16/12/2011
Gli artisti espulsi dallo stato ideale
UGO NESPOLO
Non fosse bastato il tossico già in corpo, l’amaro del risaputo, il disgusto di ciò che s’è letto e udito sussurrare o sbraitare, solo mancava l’irritazione del biennale pasticcio veneziano - in cui stavolta tutto è arte e tutti sono (forse) artisti per acuire il senso di vanità e vacuità del far arte e del perché e del per chi!
Già l’artista pensante (ossimoro?) vacillava amletico alle lapidarie sicurezze di Arthur Danto per il quale «l’arte è finita». Sì, certo gli artisti lavorano vanamente in quel brodo post-storico dove la loro opera è in ogni caso ininfluente, per Danto in arte tutto è possibile ma senza valore.
Né ci ha consolati Mario Perniola quando nel chiedersi che fine abbia fatto la «bellezza» ci ricorda che il pot-pourri di oggi «ha carattere ordinario e tende a confondere tutto con tutto». Anything goes, una cosa vale l’altra purché risulti attuale o spacciata per tale. Anche Maurizio Ferraris nel domandarsi come e dove è trasmigrata la bellezza delle opere d’arte, sottolinea intanto la totale sparizione della maestria esecutiva. «...la manualità non conta più niente in arti in cui in precedenza costituiva un elemento definitivo». Se la bellezza sia o no sparita o trasmigrata lo farei dire da Alberto Arbasino che disperato attraversa la sua New York e non solo scopre che il «brutto nell’arte trionfa» ma anche che si può parlare di «spazzatura firmata e commentata» e la scena artistica è un immenso bailamme voluto anche in parte da «mercanti e recensori che non sono più antitetici ma associati nel business ed il giudizio critico sostituito da apologie e panegirici di valori gonfiati in bolle simili a quelle dell’immobiliarista e del credito!». Ci tocca amare pezzi di animali macellati, foto di cadaveri orripilanti, dementi di frontiera, eschimesi obesi, seggiole rotte, gabbie carcerarie.
Nostalgie parigine con Jean Baudrillard per sentire dalla sua voce che il mondo si muove in una «estetica delle rovine, gli attori son quasi scomparsi e solo restano quinte e parte della scena mentre l’arte non sembra aver niente da mettere in discussione».
Le recite degli attori poi non consolano certo. Perfidia e veleni diffusi. Anselm Kiefer - ad esempio - odia Cattelan e Hirsh colpevoli d’essere cinici «quel veleno che distrugge l’arte!». E Cattelan presta il fianco dicendo della propria vocazione «... uno diventa artista così di colpo, senza saperlo! Si ferma la moto e uno scopre che deve fare l’artista!». Anche George Baseliz c’è l’ha su con Damien Hirst colpevole d’esser furbo e «roba vecchia» la sua arte anziché provocatoria. Schnabel da par suo, dopo tonnellate di milionari piatti rotti, se la prende col mercato «miope e manipolato». Gli basterebbe leggere Robert Hughes che lucido ricorda come la confusione tra prezzo e valore sia una delle peggio calamità della nostra epoca.
Feriti da una massa di contraddizioni, confuse dichiarazioni, banalità critiche ci dovremmo anche agitare per scioglier dubbi del tipo: «L’arte è meglio povera o bella?» o voler sapere perché l’Arte Povera non piace a destra! Mentre Germano Celant più che bulimico di ricche povertà è sicuro anche di «aver sdoganato il Paese», il collerico Sgarbi gli urla «roba vecchia!». Bonami intanto incalza con l’ironia che gli è propria a proposito della Biennale sgarbesca «...i precedenti Beatrice e Buscaroli ci han fatto piangere, lui potrebbe farci ridere!».
Per spiazzarci - ce ne fosse bisogno - Charles Saatchi, genio del marketing e del collezionismo mondiale, dopo aver inventato e lanciato la Brit Art da Hirst a Tracey Emin, giura che quella roba «... non farà storia» e che «molti di quegli artisti saranno solo a piè di pagina!». Per lui adesso è l’ora dell’arte islamica!
Se Koons è il re del Kitsch, saltano subito in mente le parole di Clement Greenberg «... il Kitsch non chiede nulla ai suoi clienti, solo i loro soldi, neppure il loro tempo!». ABO (Achille Bonito Oliva) è un fiume in piena nel dichiarare che «... i critici sono i camerieri del potere» e rivolto a quelli che tra gli altri chiama i filippini della critica come Bonami, Tassi, Mercurio, li considera gente capace di far «solo manutenzione».
Artisti contro artisti, critici contro critici in un brodo che Jean Clair chiama «l’industria delle patacche milionarie». Roger Scruton e Clair han certo da fare con teorie da definire «reazionarie» ma è indubbio che argomenti e dubbi ne sappian sollevare.
Per Clair siamo a quell’inverno della cultura dove l’arte è - per lo più - simulacro di imbroglio, scarto, vaporizzazione. Marketing e poco più, a cui Saatchi aggiunge «... nell’arte d’oggi il denaro è il messaggio!».
Anche Marco Vallora ci paralizza nel ricordare che in arte «... la sostanza non c’entra più nulla... solo pura operazione di borsa, di scambi astuti fra collezionisti e galleristi che collezionano status-dollars e fiches d’investimento, vera operazione immoral-immobiliare!».
Koons incassa col Kitsch ma ama solo Poussin, Chelsea a New York sarebbe la sola zona al mondo in cui fare e vendere l’arte mentre il resto del pianeta è povera, inutile provincia abitata da artisti che si battono senza speranza. Mr. Gagosian, incoronatosi tra l’altro nuovo re di Roma, dirige e decide gli investimenti con Russi e Cinesi, mentre il Louvre se ne va ad Abu Dhabi e tutti i musei hanno il sogno di diventare loghi, marchi per moltiplicarsi. Noi intanto ci dobbiamo far piacere lo squalo a fette perché - dicono - valga un tesoro!
Disorientato nel capire, paralizzato nello scegliere e nell’agire l’artista vagola in una «waste land», Sisifo spaurito, e bene sa - come voleva Platone - che l’arte non serve poi granché e che gli artisti devono essere davvero espulsi dallo Stato Ideale.
da -
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