violenza del ribasso a cui stiamo assistendo - in particolare sulle Borse meno liquide - sono più che un segnale che sia scattato una sorta di effetto panico. L’aspetto più significativo che al momento non sta arrestando le vendite di breve periodo - al di là di ripetuti rimbalzini del “gatto morto” nella prima mezz’ora di scambi - è anche l’assenza di prese di posizioni da parte delle autorità monetarie e politiche. Stupisce in questo senso il silenzio dei banchieri centrali e da questo punto di vista il prossimo incontro della Bce previsto il 10 marzo pare lontano anni luce.

Da inizio anno Piazza Affari ha perso il 25,7% della capitalizzazione, superando addirittura il -23% della Borsa di Shanghai (che però questa settimana è chiusa per festività). È chiaro che per frenare il clima di incertezza sui mercati sarà necessaria qualche forte presa di posizione da parte dei banchieri centrali: oggi e domani potrebbe farlo Janet Yellen, che sarà in audizione al Congresso.

Così come per arrestare la tempesta sui bond governativi dell’Eurozona nell’estate 2012 ci volle (e bastò) una frase di Draghi, il famoso “whatever it takes”, ci vorrebbero in questo momento altri due “whatever it takes” per calmare le acque e far sì che gli investitori possano tornare a guardare con più serenità ai fondamentali: uno sulle banche europee e un altro sul petrolio.

Le banche europee stanno pagando ancora una volta l’incapacità decisionale (soprattutto nel momento in cui si devono mettere in atto dei meccanismi di solidarietà coordinati) dell’Europa. L’aver lanciato a gennaio il bail-in (un meccanismo che prevede che le banche in difficoltà non potranno chiedere aiuti statali ma rivolgersi in primo luogo ai propri azionisti, in seconda battuta agli obbligazionisti e al terzo giro ai correntisti per le somme oltre i 100mila euro) senza aver creato in parallelo un fondo europeo a garanzia dei depositi è una pecca grave. Che pesa chiaramente in questa fase in cui i mercati non hanno le idee chiare sulle entità delle sofferenze che le banche europee dovranno svalutare in bilancio.

Allo stesso tempo, il fatto che Paesi Opec e non Opec continuino a scontrarsi, piuttosto che creare un accordo sulla riduzione della produzione del petrolio, è un altro elemento di turbolenza che favorisce la speculazione al ribasso sul petrolio e che meriterebbe appunto un “whatever it takes”.

In assenza di ciò sui mercati finanziari sta andando in scena l’effetto «palla di neve». Perché i mercati hanno più paura di quello che non sanno. Preferiscono avere cattive notizie che navigare nel buio. All’effetto palla di neve contribuiscono in modo determinante dei fattori tecnici. Lo si capisce dal fatto che stanno scendendo paradossalmente più i titoli fino a poco tempo fa considerati solidi e a maggiore capitalizzazione rispetto a titoli di società meno solide. Come mai? «I fondi ricevono ordini di vendita dovuti e sono quindi costretti a ridurre, o addirittura a svuotare le posizioni - spiega un gestore del settore private banking - Dato che i fondi hanno in portafoglio i titoli migliori e più solidi, sono costretti a vendere proprio questi. Vendite slegate dai fondamentali delle singole aziende che obiettivamente in questa fase iniziano a quotare con degli sconti importanti».

Un altro motivo tecnico che alimenta l’effetto palla di neve è il Var, Value at risk. A molti clienti viene associata un Var, un livello massimo di rischio che può sopportare in portafoglio. Ad esempio può essere previsto che un determinato portafoglio non può perdere più del 5% in una settimana. Se questo livello viene sfondato il gestore è costretto a vendere, non tanto perché non crede nella solidità dei titoli in portafoglio, quanto perché è costretto a farlo automaticamente per il fatto che l’elevata volatilità dei mercati ha fatto scattare il limite del Var.

Questi fattori tecnici spiegano che una buona parte delle vendite è al momento slegata dai fondamentali e sarebbe solo in parte giustificata se i mercati andassero effettivamente a prezzare lo scenario peggiore: quello di un ritorno della recessione come accade nel 2009.

Ma al momento i dati macro che arrivano dagli Usa indicano un rallentamento della crescita e non una recessione. «Di conseguenza - conclude il gestore - gli investitori che non hanno posizioni farebbero bene a mantenersi liquidi e magari a valutare un piano di accumulo graduale a prezzi che iniziano a farsi interessanti. Chi invece è “dentro”, ovvero è investito in questa fase di tempesta, potrebbe valutare di ricalibrare l’orizzonte temporale, soprattutto se il portafoglio è costituito da titoli solidi, che sarebbero i primi a ripartire non appena i mercati dovessero tornare, ma solo dopo una forte presa di posizione da parte delle autorità, a concentrarsi sui fondamentali e fare nuovamente stock picking, ovvero a distinguere le singole società e a non fare, come accade in questo momento, di tutta l’erba un fascio».

twitter.com/vitolops
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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-02-09/perche-l-effetto-palla-neve-ha-colpito-mercati-e-quando-potra-tornare-sereno-184408.shtml?uuid=ACFSWuQC
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« Risposta #9 inserito:: Febbraio 26, 2016, 12:28:52 pm »

Casa, meglio comprare con un mutuo o con il nuovo leasing agevolato?

Di Vito Lops
23 febbraio 2016

Nell’ultimo anno sono stati stipulati in Italia molti più mutui: il 97% in più stando agli ultimi dati dell’Abi. Un terzo di questi sono surroghe, cioè miglioramenti di vecchi mutui (modificando tasso e/o durata). Il tutto però a fronte di un mercato immobiliare che sta leggermente risalendo dopo anni di crisi. Cresce la domanda e crescono un po’ le compravendite ma non certo i prezzi. La legge della domanda e dell’offerta del resto è di limpida semplicità: i prezzi crescono solo quando la domanda supera l’offerta. In questo contesto che la domanda superi l’offerta è tecnicamente impossibile considerata la mole di immobili invenduti che circola.

In ogni caso dalla ripartenza del mercato immobiliare dipende anche buona parte della ripresa economica perché il real estate crea lavoro su ampia scala e favorisce un certo ottimismo che si autoalimenta. È anche per questo motivo che probabilmente il governo ha introdotto da gennaio delle importanti agevolazioni in tema di leasing immobiliare.

Finora il leasing è conosciuto prevalentemente dai privati per la macchina, l’obiettivo è agganciarlo anche al concetto della casa. È previsto in particolare che chi sceglie la formula del leasing, preferendola al mutuo, all’affitto o all’affitto con diritto di riscatto, abbia il fisco particolarmente amichevole. Cosa è il leasing? In due parole: la banca acquista l’immobile e il cliente prende possesso dell’immobile pagando un canone d’affitto (a tasso fisso o variabile) periodico fissando all’inizio dell’operazione anche il prezzo dell’eventuale riscatto, al termine del piano di leasing che solitamente dura 12 anni ma in questi casi può spingersi anche fino a 20.

Secondo la nuova legge di stabilità, gli under 35 con un reddito annuo non superiore a 55mila euro possono detrarre ogni anno dall’Irpef il 19% fino a un massimo di canoni pagati di 8mila euro (quindi 1.520 euro). Per gli over 35 anni invece l’agevolazione è identica a quella oggi prevista per il mutuo prima casa, si può detrarre il 19% ma fino a 4mila euro (quindi massimo 758 euro l’anno). La grande differenza con il mutuo però riguarda il fatto che nel leasing il montante su cui calcolare il 19% di esenzione fiscale è dato dall’intero importo del canone mentre sul mutuo riguarda solo la quota interessi della rata.

Ad esempio se in un anno ho pagato su un mutuo rate per 6mila euro ma di questi 6mila, 4mila rappresentano la quota capitale e 2mila la quota interessi, su un mutuo prima casa il 19% viene calcolato su 2mila. Mentre nel caso del leasing sarebbe calcolato su 6mila.

Inoltre per il leasing è prevista un’altra agevolazione. Chi decide di riscattare l’immobile al prezzo concordato inizialmente e quindi di passare dalla condizione di locatario a quella di proprietario, potrà detrarre dall’Irpef il 19% di un importo massimo di 20mila euro. Se quindi per riscattare la casa aggiungo 30mila euro, potrò detrarre dall’Irpef 3.600 euro (cioè il 19% di 20mila).

Dal punto di vista fiscale quindi, per un under 35, il leasing parte in deciso vantaggio. Perché se risparmio ogni anno fino a 1.520 euro (contro i 758 potenziali del mutuo) per 20 anni ho un tesoretto di circa 14mila euro. Se a questi poi aggiungo i potenziali 3.600 euro in caso di riscatto arriviamo oltre i 17mila euro.

Il mutuo invece di norma rosicchia qualcosa sul lato tassi. I tassi dei mutui (sia fisso che variabile) oggi a livello nominale (cioè senza considerare l’inflazione) sono ai minini storici. Si stipula un variabile anche sotto l’1,5% e un fisso anche al 2,5% (nelle migliori delle ipotesi). Mentre con il leasing i tassi dovrebbero essere mediamente un po’ più alti. Quindi quando si chiede un preventivo di leasing prima casa bisogna confrontarlo anche con gli interessi che si risparmierebbero invece con il mutuo. Se questi battono i 14-17mila euro di vantaggio base del leasing, a quel punto il mutuo torna in vantaggio.

Un altro vantaggio del mutuo è dato dal fatto che offre la possibilità di estinzione anticipata gratuita. Mentre con il leasing bisogna andare fino in fondo ed eventualmente decidere di non riscattare l’immobile.

Il mutuo poi si può spingere su durate fino a 30 anni mentre il leasing nella migliore delle ipotesi arriva a 20 anni. Il leasing prima casa però ha dalla sua il fatto che consente di prendere possesso dell’immobile anche avendo poca liquidità iniziale e per questo si rivolge ai giovani che fanno fatica ad accendere un mutuo (il maxi-canone d’anticipo di solito è pari al 10% del valore dell’operazione) mentre con un mutuo medio bisogna avere il 20% di contanti, considerato che la maggior parte delle banche non concedono oggi mutui superiori all’80% del valore dell’immobile.

Un’altra differenza riguarda la morosità. La banca può avviare la procedura di pignoramento dopo sette rate di mutuo non pagate. Mentre la misura è un po’ più rigida nel caso di leasing. Può bastare anche una rata non pagata (in assenza della perdita del posto di lavoro senza giusta casa) per essere sfrattati dalla banca.

Pro e contro da ambo le parti, in ogni caso, da valutare con attenzione. Un’ultima cosa, però. «Non è detto che le banche si strappino i capelli per concedere leasing immobiliari prima casa - spiega Luca Dondi, analista di Nomisma -. Con il leasing le banche infatti vanno ad acquistare - per conto del locatario e in attesa di un suo eventuale futuro riscatto - un immobile. Ma in questo momento le banche sono piene di immobili per effetto dei numerosi pignoramenti avvenuti durante gli ultimi anni di crisi. Quindi non sono portate ad aumentare la quota di immobili in pancia in un momento in cui gradirebbero anzi liberarsene in tempi brevi. Anche per questo motivo molti istituti oggi stanno creando delle agenzie immobiliari interne o dei network per liquidare più in fretta i propri asset immobiliari. Il leasing da questo punto di vista andrebbe nella direzione opposta».

Non c’è quindi un vero vincitore. L’importante è conoscere le differenze e adeguarle alle proprie necessità. Sempre con la calcolatrice in tasca.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2016-02-23/casa-meglio-comprare-un-mutuo-o-il-nuovo-leasing-agevolato-125708.shtml?uuid=ACd1TEaC&p=2
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« Risposta #10 inserito:: Marzo 04, 2016, 12:17:58 pm »

Come capire se l’investimento è quello giusto: basta una domanda

Scritto da Vito Lops il 29 Febbraio 2016
Imprendiamo

Houston, abbiamo un problema. Secondo il World Economic Forum l’Italia figura al 46esimo nella classifica che misura il livello di cultura finanziaria, peggio ci sono solo Paesi come Messico e Venezuela. Gli altri Stati del G20, così come quelli del G8, sono nettamente in vantaggio. A quanto pare dalle nostre parti in pochi conoscono la differenza tra un’obbligazione e un’azione. Tra un fondo bilanciato e un fondo flessibile, eccetera. Ed è davvero un clamoroso peccato, considerato che da questi concetti non si scappa. Prima o poi tutti si trovano ad avere un gruzzolo, anche piccolo e di poche migliaia di euro, da dover investire. In totale assenza di cultura finanziaria vorrà dire che le decisioni sui nostri soldi le prenderanno altre persone. E non sempre è un bene perdere il controllo.

Per quanto riguarda l’universo femminile, poi, questo problema è amplificato. I temi finanziari sono considerati ostici in partenza e spesso vale il principio tanto poi ci pensa il mio compagno/marito. A questo livello il controllo sul denaro è davvero minimale. Gli italiani sono bravi a mantenere il controllo nella “fase 1”, quella dell’accumulo della ricchezza (abbiamo un patrimonio tra i più elevati in Europa, sei volte il reddito contro le 4 della Germania) ma nella “fase 2”, quella dell’investimento del patrimonio, si mostrano piuttosto impreparati. Non a caso siamo tra i Paesi che investono di più in fondi comuni di investimento. Il che è una buona cosa se non si hanno conoscenze finanziarie perché il fai-da-te è estremamente pericoloso. Ma è altrettanto vero che affidare totalmente ad altri il proprio patrimonio (la fase 2) vuol dire in un certo qual modo rinunciare al controllo.

In qualsiasi campo della vita più abbiamo controllo più abbiamo successo. Il controllo non lo si acquisisce in poco tempo, ma solo – come ricordo in questo post – investendo nel “fattore T”. Se non investiamo nell’educazione finanziaria rinunciamo ad avere il controllo nella “fase 2”. Ed è un peccato perché gli individui ricchi – quelli che hanno un reddito annuo superiore ai 300mila euro – mediamente riescono ad avere una certa forma di controllo anche nella “fase 2”, quella della creazione di redditi da investimento.

Il controllo può essere totale (fai-da-te) o parziale. Personalmente ritengo che il controllo parziale sia la strada ideale da perseguire per chi si procura il reddito primario (“fase 1”) in un ambito differente dal mondo della finanza. In questo caso è improbabile che si abbia la possibilità di acquisire un’esperienza sul campo tale da poter eguagliare le competenze di un professionista che lavora in quell’ambito e quindi di assumere il controllo totale nella “fase 2”. Ecco perché è bene avvalersi della consulenza di esperti nel campo degli investimenti se il nostro reddito primario (“fase 1”) è sganciato dal mondo della finanza e quindi non abbiamo il tempo materiale per pareggiare la cultura finanziaria di un consulente. Abbiamo quindi bisogno della consulenza. Ma allo stesso tempo dobbiamo dimostrare di essere competenti nel campo, per non essere totalmente in balìa.

Dobbiamo “investire nel fattore T” per mantenere una forma, seppur parziale, di controllo sulla gestione della propria ricchezza. Solo in questo caso abbiamo gli strumenti per testare la qualità dei consigli ricevuti. Se non conosciamo la differenza tra un’obbligazione e un’azione, un fondo flessibile o un fondo bilanciato, un fondo passivo e un fondo attivo e via dicendo, saremo totalmente vulnerabili alla eventuale buona fede del consulente finanziario. Il cui obiettivo è in ogni caso diverso dal nostro. Chi vende il prodotto punta sulle commissioni (un flusso costante e periodico di reddito) promettendo agli investitori un guadagno eventuale sul capitale (aumento del prezzo di mercato de prodotto). L’incasso delle commissioni è sicuro mentre il nostro guadagno no. E’ un rischio che non possiamo permetterci perché la “fase 2” deve potenziare la “fase 1”, non eroderla o metterla in pericolo.

A questo punto c’è una semplice regola da seguire, che è la stessa regola che ispira l’investitore che ha il pieno controllo della “fase 2”.

Questa regola è una domanda da porre al consulente e/o all’intermediario finanziario che ci propone di investire in un determinato strumento. “Bene, sono anche disposto ad investire una parte dei miei risparmi in questo prodotto finanziario. A una condizione, però: che lei sia disposto a prestarmi almeno l’80% dei soldi dell’operazione”.

Se il consulente, come accade nella maggior parte dei casi, risponde che non è possibile, non resta che commentare. “Mi scusi, lei mi sta dicendo che investire in questo prodotto sarebbe una grande opportunità, eppure non è disposto a prestarmi dei soldi e rinuncia ai relativi interessi. Non capisco. Ciò significa che lei stesso non crede in prima persona nelle potenzialità del prodotto che mi offre”.

E’ un modo per ribaltare le carte sul tavolo e per far uscire allo scoperto chi propone l’investimento. Se è un investimento davvero interessante e solido questo fungerà da garanzia sui soldi prestati. E il proponente non dovrebbe aver problemi a finanziare l’operazione. In caso contrario, avremo la riprova che non si tratta dell’occasione della vita. E che l’Eldorado sarà da qualche altra parte.

Da - http://www.alleyoop.ilsole24ore.com/2016/02/29/come-capire-se-linvestimento-e-quello-giusto-basta-una-domanda/?uuid=guYtFBXP
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« Risposta #11 inserito:: Aprile 01, 2016, 05:08:08 pm »

La Yellen ha spiazzato gli investitori.
Ecco come andranno Borse, oro e dollaro da qui a fine anno

Di Vito Lops
31 marzo 2016

Nella prima parte del 2015 i mercati finanziari hanno dato una dimostrazione di quanto importante sia “azzeccare” l’area geografica: le Borse europee avevano messo a segno nei primi tre mesi un rialzo superiore al 20% contro una variazione neutra per Wall Street. Anche questo 2016 è un esempio di capitali che preferiscono un’area piuttosto che un’altra: con la differenza che però quest’anno è Wall Street a raccogliere più appeal tra gli investitori.

Oggi si chiude un trimestre complessivamente molto difficile per i mercati azionari, zavorrati da pesanti perdite fino all’11 febbraio. Dopodiché è tornato un po’ di sereno e c’è stato un buon rimbalzo. Nel complesso, però, la Borsa statunitense può esibire un bilancio migliore delle Borse europee. Da inizio anno l’indice S&P 500 è in rialzo (+1%) mentre le Borse europee hanno perso l’8%, con Piazza Affari maglia nera a -15%.

È evidente che le turbolenze sul settore bancario europeo - alle prese con la gestione di elevate sofferenze in rapporto agli impieghi e con le reazioni all’entrata in vigore da gennaio del bail-in, un meccanismo che sposta la responsabilità dei salvataggi bancari dagli Stati ad azionisti, obbligazionisti e correntisti della banca insolvente - stanno pesando.

Adesso c’è da chiedersi se questo divario tra Wall Street e l’Europa si ridurrà o si amplierà, soprattutto dopo che nei giorni scorsi il governatore della Federal Reserve, Janet Yellen, ha “sparso altre colombe” indicando «ci sarà un rialzo dei tassi graduali nei prossimi anni» lasciando immaginare che non è poi così sicuro che i tassi verranno alzati a giugno (dipenderà dai dati sulla disoccupazione). E nel caso dovesse saltare l’appuntamento di giugno sarebbe a quel punto difficile vedere un rialzo a settembre-ottobre, poco prima delle elezioni presidenziali quando con le strette (fiscali e monetarie) non ci conquistano certo voti.

Cosa ne pensano i gestori? Come si muoveranno nei prossimi mesi dollaro, euro e Borse?
«La Yellen, già dal meeting del 17 marzo, sta comunicando al mercato una lenta retromarcia da parte del Board della Fed sulle aspettative dei tassi di interesse. In dicembre le loro attese erano di ben quattro rialzi per il 2016, adesso se ne attendono (in media) intorno a due ed il mercato ne prezza (in media) poco più di uno. Cosa è cambiato? Di certo il prezzo del petrolio e di molti metalli è salito rispetto allo scorso dicembre, ed il mercato del lavoro americano ha continuato ad espandersi creando posti di lavoro. Questo va nella direzione opposta rispetto alle comunicazioni della Fed ma, fintanto che le politiche fiscali nei maggiori Paesi non diverranno espansive e si creerà un riequilibrio sul fronte della distribuzione dei redditi, l'inflazione non potrà essere un vero pericolo - spiega Alessandro Picchioni, presidente e direttore investimenti di WoodPecker Capital -. Possibili rialzi sarebbero del tutto temporanei. Inoltre le elezioni politiche americane del 2016 implicano tradizionalmente una Fed che non interferisce modificando i tassi nei tre-cinque mesi precedenti. Si sta creando uno scenario per cui potremmo assistere ad un ulteriore rialzo dei tassi in giugno (forse luglio) e poi ad uno stop per il resto dell'anno».

«I mercati azionari festeggeranno la buona notizia e noi prevediamo l'S&P500 che chiuda l'anno con rialzi del 10-15% dai livelli attuali - continua Picchioni -. L'Europa “sottoperformerà” gli Usa, stretta da un settore bancario pieno di problemi sul fronte reddituale ed un cambio che in estate potrebbe irrobustirsi fino alla fascia 1,17-1,20 contro dollaro. Il Ftse inglese ed il Dax tedesco saranno le alternative europee migliori. La Cina dovrà affrontare ancora molte fasi difficili nel processo di riforma del sistema finanziario nonché nella ridefinizione della propria economia a favore di una crescita strutturale dei consumi interni. Ma, in linea con quanto detto per Wall Street, difficilmente assisteremo a crolli del mercato azionario nel resto del 2016. Gran parte delle materie prime andranno tendenzialmente bene nel resto dell'anno, salvo nuovi indebolimenti dopo le elezioni Usa quando il dollaro dovrebbe tornare forte toccando la parità contro euro nella prima parte del 2017».

Secondo Martin Arnold Director, Fx & Macro Strategist per Etf Securities, invece crede che entro fine anno il dollaro possa tornare a rafforzarsi. «La natura reattiva della Fed è divenuta più chiara dopo la dichiarazione di Janet Yellen. Ciò aumenterà la volatilità valutaria e, se continuerà, sarà un fattore ribassista per il dollaro statunitense. Tassi di interesse a lungo bassi e un dollaro statunitense più debole sono entrambi elementi positivi per l'oro nelle prossime settimane. Gli investitori stanno puntando all'oro nel 2016 in risposta alle preoccupazioni sulla volatilità nelle altre asset class e ai bassi rendimenti cash. Riteniamo comunque che con l'attuale sviluppo nell'economia statunitense e i rischi per un'inflazione in risalita, il dollaro statunitense potrebbe rafforzarsi nel secondo trimestre, quando il mercato comprenderà che la Fed avrà necessità di attuare una politica più restrittiva, dovendo potenzialmente alzare i tassi in modo più aggressivo di quando il mercato si aspetti».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2016-03-31/la-yellen-ha-spiazzato-investitori-ecco-come-andranno-borse-oro-e-dollaro-qui-fine-anno-103458.shtml?uuid=AC7F2dxC
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« Risposta #12 inserito:: Aprile 30, 2016, 04:45:33 pm »

Borse, «sell in may and go away». Gli investitori «scapperanno» anche quest’anno?

di Vito Lops
29 aprile 2016

Diciamocela francamente: questi primi mesi del 2016 sono stati da pure montagne russe sui listini azionari. Prendiamo Piazza Affari: fino all’11 febbraio ha accusato un ribasso di 30 punti percentuali. Dopodiché è rimbalzata vigorosamente riducendo il passivo all’11%. Nel bel mezzo c’è stato però spazio per un’altra altalena. Il quadro grafico che ne emerge è una clamorosa “W”, che ha fatto felici due volte gli investitori che sono stati bravi a entrare sui minimi e scontenti al doppio quelli che hanno fallito il timing dell’ingresso.

Le Borse europee si sono mosse in modo meno violento di Piazza Affari, replicando tuttavia lo stesso trend. Dal -16% accusato fino a febbraio hanno ricucito quasi tutto il gap archiviando in questo momento, nell’ultimo giorno di aprile e del quarto mese di contrattazioni dell’anno, un calo del 4%.

Mancano poche ore allo scoccare del mese di maggio. Non un mese qualunque per gli investitori azionari dato che nelle stanze dei trader vale l’antico adagio “Sell in may and go away”, ovvero “Vendi a maggio e allontanati dai mercati”. Il detto poi prosegue in .... “Buy in Halloween”, ovvero “ricompra a fine ottobre” per posizionarti in prossimità del rally di fine anno. Altri invece seguono il detto “Sell in may and go away, don't come back till St. Leger day”. Il Saint Leger day cade a settembre, nel giorno in cui si svolge l’omonima corsa di cavalli, una delle più antiche e famose al mondo.

Sono detti che in alcune annate si verificano quasi scientificamente mentre in altre gli investitori che li seguono prendono delle sbandante non da poco. Non c’è nulla di certo, quindi. Seppure è indubbio che questi detti possano contare alle spalle una serie statistica rilevante, che in un certo qual modo li giustifica e permette di non catalogarli nella serie “bufale”. Dal 1960, il mercato azionario statunitense ha guadagnato lo 0,3% in media tra maggio e ottobre e il 7,5% da novembre ad aprile. Ecco perché il detto ha sostanza.

Bene, come andranno le cose quest’anno? «La situazione sui mercati finanziari globali rimane fragile, in tutte le macro aree riscontriamo degli elementi di riflessione che non ci portano a sovrappesare l'azionario - spiega Marco Aboav, macro portfolio manager di Moneyfarm -. Le valutazioni in America sono tra le più elevate della storia, in Giappone la politica monetaria non sta fornendo i risultati sperati, in Europa un filotto politico (Portogallo, Spagna, Grecia, Uk) non + scontato, l'andamento dei Paesi emergenti è stato solo in parte motivato dai fondamentali».

»La chiave rimane la diversificazione - prosegue Aboav -. Un portafoglio bilanciato focalizzato su azioni con alti dividendi e bassa volatilità - che sovrappesa bond governativi a maggiore scadenza ed obbligazioni high yield, con una minima esposizione sull’oro per beneficiare dal rischio panico e inflazione (quest'ultimo più remoto) - può navigare con maggiore sicurezza il classico sell in may and go away».

A parere di James Butterfill, Head of Research and Investment Strategy per Etf Securities «Quest’anno potremmo avere un impatto minore della stagionalità sui mercati, e molto dipende dalle decisioni della Federal Reserve (alzerà o no i tassi a giugno? ndr)».

Favorevole all “sell in may” Filippo Diodovich, strategist di Ig. «Crediamo che a maggio vi siano elevati rischi di ribasso sui mercati azionari soprattutto statunitensi che hanno evidenziato un lungo movimento rialzista tra febbraio fino a fine aprile, arrivando a toccare i massimi di novembre 2015. La debolezza delle trimestrali Usa e una possibile correzione dei prezzi petroliferi in vista del meeting dell'Opec di Vienna dovrebbero portare a una discesa degli indici statunitensi. Per i mercati europei ci aspettiamo una forte volatilità legata all'incertezza degli operatori sulle prossime mosse della Bce (nuovi interventi sui tassi) e sull'andamento dei sondaggi relativi alla Brexit».

Secondo Philip Saunders, co-head of multi asset di Investec «l'espressione “sell in May and go away” presuppone che gli investitori abbiano acquistato azioni in primo luogo. Il comportamento dei prezzi del mercato azionario suggerisce che gli investitori sono ancora posizionati in modo relativamente difensivo, avendo ridotto i rischi delle turbolenze di mercato della scorsa estate e dell'inizio di quest'anno. il rimbalzo dall'inizio di febbraio è stato deciso e generalmente sostanziale, più dinamico rispetto al “relief rally” atteso dal consensus. Nel breve periodo numerosi mercati azionari, ma non tutti, hanno fatto overbuying, comunque questa condizione potrebbe essere corretta semplicemente attraverso un periodo di trading laterale o correzioni brevi ed essenzialmente non negoziabili. Ciò sarebbe coerente con il miglioramento graduale che stiamo osservando nelle condizioni a livello macro e micro. I prezzi delle commodities continuano a stabilizzarsi, le banche centrali hanno alleggerito le condizioni del credito, l'ampiezza del mercato continua ad aumentare e le dinamiche degli utili aziendali stanno mostrando segnali di stabilizzazione. Potremmo dunque ritenere che tali condizioni potrebbero continuare oltre maggio, con i mercati azionari in crescita».

twitter.com/vitolops
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-04-29/borse-sell-may-and-go-away-investitori-scapperanno-anche-quest-anno-110625.shtml?uuid=ACWu1xHD#
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« Risposta #13 inserito:: Maggio 15, 2016, 12:20:22 am »

Europa in piena deflazione, Giappone in trappola da 15 anni.
Come se ne esce?

Di Vito Lops
13 maggio 2016

Ad aprile, nonostante il balzo del prezzo del petrolio (che ha vissuto il miglior mese degli ultimi 12 anni) la deflazione non migliora. In Italia è peggiorata a -0,5% (rispetto alla stima preliminare di -0,4%). In Spagna siamo a -1,1% e nell’area euro in media a -0,2%. In Grecia a -1,3%, il dato peggiore al mondo. Non è un caso che nella classifica globale dei livelli di deflazione tra i primi sei posti tre siano occupati da Paesi del Sud dell’Eurozona (Grecia prima, Spagna seconda, Italia sesta preceduta da Polonia, Singapore e Israele). Quest’area sta infatti sperimentando una deflazione salariale rilevante, come meccanismo forzato di correzione degli squilibri commerciali con i Paesi del Nord, Germania in primis. E se la Germania continua a fare surplus a raffica, in aperta violazione delle regole europee, il quadro non migliora.

In ogni caso l’intera area valutaria procede con un calo dei prezzi. La deflazione è una malattia dell’economia. Primo perché è un sintomo (se c’è deflazione vuol dire che i consumi interni sono in calo e quindi l’unica leva per azionare il Pil è quella dell’export). Ma anche perché è una concausa. La deflazione infatti innesca il circolo vizioso di aspettative di prezzi calanti, e questo spinge a rimandare le scelte future (investimenti, consumi) che sono i più grandi motori propulsori della crescita.

L’Eurozona è in deflazione in compagnia di Svizzera (-0,4%) e Giappone (-0,1%). Il Giappone del resto ci ha ormai fatto il callo. Da anni ormai combatte (senza successo) con questa malattia. In media, tra il 1998 e il 2003 l’economia nipponica ha convissuto con una deflazione media dello 0,35%.

Visto che l’Eurozona pare entrata a pieno regime in questa spirale, viene da chiedersi se non si stia giapponesizzando, ovvero se non rischi un prolungato periodo di deflazione. Domanda che nasce dato che a partire dal 2011 il governatore della Bce Mario Draghi ha messo in piedi una serie di misure espansive (scudo anti-spread, finanziamenti agevolati alle banche tramite Ltro e T-Ltro, azzeramento del tasso di riferimento con tasso sui depositi a -0,4%, quantitative easing) che finora non sono riuscite a riportare l’inflazione nel sentiero sperato, ovvero vicina al 2%. E i mercati si aspettano che questo mix di politiche non basterà neppure da qui a 5 anni dato che il grafico 5y5y dell’Eurozona attualizza ad oggi un’inflazione dell’1,4% nel 2021.

Inefficaci sembrano al momento anche le varie misure della Bank of Japan che ha lanciato il quantitative easing a fine 2012 e che recentemente ha portato sottozero il tasso ufficiale. Questo non è bastato a far deprezzare lo yen che anzi si è rafforzato da inizio anno nei confronti del dollaro del 10%. Gli investitori comprano yen considerandolo un porto rifugio, e questo nonostante il Giappone abbia il più alto debito/Pil al mondo (229%), e questo la dice lunga sul qualunquismo che troppo spesso si fa ergendo il debito pubblico a spauracchio clamoroso. Soprattutto perché non si considerano le altre carte che sul tavolo ha da esibire un Paese. Nel caso del Giappone queste carte sono un credito internazionale (generato dai surplus commerciali) che ormai ha raggiunto il trilione di dollari.

«È chiaro che lo yen si è apprezzato perché la finanza mondiale ne apprezza ancora il ruolo di porto sicuro: ed infatti si è rafforzato insieme all'oro. Ruolo che invece al momento non viene assegnato al franco svizzero, che dopo i forti apprezzamenti degli ultimi anni ora è in una fase di stallo - spiega Alida Carcano, presidente di Valeur Investments -. Il Giappone del resto resta pur sempre una delle più grandi economie al mondo e si trova nella situazione più unica che rara di importante creditore a livello internazionale, con quasi 1 trilione di dollari di crediti!».

Ma ci stiamo giapponesizzando? Quali sono le differenze tra Eurozona e Giappone?
«A nostro giudizio esistono delle differenze fondamentali tra Europa e Giappone, ma anche un'allarmante similitudine - prosegue Carcano -. La più importante differenza tra il Giappone e l'Europa è il fenomeno immigratorio, che avrà conseguenze demografiche sociali ed economiche alquanto rilevanti nei prossimi 20 anni. Questo fenomeno è del tutto inesistente in Giappone. C'è però un elemento allarmante, legato alla fragilità del settore bancario europeo. La bassa crescita rallenta la possibilità di riduzione dei crediti inesigibili attualmente presenti nei bilanci delle banche, in un momento in cui tra l'altro i margini di interesse sono sotto pressione. Tutto ciò in un contesto in cui le banche rappresentano il fulcro del finanziamento dell'economia (in Europa e Giappone 300% del PIL, rispetto al 100% in Usa)».

Quindi, dalla sua l’Europa avrebbe il vantaggio dell’immigrazione mentre in Giappone la popolazione si sta progressivamente riducendo senza una compensazione immigratoria (la popolazione giapponese ha iniziato a diminuire intorno al 2010, una tendenza che in Europa, grazie al fenomeno migratorio, è prevista non prima del 2035). Ma Giappone ed Europa condividono un sistema finanziario estremamente sbilanciato sul settore bancario, e peraltro molto fragile in questa fase di bassa crescita e deleveraging privato.

Anche secondo un’indagine di Axa il settore bancario accomuna pericolosamente Giappone ed Europa. Anche «le banche dell'area euro solo con lentezza hanno riconosciuto la svalutazione della loro situazione patrimoniale e hanno preso misure adeguate per colmare questa mancanza di capitale. Come in Giappone, e a differenza degli Stati Uniti, gli strumenti che si sono svalutati sono principalmente prestiti, non titoli, pertanto è stato possibile evitare la trasparenza del mark-to-market».

Per cui, i rischi di che l’Europa cada nella “sindrome giapponese” non si possono oggi, purtroppo, del tutto escludere. In questa situazione il governatore dell BoJ Kuroda ha affermato che comunque non ricorrerà all' “helicopter money”, ovvero a mettere il denaro direttamente a disposizione dei cittadini affinché lo spendano e facciano ripartire l'economia; anzi ha addirittura definito tale prassi illegale; ma il Giappone è in una tale situazione che “mai dire mai”. Sarà così anche per l’Eurozona?»

twitter.com/vitolops
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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-05-13/la-deflazione-europa-non-e-piu-novita-giappone-ci-combatte-senza-successo-15-anni-come-se-ne-esce-111751.shtml?uuid=ADYksBH&p=2
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« Risposta #14 inserito:: Ottobre 31, 2016, 06:55:10 pm »

Titoli di Stato mondiali sotto pressione
    –di Vito Lops Giovedì 27 Ottobre 2016

Un terreno minato. Pur protetto dalla Banca centrale europea (attraverso il piano di acquisti mensili noto come quantitative easing) il mercato dei bond mostra giorno dopo giorno (e questo accade ormai da oltre un mese) segnali di crescente nervosismo. Lo si è visto chiaramente nell’ultima seduta quando, mentre le Borse viaggiavano poco mosse (Piazza Affari ha chiuso a +0,29% nonostante il -8,6% di Banca Mps e Francoforte a -0,44%) i bond sovrani europei facevano le bizze. Con vendite diffuse.

I rendimenti (che si muovono in direzione opposta ai prezzi e quindi salgono quando sui titoli prevalgono le vendite) sono aumentati dappertutto. Il tasso del Bund tedesco (considerato il titolo più affidabile dell’area euro) a 10 anni è risalito di 5 punti base allo 0,08%. Un po’ più marcato il rialzo del rendimento del decennale italiano (dall’1,45% all’1,54%) cosicché lo spread tra i due titoli si è ampliato a quota 145 punti, come non accadeva da fine luglio. Le vendite, in ogni caso, non hanno fatto distinzioni. All’interno dell’area euro si è difeso solo il Portogallo con i titoli governativi che hanno visto aumentare il rendimento di appena due punti base (al 3,21%): ma per Lisbona la storia è diversa. Continua a beneficiare della decisione annunciata venerdì scorso dall’agenzia di rating canadese Dbrs che ha mantenuto il giudizio sul debito lusitano appena sopra la soglia “investment grade”, quella che consente al Portogallo di beneficiare (a differenza della Grecia) degli acquisti della Bce sul mercato secondario.

Una protezione, quella della Bce, che tuttavia sta solo arginando ma non impedendo, l’attuale trend ribassista sui titoli governativi. Questo perché c’è più di un motivo che sta spingendo i gestori ad alleggerire la propria esposizione nel settore. A partire dall’ipotesi di un tapering, ovvero della riduzione del piano di acquisti e quindi di stimoli monetari da parte della Bce. «Al momento il mercato si attende che la Bce prolunghi la scadenza del Qe da marzo a dicembre 2017 - spiega Massimo Saitta, direttore investimenti di Intermonte advisory -. Ma è un mercato divenuto ipersensibile e volatile dopo le ipotesi, per quanto smentite, delle scorse settimane di un possibile tapering anticipato. Inoltre sono stati interessati livelli significativi, la cui rottura potrebbe innescare ulteriori vendite. Negli ultimi due giorni infatti sono state toccate due soglie tecniche critiche: 141 punti per i future sul BTp a 10 anni e 163 per i future sul Bund a 10 anni».

Non ci sono solo i timori del tapering a mettere pressione su un mercato che obiettivamente negli ultimi mesi è stato gonfiato dallo scudo della Bce che ha dato manica larga agli investitori per portarlo allo stremo anche in ottica di trading speculativo. L’altro punto chiave riguarda le prospettive di crescita dell’inflazione. Il grafico che sintetizza le aspettative dei mercati su come si muoverà fra cinque anni (e per i prossimi cinque) l’inflazione nell’area euro è salito a quota 1,45%, un livello molto più alto rispetto a inizio settembre quando era all’1,29%. «Come per il colesterolo anche per l’inflazione c’è una componente buona e una cattiva - continua Saitta-. Diciamo che in questo momento il mercato dei bond sta scontando un aumento dell’inflazione cattiva, ovvero quella derivante dalla crescita del prezzo del petrolio (che ieri ha chiuso in calo a 50 dollari ma quasi il doppio rispetto ai minimi annui toccati a febbraio, ndr), piuttosto che quella buona, determinata dall’aumento dei salari». Che sia buona o cattiva, si tratta in ogni caso di un altro ingrediente che innervosisce il mercato dei bond. E che impatta anche sui titoli della zona extra-euro dove l’inflazione sta risalendo più velocemente. Come ad esempio si può evincere dai Gilt britannici il cui rendimento decennale è passato dallo 0,7% di inizio ottobre all’1,15% di ieri. In rialzo anche i tassi negli Usa (decennale all’1,78%). E qui c’è un altro ingrediente. I mercati scontano un rialzo dei tassi negli States a dicembre (che si specchia anche nel recente rafforzamento del dollaro con l’euro che viaggia a quota 1,09) e questo a ruota, pur con un impatto al rallentatore, influenza anche i rendimenti in Europa.

C’è poi un quarto motivo. Una parte degli investitori si sta convincendo che nei prossimi mesi politiche fiscali più espansive potranno fare da staffetta alle politiche monetarie. «Siamo alla fine dei tassi a zero. E non perché le banche centrali si stiano preparando ad aumentare i tassi: Fed a parte, le altre non ne hanno intenzione. E nemmeno perché i mercati obbligazionari siano convinti che i governi possano generare crescita e inflazione - commenta Brad Tank, chief investment officer fixed income di Neuberger Berman -. Semplicemente perché i mercati avvertono lo spostamento verso un intreccio tra politiche monetarie e fiscali e sanno che questo implica un elevato premio per il rischio politico che va oltre quello indicato dalla curva dei rendimenti».

.@vitolops

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