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Autore Discussione: PAOLO BARONI. Scure e cacciavite  (Letto 7079 volte)
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« inserito:: Dicembre 29, 2011, 03:51:35 pm »

Economia

29/12/2011 - DOSSIER

E il governo accorcia le scadenze del debito

L’anno prossimo dovremo piazzare sul mercato bond per 440 miliardi

Per battere il clima di sfiducia più emissioni a tre mesi, addio al trentennale.

Obiettivo: fronteggiare la necessità di fondi al prezzo più basso possibile

PAOLO BARONI
Roma

La parola d'ordine è flessibilità. E poi più Bot a tre mesi e meno Btp a 30 anni, più titoli a breve, brevissimo termine e meno a lungo.
E ancora, nuovi strumenti (come i titoli venduti on line direttamente ai singoli risparmiatori) e nuovi modi per aggredire, o se vogliamo «imbrogliare», il mercato, nel senso di giocare sempre in contropiede, non svelare in anticipo le proprie mosse, sviare insomma la speculazione.

Al Tesoro l'asta di Bot e Ctz di ieri, che ha visto crollare i rendimenti, è stata ovviamente salutata con favore. Ma questo non basta per dormire sonni tranquilli. Oggi si replica con i Btp e Cct a media-lunga scadenza per un ammontare che oscilla tra i 5 e gli 8,5 miliardi, e poi c'è un inizio di 2012 tutto in salita.

Inizio anno da brividi Nell'anno che sta per arrivare, infatti, l'Italia dovrà piazzare sui mercati internazionali la bellezza di 440 miliardi di euro di titoli, 40 in meno del 2010, addirittura 90 meno del 2009, ma pur sempre una bella cifra. Solo di Bot, Btp, Cct e Ctz, il totale fa 317 miliardi di euro in scadenza, di questi circa la metà dovrà essere rinnovato nei primi quattro mesi dell'anno: a gennaio scadono infatti 15,2 miliardi di Bot, a febbraio in un colpo solo 16,7 miliardi di Bot, 25,8 di Btp, 10,6 di Ctz (per un ammontare complessivo di 53,2 miliardi), poi altri 44,3 miliardi a marzo ed altri 45,3 ad aprile. La mole di titoli pubblici da piazzare e la schizofrenia dei mercati hanno indotto il Tesoro a serrare i ranghi. «In considerazione delle rilevanti turbolenze che stanno investendo i mercati dei titoli di stato di buona parte della zona euro», stando alle Linee guida per il 2012 rese note l'altro ieri, il nostro governo «farà ricorso ad alcuni accorgimenti tecnici che, in aggiunta a quelli già introdotti negli ultimi quattro anni, contribuiranno a garantire il buon funzionamento del mercato secondario e ottenere, attraverso la gestione della composizione del debito, un'adeguata esposizione ai principali rischi di mercato». Le mosse del Tesoro Oltre alle aste di titoli «on-the-run» indicate trimestralmente, continuerà ad avvalersi di emissioni di titoli non più in corso di emissione («off-therun») e potrà anche fare ricorso ad aste fuori dal calendario per «soddisfare specifiche esigenze espresse dagli investitori» e per rispondere a «esigenze di gestione del debito dell'emittente», ovvero dello Stato.

Lo stesso calendario delle aste del Tesoro è stato poi in parte modificato proprio nei giorni scorsi: le date delle aste dei Btp a 3 e a 5 anni anni all'interno del mese verranno invertite, cosicché i triennali verranno offerti a metà mese e i quinquennali a fine mese.
I titoli a lunga scadenza, 15 e 30 anni, continueranno ad essere offerti, «se il mercato ne offre l'opportunità», a metà mese.
Cambiamenti ci sono anche per il calendario delle aste sui titoli a tasso variabile, i «CCTeu» indicizzati al tasso euribor, che dall'anno prossimo «verranno organizzate una volta a trimestre e, nel trimestre, verrà scelto il mese che presenti la situazione più favorevole sia sul piano della domanda che della liquidità sul mercato secondario». Inoltre la scadenza che di norma verrà scelta per il lancio dei nuovi titoli sarà quella quinquennale, posto che l'esperienza di questi anni insegna che tra titoli a 5 e a 7 anni il mercato preferisce i primi, sono più «stabili». I Cct in scadenza (quelli indicizzati ai Bot a 6 mesi) nel 2012 saranno 25,7 miliardi, 4 in meno rispetto al 2011: di norma questi titoli non verranno più offerti, ma qualora servisse a risolvere alcune criticità o il mercato ne facesse richiesta il Tesoro è pronto a fare dietrofront.

Pagare meno Ad andare per la maggiore, nel corso del prossimo anno, secondo il Tesoro saranno però i titoli a brevissimo, su cui il dicastero di via XX Settembre intende essere «molto attivo». Parliamo di Bot trimestrali o con scadenze non standard (i cosiddetti Bot flessibili) e di Commercial Paper (il cui programma viene portato da 10 a 15 miliardi). Commenta l'economista Giacomo Vaciago: «Se siamo d'accordo che la speculazione prima o poi perde, è inutile mandare a conto economico per dieci anni tassi così alti ed è meglio non emettere decennali», ma privilegiare i Bot che consentono di pagare meno. Mentre sui titoli a lunga scadenza «c'è speculazione perchè c'è la paura che nei prossimi dieci anni prima o poi possiamo finire nei guai, cosa che onestamente in questa fase di grande turbolenza non si può escludere».

Nel 2012 (a marzo, giugno, ottobre e dicembre) scadranno anche due Eurobond e due Global bond per un ammontare complessivo di 8,5 miliardi di dollari ed il Tesoro si ripromette di tornare anche sul mercato internazionale con questo tipo di emissioni, a patto però che «le condizionidi mercato lo permettano». Appunto il mercato, dipende tutto da lui. Perché nell'ultimo anno abbiamo già pagato oltre 70 miliardi di euro di interessi, e dopo questo terribile fine anno (che ha visto ad esempio i rendimenti sui Bot schizzare dall'1,8% ad oltre il 6,6%), il conto è già salito oltre quota 77 miliardi. E in attesa di misure straordinarie di abbattimento del debito pubblico, sarebbe bene per tutti fermarci qui.

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/436136/
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 03, 2012, 11:46:01 am »

3/1/2012

Una strada in salita

PAOLO BARONI

Facile dire lavoro. Che quella occupazionale sia una vera emergenza ce lo dicono le cronache di tutti i giorni (quelle che raccontano delle proteste) e le statistiche, ufficiali e non. Se nel calcolo della disoccupazione si tiene conto degli operai in cassa integrazione a zero ore l’indice schizza dall’8,5 ufficiale al 13 per cento. La crisi non solo è drammatica ma ormai è conclamata.

Le ricette per affrontarla, però, sono tutt’altro che chiare. Anzi, l’impressione è che le due agende, quella del governo e quella dei sindacati, proprio non coincidano. L’esecutivo, quando parla di lavoro, pensa essenzialmente alle regole, alla riforma dei contratti, «senza escludere nulla» e «senza pregiudizi», come hanno ripetuto negli ultimi giorni sia il presidente del Consiglio sia il ministro del Lavoro.

La questione articolo 18, o se vogliamo, nella sua traduzione più comune, il tema della libertà di licenziare, dopo le polemiche di fine anno, non è formalmente sul tavolo.

Ma il punto, per l’esecutivo, è - e resta - sempre quello: creare le migliori condizioni per le imprese, semplificare le procedure e metterle nelle condizioni di assumere più facilmente. Certo, si parla anche di nuovi ammortizzatori, ma finora l’enfasi è sempre stata messa sul primo tema. E comunque, molto pragmaticamente, il ministro Fornero fa anche sapere che «tesori nascosti» per finanziare nuovi interventi non ce ne sono e che il governo può eventualmente scrivere nuove regole, ma non può certamente creare dal nulla nuovi posti.

Di contro i sindacati puntano ad altro. Parlano sempre di lavoro, ma chiedono un piano complessivo. Pensano ad un grande patto governo-parti sociali dove la questione delle regole può essere solo uno dei temi di discussione, non certo quello centrale. Pensano innanzitutto ai soldi. Sollecitano nuovi ammortizzatori, e poi chiedono - legittimamente dal loro punto di vista - interventi per ridurre la precarietà. Ovvero maggiori protezioni, che non è la stessa cosa delle semplificazioni che potrebbero essere introdotte con un ipotetico «contratto unico» o «contratto prevalente» che sia.

A parole il ministro Fornero, sin dalla sua prima dichiarazione pubblica, a Torino due giorni dopo l’insediamento del nuovo governo, prendendo spunto dalle vicende Fiat, aveva detto di volersi schierare assolutamente dalla parte dei lavoratori. E questa è la linea che intende seguire nella partita che sta per aprirsi ora. Il messaggio, però, non sembra sia stato colto a pieno dai sindacati che il primo dell’anno hanno rilanciato con molta forza l’allarme lavoro. E che ora pressano Monti e c. per interventi rapidi in grado di tamponare la crisi.

La questione-tempo è certamente condivisa da Monti, che però, in questo schema di convergenze divergenti, la legge tutta a suo modo: massima disponibilità al dialogo «pur nell’esigenza di operare con la sollecitazione imposta dalla situazione». Che nella traduzione data da osservatori e stampa è diventata: vediamoci, ma al Consiglio dei ministri del 20 gennaio, in vista dell’Eurogruppo del 23, io dovrò comunque portare un primo abbozzo di misure. Tempi certamente troppo stretti per i sindacati, abituati a ben altre liturgie, ma - ad onor del vero - troppo stretti anche per produrre una riforma che abbia un minino di senso compiuto.

La strada, insomma, è in salita. Ed i rischi di ulteriore innalzamento dei toni e dello scontro sono destinati ad aumentare. Se poi, come è dovuto, il confronto si allarga a tutte le parti sociali, a cominciare da Confindustria (che vorrebbe più flessibilità ma non vuol rompere con la Cgil, che soffre l’articolo 18 ma vorrebbe intervenire anche sul 30 relativo ai poteri dell’imprenditore), la partita rischia di complicarsi ancora di più. Perché a questo punto le agende che finiscono per non collimare rischiano di essere addirittura tre.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9607
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« Risposta #2 inserito:: Maggio 01, 2012, 12:08:52 pm »

1/5/2012

PAOLO BARONI

Si parte piano, ma i 4,2 miliardi di risparmi annunciati ieri dal governo dovrebbero bastare ad evitare il ventilato aumento dell’Iva di ottobre.

Perché la spending review, la revisione della spesa pubblica, non è certo un’operazione facile. Chiede tempo, tenacia, e non ammette compromessi. Serve il lavoro di fino, il «cacciavite» evocato da Bersani, ma ogni tanto richiede anche la «mazza», o la «scure» che dir si voglia, come i tanti vituperati «tagli lineari» introdotti da Tremonti, utili non foss’altro per superare le resistenze di ministri e burocrazie statali.

Il cacciavite da solo non basta perché, l’ha spiegato bene «La Stampa» domenica, declassando una prefettura - che è già un gran lavoro - si risparmia un milione di euro appena. Mentre la cassa piange e reclama miliardi per conseguire il pareggio di bilancio e magari, più in là, avviare il taglio delle tasse. Serve di più, insomma. Serve un lavoro intenso. Il governo ieri, smentendo le indiscrezioni della vigilia, ha deciso di partire seriamente all’attacco mettendo nel mirino ben 295 miliardi di euro di spesa definita «rivedibile».

A breve termine sotto la lente di una commissione interministeriale presieduta da Monti in persona, e composta dai ministri Giarda e Patroni Griffi, dal numero due dell’Economia Grilli e dal sottosegretario alla presidenza Catricalà, finirà un quarto di questa torta, pari a 80 miliardi. Anche i ministeri dovranno fare la loro parte. Entro due mesi dovranno indicare la loro fetta di sacrifici che intendono conseguire entro l’anno. Interno, Giustizia, Difesa, Esteri e Pubblica istruzione hanno già avviato i lavori. Anche i Trasporti saranno chiamati ad una mezza rivoluzione e poi toccherà alla Sanità, che da sola vale 97,6 miliardi di «spesa rivedibile» pari a un terzo dell’intero ammontare. Il governo, poi, non intende risparmiare né le imprese, né i partiti ed i sindacati, e per questo ha incaricato rispettivamente Francesco Giavazzi e Giuliano Amato di fornire analisi, raccomandazioni e orientamenti su questi campi.

A vigilare su quest’operazione «Risparmia-Italia», oltre al Comitato-Monti, ci sarà un commissario straordinario, Enrico Bondi. L’ex commissario Parmalat avrà innanzitutto il compito di razionalizzare la spesa per gli acquisti per beni e servizi, con un mandato che spazia dai ministeri alle agenzie, dalle authority (anche quelle indipendenti) a enti locali e Regioni. Bondi potrà anche segnalare al governo leggi e regolamenti che determinano inutili aumenti di costo, sollecitare accertamenti della Ragioneria, proporre revoca e sospensione di singole procedure ed introdurre anche nuovi obblighi informativi a carico delle amministrazioni pubbliche. Qualcuno, in particolare dal Pdl, ha criticato questa nomina definendola una «autobocciatura del governo dei tecnici». In realtà alcune delle esperienze internazionali più riuscite nel campo della spending review prevedono proprio che a guidare le scelte su tagli e risparmi in un determinato ministero, ente o amministrazione, non sia il ministro competente o il dirigente di turno ma una figura esterna. Altrimenti il rischio, in molti casi, può essere quello di sentirsi rispondere «abbiamo già dato». Un ritornello che nei corridoi di tanti ministeri romani, in questi giorni, è tornato a risuonare.

Basterà tutto ciò a conseguire gli obiettivi che il governo si è dato? Ce ne accorgeremo presto se agli annunci non seguiranno i fatti, col rischio che a ottobre il governo sia comunque costretto a portare l’Iva al 23%. Certo, come indicava domenica la Bce, riforme più radicali, come l’accorpamento delle Province, insomma interventi di vera destrutturazione della macchina-Stato, potrebbero portare risultati più consistenti. Ma in che tempi? E con quali sforzi? Sicuramente si andrebbe oltre l’orizzonte temporale del governo che, intanto, in molti ambiti ha già deciso di uscire dalla dimensione provinciale della propria presenza. E questo è già un primo importante passo. Bisogna ovviamente continuare su questa strada.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10050
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« Risposta #3 inserito:: Luglio 06, 2012, 11:06:41 am »

6/7/2012

L'importanza del primo passo

PAOLO BARONI

Non è la stangata da 10 miliardi in sei mesi, che poi diventavano 50 in due anni e mezzo, ma il pacchetto di tagli e risparmi passato ieri al vaglio dell’ennesimo Consiglio dei ministri fiume è di quelli destinati a pesare. O se vogliamo, a mordere la carne viva del corpaccione pubblico. Non c’è il taglio di 100-200 mila statali o la cancellazione di 50 Province, come ipotizzato in questi giorni, men che meno l’impossibile blocco delle tariffe, che pure avrebbe fatto comodo a tante famiglie; ma l’operazione spending review parte bene. Entrando magari anche un po’ brutalmente nelle pieghe del bilancio il tandem Monti-Bondi taglia spese e sprechi, negli acquisti di enti e ministeri come nella sanità, impone sacrifici nelle parti ancora «grasse» della macchina dello Stato, abolisce qualche altro ente «inutile», mette a stecchetto travet e amministrazioni, impone un nuovo giro di vite sulle auto blu. Nella sanità, oltre a mettere sotto stretto controllo le spese, e fare quindi in modo che una siringa che vale due centesimi non venga  pagata 8 e che una protesi da 250 euro non si acquisti a 1200, come avviene oggi in gran parte delle Asl, è prevista una severa razionalizzazione dei posti letto che verrebbero ridotti di circa 18 mila unità.

Senza contare poi che anche i piccoli ospedali, con meno di 120 posti, dovranno essere sottoposti ad una attenta valutazione. Nel settore pubblico verranno tagliati il 10% degli impiegati ed il 20% dei funzionari, saranno sforbiciati i ticket restaurant, introdotti giudizi di valutazione (pagelle) per tutti i dipendenti e disincentivati quelli che tendono ad accumulare ferie. Perché quelle residue d’ora in poi non saranno più pagate. Nel settore della Difesa si pensa poi ad una accelerazione della riorganizzazione, con un taglio di quasi 20 mila unità, e ad una severa revisione delle spese per le missioni estere. Con un provvedimento a parte si interverrà pure sulla giustizia: il piano Severino prevede il taglio di 295 tra procure, tribunali e sedi distaccate.

Scelte impopolari, ma utili. Scelte anche non facili da prendere in molti casi.
O contestatissime in altri, si veda lo scontro violentissimo Regioni-governo per i tagli alla sanità, le proteste del Pd e di tante categorie.

Vista da fuori la «spending review» ha il pregio di mettere effettivamente mano da subito a tante spese, tagliando quelli che appaiono con tutta evidenza prezzi eccessivi, cifre pagate in più senza motivo per beni e servizi. L’esatto contrario di quanto avveniva in passato, quando andavano per la maggiore tagli lineari, ovvero indiscriminati, senza alcuna selezione delle voci colpite, o ancora peggio interventi che producevano risparmi solo sulla carta.

Basterà questo decreto? Verrebbe da dire di no, per due ragioni: perché molti interventi, a cominciare dall’abolizione delle Province sono stati rinviati, e perché lo spauracchio dell’Iva non è del tutto dissolto. Per ora infatti l’aumento delle aliquote è rinviato solamente sino al giugno 2013. Per cancellarlo del tutto servono più risorse. Però, intanto, possiamo incassare il fatto che col decreto in arrivo il governo evita il primo degli aumenti, quello di due punti previsto per ottobre. Ed in più assicura adeguata tutela ad altri 55 mila esodati, oltre ai 65 mila già coperti col primo decreto Monti-Fornero. Come primo passo non è male.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10304
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 27, 2012, 06:15:45 pm »

Editoriali
27/11/2012

Un colpo alla credibilità del Paese

Paolo Baroni


Con l’Ilva che si ferma, e con lei una quota rilevantissima della produzione siderurgica italiana che viene azzerata, la crisi di Taranto supera definitivamente il livello di guardia. 

I sindacati la chiamano «la catastrofe»: 12 mila addetti a spasso che diventano 25 mila contando anche gli stabilimenti di Genova, Novi Ligure, Racconigi e Marghera e tutto l’indotto. Un colpo per queste realtà, ma anche per l’intera industria nazionale e per certi versi anche alla credibilità del Paese.

Schiacciata tr a ingiunzione della magistratura, inchieste e nuovi arresti, un’opera di risanamento ambientale tanto indifferibile quando ciclopica ed una situazione politica e sociale pericolosissima, a Taranto ora - come racconta Guido Ruotolo nelle sue cronache - si rischia una vera e propria guerra civile. Uno scontro violento che va ben oltre la contrapposizione di questi ultimi tempi (ma anche di questi ultimi anni) tra lavoro e salute delle popolazioni. Un problema troppo grande ora da affrontare, per le dimensioni di quest’impianto, l’acciaieria più grande d’Europa, e troppo a lungo sottovalutato, dai governi come pure dagli enti locali. 

Ora che la polveriera-Taranto rischia di scoppiare davvero si cerca per l’ennesima volta di correre ai ripari, si torna al tavolo del governo, si invoca l’intervento di Monti. Che a questo punto per tenere assieme le ragioni degli uni, i magistrati che qualcuno accusa di eccessivo accanimento ma che al loro fianco hanno tanti cittadini per anni esposti alle peggiori sostanze inquinanti, e degli altri (i lavoratori, ma anche l’azienda e con lei l’economia di una regione e poi di un’intera filiera industriale) non potrà che ricorrere a gesti straordinari. 

Come un decreto che congeli tutta la situazione, consenta di attuare la bonifica (che a fabbrica chiusa ovviamente nessuno finanzierebbe) ed al tempo stesso permetta magari ridotti ma significativi livelli di produzione e quindi di lavoro. Anche questo sarebbe un gesto straordinario, un cambio delle regole mentre la partita è già in corso, certamente uno strappo nei rapporti governo-magistrati. Ma a questo punto un gesto del genere diventa forse inevitabile. Per mettere un punto fermo alla vicenda e poi poter ripartire, magari non con la maggiore serenità che una partita così complessa invece richiederebbe, ma almeno con qualche punto fermo, con qualche certezza in più rispetto al gran pasticcio di oggi. 

Twitter@paoloxbaroni 

da - http://lastampa.it/2012/11/27/cultura/opinioni/editoriali/un-colpo-alla-credibilita-del-paese-JLAskR57dRH5JOP1g2bz4M/pagina.html
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« Risposta #5 inserito:: Marzo 22, 2014, 07:36:38 pm »

Editoriali
21/03/2014

Tagli facili e tagli pericolosi

Paolo Baroni

Arrivare a risparmiare 34 miliardi su un bilancio dello Stato che ne assorbe più di 700 sulla carta non dovrebbe essere un gran problema, perché alla fine stiamo parlando di un 5% scarso di spesa. Ciò non toglie che quello della spending review che il governo sta avviando si presenti come un vero e proprio percorso di guerra, fatto comunque di trabocchetti, ostacoli burocratici, prassi da scardinare, ma soprattutto volontà politiche da affermare e imporre ad ogni livello. 

Partendo dal presupposto che il Paese non può più permettersi sprechi, le 70 pagine messe a punto dal «commissario straordinario per la revisione della spesa» Carlo Cottarelli forniscono al governo il menù completo dei possibili interventi, da pure e semplici azioni di «efficientamento» a veri e propri tagli, come quelli ipotizzati sulle pensioni (e già esclusi da Renzi). Sarà banale dirlo, ma mai come in questa occasione il pallino è in mano alla politica. Al governo. Al presidente del Consiglio Matteo Renzi, che già in altre occasione ha dimostrato che quando vuole sa e può procedere con l’energia di una schiacciasassi.

La lista «ideale» dei risparmi, degli interventi da mettere in campo e delle riforme da avviare, però, è molto articolata e che ben si comprende come in passato altri governi abbiano preferito la via breve (e spesso molto brutale) dei tagli lineari. Se non si procede così, l’altra strada che si può percorrere è quella che suggerisce Cottarelli: prima si fa una mappatura completa di tutte le voci «aggredibili» e poi si procede con interventi molto focalizzati, si potrebbe dire chirurgici.

Il programma messo a punto in questi mesi presenta difficoltà crescenti. Su 33,9 miliardi di risparmi che si pensa di conseguire in tre anni, ben 12,1 arrivano da interventi di efficientamento diretto. Ad esempio basterebbe concentrare in poche centrali d’acquisto, 30-40 contro le attuali 32 mila (!), il grosso delle forniture pubbliche per arrivare a risparmiare ben 7,2 miliardi. Senza tagliare sulle quantità, senza provocare danni «collaterali», ma semplicemente per effetto delle economie di scala. Per procedere basta la decisione politica, per gli acquisti come per gli affitti degli immobili, consulenze ed auto blu, i corsi di formazione e gli stipendi dei dirigenti. 

Alzando il tasso di complessità degli interventi si arriva al capitolo «Riorganizzazioni», una manovra che in tre anni potrebbe portare a farci risparmiare altri 5,9 miliardi: a patto che si riformino le province (500 milioni di risparmi) e di conseguenza si adegui la rete di prefetture, vigili del fuoco e capitanerie di porto, si accelerino le sinergie tra i corpi di polizia (1,7 miliardi al 2016) e si mandi avanti il progetto della digitalizzazione della pubblica amministrazione (fattura elettronica ed altro) che vale altri 2,5 miliardi. Con i «costi della politica» (organi di rilevanza costituzionale, Comuni, Regioni e partiti) si possono recuperare altri 900 milioni. E qui, se ad esempio sparisce il Cnel non muore nessuno, ma forse abolire l’Istituto per il commercio estero non rende un buon servizio alla promozione del nostro export.

I problemi più rilevanti arrivano con gli ultimi due blocchi di misure. Per quanto «inefficienti» il taglio di una serie di altri trasferimenti impatta direttamente con l’economia reale e a volte anche con le tasche dei cittadini. Per Cottarelli questa voce «vale» altri 7,1 miliardi. Giusto colpire abusi su pensioni di invalidità e indennità d’accompagnamento (400 milioni in tutto), ma tagliare 3 miliardi di trasferimenti alle imprese non può non produrre effetti negativi sul sistema produttivo. Idem i 3,5 miliardi che si potrebbero ricavare «rifilando» gli stanziamenti destinati al trasporto pubblico locale (2 miliardi) e alle ferrovie (1,5 miliardi). Perché se è vero che anche in qui abbiamo molte spese fuori linea rispetto alle medie Ue, l’esperienza ci insegna che alla fine si finisce solo col tagliare i servizi (bus e treni) o con aumenti di tariffe.

Secondo blocco delicato, le «spese settoriali» (difesa, sanità, pensioni), valore 7,9 miliardi. Qui il rischio che si tocchi carne viva è concreto. Si può decidere di non farne nulla, come sulle pensioni (2,9 miliardi il pacchetto completo di cui 1,5 solo per effetto di una nuova indicizzazione degli assegni) o si può tirare dritto. Come sulla Difesa, F35 ma non solo, sapendo però che una parte importante dei 2,5 miliardi che si vogliono togliere da questa voce poi sono tolti essenzialmente alle nostre industrie del settore. Anche qui si può razionalizzare molto, a patto di sapere cosa si sta facendo.

Twitter @paoloxbaroni 

DA - http://lastampa.it/2014/03/21/cultura/opinioni/editoriali/tagli-facili-e-tagli-pericolosi-G807v9H3A4MW1HUX68HKAN/pagina.html
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« Risposta #6 inserito:: Aprile 21, 2014, 11:23:22 pm »

Editoriali
20/04/2014
L’investimento sul ceto medio
Paolo Baroni

I gufi almeno per un po’ smetteranno certo di gufare, i rosiconi invece probabilmente continueranno a tormentarsi sostenendo, magari, che la manovra di Renzi non funzionerà. Il taglio del cuneo fiscale però è varato, e a partire da fine maggio regalerà a 10 milioni di italiani 640 euro netti in sette mesi. Sono 80 euro in più al mese e per chi guadagna 1200-1500 euro è come se gli entrasse in busta paga l’equivalente di un rinnovo contrattuale. Non poco di questi tempi. 

Certo gli incapienti, tutti quelli che stanno sotto la soglia degli 8 mila euro e che non pagando tasse il bonus non lo possono ricevere, sono rimasti a bocca asciutta. Ma per soddisfare anche loro sarebbero serviti almeno altri 2 miliardi e mezzo di euro. Renzi e Padoan, lo si è capito dal tira e molla degli ultimi giorni e dal menù finale delle coperture squadernato venerdì al termine del Consiglio dei ministri, hanno fatto fatica a trovarne 6,9, immaginiamoci dover arrivare a 9,5. 

Se Renzi avesse seguito le logiche che in passato hanno ispirato le mosse di altri governi molto probabilmente non avrebbe fatto nulla. Condannando il paese a restare inchiodato, fermo a boccheggiare sulla soglia di una crescita dello zero virgola. 

Inaccettabile per uno come il nostro presidente del Consiglio, un tipo che certo ha già dimostrato di non conoscere le mezze misure e che pertanto, anche in questa occasione, ha deciso di scartare mettendo in campo il massimo delle risorse possibili pur di dare una spinta alla crescita. Sul fronte delle entrate il governo è così andato a colpo sicuro spremendo nuovamente le banche e aumentando le tasse sulle rendite finanziarie (per iniziare a sforbiciare l’Irap pagata dalle imprese), operazione che garantisce cassa e pure consenso popolare. Quindi ha frantumato la revisione della spesa in cento capitoli: un po’ dallo Stato, un poco dalle Regioni e un poco dai Comuni, un poco alle caste (dagli alti burocrati ai politici), senza «dimenticare» la Rai e gli editori di giornali. Dunque un poco da tutti, puntando al sodo, all’incasso sicuro.

Renzi ha insomma fatto tutto il possibile, anche abbondando con le una-tantum, pur di portare a casa le famigerate coperture necessarie a tagliare il cuneo fiscale. Il premier è infatti convinto che assieme a quella delle riforme, questa sia la sua vera scommessa, una di quelle su cui si gioca davvero la faccia. Ma mentre per il Senato si parla del 2015, questa ha un orizzonte temporale molto più ravvicinato. Diciamo i sette mesi di validità del bonus. 

 

Di qui a fine anno per consentire al governo di uscirne bene dovranno però realizzarsi due condizioni. La prima, la più importante, quella a cui il governo preme di più, è il consolidamento della crescita (e quindi la ripresa del lavoro), a cui dovrebbe certamente contribuire l’operazione 80 euro, così come l’accelerazione dei pagamenti degli arretrati della pubblica amministrazione. Più liquidità nelle tasche degli italiani e a disposizione delle imprese infatti dovrebbero, nel primo caso, far riprendere i consumi interni; e nel secondo accelerare la ripresa degli investimenti. La seconda condizione riguarda il conseguimento dei target di risparmio: entro l’anno capiremo se lo Stato è davvero capace di riformarsi e mettere a segno quelle economie di cui si parla da tempo, se la spending review è solo una cortina fumogena oppure un vero progetto di riforma di tutta la macchina pubblica.

La scommessa di Renzi è però anche una scommessa sul ceto medio italiano, su una fascia di popolazione che più di altre, negli anni passati, si è fatta carico del risanamento del Paese, e che da tempo aspetta dal governo un segnale di attenzione. Annunciare un provvedimento a suo favore e mantenere la promessa fatta nei tempi indicati contribuisce certamente a rafforzare gli indici di fiducia delle famiglie. E’ questa, al pari dei soldi in più in busta paga, è la miglior cura che si possa immaginare per un Paese ancora malato. Alla faccia dei gufi i segnali ci sono tutti (ad aprile, secondo l’ultima ricerca Censis-Confcommercio, per la prima volta dal 2011 il numero degli ottimisti ha superato quello dei pessimisti di 12 punti) e ci dicono che siamo sulla buona strada. Vedremo poi a fine anno se i conti torneranno davvero tutti.

Twitter @paoloxbaroni

Da - http://lastampa.it/2014/04/20/cultura/opinioni/editoriali/linvestimento-sul-ceto-medio-PpzD4whSBjN8fGMaVmU7EM/pagina.html
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« Risposta #7 inserito:: Aprile 25, 2014, 06:27:26 pm »

Politica
24/04/2014
Precisazioni al decreto? Una lunga lista
Dal bonus come una tantum all’assenza di tagli, dal prelievo sulla rivalutazione delle quote di Bankitalia alla norma per le imprese. Le perplessità sono tante

Paolo Baroni
Roma

Se si vogliono cercare criticità al decreto fiscale il presidente della Repubblica non ha che l’imbarazzo della scelta. La più evidente è che per ora l’intervento di riduzione fiscale - il bonus da 80 euro - è una tantum e non strutturale, cosa che fa dire alle opposizioni che si tratta di una manovra di puro stampo elettorale. In più è stata coperta soprattutto con nuove tasse e non con i tagli come annunciato in un primo momento dal governo e auspicato dalle buone regole che dovrebbero governare una sana gestione dei conti pubblici.

Se poi si vuole entrare nel dettaglio proprio delle misure fiscali l’aver aumentato il prelievo sulla rivalutazione delle quote di Bankitalia, facendo pagare alle banche un importo maggiorato ed in un’unica rata (mentre la legge originaria approvata alla fine dell’anno scorso parlava di tre), sfiora l’incostituzionalità. Mentre la norma che si vuole imporre alle imprese, che a loro volta dovranno saldare in un’unica rata anziché in tre le tasse sulle plusvalenze generate dalla rivalutazione dei loro beni, certamente è come minimo una violazione dello statuto del contribuente. Che predica, spesso inutilmente, l’invarianza delle norme fiscali. Mentre invece così le imprese interessate dovranno, non si sa come, rifare i bilanci già approvati.

Se questi punti venissero impugnati dai soggetti interessati il castello di carte del governo sarebbe seriamente a rischio. Nel decreto, come sappiamo, ci sono poi risparmi messi in conto agli organi costituzionali, un tetto agli stipendi dei manager, che di fatto taglia il compenso dei presidenti di cassazione e pure quello dei vertici di Bankitalia (istituto che godrebbe di una sua autonomia): tutte norme comprensibili che però non possono essere buttate dentro al decreto basta che sia. E ancora, sul fronte dei tagli i 700 milioni tolti alle Regioni e gli altri 700 sottratti ai comuni, non è detto che siano ben visti agli occhi dell’inquilino del Colle e dei suoi esperti. Come i tagli ai ministeri, a cominciare dalla Difesa (F35 ma non solo). E si potrebbe continuare così, ancora per molto. Evidentemente i chiarimenti e le spiegazioni fornite dal ministro dell’Economia Padoan sono state sufficienti e a metà pomeriggio il presidente della Repubblica ha finalmente firmato il decreto che il consiglio dei ministri aveva varato ormai quasi una settimana fa. 

Da - http://lastampa.it/2014/04/24/italia/politica/precisazioni-al-decreto-una-lunga-lista-Yy5tJZifunL4nMInmFl8kM/pagina.html
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« Risposta #8 inserito:: Maggio 01, 2014, 07:12:22 pm »

Editoriali
30/04/2014
Il premier alla battaglia più difficile
Paolo Baroni

Matteo Renzi sa benissimo in quale (altro) vespaio sta per andare a ficcarsi e mette le mani avanti: «Molte cose faranno discutere» dice il presidente del Consiglio. 

Oggi assieme al ministro Marianna Madia il presidente del Consiglio presenta i primi provvedimenti sulla pubblica amministrazione e annuncia che il metodo sarà «diverso dal solito». E infatti, anziché prendere di petto come al solito lo statale, sempre fannullone nell’accezione comune, salva la truppa (che tra l’altro in questa fase rappresenta anche un bel bacino elettorale) ed esclude tassativamente che ci siano degli esuberi, quindi punta dritto contro i dirigenti. I capi, i veri privilegiati. Tutta gente che di qui a breve potrebbe essere addirittura licenziata e che certamente si vedrà tagliare in maniera significativa lo stipendio. Poi, giusto per restare sul terreno degli argomenti delicati, e proseguire nel braccio di ferro con la magistratura, annuncia che intende pure affrontare il problema della giustizia amministrativa, o meglio dello strapotere dei Tar. Posto che in Italia nel settore degli appalti, come aveva denunciato mesi fa, lavorano più gli avvocati che i muratori. 

Di riforme della Pa ne abbiamo viste già tante negli ultimi vent’anni, alcune si sono rivelate inutili, altre hanno prodotto danni, altre sono partite bene e poi si sono arenate nel ventre molle della macchina pubblica. Nel frattempo costi e inefficienze sono finite sulla groppa di cittadini e imprese.

Anche per questo la sfida che Renzi si appresta a lanciare è particolarmente difficile. E certamente anche molto popolare. Non a caso mentre i sindacati, tutti, dai confederali all’Ugl sino a quelli dei dirigenti, protestano per il mancato coinvolgimento, il presidente del Consiglio usa pugno di ferro e guanto di velluto: annuncia che su tutta la materia verrà effettuata una consultazione pubblica aperta a tutti, spiegando poi che «la riforma non si fa contro la Pa ma coinvolgendo le persone, sfidandole». Il suo obiettivo dichiarato è «beccare i fannulloni e farli smettere e valorizzare i tanti non fannulloni dando un premio a chi non è fannullone, incentivando gli scatti di carriera e magari lo stipendio». Popolare e populista in un colpo solo.

Discorsi un po’ diversi riguardano invece i dirigenti, per i quali si annunciano certamente tempi difficili. «Servono dirigenti che facciano i dirigenti - ha spiegato ieri il premier - non è possibile poi che il premio di produzione aumenti con l’indennità e a prescindere dai risultati e dalla situazione del Paese. Se il Paese va male anche i dirigenti devono stringere la cinghia». Verranno pertanto ridotte le parti variabili e di posizione e gli importi saranno agganciati ad una serie di parametri, compresi quelli dell’intera struttura. E poi, più avanti, verranno unificate le assunzioni e si arriverà alla totale intercambiabilità dei funzionari. Che pertanto avranno molti meno poteri (anche di interdizione) di oggi.

 

Quanto ai Tar, per i quali già nei mesi scorsi si era arrivati ad ipotizzare addirittura l’abolizione per farne delle sezioni specializzate dei Tribunali ordinari, si interverrà soprattutto sui poteri di sospensiva, che oggi bloccano l’attività di enti locali e Parlamento, «frenando lo sviluppo economico», e che pertanto verranno ridotti. 

Programmi ambiziosi, certo. Che Renzi e Madia illustreranno oggi al termine del Consiglio dei ministri nel corso del quale si aprirà formalmente il cantiere di questa nuova, grande riforma. Sfida impossibile? Renzi ci prova citando John Kennedy: «Io so che è difficile, ma gli obiettivi non si scelgono perché sono facili ma perché sono i più difficili». Ha ragione: la cosa più difficile che può fare il governo è cambiare la pubblica amministrazione. Ne sanno qualcosa tanti suoi predecessori. Secondo Renzi è roba addirittura «da marines». Vedremo se i corpi speciali basteranno a vincere quella che si annuncia come una vera guerra di trincea. 

Twitter @paoloxbaroni 

Da - http://lastampa.it/2014/04/30/cultura/opinioni/editoriali/il-premier-alla-battaglia-pi-difficile-hMUfjQiVOucpzFfX8ubYCJ/pagina.html
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« Risposta #9 inserito:: Maggio 15, 2014, 04:24:21 pm »

Economia
13/05/2014

È l’ora del Welfare solidale
Il premier lancia le linee guida per la riforma del terzo settore e avvia la consultazione per i cittadini: “Esiste un’Italia generosa e laboriosa, la chiamano terzo settore, ma in realtà è il primo”

Paolo Baroni
Roma

Ci sono la riforma di una parte del Codice civile, l’aggiornamento della legge sul Volontariato e di quella sulle Associazioni di promozione sociale, viene ripristinata l’Authority per il terzo settore, e soprattutto viene potenziato e rivisto il meccanismo del 5 per mille (che tra l’altro non avrà più un tetto massimo di spesa), riordinate ed ampliate le varie forme di fiscalità di vantaggio, e quindi separate nettamente le attività istituzionali da quelle a carattere economico. 

Per i giovani nasce un nuovo modello di servizio civile “per la difesa della Patria”, il Servizio civile nazionale universale, da affiancare al servizio militare. Sarà aperto anche agli stranieri e per il primo triennio potrà interessare sino a 100 mila giovani di età compresa tra i 18 ed i 29 anni che verranno impegnati per un periodo di 8 mesi, prorogabili eventualmente per altri quattro. 

Il premier Matteo Renzi via Twitter annuncia la pubblicazione on line delle “Linee guida per una Riforma del Terzo settore”. E lancia la consultazione tra i cittadini. Durata, un mese, sulla falsariga di quella avviata nei giorni scorsi per mettere in campo la riforma della Pubblica amministrazione. “Il testo di discussione sul #terzosettore Come promesso a Lucca, un mese fa. Adesso un mese di discussione e poi parte iter #lavoltabuona”, ha twittato Renzi attorno a mezzanotte. Nel documento linkato in un tweet successivo si trovano le Linee guida per la riforma e l’invito a discuterne e a dare suggerimenti per riformare “l’Italia del volontariato, della cooperazione sociale, dell’associazionismo no-profit, delle fondazioni e delle imprese sociali”. E in calce si legge: “Su tutte queste proposte, ci piacerebbe conoscere le opinioni di chi con altruismo opera tutti giorni nel Terzo settore, così come di tutti gli stakeholder e i cittadini sostenitori o utenti finali degli enti del no-profit”.

La consultazione “sarà aperta dal 13 maggio al 13 giugno attraverso una mail dedicata: terzosettorelavoltabuona@lavoro.gov.it. Nelle due settimane successive il Governo predisporrà’ il disegno di legge delega che sarà’ approvato dal Consiglio dei Ministri il giorno 27 giugno 2014”. In questo modo si punta a “costruire un nuovo Welfare partecipativo, fondato su una governance sociale allargata alla partecipazione dei singoli, dei corpi intermedi e del terzo settore”. Il fine “è ammodernare le modalità di organizzazione ed erogazione dei servizi, rimuovere le sperequazioni e ricomporre il rapporto tra Stato e cittadini, tra pubblico e privato, secondo principi di equità’, efficienza e solidarietà sociale”. 

 

ITALIA GENEROSA E LABORIOSA 
Spiega Renzi nell’introduzione del suo documento: “Esiste un’Italia generosa e laboriosa che tutti i giorni opera silenziosamente per migliorare la qualità della vita delle persone. È l’Italia del volontariato, della cooperazione sociale, dell’associazionismo no profit, delle fondazioni e delle imprese sociali. Lo chiamano terzo settore, ma in realtà è il primo”. “Anche in questo caso- assicura il premier- vogliamo fare sul serio. Per realizzare il cambiamento economico, sociale, culturale, istituzionale di cui il Paese ha bisogno è necessario che tutte le diverse componenti della società italiana convergano in un grande sforzo comune. Il mondo del terzo settore può’ fornire un contributo determinante a questa impresa, per la sua capacità di essere motore di partecipazione e di autorganizzazione dei cittadini, coinvolgere le persone, costruire legami sociali, mettere in rete risorse e competenze, sperimentare soluzioni innovative”. Renzi prosegue: “Noi crediamo che profit e non profit possano oggi declinarsi in modo nuovo e complementare per rafforzare i diritti di cittadinanza attraverso la costruzione di reti solidali nelle quali lo Stato, le Regioni e i Comuni e le diverse associazioni e organizzazioni del terzo settore collaborino in modo sistematico per elevare i livelli di protezione sociale, combattere le vecchie e nuove forme di esclusione e consentire a tutti i cittadini di sviluppare le proprie potenzialità”.

TRE OBIETTIVI 
Il presidente del Consiglio elenca quindi i tre principali obiettivi che la riforma si prefigge: “Tra gli obiettivi principali vi è quello di costruire un nuovo Welfare partecipativo, fondato su una governance sociale allargata alla partecipazione dei singoli, dei corpi intermedi e del terzo settore al processo decisionale e attuativo delle politiche sociali, al fine di ammodernare le modalità’ di organizzazione ed erogazione dei servizi del welfare, rimuovere le sperequazioni e ricomporre il rapporto tra Stato e cittadini , tra pubblico e privato , secondo principi di equità , efficienza e solidarietà’ sociale”. Un secondo obiettivo è “valorizzare lo straordinario potenziale di crescita e occupazione insito nell’ economia sociale e nelle attività svolte dal terso settore, che a ben vedere è l’unico comparto che negli anni della crisi ha continuato a crescere, pur mantenendosi ancora largamente al di sotto, dal punto di vista dimensionale, rispetto alle altre esperienze internazionali. Esiste dunque un tesoro inestimabile, ancora non del tutto esplorato, di risorse umane, finanziarie e relazionali presenti nei tessuti comunitari delle realtà territoriali che un serio riordino del quadro regolatorio e di sostegno può liberare in tempi brevi a beneficio di tutta la collettività, per rispondere ai nuovi bisogni del secondo welfare e generare nuove opportunità di lavoro e di crescita professionale”. Il terzo obiettivo della riforma “è di premiare in modo sistematico con adeguati incentivi e strumenti di sostegno tutti i comportamenti donativi o comunque prosociali dei cittadini e delle imprese, finalizzati a generare coesione e responsabilità sociale”. 

LE PRIME REAZIONI 
“Siamo molto soddisfatti delle linee guida per una riforma del Terzo Settore, twittate stanotte dal Premier Matteo Renzi. E’ un testo nel quale ci riconosciamo e al quale, attraverso gli amici parlamentari, chiamati a comporlo, alcuni già Portavoce e componenti del Coordinamento del Forum Nazionale del Terzo Settore, abbiamo attivamente e costruttivamente contribuito”, ha commentato a caldo il Portavoce del Forum del Terzo Settore, Pietro Barbieri. “Tra tutte le linee guida del Governo, ci piace evidenziare la previsione di un Servizio Civile Nazionale che possa vedere coinvolti fino a 100.000 giovani all’anno, con criteri che delineano una esperienza veramente formativa e di impegno civile. Si tratta di una inversione netta di tendenza rispetto alle politiche degli ultimi anni che stavano facendo veramente morire un fondamentale strumento di formazione di coscienze civiche. ”Garantiamo sin da ora il nostro costruttivo supporto e contributo anche in questa seconda fase di elaborazione della riforma che porterà alla elaborazione a fine giugno del disegno di legge delega - conclude il Portavoce Barbieri -. Vogliamo veramente credere che questa sia #lavoltabuona”.

Da - http://lastampa.it/2014/05/13/economia/lora-del-welfare-solidale-n1tXJSSGLr076JSqIWDpFJ/pagina.html
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« Risposta #10 inserito:: Maggio 22, 2014, 05:21:06 pm »

Editoriali
19/05/2014
È difficile anche pagare le tasse

Paolo Baroni

Già pagare le tasse è una gran sofferenza, poi negli ultimi tempi sembra che governo, Parlamento e Comuni facciano di tutto per renderci la vita impossibile. Prendiamo il caso della Tasi, la tassa sui servizi indivisibili che di fatto sostituisce la vecchia Imu, ultimo pasticcio in ordine di tempo. Si sa quando si paga, il 16 giugno, ma solo una parte degli italiani sa quanto deve pagare. 

Il campanello d’allarme è suonato almeno un mese fa, poi la scorsa settimana si è scoperto che nemmeno mille Comuni avevano fissato le aliquote mentre tutti gli altri ancora dovevano decidere. Soprattutto mancano all’appello i quattromila Comuni chiamati al voto la prossima settimana, amministrazioni che si sono ben guardate dal fissare l’ammontare della nuova tassa. Meglio aspettare, meglio rinviare a dopo il 25 e evitare l’accusa d’aver aumentato le tasse rischiando magari di perdere il municipio. 

E così, da giorni, il Paese delle Milleproroghe dopo aver scoperto il caos-Tasi discute e si divide sull’ipotesi del rinvio dei pagamenti. Mancano tre settimane alla scadenza della Tasi, sugli italiani incombono di qui a luglio quasi 80 differenti impegni di pagamento e non si riesce a far chiarezza. In un primo momento il ministero del Tesoro ha infatti escluso qualsiasi ipotesi di rinvio della prima rata. Ieri invece il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Delrio, il braccio destro di Renzi, ha detto che ci si sta ragionando, ma che nel frattempo è meglio che tutte le amministrazioni ritardatarie decidano le loro aliquote. Piero Fassino, presidente dell’Associazione dei Comuni, invece ha proposto una mediazione, un doppio regime: nei Comuni dove le aliquote sono state già decise si paga il 16 giugno, in tutti gli altri si pagherà il 16 settembre. E il governo cosa risponde? Non sa assolutamente cosa fare, potrebbe accogliere il lodo Fassino oppure, per semplificare un poco la vita a tutti, potrebbe anche disporre un rinvio generalizzato per tutti i Comuni a settembre. Scelta certamente popolare quest’ultima, soprattutto in tempo di elezioni, a patto però di reperire i 4 miliardi che nel frattempo andrebbero anticipati alle amministrazioni locali. 

Ecco spiegato il balletto di questi giorni, che non fa altro (ancora una volta) che aumentare lo stress nei contribuenti. Perché è chiaro che a loro, in fondo, non ci pensa mai nessuno. Le tasse sulla casa poi, da quando i partiti hanno deciso di cancellare tutta l’Imu, sono diventate argomento di vero e proprio scontro ideologico, oltre che un motivo di ulteriore forte frizione tra Comuni e Stato centrale. Forse, si può dire, oggi col giallo-Tasi paghiamo il peccato originale di aver cancellato in maniera affannosa questa tassa. Cancellata a rate ed in maniera affannosa, basti pensare al pastrocchio del decreto Imu-Bankitalia. Quindi è partita la tarantella della nuova tassa. Come la chiamiamo? Come la calcoliamo? Sarà più o meno pesante dell’Imu? Via Tarsu e Tares spunta la Tari, poi la Trise, quindi la Tuc e infine la già odiata Tasi. Un’inutile girandola di nomi che ha creato confusione nei contribuenti e pure negli amministratori. Al punto che lo stesso presidente del Consiglio Matteo Renzi, tempo fa, aveva confessato di non averci capito nulla. Ma se non ci capisce niente uno che sino all’altro ieri ha fatto il sindaco, chi può venirne fuori? Vedremo se questa settimana porterà consiglio e soprattutto se il governo, quando parla di riforma del fisco e semplificazione, ha un progetto in mente oppure cerca solo di prendere tempo. 

Twitter @paoloxbaroni 

Da - http://www.lastampa.it/2014/05/19/cultura/opinioni/editoriali/difficile-anche-pagare-le-tasse-1DJtxCulh6rQO6cWFNcySL/pagina.html
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« Risposta #11 inserito:: Maggio 26, 2014, 06:09:06 pm »

"Gestire Chrysler è stato come camminare su di una fune", Marchionne e i dettagli del 2009

Pubblicato: 23/05/2014 14:19

Luca Borsari
Giornalista, da Washington

Gestire Chrysler subito dopo che il gruppo statunitense era stato vicinissimo al fallimento "è stato come camminare su di una fune", perdendo quote di mercato e lavorando nel frattempo a predisporre nuovi modelli di auto.

Sergio Marchionne, ora che il gruppo Fiat-Chrysler quella scommessa l'ha vinta, è più prodigo di dettagli su quei mesi del 2009 quando l'amministrazione Obama decise di affidargli l'ultima possibilità di salvare il gruppo di Auburn Hills.

L'occasione l'ha data una conferenza della Brookings Institution alla quale hanno partecipato altri due protagonisti di quei giorni: Larry Summers, che in quegli anni guidava il National Economic Council ed era l'economista più ascoltato dallo stesso Obama, e Steven Rattner, il finanziere cui era stata affidata la guida della task force per salvare i grandi gruppi automobilistici di Detroit dal fallimento.

Marchionne, senza tanti giri di parole, ha detto che Chrysler aveva veramente pochi margini di errore dal momento che i termini del suo salvataggio erano molto meno generosi di quelli concessi a General Motors: "Se andiamo indietro a come quell'accordo fu strutturato, e ora lo dico pubblicamente dopo averlo detto in privato a Steve (Rattner, ndr) penso che il Tesoro e il governo Usa presero una decisione molto chiara nella primavera del 2009 su chi sarebbe dovuto sopravvivere e su chi sarebbe stato messo in terapia intensiva. Noi eravamo il bambino in terapia intensiva: mi è stato dato un dollaro di capitale, un prestito non garantito con le mie 'parti private' attaccate", ha detto il manager italo-canadese tra le risate del pubblico. Aggiungendo, senza menzionarla direttamente, che a General Motors "era stata garantita la sopravvivenza e non poteva fallire. Il guinzaglio dall'altra parte era incredibilmente lungo e in quel mondo potevi commettere molti errori. Penso invece che l'urgenza di cambiare, che venne con i prestiti, non esistesse dall'altra parte".

Un'analisi che, poco dopo, ha suscitato una puntualizzazione di Rattner. L'ex capo della task force per salvare l'auto Usa ha ammesso che l'amministrazione Obama aveva preso in considerazione la possibilità di lasciare fallire Chrysler, aggiungendo che invece prevalse la linea di fornire all'azienda un'assistenza limitata: "Come difensori dei soldi dei contribuenti, non potemmo mettere più risorse finanziarie in Chrysler del minimo che pensavamo fosse ragionevole per darle una possibilità di riuscire". Tuttavia, ha aggiunto Rattner, la decisione passò di misura dopo che era stata scartata dall'amministratore delegato di GM Wagoner la soluzione di fondere i due gruppi. Un fallimento evitato per un soffio, dunque, per Chrysler.

"L'analisi di Sergio che saremmo stati fuori di testa a farla fallire potrebbe essere giusta - ha aggiunto Rattner - ma è stata una decisione passata di misura. La cosa che era assolutamente centrale per noi è che (alla testa di Chrysler, ndr) ci dovesse essere una squadra di manager di classe mondiale. Se non ci fosse stato Sergio l'avremmo fatta fallire".

Vista in questa chiave fa sorridere la vicenda del lancio della Fiat 500 negli Stati Uniti. Che avvenne più per insistenza della task force di Rattner che per una necessità economica. "È un modello di auto-icona, simbolico", ha spiegato Marchionne, "ma se mi aveste chiesto in quei giorni se ne avrei volute vendere 40 mila o 80 mila avrei risposto che non ci sarebbe stata differenza. Avremmo portato la 500 negli Usa lo stesso. Era una delle condizioni assegnate nel contratto", per aiutare ad avere l'azienda con un modello a basso consumo nella sua gamma. La 500, un modello di nicchia che comunque negli Usa alla fine ha avuto successo mettendo in sofferenza le vendite della Mini, fa sorridere anche per un altro motivo.

Marchionne l'ha usata come esempio per dimostrare come nessun gruppo automobilistico, con la sola eccezione di Tesla, fa utili con le auto elettriche: "Saremo obbligati - ha spiegato il top manager del Lingotto - a entrare nel mercato delle auto elettriche per una serie di motivi. Uno è la richiesta della California di produrre auto a zero emissioni. E l'altra è l'iniziativa presa da Obama nel 2011 sulle nuove regole sulle emissioni dei veicoli che ci vincoleranno il nostro comparto fino al 2025". La previsione di Marchionne è che entro quell'anno più della metà dei veicoli venduti negli Usa avrà un qualche tipo di sistema ibrido. I veicoli a combustione comunque "possono comunque ancora dire la loro e hanno ancora potenzialità inesplorate".

Una combinazione con l'elettrico è dunque la soluzione. Poi, parlando della 500 elettrica Marchionne chiude con una battuta: "Spero non la compriate. Su ogni veicolo che vendiamo perdiamo 14 mila dollari. Sono onesto nel dire che costruiremo la macchina, la renderemo disponibile. Ma venderemo il numero limite che dobbiamo vendere e non una sola di più".

Da - http://www.huffingtonpost.it/luca-borsari/marchionne-chrysler-500_b_5369737.html?utm_hp_ref=italy
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