Fu l'inventore dell'Ulivo e della candidatura di Prodi
Andreatta, uno spirito libero
Da cattolico denunciò le malefatte della finanza vaticana Tagliente nella polemica.
Etichettava come «destra gaglioffa» la coalizione guidata da Berlusconi
Sarebbe arduo, anzi, del tutto inutile, provarsi a incasellare Beniamino Andreatta facendo ricorso ai cliché del giornalismo politico di ieri e di oggi. Se non altro perché tutto si può dire di lui, tranne che fosse intellettualmente, politicamente e moralmente banale.
Fu un economista dello sviluppo, e anche un protagonista della storia dell'università italiana, da Trento ad Arcavacata che fondò, con Paolo Sylos Labini, nel 1972, nella convinzione che un campus di ispirazione anglosassone in quel di Cosenza potesse giocare un ruolo importante nello sviluppo del Mezzogiorno. Se di illusione si trattò, fu un'illusione riformista, modernizzatrice, meridionalista. Ne vide le contraddizioni, non si pentì di averla nutrita.
Fu keynesiano, ma, come scrisse Edmondo Berselli, di un keynesismo almeno in Italia singolare, fondato su una forte inclinazione sociale, certo, ma anche sull'accettazione piena del mercato e della competizione. Fu cattolico e democristiano, consigliere economico di Aldo Moro negli anni del primo centrosinistra (1963-1968), a lungo parlamentare della Dc, una quantità di volte ministro. Ma fu un cattolico e un democristiano sui generis . Pronto a difendere anche con durezza e con un filo di superbia intellettuale la Dc, e assieme a fustigarne le pratiche correntizie e clientelari; e soprattutto, da ministro del Tesoro, a resistere a tutte le pressioni e a imporre, nel 1981, lo scioglimento e la liquidazione del Banco Ambrosiano. Oggi, alla presenza del capo dello Stato, Giuliano Amato, Giovanni Bazoli, Romano Prodi e Giuliano Urbani presentano a Montecitorio i suoi discorsi parlamentari, riuniti in un volume curato da Enrico Letta: se ce n'è uno davvero storico, è di sicuro quello in cui riferì pubblicamente delle gravissime responsabilità della banca vaticana, lo Ior, e di Paul Marcinkus.
Fu uomo della sinistra dc. Ma anche, caso non frequentissimo, profondamente e irriducibilmente anticomunista. Così anticomunista da candidarsi nei primi Ottanta, ovviamente senza fortuna, a sindaco di Bologna propugnando, del tutto controcorrente, una linea di accentuata austerità. Proprio in quella campagna elettorale, se non ricordo male, diede del «nazionalsocialista» a Bettino Craxi. Si difese sostenendo che, in realtà, aveva parlato di un «socialismo nazionale», ovviamente indifendibile agli occhi di chi, come lui, già allora intuiva i primi, irresistibili segni di quella che oggi chiamiamo globalizzazione. In ogni caso, fu aspramente antisocialista, come testimonia la (all'epoca) celebre «lite delle comari» con Rino Formica. Fu, alla caduta della Prima Repubblica, ancora più fieramente antiberlusconiano, e in questo caso, non ci sono né se né ma, nella convinzione che quella del 1994 fosse «una destra gaglioffa», guidata, per un paradosso della storia secondo lui inammissibile, da un monopolista.
Aveva cercato fino all'ultimo di resistere al collasso della Dc, aveva dato una mano a Mino Martinazzoli e al (ri)nascente Partito popolare, si era imbarcato nell'avventura votata alla sconfitta del Patto Segni. Niente da fare. Cercò allora un'altra strada, non esiziale come quella intrapresa nel '94 dalla «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto e dai centristi, per battere un avversario verso il quale nutriva «un pregiudizio morale».
Fu, alla vigilia delle elezioni del 1996, l'inventore dell'Ulivo. L'amico Romano Prodi era stato tra i suoi migliori allievi, quando il keynesiano Andreatta propugnava il modello dell'«economia mista». Lo convinse, e convinse gli altri partner della coalizione antiberlusconiana, l'allora Pds in testa, che, per vincere, non c'era candidato migliore. Aveva ragione, Prodi vinse. Ma l'Ulivo non sopravvisse alla caduta del suo governo.
Fu anche, si dice, il vero padre del Partito democratico, che il 15 dicembre del 1999, quando fu colto alla Camera dal fatale malore che lo ridusse ad anni e anni di vita vegetativa, era, nel migliore dei casi, una speranza. Avrei dei dubbi e, vista la vita che vive il Pd, mi permetterei di pensare che ne avrebbe pure il professor Andreatta. Ma questo, naturalmente, è un altro discorso.
Paolo Franchi
14 dicembre 2011 | 20:28© RIPRODUZIONE RISERVATA
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