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Autore Discussione: VLADIMIRO ZAGREBELSKY  (Letto 28908 volte)
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« inserito:: Settembre 04, 2011, 05:26:09 pm »

4/9/2011

Il processo che va fatto a Gheddafi

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

L’uccisione è spesso la fine che attende il tiranno caduto. La sua morte impedisce che egli possa ancora coagulare la resistenza al nuovo regime, soddisfa la sete di vendetta, chiude una bocca che parlando potrebbe imbarazzare tanti, in patria e fuori. Ecco perché sono inquietanti certi cenni a un «diritto di ucciderlo» che, con riferimento a Gheddafi, si sono sentiti da parte di esponenti degli insorti.

Ma se Gheddafi sarà catturato vivo, chi e come lo giudicherà? Un processo è diritto non solo di Gheddafi stesso, ma anche del popolo libico e della comunità internazionale. E i processi non servono solo a condannare o assolvere, ma anche a documentare e ricostruire.
Come i diritti fondamentali della persona umana e la loro protezione sono ora considerati patrimonio dell'umanità nel suo insieme e non più come un affare interno ai singoli stati, così si è affermata la convinzione che la punizione dei crimini contro l'umanità non possa essere lasciata alla discrezione dei singoli stati. I processi di Norimberga e di Tokyo, benché condotti da tribunali istituiti dai vincitori della guerra, hanno portato ad affermazioni di principio importanti, da cui ormai non si può prescindere. Negli anni recenti le Nazioni Unite hanno istituito speciali tribunali internazionali, ad esempio per i crimini commessi nella ex Jugoslavia o per il genocidio nel Ruanda.

Nel 1998 (con lo Statuto di Roma), l'istituzione della Corte Penale Internazionale ha rappresentato un atto di coerenza e un punto di arrivo fondamentale. Se i più gravi crimini (genocidio, crimini contro l'umanità, crimini di guerra, crimine di aggressione) riguardano la comunità internazionale nel suo complesso, allora la loro punizione deve essere assicurata a livello internazionale. E' stata superata l'idea che l'intervento giudiziario impedisce soluzioni politiche concordate, che mettono fine a drammatici conflitti interni consentendo ad esempio a governanti criminali di abbandonare il paese con un salvacondotto e trovare rifugio altrove: che la politica cioè, piuttosto che la giustizia, sia adatta a gestire simili emergenze. E' invece prevalsa una posizione di principio, che esclude l'impunità per i più grandi crimini contro l'umanità e rifiuta di considerarli un affare interno (gestito dai vincitori).

Il principio su cui si basa la creazione della Corte internazionale deve però fare ancora i conti con atteggiamenti che lo contraddicono. Quella stessa comunità internazionale che dichiara di non poter sopportare la commissione dei crimini contro l'umanità tollera che, prima della loro caduta, i tiranni che li commettono non siano «disturbati» e siano invece riveriti, assecondati in tutte le loro pretese e considerati interlocutori validi per concludere ogni genere di affare. Esistono ancora grandi ipocrisie ed anche resistenze. Diversi tra i principali paesi (Stati Uniti, Russia, Cina, India, ecc.) rifiutano ancora di riconoscere la giurisdizione della Corte internazionale perché non intendono rimettere a un'istanza internazionale l'esame di denunce di crimini commessi da propri cittadini (militari, funzionari, ecc.). Ma la ratifica dello Statuto di Roma da parte di ben 117 stati è comunque un buon segno.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con la risoluzione 1970, all'unanimità dei suoi membri (anche quelli che per loro conto non hanno ratificato la convenzione istitutiva della Corte internazionale), ha dato incarico al Procuratore presso la Corte di procedere per i sistematici attacchi condotti dallo scorso febbraio contro civili. Il Consiglio di sicurezza ha imposto a tutti gli stati ed anche alla Libia, che non ne ha ratificato il trattato istitutivo, l'obbligo di collaborare con la Corte internazionale. Ma le autorità libiche potrebbero decidere di procedere in sede nazionale e quindi non consegnerebbero gli imputati. Occorre però chiedersi quale processo l'odierna Libia sarebbe in grado di assicurare. Un processo efficace ed equo da parte di giudici indipendenti? O si tratterebbe di un processo sommario, un'apparenza di processo? La Libia procederebbe anche per crimini diversi e ulteriori rispetto a quelli per cui è competente la Corte internazionale, ma per questi ultimi non sarebbe ammissibile un doppio processo, sia in sede nazionale sia davanti alla Corte internazionale.

La Corte è stata istituita in posizione complementare rispetto alle giurisdizioni nazionali, nella considerazione che sono innanzitutto gli stati che sono chiamati a giudicare e punire i responsabili di quei crimini. Ne hanno il dovere ed anche il diritto. Purché lo facciano in modo efficace e secondo le regole dell'equo processo, così come lo farebbe la Corte internazionale. Spetta quindi alla Corte accertare l'adeguatezza del processo che la Libia metterebbe in piedi e nel suo giudizio essa considererebbe certo le condizioni presenti in Libia, la mancanza di un sistema giudiziario, le violenze e le tensioni tribali e infine anche la prevedibile applicazione della pena di morte; pena che lo statuto della Corte internazionale non prevede, inserito come esso è nel solco del movimento mondiale che la rifiuta.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9159
« Ultima modifica: Dicembre 29, 2011, 04:18:46 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 14, 2011, 08:57:52 am »

14/9/2011

Un boomerang per chi vuole la verità

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

Se l'associazione americana di vittime di abusi sessuali commessi da preti cattolici desidera attirare l'attenzione pubblica sulla gravità del problema, la denunzia del Papa e di alcuni cardinali alla Corte penale internazionale per crimini contro l'umanità serve certo allo scopo. Ma è difficile immaginare che la denunzia possa avere una lunga vita processuale dopo l'esame del Procuratore. Ciò detto naturalmente con la cautela necessaria nell'esprimere un'opinione senza aver avuto accesso agli atti.

La Corte penale internazionale, istituita con lo Statuto di Roma del 1998, è competente per i più gravi crimini contro l'umanità. Tra tali crimini è considerato anche lo stupro accanto ad altre forme di violenza sessuale, ma perché si ponga una questione di competenza della Corte internazionale, deve sempre trattarsi di comportamenti che s'inseriscono nell'ambito di un "attacco generalizzato o sistematico contro la popolazione civile". Basterebbe questo per esprimere i più forti dubbi sulla possibilità che le vicende portate all'esame della Corte internazionale giustifichino l'apertura di un'indagine. Non è il numero elevato di casi che dimostra di per sé l'esistenza di un attacco generalizzato o sistematico alla popolazione civile. Occorre inoltre che vi sia l'intenzione di portare un simile attacco attraverso la commissione delle singole violenze. Per quanto gravi, diffuse, risalenti nel tempo e persistenti siano le pratiche denunziate, sembra francamente che ad altre vicende si riferiscano le previsioni dello Statuto della Corte internazionale.

Tutti, senza che conti la loro posizione nelle gerarchie di uno Stato o, in questo caso, al tempo stesso di una Chiesa e di uno Stato, possono essere chiamati a rispondere dei crimini contro l'umanità. Ma la responsabilità penale è personale. Non si risponde per il fatto altrui, né per il fatto proprio inconsapevole. E' un principio generale nella materia penale, affermato anche nello Statuto della Corte internazionale, che specifica le condizioni perché sia affermata la responsabilità individuale. Si tratta del caso in cui la persona ha commesso il crimine personalmente o tramite altra persona, ne ha ordinato o incoraggiato la commissione, ha fornito aiuto o assistenza o i mezzi necessari. E la persona ha tenuto uno di quei comportamenti essendo consapevole di inserirsi in un attacco generalizzato o sistematico alla popolazione civile. La semplice tolleranza, debolezza nel reprimere, copertura dei fatti sotto un velo di silenzio, non rientra nei casi ora descritti. Anche sotto il profilo della mancanza di responsabilità penale personale di coloro che sono stati denunziati, è dunque ben difficile che un' inchiesta sia aperta presso la Corte internazionale. E' peraltro evidente che i casi denunziati avrebbero sempre dovuto dar luogo a processi penali nei singoli stati per punirne i responsabili.

L’iniziativa di ricorrere alla Corte internazionale in questo caso suggerisce un commento di carattere generale. L'azione dei giudici (e prima ancora dei Procuratori) è legata a condizioni e regole precise. Si è già detto dell'àmbito della loro competenza e della personalità della responsabilità penale. Si deve aggiungere, evidentemente, la presunzione di non colpevolezza ed anche il complesso di regole e garanzie che riguardano la raccolta e la valutazione delle prove. Le conclusioni cui può giungere il giudice ne sono fortemente condizionate. Una sentenza di assoluzione o di improcedibilità rischia di essere interpretata nel senso che il fatto non è avvenuto o che l'accusato non ha alcuna responsabilità. Un boomerang dunque per chi crede di poter usare (qui direi, forzare) la via giudiziaria allo scopo di ottenere l'accertamento di una verità assoluta e a tutto campo. La mancanza di responsabilità penale (o della competenza del giudice a esaminarla) non significa che altro tipo di responsabilità debba esser fatta valere su un terreno diverso da quello giudiziario. Molto spesso - specie qui, da noi, in Italia - si pretende che l'intervento di un'assoluzione (perfino nel caso di una prescrizione del reato) chiuda il discorso. Invece di spingere a riaprirlo sul terreno proprio di altre responsabilità, quella politica, quella professionale, quella morale.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9194
« Ultima modifica: Dicembre 29, 2011, 04:17:39 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 30, 2011, 03:39:09 pm »

30/9/2011 - STAMPA E GIUSTIZIA

Se il cane da guardia non morde

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

Cane da guardia della democrazia. Questo è il ruolo che la stampa svolge (deve svolgere, deve poter svolgere) in una società democratica, secondo una formula ripetutamente utilizzata, con lessico anglosassone, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. L’immagine è ricca di indicazioni. Il buon cane da guardia gira libero attorno a casa, orecchie tese e naso al vento. E abbaia, anche più forte del necessario e qualche volta deve mordere. Così la stampa.

La libertà di espressione è uno dei fondamenti essenziali di una società democratica e vale non soltanto per le informazioni o le idee accolte con favore o che sono inoffensive o indifferenti, ma proprio e specialmente per quelle che urtano e inquietano. Sulle questioni di interesse per il dibattito pubblico, al diritto di diffondere informazioni e opinioni corrisponde quello del pubblico di riceverle. Certo è possibile prevedere limiti alla libertà di espressione, quando siano in pericolo la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico o occorra difendere la morale o la reputazione altrui, oppure si debba impedire la divulgazione di segreti o sia necessario proteggere l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario. Riprendo dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo questa elencazione di ipotesi di restrizioni legittime. Ma anche in quei casi solo una necessità imperativa può giustificare le limitazioni.

Alle ristrette possibilità di cui dispone l’autorità pubblica nel limitare la libertà di informazione si accompagna però il richiamo ai doveri professionali e alla responsabilità di chi, esponendo i fatti ed esprimendo il suo pensiero, si avvale della libertà di espressione.

Questo quadro di principi costituisce un tratto identitario della civiltà europea e occidentale. Nessuna società europea può distaccarsene, nessun governo può rifiutarlo o forzarlo.

Ma da tempo in Italia si discute aspramente di limitazioni da imporre alla possibilità di pubblicare (e quindi commentare) informazioni tratte dalle indagini giudiziarie. Si parla quasi solo delle intercettazioni telefoniche, ma si tratta di tutte le informazioni, anche quelle che si ricavano dalle testimonianze, da documenti, ecc. L’argomento che si usa è legato al diritto, anch’esso fondamentale, che le persone hanno al rispetto della propria reputazione e alla riservatezza della vita privata. L’occasione contingente della presente, acuta sensibilità rispetto a questo diritto delle persone spinge spesso ad assimilare il potente di turno a ciascuno di noi. Egli infatti dice: difendo la mia vita privata, ma lo faccio perché la nostra, di noi tutti, è in pericolo. Chi fosse impressionato dall’argomento, dovrebbe però considerare che non siamo tutti eguali e che meritano di essere conosciuti e commentati anche aspetti della cosiddetta vita privata dell’uomo politico, proprio perché egli si è candidato e si candiderà a essere eletto dai cittadini. Egli non «fa i fatti suoi», ma si occupa «dei fatti nostri» e si è esposto volontariamente all’esame del pubblico.

Dovendo tener conto della libertà di informazione, si dice spesso da parte governativa che si dovrebbe poter pubblicare solo quello che ha «rilievo penale». Purtroppo anche dall’opposizione si tende a seguire questa strada, come se fosse possibile stabilire ciò che in una conversazione è penalmente rilevante e come se questo fosse il vero discrimine tra ciò che è pubblicabile e ciò che non lo è.

Raramente una conversazione è in sé penalmente rilevante. Può esserlo se esprime minaccia o ingiuria, oppure rivela informazioni che devono rimaner segrete. Ma altrimenti il suo significato in un processo penale deriva dal contesto generale delle prove. La più innocente delle conversazioni telefoniche prova almeno che i due si conoscono. Non solo, ma ciò che ora sembra irrilevante può assumere altro senso e importanza in seguito, quando altre prove illumineranno diversamente la scena. E infine, occorrerà attendere il giudizio definitivo per costatare che questa o quella informazione, questa o quella frase hanno avuto peso nella decisione del giudice? I tempi di un’efficace informazione non corrispondono a quelli propri della giustizia penale.

Ma quello della rilevanza penale non è solo un criterio inutilizzabile in pratica. Più radicalmente è un criterio sbagliato. Da una parte, proprio perché una notizia riguarda un fatto rilevante per l’indagine o il processo penale, la protezione dell’efficacia della indagine può richiedere di impedirne o ritardarne la divulgazione. E dall’altra e soprattutto, perché il dibattito che legittimamente e doverosamente si svolge nella società democratica, considera un ambito di fatti che va ben oltre ciò che è «penalmente rilevante». L’opinione pubblica si interessa e si forma su ciò che è socialmente, culturalmente, economicamente, politicamente significativo. Il giudizio su ciò che è significativo e ciò che non lo è deve restare prevalentemente nelle mani di chi fa uso della libertà di espressione che la Costituzione e le convenzioni internazionali gli assicurano. E si tratta di un giudizio legato alla specificità del caso concreto, che mal sopporta regole generali e astratte, come sono quelle che impongono le leggi.

Non dunque il rilievo «penale», ma il rilievo «sociale» spinge il giornale e il giornalista a pubblicare o a trascurare una notizia e ancor prima, nel giornalismo di inchiesta, a cercarla, fino a forzare il segreto che altri è interessato ad assicurare.

I confini del lecito e dell’illecito nell’attività giornalistica sono inevitabilmente incerti. Esigenze e interessi diversi e opposti si contrappongono. Un bilanciamento è necessario: uno prevale e l’altro soffre. La violazione dei limiti imposti dalle leggi e dalla deontologia professionale è nell’ordine delle cose possibili. Ma anche quando ciò avvenga e sia quindi legittima una reazione repressiva o si imponga il risarcimento dei danni morali procurati ad altri, la protezione della libertà di stampa in generale richiede che la sanzione sia equilibrata. E che essa non produca un effetto di generale intimidazione alla libera stampa: giornalisti, giornali e editori. Dalle decisioni della Corte europea i parlamenti nazionali e i giudici ricavano che una sanzione penale detentiva è giustificata solo quando si sia di fronte a discorsi che incitano alla violenza o all’odio razziale, mentre anche le sanzioni economiche non devono essere eccessive. Ma di tutto ciò è scarso l’eco nel dibattito politico, né nei progetti che il parlamento è chiamato a discutere. Forte è invece la preoccupazione di assicurarsi che il cane da guardia non morda e sia prudente nell’abbaiare. Insomma, che non disturbi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9262
« Ultima modifica: Dicembre 29, 2011, 04:22:13 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 06, 2011, 09:27:23 am »

6/10/2011

Amanda, c'è un giudice a Perugia

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

Le reazioni alla sentenza della Corte di assise di appello di Perugia sono andate oltre l’immaginabile. Il Dipartimento di Stato americano si è compiaciuto (un’imputata è americana), il primo ministro britannico si è rammaricato (la vittima era inglese), la piazza di Perugia ha insultato i giudici, la folla di Seattle ha accolto l’imputata come un’eroina. Nessuno ha ancora letto la motivazione della sentenza (che non c’è ancora) e pochissimi hanno letto quella di segno contrario pronunciata dalla Corte di assise di primo grado. Ma molti evidentemente hanno la loro ferma opinione, non solo sull’innocenza o la colpevolezza degli imputati, ma anche sulle colpe dei giudici e del sistema in cui operano. Un sistema «medievale», si è detto, mentre è il sistema alternativo che affonda le sue radici nell’Inghilterra del dodicesimo secolo.

Prima di dir qualcosa sul sistema italiano, va brevemente detto che negli Stati Uniti un’accusa come quella portata nel processo di Perugia avrebbe esposto gli imputati al rischio della condanna alla pena capitale e il giudizio sulla loro colpevolezza sarebbe stato reso da una giuria popolare con le semplici parole di «guilty» o di «not guilty», colpevoli o non colpevoli. Ben difficilmente l’appello sarebbe stato ammesso e comunque solo su questioni di procedura. Nessuna motivazione sulla valutazione della prova, nessun controllo o rinnovo del giudizio da parte di un altro giudice. Semplice e rapido, ma, come tutti sanno, non esente dal rischio di errore (tragico nel caso della condanna a morte).

In Italia, ma anche in altri Paesi europei, come la Francia o il Belgio, i delitti più gravi, come l’omicidio, sono giudicati dalla Corte di assise, che da noi è un collegio di otto giudici, due magistrati e sei giudici popolari, estratti a sorte sulle liste elettorali. Ogni decisione è presa a maggioranza dei voti e, in caso di parità, prevale la soluzione più favorevole all’imputato. Dopo letto in aula il dispositivo della sentenza, segue la redazione e la pubblicazione della motivazione. Secondo la nostra Costituzione, tutti i provvedimenti giudiziari devono essere motivati. La motivazione obbliga il giudice a render conto dell’uso che ha fatto del potere pubblico che gli è assegnato, permette il controllo e la critica da parte dell’opinione pubblica e, infine, consente il controllo in appello e poi eventualmente in Cassazione. Motivazione e controllo vanno di pari passo, infatti dove, come nel sistema di giuria, non c’è motivazione non c’è nemmeno appello. Qui la legittimità della sentenza si fonda sulla motivazione, controllata da un altro giudice in un nuovo processo, là risiede invece nel giudizio immotivato «dei pari» (Medioevo, appunto).

Il sistema processuale italiano, fondato sulla motivazione delle sentenze e sul loro controllo in appello e in Cassazione, tiene conto della problematicità e dell’opinabilità della valutazione delle prove. Accade (tanto più in un collegio ampio come quello della Corte di assise) che la conclusione sia adottata a maggioranza, sulla colpevolezza o la pena. Il pubblico non lo sa e si stupirebbe chi crede che la valutazione delle prove sia qualcosa di meccanico e matematico, che porta a un risultato che tutti dovrebbero condividere. Talora invece il collegio giudicante si divide. Accade anche, come in questo caso, che la conclusione raggiunta dai giudici di primo grado non sia condivisa da quelli di appello. Il sistema suppone che talora sia necessario correggere, che il giudizio di appello sia più attendibile di quello di primo grado e che il giudizio definitivo sia quello successivo della Cassazione.

Ma l’esistenza della motivazione delle sentenze e lo svolgimento di un nuovo giudizio davanti ai nuovi giudici mette in luce la problematicità della valutazione della prova: la possibilità di conclusioni diverse ne è la conseguenza. Chi non ha esperienza del giudicare può essere sconcertato e chiedersi chi sbaglia. In realtà normalmente la questione non si pone in termini di giusto/sbagliato. Essa però richiede una soluzione del contrasto. Nel nostro sistema, come in tanti altri, la soluzione deriva dalla presunzione di non colpevolezza, dal principio «in dubio pro reo». La condanna viene pronunciata se i giudici concludono che l’imputato è colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. Essendo stata abolita dal nuovo codice di procedura penale (1989) la formula di assoluzione per insufficienza di prove, i giudici pronunciano sentenza di assoluzione, non solo quando vi sia la prova dell’innocenza, ma anche quando manchi, sia insufficiente o sia contraddittoria la prova. Ciò che spesso accade.

La difficoltà dell’opera dei giudici in casi come quello di Perugia e la presunzione di innocenza degli imputati richiederebbero, attorno al processo, un poco di silenzio. Silenzio certo da parte dei magistrati, prudenza anche da parte degli avvocati e della stampa. Si tratta di esigenze fondamentali dell’equo processo, così come lo si intende in Europa. E’ in gioco l’indipendenza di giudizio dei giudici, che devono essere tenuti al riparo da pressioni e suggestioni esterne. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte notato che il clamore esterno e i «giudizi tramite stampa» possono influenzare i giudici, particolarmente quelli non professionali, e incidere sull’equità del processo. Ciò che è avvenuto attorno al processo di Perugia (e spesso accade in Italia) è lontano anni luce dal clima richiesto. Nell’altro sistema di cui si è parlato e in Europa particolarmente nel Regno Unito, si sarebbe più volte parlato di «contempt of court». Se non quel reato, almeno il costume che lo esprime potrebbe essere utilmente copiato.

Un sistema così garantista ha dei prezzi. Produce fisiologicamente casi in cui un delitto resta impunito. Il delitto è stato commesso, ma non è raggiunta la prova oltre ogni ragionevole dubbio che una persona identificata ne sia responsabile. Donde il dolore delle vittime. Qui poi, come in tanti altri casi, vi è anche la lunga detenzione degli imputati nel corso del procedimento. La legge prevede un indennizzo in questi casi (se la sentenza di assoluzione diverrà definitiva). Si tratta di una somma di denaro a carico dello Stato. Le sofferenze, che la sentenza di assoluzione certifica essere state ingiuste, non possono essere riparate.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9286
« Ultima modifica: Dicembre 29, 2011, 04:24:01 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 31, 2011, 05:33:36 pm »

30/10/2011 - FEDE E CITTADINANZA

L'Islam e noi: la Primavera è lontana

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

Due notizie giungono insieme e permettono una riflessione sulla concezione dei diritti fondamentali che ha maturato l'Europa, rispetto a quella che emerge da alcuni paesi, ove prevale la religione islamica. È di ieri la notizia che la condotta del Comune e la contrastata procedura per l’autorizzazione a costruire a Torino una moschea, luogo di culto dei musulmani, sono state convalidate da una sentenza del Tribunale amministrativo.

Le leggi italiane dunque non impediscono a chi professa la religione islamica di avere, alla luce del sole, un degno luogo di culto. Sembrerebbe ovvio, eppure è stato necessario l’intervento di un giudice, poiché vi sono resistenze. La decisione certifica che, osservate le ordinarie norme urbanistiche, nessun impedimento può essere frapposto sulla base della fede religiosa, sgradita ad alcuni, ai cui riti è destinato il luogo di culto.

Corretto e, insisto, ovvio alla luce di ciò che stabiliscono la nostra Costituzione e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In questi stessi giorni le nuove autorità dell’Egitto, ed anche esponenti di quelle libiche, hanno annunciato le prime che continuerà a essere necessaria una speciale autorizzazione per costruire chiese cristiane e le seconde che lo Stato libico riconoscerà un posto privilegiato alla sharia, la legge che i musulmani ritengono rivelata da Dio.

Sulla compatibilità di questa fonte del diritto con i principi che sono propri delle democrazie, si è pronunciata la Corte europea dei diritti dell’uomo, quando le è stata sottoposta la questione della compatibilità, appunto con i principi democratici, dello scioglimento di un partito politico turco, che aveva nel proprio programma l’instaurazione della sharia in Turchia. E la Corte europea ha affermato che l’imposizione della sharia come legge fondamentale non sarebbe stata compatibile né con la laicità, cardine della democraticità dello Stato, né con l’eguaglianza dei cittadini.

Nel progetto di quel partito, infatti, sarebbe stato reintrodotto il sistema ottomano del diverso statuto giuridico delle persone secondo la religione professata. Si può aggiungere che in diversi Paesi musulmani, che si richiamano alla sharia, la libertà religiosa di chi non aderisce alla religione islamica soffre gravi restrizioni. La libertà di religione non riguarda solo la libertà di coscienza individuale, ma anche quella di cambiare religione, di manifestare la propria adesione a una religione individualmente e collettivamente, in pubblico e in privato, con il culto, l’insegnamento e il compimento dei riti.

Tutti aspetti di libertà religiosa che hanno dato luogo a talora drammatiche repressioni. Tornando alla costruzione di luoghi di culto e alle pratiche religiose alle quali sono destinati, le due contrastanti notizie consentono innanzitutto di rilevare quanto profonda sia la diversità di tradizioni culturali e giuridiche in materia di libertà fondamentali in generale e di libertà religiosa in particolare. Anche se si è consapevoli del fatto che il superamento di pratiche restrittive fuori dell’Europa sarà probabilmente lungo e contrastato, occorre mantenere fermezza di posizioni ideali e continuità nella pressione perché l’attuale stato di cose muti.

L’Unione europea e i singoli Stati membri dichiarano di tener conto della necessità di protezione dei diritti fondamentali in tutte le relazioni commerciali e di cooperazione che allacciano con altri Stati. Periodicamente il Parlamento europeo produce in proposito una abbastanza triste relazione. Abbastanza triste, perché ne risulta che troppo spesso l’interesse economico o politico prevale e spinge a chiudere gli occhi sulla natura dei governi con cui si tratta. Le recenti relazioni con i Paesi del Nord-Africa ne sono un evidente esempio. Ma un tratto essenziale del diverso modo di intendere i diritti fondamentali in Europa e in gran parte del resto del mondo, riguarda, oltre che il loro contenuto, la natura stessa dei diritti dell’uomo.

Per il loro riconoscimento e la loro protezione non vale, nei rapporti tra gli Stati, il principio di reciprocità. Uno Stato non può rifiutare sul suo territorio a cittadini di un altro Stato (o a fedeli di una specifica religione) di esercitare un loro diritto fondamentale per il fatto che in quell’altro Stato eguale riconoscimento e protezione non sono assicurati. Si tratta di una questione essenziale, che è conseguenza diretta della convinzione raggiunta in Europa, che i diritti e le libertà fondamentali appartengono alle persone originariamente e non per concessione degli Stati.

Le violazioni che avvengono altrove non giustificano le violazioni che si commetterebbero in Europa. L’Europa, se così si comportasse, colpirebbe se stessa e i fondamenti della propria cultura. Oggi dunque, mentre non dimentichiamo che la libertà di religione non è garantita altrove e a chi ne soffre assicuriamo la nostra simpatia (nel senso etimologico del patire insieme), possiamo dire che siamo fortunati ed anche orgogliosi di ciò che avviene da noi, in Europa.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9379
« Ultima modifica: Dicembre 29, 2011, 04:25:56 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #5 inserito:: Novembre 19, 2011, 10:40:31 am »

18/11/2011

Un patto per la giustizia civile

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

Il clamore delle discussioni e dei contrasti attorno alla giustizia penale, e a un certo numero di processi in particolare, ha oscurato, ormai da molti anni, l’attenzione che merita l’altro ramo della giustizia ordinaria, quello della giustizia civile.

Eppure è soprattutto questa che più soffre e che maggiormente espone l’Italia alle critiche e alle condanne provenienti dall’Europa e dagli organismi internazionali. Nell’amministrazione della giustizia penale sono certo in gioco interessi e diritti fondamentali: la libertà, il patrimonio, l'onore delle persone che vi sono implicate. Ma le controversie civili riguardano tutti i cittadini nella loro vita ordinaria, quella privata e quella familiare, il lavoro, le attività commerciali. Si tratta di campi in cui vengono in discussione diritti fondamentali delle persone: diritti che sono offesi o addirittura negati se non è assicurato un efficiente servizio giustizia.

Sono ormai trent’anni che la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per non aver assicurato la conclusione di procedimenti in tempi ragionevoli. E la Corte ha dovuto constatare che non si tratta solo di numerose violazioni singole, ma di una pratica sistematica. È il sistema nel suo complesso che non è in grado di produrre sentenze in tempi ragionevoli. Si tratta di una carenza strutturale che incide sui diritti, che sono oggetto delle controversie civili. Ed è, per l’Italia, insieme alle condizioni delle carceri e al trattamento degli immigrati, il tema che più la espone sul fronte della protezione dei diritti fondamentali.

Le denunzie e le richieste di riforme capaci di risolvere questo problema, non hanno fino ad ora avuto risposte efficaci. Da qualche tempo però si sono levate altre voci critiche, mosse da considerazioni di natura economica. È possibile che in questo, come in altri campi, l’urgenza economica spinga ad affrontare problemi che questioni di principio non sono riuscite a smuovere? Cerchiamo di non perdere anche l’occasione che si presenta con il nuovo governo. Il presidente Monti ne ha fatto menzione nel discorso programmatico al Senato.

Il governatore della Banca d’Italia Draghi, nelle sue Considerazioni finali dello scorso 31 maggio, ha indicato in un punto percentuale del Pil annuo la possibile incidenza negativa della disfunzione della giustizia civile. Una quantificazione frutto di calcoli difficili e presuntivi, che indica comunque un ordine di grandezza allarmante e tale da rendere interessante, anche solo dal punto di vista economico, un incisivo impegno di riforma.

Pendono in Italia oltre cinque milioni e mezzo di processi civili. La loro distribuzione sul territorio, tra i diversi uffici giudiziari, è molto diseguale e apparentemente senza rapporto con il traffico economico e con l’entità e composizione sociale della popolazione. Così ad esempio nel territorio della Corte d’Appello di Torino pendono circa 175.000 procedimenti, mentre nel territorio di quella di Bari ne sono pendenti quasi 500.000. Nella Corte d’Appello di Milano pendono circa 330.000 procedimenti, mentre in quella di Napoli ve ne sono oltre un milione (il 20% del totale nazionale) e a Roma oltre 800.000. Numeri che non sembrano riflettere differenze oggettive dei vari territori. Solo differenze legate alla maggiore o minore litigiosità locale? Difficile crederlo. C’è da chiedersi, ad esempio se sempre e dappertutto le cause civili da cancellare dal ruolo scompaiano effettivamente dalle statistiche o invece continuino a mettere in mostra un carico di lavoro maggiore del reale (e quindi meritevole di maggiori organici di personale e maggiori risorse). Oppure se le cause seriali, che andrebbero riunite e rapidamente definite, sono invece separatamente introdotte dagli avvocati e tali mantenute dai magistrati. Domande cui occorre dare risposta per poter apprestare rimedi. Perché le differenze di produttività degli uffici sono davvero impressionanti, certo legate a problemi di organizzazione degli uffici giudiziari e di modo d'essere e di agire dell’avvocatura locale. La giacenza media delle cause civili risulta di 280 giorni al Tribunale di Torino, di 304 a Milano, di 365 a Roma, di 449 a Napoli e di 776 Bari.

Come ha recentemente ricordato il vicepresidente del Csm Vietti, riprendendo dati del Consiglio d’Europa in un suo agile e utile libro sull’amministrazione della giustizia, non v’è un problema generale di produttività dei magistrati italiani. Ma occorre assicurare che tutti gli uffici giudiziari lavorino allineandosi sui migliori standard di produttività già presenti in Italia (e lo strumento del processo telematico va generalizzato). Il ministro della Giustizia, responsabile per l’organizzazione e il funzionamento dei servizi, ha la possibilità di avvalersi di esperti di scienza dell’organizzazione e di analisi economica, da mettere accanto a magistrati ed avvocati per identificare le pratiche virtuose e diffonderle (con opportuno uso di sollecitazione e autorità). Il Csm, pur in un ambito di competenza diverso, ha accumulato una notevole esperienza in proposito e potrebbe svolgere un’utile opera in coordinamento con quella del ministero. È però chiaro che è necessario intervenire in modo integrato su tutti i lati dell’universo giudiziario, non esclusi gli avvocati. Non si può infatti ignorare che vi è una componente patologica della domanda di giustizia civile, che pone l’Italia ai primissimi posti tra i Paesi del Consiglio d’Europa per numero di cause iniziate, e che l’avvocatura può esercitare una funzione di filtro delle cause ingiustificate oppure di moltiplicazione di esse. In proposito, ad esempio, Daniela Marchesi, esperta di analisi economica del diritto, ha sottolineato l’incidenza del metodo di calcolo delle tariffe professionali, come incentivo alla moltiplicazione delle cause civili. La lotta alla «componente patologica» deve accompagnarsi ad iniziative di riduzione di quella «fisiologica». Se in altri Paesi europei la quantità di cause introdotte presso i giudici è minore, è anche perché sono disponibili e funzionano mezzi alternativi di risoluzione delle controversie. La recente legge che ha previsto l’obbligo di esperire un tentativo di mediazione tra le parti, prima di investire il giudice, sta cominciando a dare i primi risultati positivi. I centri di mediazione delle Camere di commercio danno in genere buoni risultati. Ma anche qui vi sono grandi diversità sul territorio. Il ministero potrebbe forse operare per far sì che tutti gli Ordini degli avvocati aprano i centri per la mediazione. Al nuovo ministro si presenta un lavoro complesso e difficile. Le condizioni di urgenza nazionale potrebbero però darle la forza che è mancata ai ministri che l’hanno preceduta.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9448
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7/12/2011

Se la corruzione si insinua in magistratura

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

L’ arresto di un giudice e la condanna in un non lontano passato di qualche altro sono per fortuna eventi rarissimi. Si può immaginare che esista un numero oscuro di casi di corruzione che rimangono nascosti, ma si tratta comunque di fenomeno estremamente limitato.

Tuttavia è necessaria una riflessione che vada oltre i commenti sulla capacità delle organizzazioni mafiose di infiltrarsi nelle istituzioni e sulla potenza del denaro. Occorre una riflessione sulla magistratura. Naturalmente ciò riguarda anche i parlamentari, le articolazioni governative, gli enti locali, l’amministrazione pubblica, gli organi di polizia, ecc., ma per la magistratura l’urgenza e la gravità delle questioni che si pongono sono di speciale forza.

Il ruolo assegnato dalla legge ai magistrati e la larga discrezionalità loro riconosciuta nell’esercitarlo spiegano perché da essi, ancor più che da altri, si richieda personale indiscutibile integrità; oltre i confini di ciò che è normale chiedere a chi esercita altre, pur importanti, funzioni. E forte è il rilievo che assumono anche le sole apparenze, così come è sempre sottolineato da chi si occupa di etica delle professioni giudiziarie, dagli organi disciplinari e dalla stessa Corte europea dei diritti dell’uomo. I cittadini possono forse accettare l’errore dell’uomo magistrato ma non l’inquinamento di una giustizia che, anche oltre ciò che è realistico, sono portati a pensare con la G maiuscola.

Interrogarsi allora partendo dal versante di chi corrompe, non è sufficiente. Occorre anche chiedersi come sia possibile che anche all’interno della magistratura si insinui la corruzione, la pressione indebita, il favoritismo. Intendo con ciò dire che esiste un problema per la magistratura nel suo complesso.

È difficile credere che episodi di corruzione siano nella magistratura più frequenti ora che nei tempi andati (la corruzione ha tante forme). Ma quel che mi pare proprio del tempo presente è la rivendicazione da parte di molti magistrati del diritto (o addirittura del dovere) di vivere da persona tra le persone, da privato tra i privati, come tutti, senza limiti particolari, appena usciti dal tribunale. Pretesa più che discutibile, anche senza cadere in un elitarismo codino, che celebri la separatezza. Ma quella pretesa e la sua messa in pratica nello stile di vita hanno molte implicazioni. Modifica la percezione di ciò che è normalmente lecito o innocuo, ma è inopportuno o addirittura illecito per il magistrato. E rende difficile, dall’esterno, valutare il senso di certi comportamenti, di certe frequentazioni e di certi rapporti confidenziali.

Accade - è accaduto - che l’esplodere di uno scandalo coinvolgente magistrati inneschi nei loro colleghi sentimenti vari, tra cui non c’è la sorpresa. Ma in altri casi è la sorpresa, l’incredulità che prevale. L’una e l’altra situazione richiede riflessione e risposta a domande. Perché, se tra colleghi non ci si sorprende troppo se un’indagine per corruzione tocca un magistrato, non si sono attivati anticorpi per una preventiva difesa dell’istituzione? Perché, invece, se tutti cadono dalle nuvole, la vigilanza dei capi degli uffici giudiziari non si è attivata o è stata inefficace?

Nel primo caso giocano diversi fattori. Uno spirito malinteso di colleganza, una solidarietà di gruppo (i panni sporchi si lavano in famiglia: famiglia, nei molti significati del termine). E il richiamo alla presunzione di innocenza. Questa vale solo per la responsabilità penale, ma tende ora ad estendersi ad ogni genere di condotta incompatibile con i doveri che incombono in conseguenza del ruolo svolto nella società. Gli indizi che giustificano un sospetto sono quindi ignorati (o al più fanno oggetto di pettegolezzo). La pigrizia nel sollevare tra colleghi (ma qui vanno anche ricordati gli avvocati, la cui vita professionale è strettamente legata a quella dei magistrati) una questione spesso imbarazzante e difficile, viene così giustificata col richiamo a un nobile principio: la presunzione di innocenza. Che però c’entra ben poco e finisce con il legittimare silenzi, tolleranze, oggettive connivenze. Ne risulta un danno per l’istituzione giudiziaria nel suo complesso e per la sua credibilità di fronte ai cittadini.

Il secondo caso apparentemente è più semplice. Se nessuno sapeva niente, cosa si poteva fare? Ma la questione appunto riguarda la mancanza di vigilanza interna, quella sociale tra colleghi e quella formalmente prevista da parte dei capi degli uffici. Questi sono spesso ritrosi ad esercitare una funzione di vigilanza non facile. Tra una vigilanza con metodi di polizia e il tener gli occhi chiusi per viver tranquilli c’è di mezzo la funzione attenta e sollecita che consente di raccogliere i segnali, non accontentarsene, riconoscere ciò che vien fatto correre per denigrare il giudice scrupoloso e approfondire invece quel che appare serio. Perché il fatto che nessuno sapesse niente delle frequentazioni e della vita «privata» del magistrato che si scopre corrotto o a rischio di corruzione, non chiude il discorso. Ne apre invece uno diverso. La magistratura dovrebbe chiarire e sanzionare le inerzie di chi avrebbe dovuto vigilare e conoscere.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9526
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18/12/2011

Pagamenti pubblici: Italia colpevole

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

Il suicidio di un imprenditore veneto legato alla crisi in cui si era venuta a trovare la sua piccola impresa, per l'impossibilità di ricevere il pagamento dei crediti che vantava nei confronti di enti pubblici per i quali aveva lavorato, è purtroppo solo l'ultimo di una serie. La vicenda denunzia una prassi ampia e risalente nel tempo, da parte di enti pubblici debitori. Lo Stato è un cattivo pagatore. Chi lavora ad esempio per le Asl conosce gli enormi ritardi con i quali ottiene il pagamento corrispondente alle forniture effettuate.

In Italia i ritardi e l'incertezza che vi è legata sono imponenti. Ma non si tratta di fenomeno solo italiano, se l'Unione europea ha dovuto recentemente approvare una nuova direttiva relativa alla lotta ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, anche per il caso in cui il debitore sia un’amministrazione o un'impresa pubblica. La direttiva muove dalla constatazione che «sebbene le merci siano fornite e i servizi prestati, molte delle relative fatture sono pagate ben oltre il termine stabilito.

I ritardi nel pagamento influiscono negativamente sulla liquidità e complicano la gestione finanziaria delle imprese. Essi compromettono anche la loro competitività e redditività quando il creditore deve ricorrere a un finanziamento esterno a causa di ritardi nei pagamenti. Il rischio di tali effetti negativi aumenta considerevolmente nei periodi di recessione economica, quando l'accesso al finanziamento diventa più difficile».

La direttiva stabilisce per i debitori enti o imprese pubblici un termine di trenta giorni per il pagamento, prorogabile a certe condizioni fino a sessanta giorni e a tal fine considera la specificità della situazione degli enti pubblici che forniscono assistenza sanitaria. L'adeguamento dell'ordinamento nazionale deve avvenire entro il marzo 2013. In un primo tempo la direttiva è stata esclusa della legge comunitaria 2011, con l'evidente intento di ritardarne al massimo il recepimento. Ora però l'attuazione della direttiva è oggetto, sotto forma di delega al governo, della legge dello scorso novembre che porta il nome di Statuto dell'impresa. I tempi di adempimento dovrebbero essere al massimo accelerati ed anche definita in modo ragionevole e utile alla vita delle imprese la questione dell' enorme debito pubblico legato a contratti conclusi ed eseguiti antecedentemente. Si tratta di questione di grande importanza anche ai fini del rilancio dell'attività produttiva e, quindi, della difesa del lavoro. E' in gioco la sopravvivenza stessa di molte piccole e medie industrie. Vien fatto di pensare a quando, invece di pagare i debiti, il governo investiva il Parlamento di una proposta di modificare la Costituzione per proclamare la libertà d'impresa!

Va aggiunto che non si tratta soltanto di una questione che riguarda l'attività economica. Il diritto al pacifico godimento dei beni entra nell'elenco dei diritti fondamentali considerati dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che vincola anche l'Italia. Esso riguarda egualmente le persone fisiche e quelle giuridiche. E non si tratta solo del diritto di proprietà disciplinato dalla normativa interna, poiché concerne anche i crediti, quando questi siano ormai liquidi ed esigibili o appaiano comunque ben fondati. L'Italia è già stata condannata per violazione di questo diritto in un caso in cui ingenti crediti d'imposta vantati da una società erano stati pagati dall'amministrazione pubblica con ritardi che andavano da cinque a dieci anni (e in larga misura mediante titoli del debito pubblico). L'impresa aveva dovuto indebitarsi con banche e con privati ed era finita in liquidazione. La sentenza è del 1993, ma la pratica viziosa dello Stato non si è interrotta.

La direttiva europea prevede anche che lo Stato incentivi le buone prassi e pubblichi un elenco dei soggetti che sono buoni pagatori. Se si vogliono mettere le imprese italiane in grado di agire e competere e se si vogliono attirare gli investimenti esteri, sarebbe necessario che un simile elenco contenesse in prima fila proprio lo Stato, gli enti e le imprese pubbliche.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9560
« Ultima modifica: Dicembre 29, 2011, 04:27:15 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #8 inserito:: Dicembre 29, 2011, 04:02:55 pm »

29/12/2011 - IL CASO

Perché servono i magistrati specializzati

VLADIMIRO ZAGREBELSKY


Il prossimo raggiungimento del termine stabilito per la rotazione dei magistrati nelle varie articolazioni degli uffici giudiziari e in particolare nei gruppi di lavoro istituiti nelle Procure della Repubblica, porta alla luce temi di fondo riguardanti la magistratura. Si tratta in sintesi dell’applicazione delle leggi e delle delibere del Consiglio superiore della magistratura che hanno definito in dieci anni il limite massimo di permanenza dei magistrati nella stessa area di attività, nell’una o nell’altra materia.

Nel dare applicazione alla legge, il Csm ha stabilito nel 2008 che i dirigenti degli uffici giudiziari provvedessero, nel triennio che ora si conclude, a progressivamente modificare la composizione dei gruppi di lavoro, in modo da limitare i costi operativi derivanti dal contemporaneo trasferimento ad altri compiti dei numerosi magistrati che raggiungono ora il limite decennale. La maggior parte degli uffici giudiziari si sono adeguati, mentre in pochi casi la transizione al nuovo regime non ha avuto luogo.

Ed ora la questione viene a scadenza. Il Csm ha recentemente ribadito che le disposizioni in materia vanno applicate. Qualche precauzione organizzativa potrà essere adottata dai dirigenti degli uffici, come quella di lasciare in capo al magistrato che ne è titolare le più complesse procedure già in corso. Ma nell’immediato l’operazione non sarà senza costi per l’efficienza degli uffici.

Così stando le cose, interessa allora ai cittadini comprendere il senso del problema e prim’ancora la ragione di disposizioni come quelle di cui trattiamo.

La temporaneità degli incarichi collide con il valore positivo della specializzazione. I magistrati trattano materie molto diverse. Mi riferisco alle conoscenze, non solo giuridiche, necessarie per ben condurre una causa di separazione tra coniugi, oppure una causa riguardante i brevetti o la gestione di un fallimento e, per le Procure della Repubblica, a quelle richieste da indagini in tema di criminalità organizzata, terrorismo, reati finanziari e fallimentari o contro l’ambiente e la sicurezza sul lavoro. Si tratta di conoscenze ed esperienze non solo radicalmente diverse tra loro, ma anche spesso strettamente specialistiche, di faticosa e difficile acquisizione. Perché allora disperderle? E perché mettere a rischio il buon esito di certe indagini o di certi processi, con magistrati non forti delle loro conoscenze e invece deboli di fronte a organi di polizia, consulenti tecnici ed avvocati che sempre più sono specializzati?

La specializzazione anche in magistratura è indispensabile. L’idea del magistrato tuttofare è sempre meno credibile. Tra le altre ragioni, la necessità di consentire almeno un minimo di specializzazione dovrebbe spingere ad eliminare i piccoli Tribunali o almeno a concentrare nei Tribunali capoluogo le materie che maggiormente richiedono specializzazione. Ma la lunga permanenza nelle stesse funzioni e nello stesso luogo comporta necessariamente la creazione di una rete di rapporti con persone ed ambienti legati alla specifica materia. Possono essere gli avvocati che curano quel tipo di affari, oppure l’uno o l’altro ufficio di polizia o i consulenti tecnici, ecc. Possono crearsi allora rapporti che interferiscono con il corretto svolgimento delle funzioni giudiziarie. La temporaneità degli incarichi in magistratura, ora disciplinata dalla legge, è stata introdotta fin dagli Anni Ottanta dal Csm, sull’onda di problemi, talora gravissimi, che emergevano nelle sezioni fallimentari dei Tribunali: grandi poteri discrezionali, grandi interessi economici, ristretto ambiente di professionisti operanti nel settore. Via via la temporaneità è stata estesa a tutta l’attività giudiziaria.

La soluzione adottata dal legislatore e prim’ancora dal Csm tende a contrastare gli effetti negativi che possono aversi per la lunga permanenza dei magistrati nella stessa area di competenza. Ci si può allora domandare se la secca perdita delle professionalità maturate nel tempo sia per l'amministrazione della giustizia proporzionata al vantaggio e se vi siano alternative meno pesanti. Se inquinamenti o legami impropri si sono creati attorno ad un magistrato, è quel magistrato che andrebbe rimosso, non tutti gli altri insieme. Sarebbe saggio, nell’interesse del servizio pubblico giudiziario, procedere in questo modo. Si tratta però di una soluzione difficilmente praticabile, quando si vada oltre i casi rari in cui esiste la prova di comportamenti gravi. La diffusa debolezza della vigilanza dei dirigenti degli uffici, l’evanescenza di certe situazioni inopportune ed anche qualche garantismo di troppo del Csm, hanno spinto all’adozione di un sistema che ricorda i «tagli lineari» per tutelare il bilancio dello Stato, oppure la pratica di richiamare all’ordine tutti gli allievi, buoni e cattivi, per non sapere o volere identificare e sanzionare i pochi che lo meritano.

Il costo di un simile sistema è elevato, ma va imputato solo in parte al sistema stesso, poiché esso deriva innanzitutto dalla necessità di reagire a fenomeni di malcostume. Ne pagano il prezzo come spesso accade coloro cui nulla si può rimproverare e soprattutto lo paga il servizio pubblico, che disperde i valori professionali che si sono costruiti nel tempo. Ma superata la fase transitoria, si può credere che i dirigenti degli uffici e il Csm sapranno senza troppa difficoltà assicurare per tempo una rotazione che consenta di preparare ed inserire validamente nei gruppi i nuovi giunti e così garantire l’efficienza duratura delle strutture specializzate.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9594
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« Risposta #9 inserito:: Gennaio 05, 2012, 07:54:04 pm »

5/1/2012

Ungheria, prova di diritto per l'Ue

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

L’attenzione focalizzata sulle difficoltà economiche e finanziarie dell’Italia e dell’Europa e la discussione sulle misure prese o da prendere per uscire dalla crisi, rischia di mettere in ombra, sotto la pressione dell’urgenza, un tratto fondamentale dell’Unione europea. Da lungo tempo ormai l’iniziale esclusivo scopo di creare un mercato comune si è arricchito di componenti diverse, di natura culturale e politica. Di esse si dà conto in apertura del Trattato sull’Unione, dichiarando che essa «si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini». La coerenza con quei principi delle leggi e dei comportamenti di ciascuno dei ventisette Paesi membri è condizione per l’adesione all’Unione e per l’esercizio dei diritti che essa comporta. Tanto che la partecipazione di uno Stato membro può essere sospesa se gli organi dell’Unione constatano che esiste un rischio di violazione grave di quei valori. Le vicende in corso in Ungheria ci aiutano a ricordarcene.

L’Ungheria ha aderito (ha chiesto di aderire ed è stata accolta) all’Unione europea nel 2004, superando i test di democraticità e di compatibilità del sistema economico. Da allora il Paese ha vissuto gravi crisi economiche e politiche, ora giunte a un punto che allarma gli organi dell’Unione e l’opinione pubblica ungherese ed europea. Alle critiche provenienti dall’Unione e da altri Stati, il primo ministro ungherese Orban reagisce proclamando che nessuno può dettare al suo Paese ciò che deve fare. Con ciò solletica il suo elettorato e il nazionalismo ungherese, ma nega in radice la logica dell’appartenenza a una comunità come l’Unione. In Europa le vicende interne agli Stati membri, siano esse economiche o relative alla democrazia e alle libertà civili, riguardano tutti, istituzioni europee e cittadini. Non è irrilevante che ogni cittadino di ciascuno Stato membro sia anche cittadino dell’Unione.

Vinte le elezioni politiche e ottenuti, per il gioco della legge elettorale, più di due terzi dei seggi parlamentari, il governo ha introdotto modifiche alla Costituzione e alle leggi che confliggono con i valori propri dell’Unione. Sono stati fatti inquietanti richiami alla «ungheresità» etnica che urtano gli Stati confinanti in cui vivono minoranze magiare, è stata abolita la indipendenza della Banca centrale e sono state drasticamente ridotte l’indipendenza della magistratura e la libertà della stampa. Un’ampia epurazione è in corso. Il presidente della Corte suprema, già giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, si è dimesso. Il reclutamento dei nuovi magistrati è ormai nelle mani di un organismo che risponde al governo. La composizione della Corte costituzionale è modificata per legarla alla maggioranza di governo. La stampa, le radio e televisioni sono sottoposte a limitazioni e controlli che hanno iniziato a produrre dimissioni e licenziamenti di giornalisti non in linea. Il quadro che deriva dal contemporaneo attacco alla magistratura e alla stampa, il terzo e il quarto potere in democrazia, è per un verso classico in ogni regime autoritario e per l’altro è in esplicita rotta di collisione con i principi di democrazia su cui l’Unione europea si fonda e che sono comuni a tutti gli Stati membri.

Merita di essere particolarmente richiamato un aspetto delle riforme che il governo ungherese, forte della sua maggioranza, ha introdotto. Si tratta dell’attribuzione a un organo amministrativo legato al governo della possibilità di obbligare i giornalisti a svelare l’identità delle loro fonti di informazione. La Corte costituzionale, prima della modifica della sua composizione, ne ha constatato la incostituzionalità, rilevando che solo il giudice può obbligare in casi eccezionali il giornalista a rivelare le sue fonti. Un orientamento della Corte costituzionale in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani e la pratica esistente negli altri Paesi dell’Unione. L’eccezionalità della violazione del segreto delle fonti, ammessa solo quando sia assolutamente necessaria per tutelare fondamentali interessi pubblici, è una regola indispensabile per consentire alla stampa di svolgere il suo ruolo di informazione e controllo nella società democratica. Per rimarcare la distanza tra le pretese del governo ungherese e la pratica negli altri Paesi si può ricordare la recente sentenza della Cassazione francese, che ha annullato un’indagine promossa dal pubblico ministero (che in Francia dipende dal ministro della giustizia), per individuare le fonti dei giornalisti che avevano ottenuto e pubblicato notizie da una istruttoria penale riguardante anche personaggi politici della maggioranza governativa. La Corte di Cassazione, richiamando la Convenzione europea dei diritti umani, ha osservato che le notizie pubblicate, da un lato avevano un notevole interesse per il pubblico e dall’altro non mettevano in pericolo essenziali esigenze di segretezza e ha annullato l’indagine. Proteggere le fonti delle notizie raccolte dai giornalisti, è necessario per evitare che esse si inaridiscano e per consentire alla società di far emergere notizie imbarazzanti per il potere, mantenendo vivo il dibattito democratico. Poiché la sola volontà della maggioranza non basta a dar linfa a una democrazia. L’indipendenza della magistratura, la libertà della stampa e la completezza dell’informazione della opinione pubblica, sono condizioni essenziali per la vitalità delle istituzioni della democrazia a garanzia dei diritti e delle libertà dei cittadini. Centottant’anni orsono Tocqueville, segnalando i pericoli della dittatura della maggioranza, scriveva che «quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte, poco m’importa di sapere chi mi opprime, e non sono maggiormente disposto a infilare la testa sotto il giogo solo perché un milione di braccia me lo porge».

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9614
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« Risposta #10 inserito:: Gennaio 18, 2012, 12:08:32 pm »

18/1/2012

Così la giustizia può aiutare l'economia

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

Ascoltando la relazione che il ministro della Giustizia Severino ha svolto in Parlamento sull’amministrazione della giustizia nell’anno decorso, si aveva la rassicurante sensazione che ella parlava di ciò che conosce.

Di ciò di cui conosce in dati reali e la loro importanza, ma anche la difficoltà di affrontarne i problemi. Nessuna semplificazione o facile promessa di soluzione, quindi, ma descrizione della grave situazione e illustrazione delle sue implicazioni generali, unite all’indicazione di specifiche misure prese, da questo e dal precedente governo. Si tratta di interventi legislativi e amministrativi tutti in chiave di efficienza (o rimozione di cause dell’inefficienza). E proprio questi si richiedono al ministro della Giustizia, sia perché il principale problema della giustizia in Italia è la sua grave inefficienza (di cui la durata e onerosità dei procedimenti civili e penali è l’aspetto più vistoso), sia perché proprio questa è la responsabilità che la Costituzione assegna al ministro della Giustizia, cui spettano l’organizzazione e i servizi relativi alla giustizia.

Il ministro ha impostato il suo discorso, di cui non si possono qui seguire tutti i numerosi capitoli, secondo linee di cultura istituzionale lungamente rimaste in ombra sia a livello politico, sia nell’ambito della magistratura e dell’avvocatura: le due categorie professionali che il ministro ha giustamente più di una volta accomunato, richiamandole alle loro responsabilità di attori del servizio giustizia. Innanzitutto il ministro ha nettamente inserito l’amministrazione della giustizia tra i servizi pubblici i cui risultati devono essere valutati nel quadro generale dell’interesse pubblico. Anche quindi, specie di questi tempi, per gli effetti che essa produce nell’economia del Paese. Troppo spesso le riflessioni dei magistrati sul proprio ruolo e le prese di posizione dell’avvocatura non alzano lo sguardo al quadro generale degli effetti che, non questa o quella decisione giudiziaria determina, ma la gestione generale dei flussi di domanda di giustizia. In passato la resistenza a discorsi e iniziative tesi a promuovere l’efficienza del servizio sono stati contrastati, sia in un’ottica corporativa di difesa del modo di lavorare di ciascun magistrato, sia in chiave politica rifiutando l’efficienza di una giustizia di cui si chiedeva prima la riforma. A lungo le due posizioni si son date reciproco sostegno. E il rilievo dell’organizzazione degli uffici giudiziari e dell’interazione con il lavoro degli avvocati non sono ancor oggi pienamente apprezzati. Certo il ministro ha fatto riferimento alle buone pratiche messe in opera qua e là, ma occorre far opera di selezione e generalizzazione. Se occorre rimuovere abitudini sedimentate e risvegliare il senso istituzionale di magistrati e avvocati, il ministro non dovrebbe aver timore delle reazioni corporative che cercherebbero di nascondersi sotto i grandi principi dell’indipendenza dei magistrati e degli avvocati. E’ ora necessario distinguere ciò che tali principi comportano e che è intoccabile da ciò che invece rappresenta inammissibili e talora comodi individualismi refrattari alle esigenze del servizio.

Nello stesso ordine di idee il ministro ha fatto riferimento alla specializzazione dei magistrati, anche di recente oggetto di dibattito. La specializzazione dei magistrati è stata legata dal ministro alla produttività degli uffici e alla qualità delle decisioni, alla loro prevedibilità e costanza. Quantità e qualità della produzione giudiziaria considerate insieme, come è giusto. E’ noto l’imbarazzo manifestato da avvocati specializzati nella materia in discussione in certe cause complesse, nel dover difendere in piccoli Tribunali davanti a magistrati non preparati, magari umanamente e professionalmente ricchi, ma senza specifica esperienza. Il ministro ne ha parlato anche riferendo sui lavori in corso per la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, che porterà alla eliminazione dei piccoli uffici. In essi nessuna specializzazione è possibile. In proposito, sarebbe da prevedere che la competenza dei Tribunali per materie che richiedono specializzazione sia attribuita dalla legge solo alle grandi sedi distrettuali. E’ possibile che la riforma delle circoscrizioni, con l’identificazione delle dimensioni ottimali degli uffici e del numero minimo di magistrati, sia l’occasione di una riflessione profonda sulla natura del servizio, che richiede che l’organizzazione degli uffici e la formazione dei magistrati assicuri nel giudicante l’equilibrio tra vastità di esperienza e specializzazione.

I tempi di questo governo non sono lunghi, tanto quanto la soluzione dei problemi della giustizia italiana richiederebbe. Ma non è poco ciò che è in cantiere e il ministro sa che proprio le difficoltà che il Paese attraversa potrebbero facilitare l’introduzione di riforme necessarie, ma che fino ad ora si sono dimostrate impossibili.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9660
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« Risposta #11 inserito:: Febbraio 04, 2012, 11:50:49 am »

4/2/2012

L'occasione perduta

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

In Italia e in Grecia nel corso degli Anni 90 sono state introdotte davanti ai giudici italiani delle azioni civili per ottenere il risarcimento dei danni subiti dalle vittime di stragi commesse dalle truppe del Reich tedesco contro la popolazione civile tra il 1943 e il 1945 e, in un caso diverso, il risarcimento dei danni subiti da un militare italiano internato e costretto a lavoro forzato. Le azioni civili sono state rivolte nei confronti della Repubblica Federale di Germania. Sia in Italia che in Grecia i giudici, fino alla Corte di Cassazione, hanno affermato che la Germania doveva rispondere civilmente di quei fatti e l’hanno condannata a versare un risarcimento. L'esecuzione di quelle sentenze ha portato all’iscrizione di ipoteca su un bene immobile di proprietà dello Stato tedesco in Italia. La stessa cosa è avvenuta anche in esecuzione della sentenza greca, che è stata dichiarata esecutiva in Italia.

Le sentenze italiane e greche hanno suscitato speranze nelle vittime delle atrocità naziste ed anche molto interesse tra i giuristi per il loro carattere innovativo. Ora la Corte internazionale di giustizia ha giudicato che l’Italia, ammettendo che la Germania venisse convenuta in giudizio davanti ai giudici italiani e poi dando esecuzione alle loro sentenze e a quella greca, ha violato il diritto internazionale, che prevede l’immunità degli Stati dalla giurisdizione di uno Stato diverso, quando si tratti di atti che, come quelli delle forze armate, sono espressione di poteri pubblici statali.

Le sentenze italiane e greche avevano ritenuto che le ragioni della immunità consuetudinaria degli Stati dalla giurisdizione altrui dovessero cedere in casi gravi di violazione del diritto internazionale umanitario o, più in generale, di fronte al cosiddetto jus cogens, il nocciolo duro, non derogabile, del diritto internazionale. Ed è questa la tesi che, senza successo, hanno in sostanza sostenuto davanti alla Corte internazionale il governo italiano ed anche quello greco intervenuto.

La sentenza della Corte internazionale, organo giudiziario delle Nazioni Unite, competente a giudicare le controversie tra gli Stati fondate sul diritto internazionale, è, come sempre, estesamente e dettagliatamente argomentata. La Corte ha ricostruito la ragione e la portata del principio d’immunità degli Stati ed ha concluso che, allo stato attuale, il diritto internazionale non prevede l’eccezione che il governo italiano (e i giudici italiani e greci) ritenevano invece sussistente.

Il fondamento dell’immunità degli Stati è legato al principio di parità e sovranità, nel senso che nessuno Stato, per i suoi atti sovrani, riconosce la giurisdizione di un altro Stato. Inoltre si ritiene che nei rapporti tra gli Stati l’intervento dei giudici, per sua natura, non sia adatto e opportuno, mentre la soluzione dei problemi e conflitti reciproci sarebbe meglio cercata a livello politico. Se si considera l’estrema varietà dei casi, la loro gravità e la serietà delle conseguenze che possono derivarne, è difficile non ammettere che la duttilità e varietà delle soluzioni politiche le facciano preferire. Ed in effetti tra Italia e Germania (che ha riconosciuto la sua responsabilità per gli atti delle truppe naziste in Italia) sono intervenuti trattati diretti a consentire risarcimenti. Trattati però che hanno avuto limitatissime applicazioni. E la Germania ha versato allo Stato italiano un indennizzo. Molte, e anzi la maggior parte delle vittime sono però rimaste senza risarcimento. Vero è che la Corte internazionale ha avuto cura di chiarire che la questione di cui era investita era soltanto quella riguardante la giurisdizione e non invece quella sostanziale del diritto dei singoli a ottenere un risarcimento. Ma è difficile pensare che la soluzione procedurale adottata non si rifletta sulle possibilità concrete dei singoli di ottenere il risarcimento cui aspirano.

La prima lettura della sentenza della Corte internazionale di giustizia impressiona per la cura impiegata nella vasta ricerca delle tracce - nei documenti internazionali, nella giurisprudenza internazionale e in quella interna degli Stati - della maturazione di un diverso contenuto della consuetudine internazionale. Ne risulta che effettivamente la posizione assunta dalle giurisdizioni italiana e greca è isolata nel quadro internazionale. Ma il diritto internazionale consuetudinario evolve per mezzo dei comportamenti degli Stati e anche delle sentenze dei giudici che, nel riconoscere un’evoluzione del diritto, in realtà lo creano o almeno lo consolidano. E’ quello che la Corte internazionale di giustizia, massimo organo giurisdizionale nella materia, non ha fatto. Per la verità non da sola, poiché in casi analoghi, quanto alla questione giuridica, anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha concluso nello stesso senso.

Si può riconoscere la serietà delle argomentazioni che la Corte internazionale ha svolto e al tempo stesso esprimere rammarico per l’occasione persa di imprimere al diritto internazionale un’evoluzione che avrebbe potuto dare ai diritti fondamentali delle persone, e alla possibilità di farli valere efficacemente in giudizio, il peso che dal dopoguerra essi in altri campi hanno conquistato. Rammarico ed anche preoccupazione, perché gli effetti non riguardano solo la storia tragica del passato, ma anche ciò che avviene ora nel mondo, attorno e durante le tante operazioni militari che gli Stati compiono fuori del loro territorio. Il principio riaffermato dalla Corte internazionale di giustizia fissa una regola che sarà ormai per molto tempo immutabile.

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« Risposta #12 inserito:: Febbraio 07, 2012, 11:20:10 pm »

7/2/2012

Quei giudici europei che difendono i diritti dell'uomo

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

Rispetto alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 e ai successivi Patti dei diritti civili e politici e dei diritti economici, sociali e culturali, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, si caratterizza per il fatto che viene istituito un giudice di quei diritti e di quelle libertà.

E’ questa la grande novità, che per la prima volta si trova in uno strumento di diritto internazionale. I diritti dell’uomo avevano già trovato riconoscimento in Europa, ma solo a livello statale interno, con conseguente ruolo giocato dai giudici nazionali. Così era nella francese Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, che essenzialmente rinviava alla legge la definizione dei diritti e le condizioni del loro esercizio. Ma mai si era ammesso che gli Stati rispondessero davanti ad un giudice esterno delle violazioni dei diritti fondamentali dei singoli. La natura di «controllo giurisdizionale esterno» è tuttora la caratteristica principale del sistema europeo di protezione dei diritti dell’uomo, che copre la vasta area dei 47 Paesi membri del Consiglio d’Europa. Il sistema si fonda sull’istituzione di una Corte indipendente, capace di accertare le violazioni da parte degli Stati ed imporre loro di ripararle. Nel procedimento che si apre davanti alla Corte la persona ricorrente e lo Stato convenuto in giudizio sono parti processuali a pari titolo, con eguali diritti e doveri. La persona fa valere i diritti di cui è titolare e che non derivano dallo Stato, ma sono da questi «riconosciuti» (art.1 Conv.).

Il fatto che la Corte europea assicuri un controllo «esterno» implica un certo numero di conseguenze profondamente innovative. Quel controllo innanzitutto rompe i confini degli Stati e la connessa pretesa della legge statale di fondare ed esaurire un proprio ordinamento giuridico particolare ed esclusivo. La singola persona diviene soggetto di diritto internazionale, che fa valere diritti propri nella controversia contro uno Stato. La Corte europea applica un diritto europeo, maneggiando e creando un diritto che non origina dall’opera di parlamenti e non trova in ciò la propria legittimazione. Si tratta di un diritto di origine largamente giurisprudenziale, la cui creazione (ri)dà spazio al ruolo del giudice giurista (in luogo di quello del giudice semplice esegeta della legge chiamato ad applicare). La giurisprudenza della Corte europea, legata com’è ai casi specifici che le vengono sottoposti (giurisprudenza casistica) mette sullo sfondo la regola generale e astratta (come pretende di essere la legge) rispetto all’esigenza di disciplina richiesta ed espressa dal caso concreto. La soluzione del caso non deriva tanto dall’applicazione di una regola generale ed astratta che lo precede, quanto, al contrario (per la persuasività della ratio decidendi e per la forza del precedente), contribuisce a creare la regola per fatti analoghi.

La definizione dei singoli diritti resta generale e vaga nella Convenzione. Non si tratta di un difetto redazionale. Si tratta invece di una scelta, che rimette al giudice la responsabilità di adattare la portata dei diritti e delle libertà fondamentali alle esigenze dei tempi e allo sviluppo delle correnti culturali e sociali espresse dalla società europea contemporanea. La Corte pratica un’interpretazione ed una applicazione della Convenzione, che essa stessa definisce dinamica e evolutiva secondo lo scopo della Convenzione che è quello di rendere concreta ed effettiva la protezione dei diritti e delle libertà dell’individuo.

Quando la Corte Costituzionale italiana, con due sentenze del 2007, ha affermato l’obbligo per il giudice, prima di eventualmente sollevare la questione di costituzionalità, di fare ogni sforzo possibile per interpretare le leggi nazionali in modo tale da renderle compatibili con la Convenzione europea «così come interpretata dalla Corte europea», ha necessariamente fatto rinvio sia al contenuto della giurisprudenza europea, sia al suo metodo casistico, teso alla protezione effettiva del diritto del singolo individuo. Esercizio certo non facile, ma necessario, non solo da parte del giudice (e della stessa Corte Costituzionale), ma anche da parte del legislatore chiamato a produrre leggi compatibili con la Convenzione nel loro contenuto e nella loro struttura.

I giudici che compongono la Corte sono indipendenti e partecipano ai lavori della Corte a titolo individuale, non di «rappresentanti» del Paese a titolo del quale sono stati eletti. Essi sono chiamati ad esprimersi liberamente. La loro origine ed esperienza nazionale contribuisce alla ricchezza, pluralismo e completezza del dibattito interno alla Corte, in vista di decisioni che riflettano o siano compatibili con la cultura europea e con i sistemi giuridici presenti in Europa. Ma non si può dire che i giudici portino nel dibattito interno alla Corte un «orientamento culturale prevalente» nel loro Paese di origine. In società pluralistiche come sono quella italiana e generalmente quelle europee, ciascuno si ritrova su posizioni (ed in compagnie) diverse, tema per tema, questione per questione. Cosicché piuttosto che ad una maggioranza o a una minoranza, questione per questione si appartiene contemporaneamente a diverse minoranze o maggioranze diversamente composte. Ciascun giudice della Corte esprime dunque la sua posizione, caso per caso, materia per materia, senza pretesa di parlare per un’intera società. E’ però l’apporto che i molti giudici danno alla discussione, che consente alla Corte, almeno nella sue intenzioni, di raggiungere conclusioni che riflettono le tendenze di fondo delle società europee.

Questo testo è un estratto della Lecture che Vladimiro Zagrebelsky farà oggi, alle 17,30, nell’Aula Magna dell’Università di Torino (Via Verdi Fico. L’appuntamento è organizzato dal CSF (http://www.csfederalismo.it/), istituito nel 2000, con sede al Collegio Carlo Alberto che ha come fondatori la Compagnia di San Paolo e le Università di Torino, Pavia e Milano.

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« Risposta #13 inserito:: Febbraio 12, 2012, 07:31:30 pm »

12/2/2012

Dramma carceri nella paralisi "tecnica" e politica

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

L’attenzione alla gravità delle condizioni di vita in carcere viene spesso richiamata da episodi clamorosi o tragici, come le morti in carcere e in particolare i suicidi di detenuti. Non meno significativi i suicidi compiuti da agenti di custodia, poiché anch'essi sono spia del clima carcerario troppo degradato e teso per essere sopportato. Ma l'occasionale attenzione dell'opinione pubblica presto svanisce, mentre il problema resta, giorno per giorno, ormai da troppi anni.

Nelle carceri italiane i detenuti sono ora circa 68.000 e sono ristretti in prigioni che potrebbero riceverne solo 45.000. Il sovraffollamento è la principale ragione delle condizioni inaccettabili in cui la detenzione ha luogo, sia per coloro che sono in espiazione di una pena definitiva, sia per le persone che sono detenute per ragioni cautelari nel corso del procedimento. Condizioni inaccettabili in linea generale, anche se qua e là, per le migliori condizioni delle strutture e le iniziative dei direttori degli istituti, la situazione è migliore e non drammatica. Ma si tratta di eccezioni, cosicché è ormai evidente che il problema è sistemico e gravissimo. Lo ha ripetutamente detto il presidente della Repubblica. Lo ha detto in Parlamento, ed anche uscendo da visite nelle carceri, il ministro della Giustizia.

Le ricerche effettuate sulle dimensioni e ragioni del fenomeno dei suicidi in carcere sembrano indicare che il sovraffollamento è solo uno dei fattori incentivanti, mentre a esso si aggiungono altri elementi che concorrono ad aumentare la tensione interna all'istituto penitenziario, nei rapporti tra detenuti e tra i detenuti e il personale penitenziario. Ma il sovraffollamento impone al personale un sovraccarico di lavoro e lo rende più penoso; le strutture sono messe a dura prova e la loro utilizzabilità è ridotta; l'assistenza medica risulta più difficile e meno tempestiva, quella psicologica in particolare. Il sovraffollamento non è solo gravoso in sé, ma è causa di altri motivi di sofferenza aggiuntiva.

Si può continuare così? Sembrerebbe di no, poiché c'è un'evidente contraddizione con la Costituzione che vieta le pene contrarie al senso di umanità, con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che proibiscono le pene e i trattamenti inumani o degradanti. Tuttavia nulla di veramente risolutivo si muove. Il decreto cosiddetto «svuota carceri» (che il Senato dovrebbe approvare definitivamente tra qualche giorno) porta da dodici a diciotto mesi il periodo finale della detenzione espiabile in detenzione domiciliare. Poco più di 3000 detenuti potrebbero essere ammessi al beneficio. Il precedente termine di dodici mesi era stato previsto da una legge del 2010 che fu chiamata «sfolla carceri». Né uno slogan, né l'altro si rivela utile a sostituire la realtà alle speranze o ai messaggi ottimistici. I risultati infatti sono modesti, se raffrontati alle dimensioni del problema: nelle carceri si affollano 23.000 detenuti di troppo. Di troppo rispetto alla capienza e alle possibilità di una vita decente da parte di chi, privato della libertà, non lo è degli altri diritti e soprattutto non del diritto al rispetto della dignità. Non invece di troppo in assoluto, poiché il rapporto detenuti/popolazione in Italia non è significativamente diverso da quello di Paesi europei comparabili ed anzi è spesso inferiore. Si tratta di un fattore che indica che la prospettiva spesso avanzata di risolvere il problema mediante l'eliminazione dalle leggi di molte ipotesi di reato è illusoria. Si può certo depenalizzare un certo numero di reati, ma non sono questi quelli per cui si scontano effettivamente pene detentive. Le sanzioni alternative al carcere stentano ad assumere una vera incidenza nel sistema. E i programmi di aumento dei posti in carcere non sono realizzabili in tempi brevi, mentre ora urge metter fine a un’emergenza che è tale ed è insopportabile.

Negli Stati Uniti il sovraccarico delle carceri - con tutto ciò che esso comporta - è già stato riconosciuto come causa di trattamento «crudele e inusuale» e quindi contrario alla Costituzione. La Suprema Corte federale ha quindi disposto l’anno scorso che la California riduca di 40.000 il numero dei detenuti. Una sentenza e una iniziativa certamente eccezionale, ma resa obbligata dalla eccezionale gravità della situazione creata dal sovraffollamento.

In Italia è disponibile una sola misura: l’indulto. L’indulto è uno sconto di pena rispetto a quella stabilita dal giudice e si applica a tutti i condannati per i reati che il provvedimento di indulto considera (escludendo la applicazione per certi reati o per i condannati recidivi). Si può immaginare che un indulto di un anno porterebbe alla scarcerazione immediata di circa diecimila detenuti. Certo uno sconto di pena congegnato come l’indulto è per certi versi irragionevole rispetto ai criteri stabiliti dalla legge per la punizione di ciascun reato. Ma, come in passato, la logica che dovrebbe spingere ad una simile iniziativa legislativa risponde solo alla necessità di interrompere il protrarsi di una situazione oggettivamente intollerabile.

E per analoga ragione all’indulto dovrebbe essere unita anche un’amnistia per un certo numero di reati selezionati tra quelli minori e di minor allarme sociale. L’amnistia, che estingue il reato, ridurrebbe la massa di 3,4 milioni di procedimenti pendenti e largamente destinati comunque alla prescrizione. Anch’essa peraltro contribuirebbe a ridurre il numero dei detenuti, che spesso scontano pene per reati minori unitamente a quelle per i reati più gravi.

In mancanza di alternative rapidamente praticabili ed efficaci, rifiutare la soluzione dell’indulto significa che si è pronti a tollerarla. Purtroppo è ciò che avviene. Il governo, alle prese con problemi di natura economica urgenti e costretto ogni giorno ad osservare il sismografo dei malumori e degli interessi dei partiti che lo sostengono in Parlamento, rinvia ad una iniziativa parlamentare. Dal Parlamento, ove sarebbe necessaria una maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, non arrivano proposte, perché il partito che dimostrasse di essere disponibile a sconti di pena sarebbe subito aggredito dai partiti all'opposizione, che griderebbero al tradimento del diritto dei cittadini alla sicurezza. E, in prossimità di elezioni, il rischio di pagare un prezzo elettorale è reale.

Fermo quindi il «governo tecnico» e ferma la «politica», che si ritrae da un terreno in cui i soli radicali sembrano impegnati a mantenere vivo il dibattito sui temi dei diritti e delle libertà; temi che, essendo controversi, sono scomparsi dall’orizzonte delle iniziative altrui. Perché l’emergenza economica e finanziaria in cui l’Italia si trova, tra i tanti pesi che impone, provoca anche il grave silenzio sulle questioni di cittadinanza che, sebbene (sanamente) divisive, restano inevitabili per rendere viva e civile la nostra società

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« Risposta #14 inserito:: Febbraio 25, 2012, 04:40:23 pm »

24/2/2012

Noi brava gente? Non è sempre vero

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

L’Italia non pratica e anzi vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. L’Italia assicura asilo ai profughi secondo le regole internazionali. Italiani brava gente.

La sentenza che i diciassette giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno ieri all’unanimità emesso, ci dice che non è sempre vero e che qualche volta c’è scarto tra la realtà e la diffusa convinzione di esser noi all’avanguardia delle nazioni civili. Occasione quindi di riflessione e reazione, per far sì che quello scarto non ci sia mai più.

I fatti oggetto della sentenza vennero all’epoca molto pubblicizzati. Canali televisivi influenti ne dettero compiaciuta notizia, come di un’occasione in cui il governo aveva dimostrato la sua efficienza nel difendere i confini dall’invasione di migranti illegali. Invece di continuare a ricevere stranieri sulle nostre spiagge, per poi dover iniziare la difficile e spesso impossibile pratica dell’espulsione, semplicemente erano state inviate navi militari a intercettare in alto mare e a riportare indietro, in Libia, gli indesiderati barconi ed il loro carico umano. Semplice, economico e pratico, «poche storie!». Come ricordò il ministro dell’Interno in Senato si trattava di applicare l’accordo firmato nel 2009, sotto la tenda di Gheddafi. In quell’anno furono eseguite nove operazioni simili e centinaia di migranti furono respinti in quel modo. L’accordo italo-libico è poi stato sospeso nel 2011 nel corso della recente rivoluzione libica.

La Corte europea ha giudicato sul ricorso di undici somali e tredici eritrei respinti in Libia con quelle modalità. Essi hanno sostenuto che l’Italia li aveva esposti al rischio di trattamenti inumani da parte delle autorità libiche e di quelle del Paese di origine, se fossero stati colà riportati, e che l’Italia aveva eseguito una «espulsione collettiva», proibita dalle convenzioni internazionali e in particolare dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le modalità poi del respingimento avevano impedito ai ricorrenti di ottenere il controllo giudiziario della loro posizione. Una serie di autorevoli organismi internazionali è intervenuta davanti alla Corte, in appoggio ai ricorrenti. Tra questi gli uffici dell’Alto Commissario ai Rifugiati e dell’Alto Commissario ai diritti umani delle Nazioni Unite.

La Corte ha innanzitutto dichiarato che i ricorrenti erano stati imbarcati a bordo delle navi italiane e che quindi, secondo la legge internazionale e italiana, si erano venuti a trovare nella giurisdizione dello Stato italiano: sotto il controllo continuo ed esclusivo, di diritto e di fatto, delle autorità italiane, tenute ad osservare le disposizioni della Convenzione europea. La Corte ha affermato che le autorità italiane avevano consegnato i ricorrenti a quelle libiche nella piena consapevolezza del trattamento che rischiavano. Come accertato da organizzazioni internazionali serie ed affidabili come Amnesty International e Human Rights Watch e come anche confermato dal Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa, i migranti respinti in Libia erano messi in detenzione in condizioni inumane, anche con casi di tortura. E lo stesso rischio vi sarebbe stato se e quanto dalla Libia i ricorrenti fossero stati riportati in Somalia o Eritrea, dove esisteva una pratica di detenzione e tortura dei cittadini che avevano tentato di lasciare il Paese.

La Corte ha quindi affermato che l’Italia aveva violato il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti. Si tratta di un divieto assoluto, che non riguarda solo il comportamento diretto delle autorità statali, ma anche quello indiretto del trasferimento ad altro Stato ove quelle pratiche hanno luogo. Non solo quindi il divieto di torturare, ma anche quello di non trasferire la persona in uno Stato ove sarà esposto al rischio di tortura o trattamento inumano. Lo stesso meccanismo della protezione anche indiretta opera quando l’espulsione o l’estradizione è verso uno Stato che pratica la pena di morte.

La violazione di cui l’Italia è stata ritenuta responsabile è tra le più gravi. Colpisce che essa si riferisca ad azioni che gli equipaggi delle navi militari sono stati obbligati a compiere, dopo che in altre circostanze quello stesso personale militare si era guadagnato l’ammirazione per l’opera efficace e rischiosa compiuta, secondo la legge del mare, per soccorrere battelli in difficoltà, scortarli a terra e salvarne da morte gli occupanti. Per questa loro attività quegli equipaggi erano stati elogiati dal Commissario di diritti umani del Consiglio d’Europa.

La Corte europea ha anche ritenuto che l’Italia abbia commesso una violazione del divieto di «espulsione collettiva», di espulsione cioè in blocco, senza esame della situazione individuale di ciascuna persona. Senza identificazione e accertamento dei motivi che inducono la persona alla fuga dal suo Paese, non si può accertare se l’espulsione crei pericolo per la vita o l’incolumità della persona o di persecuzione politica o religiosa o altro. Il diritto al rifugio che un migrante può avere non è assicurato quando, com’è avvenuto, non si accerti la condizione personale di ciascuno. La pratica della riconsegna collettiva alla Libia di tutti i migranti raccolti in mare, ha evidentemente impedito ogni esame individuale e, a maggior ragione, il ricorso a un giudice.

La sentenza è definitiva. I principi affermati - non nuovi nella giurisprudenza della Corte europea - valgono per l’Italia come per tutti i quarantasette Paesi del Consiglio d’Europa. Ed anche, val la pena di ricordare, per i Paesi membri dell’Unione Europea quando definiscono la politica e le iniziative comunitarie di contrasto e gestione dell’immigrazione irregolare. Ma intanto e innanzitutto il governo italiano (il nuovo governo) deve dare esecuzione alla sentenza, non solo indennizzando i ricorrenti, ma anche cessando pratiche come quelle che la Corte ha condannato ed assicurando a tutti coloro che in qualunque modo, anche irregolare o illegale, vengono a trovarsi nella giurisdizione italiana, il pieno ed eguale godimento dei diritti fondamentali. Diritti che non appartengono ai soli cittadini, ma sono propri di tutte le persone umane.

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