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Autore Discussione: UGO DE SIERVO.  (Letto 9899 volte)
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« inserito:: Dicembre 15, 2011, 06:05:21 pm »

15/12/2011

Ma non è la terza Repubblica

UGO DE SIERVO

In un recente ed ampio intervento, originato dal ricambio governativo, Galli della Loggia auspica che anche gli studiosi di diritto costituzionale partecipino ad una «grande discussione pubblica» sulle prospettive della nostra Costituzione, che a suo parere sarebbe già stato alterata «attraverso vie surrettiziamente interpretative e forzando a piacere il testo della medesima». Su questa base, da parte sua si dichiara favorevole a modificare «anche parti decisive dell’assetto costituzionale dei poteri pubblici»: tutto ciò fondamentalmente perché la recente soluzione della crisi di governo sarebbe stata il frutto di un intervento eccezionale del Presidente della Repubblica, spiegabile solo come espressione di un vero e proprio «stato di eccezione», inteso nella accezione di una «condizione di straordinarietà nella vita di una Costituzione in cui, per la necessità di fronteggiare una situazione di emergenza, le sue regole sono sospese, a cominciare da quelle riguardanti la formazione del governo e l’ambito dei suoi poteri».

Ma le cose non stanno minimamente così.

Come ho avuto modo di documentare, così come vari altri costituzionalisti (si veda da ultimo l’intervento di Zagrebelsky), ciò che è avvenuto risponde ai canoni di un tipico governo parlamentare, seppure in una difficile e speciale contingenza finanziaria e politica, tanto è vero che vi sono state dimissioni volontarie del precedente governo e libero conferimento della fiducia parlamentare al nuovo. Anzi, la foga argomentativa di Galli della Loggia lo induce a dare una lettura palesemente errata a quanto sostenuto alcuni giorni fa da Olivetti, che, appunto a proposito della vicenda del ricambio governativo, aveva affermato la correttezza dell’intervento del presidente Napolitano, nell’ambito della nostra forma di governo parlamentare: Olivetti, al fine di illustrare il ruolo del Presidente della Repubblica nelle contingenze più ardue del nostro vigente regime parlamentare, ha utilizzato in modo efficace la metafora del «motore di riserva», ma lo ha fatto espressamente per spiegare l’opportuna flessibilità della nostra forma di governo e non certo per sostenere che saremmo dinanzi ad un Presidente che opera in situazioni di «stato di eccezione» e cioè fuori dell’ordinamento costituzionale, in quanto interprete ultimo ed illimitato degli interessi collettivi. Di stato di eccezione si è discusso ormai molti decenni fa, specie in occasione della fondazione della quinta Repubblica francese, ma quel modello è rimasto del tutto estraneo alla nostra esperienza costituzionale: il nostro sistema costituzionale è configurato per operare anche in contesti difficili, se non eccezionali, e non si può pertanto spiegare in termini di «rottura costituzionale» la soluzione di situazioni inusuali.

Quindi di tutto si può discutere, ma certo previamente cercando di intendersi bene sul quadro costituzionale esistente e magari anche sul significato proprio delle parole che si utilizzano: è da non pochi anni che - anche per qualche responsabilità degli studiosi di diritto costituzionale, forse un po’ troppo intimoriti dal confuso dibattito che si è svolto - si usano neologismi del tutto impropri (i presidenti delle Regioni che divengono governatori, l’autonomia finanziaria e fiscale delle Regioni e degli enti locali che viene ribattezzata federalismo fiscale, ecc.) o si danno letture un po’ fantasiose del nostro ordinamento costituzionale: ad esempio, anche molto di recente, proprio in riferimento alla costituzione del nuovo governo, un grande giornalista come Scalfari ha affermato perentoriamente che sarebbe prescritto dalla nostra Costituzione che il Presidente della Repubblica scelga la composizione dei governi, allorché l’art. 92 della Costituzione testualmente afferma che egli «nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri» (e tutti ricorderanno la fatica fatta da alcuni Presidenti della Repubblica semplicemente per cercare di impedire la nomina a ministro di alcuni esponenti politici di dubbia nomea). Ma l’errore maggiore di Scalfari non è di attribuire la nomina dei ministri al Capo dello Stato, quanto quello addirittura di pretendere di ribattezzare il nostro attuale (e provvisorio) sistema istituzionale come «terza Repubblica», che sarebbe appunto anzitutto caratterizzata da un forte ruolo del Presidente della Repubblica, incaricato stabilmente di nominare governi istituzionali, seppure in rappresentanza delle maggioranze parlamentari.

Mi sembra, invece, evidente che sarebbe davvero una impropria e radicale forzatura per una forma di governo parlamentare escludere il ruolo fondamentale dei gruppi parlamentari, rappresentativi della maggioranza politica del corpo elettorale, dalla formazione e composizione dei governi, seppure nel pieno rispetto del ruolo equilibratore e garante svolto dal Presidente della Repubblica.

Anzi, come ha giustamente notato anche Zagrebelsky, vi è l’urgenza che i partiti politici ed i corrispondenti gruppi parlamentari ricomincino a fare il loro mestiere (quello nobile) di formazione di rinnovate classi dirigenti, ispirate dalla ricerca di visioni generali relative allo sviluppo della nostra società, tanto radicalmente mutata. La difficile contingenza finanziaria e politica e la temporanea assenza di contrapposizioni dilaceranti sulla sorte del governo potrebbero anche offrire una utile occasione ai partiti per processi di analisi dei rispettivi limiti che si sono palesemente evidenziati, pur nelle evidenti diversità da un movimento politico all’altro. Solo con radicali miglioramenti del sistema dei partiti può ipotizzarsi che cambi in meglio la situazione del nostro Paese, mentre appare del tutto illusoria e quindi ingannevole la praticabilità di ogni ipotesi di fantomatiche grandi revisioni costituzionali.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9548
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 29, 2012, 11:35:14 pm »

29/6/2012

In Parlamento la fuga dalle responsabilità

UGO DE SIERVO

Come condiviso da quasi tutti gli osservatori, le tante promesse fatte dalle forze politiche e da autorevoli parlamentari sulla revisione delle disposizioni costituzionali che fissano alti numeri di parlamentari stanno per passare all’archivio delle prese in giro, con perfino il rischio che da tutto ciò derivi anche la mancata modifica della pessima legge elettorale vigente.

Ciò fondamentalmente perché – come si era previsto - prima si era ambiziosamente tentato di approfittare dell’occasione per inserire molte altre e non indispensabili modificazioni costituzionali, e poi addirittura si è usata del tutto strumentalmente l’occasione di un possibile voto di ampia revisione costituzionale per proporre una radicale trasformazione del nostro sistema, come quella che deriverebbe dalla scopiazzatura di alcune parti dell’ordinamento costituzionale francese.

Era assolutamente evidente che in tal modo si sarebbe arrivati ad un binario morto, tanto più se il Pdl per avere qualche (dubbia) carta propagandistica in più nelle prossime competizioni elettorali si fosse – come è puntualmente avvenuto - ricollegato con la Lega per averne il voto sugli emendamenti neo-presidenziali. Tutto ciò sta puntualmente avvenendo in un clima deplorevole, più degno di qualche vecchia rappresentazione goliardica che di un procedimento di riforma delle nostre istituzioni democratiche.

Certo che quanto sta avvenendo mette purtroppo bene in evidenza il livello davvero troppo modesto anche in termini di cultura istituzionale a cui è giunta una parte importante dei nostri partiti: evidentemente la loro crisi – pur con tutte le diversità - non riguarda solo il grande invecchiamento delle loro visioni sociali ed economiche, ma pure la consapevolezza di quali possano essere le istituzioni e le procedure idonee ad affrontare i seri problemi esistenti.

Prendiamo come primo esempio quanto il Senato ha appena adottato per modificare il proprio assetto costituzionale: nascerebbe un «Senato federale della Repubblica» composto da 250 senatori, eletti più o meno come al momento attuale, a cui si sommerebbero 21 rappresentanti delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano. Questi ultimi dovrebbero partecipare ai lavori del Senato «con diritto di voto sulle materie di legislazione concorrente ovvero di interesse degli enti territoriali», ma «non sarebbero membri del Parlamento», non avrebbero indennità economiche ma solo l’esenzione da responsabilità «per le opinioni espresse ed i voti dati» (il primo comma dell’art. 68 Cost., la cui applicazione è tanto discussa).

Tre sole osservazioni: anzitutto questi pochi componenti «aggiunti» sono in realtà veri e propri senatori, dal momento che votano sulle leggi, cioè sugli atti più importanti di uno Stato e possono contribuire perfino alla caduta dei governi. In secondo luogo, potrebbero intervenire su quasi tutte le materie di competenza del Senato, sia per la vastità e l’indeterminatezza delle materie regionali e locali, sia perché le leggi sono spesso «a cavallo» fra le varie materie. In terzo luogo, infine, è poco serio battezzare come federale un ramo del Parlamento, eletto in sostanza come la Camera dei deputati, senza che muti nulla nel riparto di competenza fra Stato e Regioni (che, anzi, da dieci anni vivono una stagione di pesante svuotamento di poteri).

Tra l’altro, essendo questa enfatica e sgangherata innovazione la premessa, se non il prezzo, per la prossima scelta da parte della maggioranza del Senato del modello semi-presidenziale, forse qualcuno dovrebbe porsi anche il problema che in Francia non esistono Regioni con poteri analoghi ed il Senato è formato in tutt’altro modo.

Occorre però anche notare che nel corso di queste vicende un po’ deprimenti sembrano essere emersi anche nello schieramento politico opposto alcuni sintomi seri di crescente perdita di lucidità istituzionale ed anche di tradizionale attenzione al contenuto ed al valore della nostra Costituzione, secondo l’insegnamento di tanti maestri e politici di grande spessore (come dimenticare, da ultimo, l’impegno di Oscar Luigi Scalfaro e di Leopoldo Elia?).

Il fatto è che nel Pd non solo si sono manifestate alcune, pur limitate, decise spinte a modificare fortemente parti significative della nostra Costituzione, al di là di ogni serio confronto sul tema in sede culturale od anche solo politica. Fin qui si tratta solo di errori in qualche misura comprensibili (seppur non giustificabili), ma la cosa particolarmente grave è che in questo tentativo si è arrivati a buttare a mare quel minimo di serietà propositiva che è richiesta a chi si misuri su temi del genere. Facciamo subito un recente e sconcertante esempio: due senatori, nel tentativo (evidentemente vano) di far recedere il Pdl dal tentativo di avere ad ogni costo una pronuncia filo-neopresidenziale, non hanno trovato di meglio che proporre di far svolgere un apposito referendum popolare consultivo che esprima il favore per il mantenimento o la correzione del nostro assetto in senso favorevole a quello tedesco o a quello francese. Già una scelta del genere è – a dir poco - discutibile, poiché presuppone in realtà l’esistenza di un giudizio negativo sull’assetto attuale e riduce le alternative solo a quelle indicate (e, per di più, del tutto sommariamente indicate). Ma poi addirittura si prevede che nell’ipotesi che la maggioranza di chi votasse al referendum si pronunciasse per il cambiamento, i presidenti delle Camere dovrebbero fare in modo che le Camere approvino entro un anno una legge costituzionale sulla base della preferenza (fra le due indicate) che ha ottenuto più consensi.

Sembra evidente che si vorrebbe, tramite un tipo di referendum non previsto in Costituzione e senza neppure la prescrizione di quorum di partecipazione minima, forzare il Parlamento ad usare il potere di revisione costituzionale in una delle direzioni gradite dai proponenti, con una sostanziale disapplicazione dell’art. 138 Cost. L’estrema opinabilità della proposta è confermata (oltre che da curiosi errori tecnici) dalla stessa profonda erroneità del riferimento storico che si fa in riferimento ad presunto referendum consultivo del 1945 in Francia: quel referendum non era affatto consultivo, ma faceva decidere al corpo elettorale se l’Assemblea, che veniva contestualmente eletta, potesse disporre dei poteri costituenti.

Allora occorre che molti partiti ed esponenti popolari cerchino al più presto di recuperare un po’ di lucida consapevolezza delle serie responsabilità dinanzi alle quali tutti noi siamo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10277
« Ultima modifica: Luglio 07, 2012, 11:11:34 am da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 07, 2012, 11:12:01 am »

7/7/2012

La Costituente che non serve

UGO DE SIERVO

Siamo in una situazione nella quale un po’ tutti - salvo i proponenti, almeno ufficialmente - stanno prendendo atto che l’iperattivismo volto a rivedere grosse parti della nostra Costituzione ha prodotto - come era prevedibile - una situazione di stallo, che mette seriamente a rischio perfino la riduzione del numero dei parlamentari, tante volte promessa.
Peraltro, a riprova del dubbio livello di cultura istituzionale di tanti, invece di serie autocritiche sull’uso improprio e strumentale delle proposte di revi sione co stituzionale, continuano ad essere avanzate iniziative ancora più pericolose di riscrivere intere parti o addi rittura l’intera Costituzione.
E ciò mediante fantasiosi referendum o addirittura l’elezione di apposite Assemblee costituenti.

Due sono le obiezioni preliminari: anzitutto non è minimamente credibile che tutto ciò che è avvenuto di tanto discutibile sul piano istituzionale nella presente legislatura possa essere addebitato alla nostra Costituzione e non alla cattiva politica di tanti. In realtà le modeste capacità realizzative evidenziate dal trascorso governo non derivano certo né da carenze numeriche della sua ampia maggioranza parlamentare, né da difficoltà di poter disporre di strumenti legislativi (siamo, anzi, in una legislatura nella quale il Governo ha esercitato più poteri di tipo legislativo del Parlamento). Inoltre, se è vero che non di rado si è giunti perfino a dichiarazioni di incostituzionalità di disposizioni legislative di recente adozione, ciò purtroppo corrisponde a palesi violazioni della legalità costituzionale e di principi del tutto fondamentali come l’eguaglianza, la non discriminazione, la ragionevolezza. In una democrazia nessun potere può credere di non aver limiti.

In secondo luogo, sembra che anche nell’attuale straordinaria contingenza politica sia estremamente lenta e contraddittoria la risposta dei gruppi parlamentari alle loro specifiche responsabilità legislative su temi di natura istituzionale: si pensi alle progettazioni di nuove legislazioni sui partiti politici, sul loro finanziamento, sulla legge elettorale, sulla stessa riduzione del numero dei parlamentari. Ciò rivela gravi incertezze progettuali ed anche grande debolezza dei partiti a vincere i residui tenaci interessi contrari. Ma si pensi anche all’ assoluta resistenza dei parlamentari a modificare in modo sostanziale il nostro Parlamento, con la trasformazione di una delle Camere in un organo rappresentativo degli enti territoriali, così come dovrebbe essere normale in un assetto seriamente regionale, se non federale, e secondo quanto per tanti anni si è detto e scritto.

Insomma: gli stessi soggetti politici che non hanno usato in modo corretto ed efficace i grandi poteri di cui disponevano, che non hanno neppure modificato tante istituzioni che ben potevano migliorare (si pensi, ad esempio, alla legislazione su Regioni ed enti locali o ai regolamenti parlamentari), che neppure ora riescono a dare risposte efficaci alle loro specifiche responsabilità di «riforma della politica», adesso scoprono che la colpa di tutti i guai è la Costituzione, che quindi deve essere da loro rapidamente modificata.

Fra le varie proposte, quella del senatore Pera di istituire addirittura una nuova Assemblea costituente merita qualche chiarimento specifico, dal momento che curiosamente appare anche sostenuta da alcuni organi di stampa, evidentemente affascinati dalla proposta di un evento tanto straordinario.

Appunto, si tratterebbe di un evento del tutto eccezionale, dal momento che non si tratterebbe di modificare singole parti della Costituzione ma di rifarla integralmente: ma le Costituzioni non sono leggi ordinarie e pertanto anche relativamente precarie, ma norme del tutto speciali e fatte per durare per lunghi periodi, essendo finalizzate a individuare e stabilizzare valori e regole comuni per le persone ed i gruppi sociali di un’intera comunità statale e a configurare un modello efficace di istituzioni democratiche. Non a caso, durante la nostra Assemblea costituente si è usata l’espressione «casa comune» per definire appunto la Costituzione che si andava elaborando; ciò evidentemente non significa che essa nel tempo non debba essere adeguata e migliorata, ma a ciò si può agevolmente provvedere con il procedimento di revisione costituzionale, che nel nostro sistema è piuttosto agevole.

Qui emerge un secondo elemento di riflessione: mentre nella revisione costituzionale è indispensabile un assenso superiore alla mera maggioranza politica presente in Parlamento, in un’Assemblea costituente si decide a maggioranza, anche se è naturale che si ricerchi un consenso molto vasto sulle nuove «regole del gioco»: la nostra Costituzione fu infine approvata, dopo tante discussioni, da circa il 90% dei costituenti, ma qualcosa del genere appare del tutto improbabile in una fase storica di polarizzazioni delle forze politiche e contemporaneamente di grandi incertezze etico-culturali.

Ma soprattutto le Costituzioni nascono in «momenti duri e tragici», per ripetere l’efficace espressione del giovane Aldo Moro proprio alla Costituente, quando cioè si verificano in un paese o eventi rivoluzionari, o gravi sconfitte belliche, o irrimediabili distacchi di massa dalle regole collettive. Ed in genere proprio l’estrema gravità delle situazioni dalle quali si esce, o nelle quali si opera, dà alle forze politiche la spinta per superare felicemente le logiche eccessivamente partigiane e per ricercare, invece, regole e valori largamente condivisi.
Tutt’altra cosa da quanto esiste adesso, pur con tutti i problemi e le tante insoddisfazioni. Il vero problema non sono nuove regole costituzionali, ma l’ urgente necessità di un deciso miglioramento della qualità progettuale espressa dalle diverse forze politiche, con il recupero effettivo del primato degli interessi comuni.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10307
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« Risposta #3 inserito:: Settembre 04, 2012, 10:57:17 am »

2/9/2012

Quirinale, le ragioni di un privilegio

UGO DE SIERVO

Le polemiche, sempre più sgradevoli e sfilacciate, che si sono prodotte a causa dell’ascolto e dell’inopinata conservazione da parte della Procura di Palermo di alcune intercettazioni «casuali ed indirette» di conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica possono contribuire a spiegare i motivi istituzionali del particolare privilegio che è attribuito al Presidente dalla nostra Costituzione.

Ciò appare opportuno, anche perché la sentenza della Corte Costituzionale sul conflitto sollevato dalla presidenza della Repubblica non potrà giungere prima del prossimo dicembre, pur con tutte le opportune accelerazioni del caso (mentre l’udienza del 19 settembre prossimo riguarda la mera ammissibilità del conflitto, che peraltro appare scontata).

Fino ad allora purtroppo si continuerà a operare in un contesto nel quale chiunque potrà cercare di trarre qualche vantaggio dalla irresponsabile asserzione dell’uno o dell’altro contenuto delle conversazioni intercettate ed i pochi – si spera - che quelle conversazioni davvero hanno ascoltato disporranno di un potere del tutto improprio e saranno sottoposti a molteplici pressioni per rivelarle o comunque farle conoscere.

In un contesto pre-elettorale in cui alcuni soggetti sembrano disposti, in modo del tutto irresponsabile, ad ogni presa di posizione che reputino per loro utile o comunque tale da indebolire (o vendicarsi di) presunti avversari, già sono emerse varie e pericolose campagne di stampa o politiche, che nel loro complesso possono creare oggettivi turbamenti all’esercizio delle delicatissime funzioni di cui dispone un organo individuale di «garanzia ultima» del sistema, come il Presidente della Repubblica.

Allora è bene cercare di chiarire le ragioni istituzionali che sono alla base del divieto di sottoporre il Presidente della Repubblica a controlli relativi alle sue conversazioni, salvo il caso limite che al Presidente si imputi da parte del Parlamento un delitto di attentato alla Costituzione o di alto tradimento. Nel nostro sistema costituzionale, gli altri organi politici sono sottoposti a maggiori controlli poiché sono revocabili da parte di chi li ha nominati, ma essi trovano la loro forza proprio nella permanenza del rapporto fiduciario: basti pensare al rapporto fiduciario della maggioranza parlamentare verso i componenti dei governi, che può portare alla sfiducia, ma più comunemente al superamento di eventuali fasi critiche sorte in riferimento a loro comportamenti. Il Presidente della Repubblica ha invece un incarico a durata fissa, non è di norma revocabile o sostituibile, e quindi la sua autonomia personale viene particolarmente tutelata poiché l’eventuale sistematica contestazione delle modalità di normale esercizio dei suoi poteri potrebbe portare ad un irrimediabile logoramento della sua persona e all’impossibilità di un libero esercizio dei suoi poteri.

Né si dica che questo vale solo nel quadro costituzionale, dove non è negabile che l’art. 90 della Costituzione afferma la normale irresponsabilità del Presidente relativamente agli «atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni». Sul piano legislativo, invece, ci troveremmo dinanzi ad una lacuna incolmabile, se non ad opera del futuro legislatore, per tutto ciò che riguarda la disciplina dei suoi privilegi: a prescindere che – come molti hanno ricordato - una legge già esiste e permette le intercettazioni delle conversazioni del Presidente solo in ipotesi del tutto particolari ed in riferimento al presunto compimento da parte sua di due eccezionali delitti, si dovrebbe ben sapere che il nostro sistema giuridico è unitario e ricomprende, insieme alle leggi, anche la Costituzione, le norme comunitarie e quelle internazionali direttamente applicabili. Più in particolare, i magistrati italiani sanno bene che la Corte Costituzionale addirittura da vari anni esige che le questioni di legittimità siano sollevate dai giudici solo dopo aver cercato di eliminare il dubbio di costituzionalità della legge tramite una sua interpretazione fondata sulla Costituzione. Ma allora, come si fa a nascondersi dietro l’assenza di una norma specifica che dica come fare a distruggere le intercettazioni casuali di una conversazione di un Presidente della Repubblica senza coinvolgere ulteriori soggetti? E ciò mentre il fatto stesso della conservazione, oltre che la previa lettura, di quelle intercettazioni produce comunque danni oggettivi, come stiamo purtroppo constatando.

Ma se le cose stanno in questi termini, ben si capisce come sia del tutto improprio parlare della risoluzione del problema solo nell’ambito della tanto contrastata revisione della legislazione in tema di intercettazioni: mentre per tutti noi, cittadini comuni, il problema si riduce ad una migliore redazione ed efficace applicazione della disposizione relativa alla eliminazione delle parti penalmente irrilevanti delle registrazioni operate, il problema che sembra stare a cuore di tanti parlamentari è il destino di intercettazioni indirette o casuali di conversazioni telefoniche che coinvolgano i parlamentari, in assenza della previa autorizzazione parlamentare prevista dal terzo comma dell’art. 68 della Costituzione. Ma per il Presidente della Repubblica è lo stesso sistema costituzionale, nonché l’art. 7 della legge n. 219 del 1989, che vietano espressamente le intercettazioni salvo che nei casi specifici previsti, con tutto ciò che logicamente ne deve conseguire.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10482
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« Risposta #4 inserito:: Settembre 20, 2012, 05:03:55 pm »

20/9/2012

Al di fuori della lotta politica

UGO DE SIERVO

A proposito della ordinanza della Corte costituzionale che ha ammesso il conflitto sollevato dal Presidente della Repubblica nei confronti della Procura dellaRepubblicadiPalermo,ci si potrebbe limitare a dire che la decisione era del tutto scontata, data la ampia serie dei precedenti in materia nella giurisprudenza della Corte. Se non vi è dubbio, infatti, che le due parti in causa sono supremi organi dello Stato, nell’ambito delle competenze loro attribuite dal sistema costituzionale e legislativo, non sembra neppure seriamente negabile che l’oggetto del conflitto su cui era chiesto di giudicare (e cioè la intercettazione, per quanto indiretta ed asseritamente casuale, di conversazioni riservate del Presidente della Repubblica e la loro successiva equiparazione processuale a quelle di un qualsiasi altro cittadino) possa almeno in astratto produrre una menomazione delle attribuzioni costituzionali del Presidente.

D’altra parte, dovrebbe essere noto che nella fase della ammissione dei conflitti, la Corte costituzionale è in genere assai larga nell’ammetterli, semmai riservandosi di riesaminare più a fondo la stessa ammissibilità del conflitto nel momento del giudizio, allorché dispone di più ampie ed approfondite ricostruzioni delle vicende che sono portate al suo giudizio. Nessuna sorpresa, quindi. Semmai merita qualche rapido commento l’ingiustificato ed anche preoccupante tentativo di alcuni organi di stampa di caricare di significato improprio questa prima decisione, se non di cercare di premere sulla stessa Corte o sui suoi componenti. Quasi che si volesse trascinare anche la Corte nella lotta politica in corso o nel brutto clima denigratorio che circonda tante istituzioni.

Così si è cercato più volte di rappresentare in modo irridente, se non denigratorio, la Corte come composta da una serie di cortigiani, aprioristicamente impegnati a sostenere le posizioni del Quirinale, anche contro quelle che sarebbero evidenti verità; di recente si è persino cercato di dedurre da sommarie ed allusive vicende biografiche dei giudici relatori nel conflitto i loro possibili orientamenti, quasi a volerne dedurre l’esistenza di aprioristici orientamenti. Ma poi qualche giornalista si è persino esibito in severe lezioncine giuridiche contro i poveri commentatori di altri giornali che avevano sostenuto tesi giuridiche diverse da quelle della Procura palermitana.

Quando poi una importante agenzia di stampa alcuni giorni fa si è discutibilmente inventata l’esistenza sostanziale di una decisione come quella odierna della Corte costituzionale (quasi che le decisioni non possano che essere prese solo in Camera di consiglio), molti giornali hanno acriticamente riprodotto la falsa notizia, senza rendersi conto della gravità di attribuire ad un organo giudiziario di avere in realtà già deciso prima dello svolgimento del processo.

Addirittura alcuni altri giornali hanno cercato di mettere in ridicolo la Corte, accusandola di operare con insopportabile lentezza, allorché dovrebbe, invece, sapersi che i tempi dei suoi giudizi (che riguardano temi in genere assai complessi) sono di gran lunga quelli più brevi fra tutti gli organi giurisdizionali operanti nel nostro paese. Ma soprattutto dovrebbe essere ben noto che i tempi necessari per lo svolgimento dei giudizi costituzionali dipendono essenzialmente dalla necessità di dare alle parti del processo dei tempi sufficienti, anche se non eccessivi, per esercitare il loro diritto di difesa.

Non che la Corte ed i suoi componenti siano immuni da controlli della pubblica opinione, o non possano fare errori, ma per fare eventualmente critiche efficaci e non distruttive, occorrerebbe cercare di conoscere le diverse e delicate funzioni della Corte costituzionale, le sue procedure e la sua ormai lunga e significativa storia.

Al di là di tutto ciò, comunque auguriamoci che anche la soluzione del conflitto oggi ammesso riesca a riportare piena chiarezza e serenità negli organi coinvolti.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10547
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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 07, 2012, 03:39:21 pm »

Editoriali

07/10/2012

Costi Regioni, la farsa e la realtà

Ugo De Siervo

Giovedì il governo ha approvato un decreto legge «sulla trasparenza e la riduzione dei costi degli apparati politici regionali nell’obiettivo di assicurare negli enti territoriali una gestione amministrativa e contabile efficiente, trasparente e rispettosa della legalità»: si tratta, con tutta evidenza, della risposta in termini legislativi alle sconcertanti e deplorevoli vicende emerse in alcune Regioni, che giustamente hanno sollevato tante indignate reazioni nell’opinione pubblica. 

Si tratta di innovazioni per lo più largamente condivisibili per cercare di porre limiti ad un degrado impressionante di alcune parti degenerate delle nostre classi politiche, anche se alcune innovazioni potranno produrre effetti solo a distanza di tempo. Semmai, l’evidente urgenza di intervenire ha prodotto anche qualche norma eccessiva o opinabilmente fondata sullo sperato effetto taumaturgico dei controlli operati dalla Corte dei Conti (con tutto il dovuto rispetto verso quest’importante organo, bisognerebbe ricordarsi che essa controlla già da molti anni alcune Regioni speciali, fra cui alcune delle più «chiacchierate»).

Al di là di questo necessitato decreto legge, occorre però evitare di passare troppo in fretta da acritiche ubriacature «federalistiche», tanto diffuse fino a poco tempo fa, a confuse ed errate imputazioni a Regioni ed Enti locali di essere la parte peggiore dell’evidente degrado delle classi politiche.

Con ciò anche contribuendo a far dimenticare quanto negli ultimi anni è emerso di insopportabile nei comportamenti di parti significative ed importanti della classe politica nazionale, oltre a tutto anche responsabile della legislazione lassista che ora si cerca frettolosamente di correggere. 

Addirittura alcuni sono arrivati a proporre di rimediare alla situazione attuale eliminando le Regioni: a rozze posizioni del genere credo che basti replicare che ciò significa che essi ritengono allora preferibile affidare a nuove burocrazie statali tutto ciò che attualmente spetta alle Regioni, pur con tutti i loro limiti, ma certo almeno con la possibilità di controlli dei cittadini/utenti dei servizi e delle politiche. In altri termini, se si parla di trasparenza, di efficienza e di legalità, occorre, prima di far proposte del genere, porsi seriamente il problema se tutto ciò sia più garantibile con le strutture di un nuovo Stato accentrato (tutto ciò mi fa ricordare un beffardo proverbio toscano, secondo il quale «alcuni parlano per dar aria ai denti»).

Altri, invece, indicano come necessario ed urgente riscrivere le norme costituzionali in materia regionale (il «famigerato» Titolo V): a questi occorre ricordare che molte di queste norme sono certamente discutibili, ma che la maggior parte dei problemi deriva, in realtà, dal fatto che in un periodo di oltre dieci anni il sistema politico nazionale non ha adottato, se non in minima parte, tutte quelle leggi di attuazione/integrazione della Costituzione che erano indispensabili per far funzionare il nuovo sistema. A tutta questa legislazione mancante si è cercato di supplire con confuse mediazioni o, più comunemente, cercando addirittura di operare come se la Costituzione non fosse mutata. Ma soprattutto adesso non si può illudere l’opinione pubblica che agli urgenti problemi attuali si possa porre rimedio solo correggendo la Costituzione; oltre a tutto, le riforme costituzionali esigono tempo e poi devono essere attuate.

Se si vuole cercare davvero di porre rimedio al progressivo degrado dell’etica di parti delle classi politiche nelle istituzioni centrali e periferiche, occorre quindi evitare false o parziali rappresentazioni della realtà ed adottare poi linee correttive quanto meno analoghe, se non eguali. Ad esempio, non può sfuggire la contraddizione di un Parlamento che sarà chiamato a convertire in legge il decreto adottato dal Governo, quindi riducendo il numero dei Consiglieri regionali, i loro trattamenti economici e previdenziali, il finanziamento dei gruppi consiliari, i controlli su alcuni atti degli organi regionali, che però o non ha adottato nulla del genere su se stesso (si pensi al numero dei deputati e dei senatori, che con tutta evidenza non verrà mutato, malgrado tutti gli impegni assunti pubblicamente) o ha adottato normative legislative o regolamentari assai limitate e parziali in tutto il vasto settore nel quale entrano in gioco la condizione dei parlamentari ed i loro trattamenti. 

da - http://www.lastampa.it/2012/10/07/cultura/opinioni/editoriali/costi-regioni-la-farsa-e-la-realta-o2mliQJFFWhDwfDQoNiCON/index.html
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« Risposta #6 inserito:: Ottobre 15, 2012, 05:54:58 pm »

Editoriali

15/10/2012 - regioni e province

Le riforme all’improvviso

Ugo De Siervo

Da alcuni giorni si è in attesa di conoscere il testo del disegno di legge di riforma della Costituzione che il Consiglio dei Ministri ha approvato e che riguarda un tema di grande importanza come la riconfigurazione dei poteri delle Regioni: se già è discutibile un ritardo del genere, mentre tanti vorrebbero conoscerne l’effettivo contenuto, è palese il rischio che le tante reazioni perplesse di amministratori e di studiosi portino alla sua mancata adozione, visti anche i tempi assai ridotti a disposizione del Parlamento per una riforma costituzionale del genere. 

 

Comunque, sia nel comunicato stampa del Governo dopo il Consiglio dei Ministri sia in varie dichiarazioni successive (fra cui in particolare l’intervista a questo giornale del ministro Patroni Griffi) è chiaro che l’oggetto principale dell’iniziativa governativa è il trasferimento di alcune competenze regionali allo Stato in alcune importanti materie e l’attribuzione alla legge statale del potere di imporre alle Regioni nelle loro materie legislative tutti i contenuti che ritenga necessari a «tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica». 

Tutto ciò per riportare razionalità nel Titolo V della nostra Costituzione, che avrebbe messo in luce molti difetti.

 

Non vi è dubbio che la riforma del 2001 del nostro regionalismo merita anche molte critiche ed ha prodotto pure un’abnorme conflittualità fra Stato e Regioni in sede di giudizi di costituzionalità (di cui sono stato anche diretto testimone). Però i difetti del nostro regionalismo non si riducono affatto a quelli a cui ora si dice di voler porre rimedio: anzitutto, il difetto forse maggiore è la mancanza nel nostro ordinamento di autorevoli organi di confronto e mediazione fra esigenze nazionali ed interessi regionali e locali, che possano ridurre, se non prevenire, tanti conflitti . Non a caso, in tutti i Paesi con forti autonomie territoriali esiste a livello parlamentare una Camera in un modo o nell’altro rappresentativa delle realtà locali, sostanzialmente investita del compito di aiutare la produzione di leggi accettabili nella specificazione delle generali linee costituzionali di riparto delle competenze fra centro ed entità territoriali. Ma poi in Italia la riforma del 2001 non è stata – come, invece, sarebbe stato del tutto doveroso - seguita dall’adozione di tutta una serie di leggi indispensabili per farla funzionare (norme cornice o di principio, trasferimenti di apparati amministrativi, disciplina dell’autonomia finanziaria, ecc.), che avrebbero potuto anche ridurre molto le varie aree di frizione. 

 

In questi anni quindi la Corte Costituzionale è stata chiamata a cercare di riportare ordine in rapporti troppo conflittuali per tutti questi motivi e non già solo per la cattiva scrittura di alcune disposizioni costituzionali, che ora si vorrebbe mutare. Pur con grande fatica, essa è riuscita a contenere le maggiori forzature regionali, ma anche statali (poiché non di rado il nostro legislatore nazionale ha operato come se le innovazioni costituzionali del 2001 non esistessero).

 

Ridurre ora il problema del nostro regionalismo ad un problema di diminuzione dei poteri regionali (tra l’altro, in concreto finora largamente contenuti dal legislatore nazionale e dalla giurisprudenza costituzionale), senza metter mano a tutto il resto, appare quindi molto criticabile. Ma soprattutto un tema del genere non può essere affrontato all’improvviso, alla fine di una difficile legislatura, mentre al legislatore nazionale e a quelli regionali non mancano certo tante altre serie urgenze. 

 

La stessa operazione di riordino dei territori provinciali, oggettivamente molto più semplice e che dipende comunque dall’adozione di un’apposita legislazione ordinaria e non da un’ampia riforma costituzionale, appare assai meno sicura di quanto ottimisticamente si dica. Il Governo, infatti, non ha ricevuto una delega legislativa in materia, e quindi non potrà che presentare un apposito disegno di legge o tentare la via rischiosa di un apposito decreto legge. Ma comunque spetterà al Parlamento, o in sede di adozione della legge, o in sede di conversione del decreto legge del Governo, consentire al nuovo disegno di tutto il sistema degli enti locali di secondo livello; ma ciò significa che sarà davvero difficile, nel clima acceso che si è registrato in tante realtà territoriali e per di più in un periodo sostanzialmente preelettorale, che vari parlamentari consentano con quella che sarà la proposta governativa, ignorando le forti opposizioni esistenti nei loro collegi elettorali.

Aggiungere quindi ai problemi di riordino delle Province, che ci auguriamo comunque superabili, pure quello di rimetter mano al Titolo V, appare davvero un po’ imprudente.

da - http://lastampa.it/2012/10/15/cultura/opinioni/editoriali/le-riforme-all-improvviso-bm7OSGfS3RtZv0KBHoPxmK/pagina.html
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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 16, 2013, 04:44:42 pm »

Editoriali
16/01/2013

Quei paletti fissati dalla sentenza

Ugo De Siervo

In poco più di cinque mesi la Corte costituzionale ha risolto in via definitiva il conflitto sorto fra Presidenza della Repubblica e Procura di Palermo: con le motivazioni depositate ieri la Corte spiega perché la Procura non avrebbe dovuto neppure valutare i colloqui del Presidente della Repubblica intercettati indirettamente, mentre avrebbe dovuto operare subito per la loro eliminazione, senza coinvolgere nel procedimento alcun estraneo alla magistratura. 

 

La Corte, a riprova di una larga convergenza di valutazioni nel collegio, è molto netta nelle affermazioni e chiara nelle argomentazioni; ciò forse perché occorreva pure rispondere a qualche eccessiva argomentazione difensiva o a vivaci campagne giornalistiche, arricchite pure da arzigogoli pseudo-giuridici.

 

Considerata la diffusione di ardite ricostruzioni sulla posizione costituzionale del Presidente della Repubblica, vale la pena di sintetizzare il convincente andamento argomentativo della Corte. Si parte dalla constatazione che il Presidente della Repubblica svolge funzioni essenzialmente finalizzate a permettere il buon funzionamento del complessivo sistema istituzionale, in particolare facendo superare momenti di eccessivo contrasto fra i soggetti politici o di smarrimento della consapevolezza dei massimi valori accomunanti.

 

Ma questa funzione di moderazione e di stimolo nei confronti degli altri poteri non si esprime solo attraverso alcuni poteri presidenziali formalizzati, ma anche attraverso la continua creazione di «una rete di rapporti» con i diversi soggetti istituzionali e sociali: e queste attività di raccordo e di influenza «possono e devono essere valutate e giudicate, positivamente o negativamente, in base ai loro risultati, non già in modo frammentario ed episodico, a seguito di estrapolazioni parziali e indebite». Ma allora «il Presidente della Repubblica deve poter contare sulla riservatezza assoluta delle proprie comunicazioni…».

 

La normale riservatezza sull’attività presidenziale è quindi un presupposto ineliminabile della figura presidenziale, salve le sole espresse eccezioni contenute nelle fonti costituzionali. Ed, in effetti, l’art. 90 della Costituzione pone le premesse per eccezioni del genere, ma solo in riferimento ai casi gravissimi dell’alto tradimento e dell’attentato alla Costituzione; se poi la legge attuativa di questa disposizione costituzionale prevede solo per questi gravi delitti alcune forme di intercettazione delle conversazioni presidenziali, tutto ciò conferma la generale riservatezza su quanto il Presidente afferma in conversazioni non pubbliche.

 

Da tutto ciò deriva che se organi giudiziari vengono casualmente in possesso di conversazioni del Presidente della Repubblica, non devono «portare ad ulteriore conseguenza la lesione involontariamente recata alla sfera di riservatezza costituzionalmente protetta»: e gli esempi portati nella sentenza si riferiscono a molto discutibili vicende concrete intervenute, come la valutazione del contenuto delle conversazioni o addirittura la notizia data ai mezzi di comunicazione che in determinate indagini vi sono registrazioni di conversazioni dal Presidente della Repubblica.

 

Quanto poi alle modalità per distruggere in modo del tutto riservato il materiale che non avrebbe dovuto essere intercettato, la Corte costituzionale motiva abbondantemente l’utilizzabilità di una disposizione del Codice di procedura penale che la Procura aveva escluso, ma che già permette la distruzione di alcune conversazioni illecitamente intercettate. 

 

Anche a questo proposito - questo mi sembra assai significativo - la Corte invita i giudici della Procura a non chiudersi strumentalmente in interpretazioni restrittive della legislazione, allorché altre possono essere le vie di risoluzione dei problemi, alla luce dell’insieme dei principi costituzionali. 

 

Auguriamoci davvero che questa sentenza rassereni il contesto surriscaldato dal momento elettorale e si dimostri ormai superato l’antico proverbio secondo cui «non c’è peggior sordo di colui che non vuol sentire».

da - http://lastampa.it/2013/01/16/cultura/opinioni/editoriali/quei-paletti-fissati-dalla-sentenza-nAj7vB4UTB0GQTFDR1EdML/pagina.html
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« Risposta #8 inserito:: Febbraio 11, 2013, 11:43:00 pm »

Editoriali
11/02/2013

Regioni , la riforma dimenticata

Ugo De Siervo

Nella brutta campagna elettorale in corso, caratterizzata da troppe acri polemiche, se non da incredibili sparate demagogiche, sembra che ci si sia quasi del tutto dimenticati dei programmi o – meglio – dei problemi della nostra società a cui cercare di dare risposte praticabili e convincenti, anche secondo quanto si era largamente promesso. 

 

Fra questi problemi che sembrano improvvisamente scomparsi, salvo qualche implicita minaccia separatista, ci sono addirittura le Regioni, grandi ed autorevoli soggetti rappresentativi, responsabili di politiche e servizi pubblici fra i più importanti per i cittadini e per la stessa funzionalità complessiva del nostro sistema istituzionale: basti pensare che dal loro funzionamento dipende in larga parte il nostro sistema sanitario e quello assistenziale, le scelte urbanistiche, i trasporti locali (solo per fare pochi esempi). Tutti però concordano che, così come sono, le Regioni sono non poco in crisi, perché a vecchi elementi di disfunzionalità si sono venuti sommando tutti i problemi del mancato decollo delle riforme costituzionali che fra il 1999 ed il 2001 hanno profondamente modificato il Titolo V della Costituzione, che appunto disciplina l’ordinamento regionale e locale. 

 

Per evidenti motivi politici queste riforme costituzionali sono state abbandonate a se stesse, mentre avrebbero richiesto molteplici leggi statali specificative ed attuative; ci si è in sostanza limitati a progettare un complesso sistema di finanziamento «federale», che peraltro è restato largamente sulla carta, mentre troppo spesso lo Stato centrale ha preteso di operare come se le riforme costituzionali non fossero intervenute: da tutto ciò l’esplosione della conflittualità fra Regioni e Stato (nel 2012 le sentenze della Corte costituzionale relative ai conflitti Stato/Regioni sono state pari al doppio di tutte le altre sentenze, relative ai cittadini ed ai gruppi sociali). 

 

Sembra evidente che il nostro sistema istituzionale non possa continuare a funzionare in una situazione di permanente ed irrisolta conflittualità, se non di radicale incomprensione, fra istituzioni nazionali e istituzioni locali: i poteri esercitati a livello regionale sono troppo ampi e rilevanti perché possano essere ancora sopportati gravi difetti e disfunzionalità che mettono seriamente in gioco il nostro Stato sociale, se non la qualità della nostra democrazia. Occorre perciò uscire, una volta per tutte, dall’inconcludente ed ormai pericolosa guerriglia fra autonomisti ed anti-autonomisti, fra sedicenti federalisti e centralisti fuori tempo, ricercando precise prospettive da perseguire e l’effettiva piena organicità dei processi correttivi dell’esistente. Ciò anche ripensando alle stesse motivazioni di fondo di queste istituzioni, dal momento che enormi sono state le trasformazioni sociali, economiche, tecnologiche intervenute nelle realtà locali rispetto al momento in cui le Regioni sono state progettate. 

 

Ma ciò senza farsi travolgere da critiche semplicistiche, che sono giunte perfino a proporre di sopprimere le Regioni, quasi che si potesse ipotizzare di attribuire a nuove burocrazie statali tutto ciò che si è in qualche misura finora dato loro e fosse anche concepibile eliminare la selezione da parte del corpo elettorale di rappresentanti a livello regionale. Le stesse critiche che si fondano sui gravi episodi di malcostume di parte delle classi politiche regionali, dovrebbero considerare che purtroppo qualcosa di analogo è emerso in tante altre istituzioni pubbliche e private.

 

Occorre, invece, avere il coraggio di una nuova configurazione delle nostre istituzioni nazionali e regionali, correggendo decisamente i maggiori difetti emersi, senza peraltro negare il superamento dello Stato burocratico accentrato. Mi permetto di indicare tre sole linee di fondo praticabili in questa direzione: in primo luogo, occorre adeguare l’assetto del nostro Parlamento (la cui composizione deve essere comunque ridotta) alla presenza di forti autonomie territoriali, lasciando alla Camera la natura di Camera politica e caratterizzando il Senato come Camera rappresentativa anche delle autonomie regionali e quindi essenzialmente destinata ad essere la sede autorevole delle necessarie intese fra gli interessi nazionali e quelli esercitabili localmente (nessuna elencazione delle diverse competenze di Stato e Regioni, anche migliore di quella attuale, può da sola ridurre drasticamente la conflittualità!).

 

In secondo luogo, occorre configurare seri meccanismi di bilanciamento fra l’autonomia finanziaria regionale, i finanziamenti perequativi ed i poteri di controllo statali, nonché procedure di effettivo controllo ed autocontrollo su quanto viene attribuito alla discrezionalità delle Regioni, al fine di tutelare pienamente la piena legalità del loro operato.

 

In terzo luogo, infine, occorre farsi carico delle specialità e differenziazioni che siano motivatamente richieste dalle diverse comunità regionali, superando le arcaiche e dubbie normative attuali, che distinguono troppo rigidamente alcune Regioni dalle altre. 

da - http://lastampa.it/2013/02/11/cultura/opinioni/editoriali/regioni-la-riforma-dimenticata-ZE8S1cNVs6SIfQxNFTPFQM/pagina.html
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« Risposta #9 inserito:: Agosto 14, 2013, 11:22:24 pm »

EDITORIALI
14/08/2013

Incandidabilità conta la data della sentenza

UGO DE SIERVO

In una stagione difficile delle nostre istituzioni e non poco tormentata per le continue polemiche, sarebbe opportuno almeno intendersi sul significato effettivo delle parole e sul contenuto delle norme che si cerca di applicare o di eludere. Invece, non di rado sembra di essere davvero in una sorta di confusa recita.  
 
Recita nella quale molti attori improvvisano, usando perfino parole inventate o dal significato improprio.  
 
Solo un primo esempio «minore»: qualche giorno fa un noto esponente della Lega non ha trovato di meglio, per continuare a polemizzare con il ministro Kyenge, di lanciare l’idea di un referendum abrogativo della legge che disciplinerebbe il “Ministero” da lei diretto, allorché un parlamentare di lungo corso come Salvini dovrebbe sapere che i Ministri “senza portafoglio”, come la Kyenge, non sono a capo di un Ministero, ma sono invece incardinati nella Presidenza del Consiglio.
 
Che dire poi dell’ardito neologismo «agibilità politica» che si vorrebbe garantire ad ogni costo al senatore Berlusconi, di recente – come ben noto - condannato in via definitiva? Nel linguaggio comune si dovrebbe parlare di privilegio sul piano del trattamento penale per un esponente politico di particolare rilevanza, peraltro in deroga del tutto evidente all’aureo principio di eguaglianza, sorto proprio per affermare che anche i «Principi» sono sottoposti alla legge, come tutti i cittadini.
 
Ma soprattutto un chiarimento appare necessario in relazione all’affermazione di alcuni che sarebbe inapplicabile al senatore Berlusconi o palesemente incostituzionale, in quanto retroattiva, la recente legislazione in tema di incandidabilità, che lo escluderebbe dalle liste elettorali per almeno sei anni, così come da cariche di governo. Infatti, la recentissima legislazione del 2012 si applica pacificamente a tutti coloro che siano stati ritenuti colpevoli in via definitiva per alcuni gravi delitti non colposi: ciò senza distinguere se i delitti siano stati compiuti prima o dopo il momento in cui queste disposizioni sono state rese più severe.
 
Ma, così argomentando, si dimentica che il divieto di retroattività è assoluto solo per le sanzioni penali, come garantito dall’art. 25 della Costituzione, mentre in tutti gli altri casi il legislatore può disporre anche retroattivamente, salva solo l’eventuale palese irragionevolezza della disciplina. Nel caso a cui ci si riferisce esisteva un forte allarme sociale per fenomeni di diffusa illegalità e per anomali rapporti fra parti delle classi politiche e soggetti di dubbia correttezza amministrativa; anche da ciò la consapevole scelta del nostro legislatore di rendere più stringente la precedente disciplina, chiedendo in particolare più severi requisiti per coloro che intendono candidarsi alle elezioni o rimanere ad operare nelle assemblee elettive, così come è reso largamente possibile al legislatore dall’art. 51 della Costituzione.  
 
In quest’opera di opportuno rafforzamento della precedente legislazione è rimasto ovviamente confermato il principio che, al fine di ridurre i pericoli di degrado delle assemblee elettive, ciò che conta non è la data di compimento dei reati, ma il passaggio in giudicato della sentenza che ha accertato in via definitiva la colpevolezza dell’imputato che desidererebbe restare od entrare nelle assemblee rappresentative.

DA - http://www.lastampa.it/2013/08/14/cultura/opinioni/editoriali/incandidabilit-conta-la-data-della-sentenza-YWzDud6C5Ma0O27iSsmeGN/pagina.html
« Ultima modifica: Novembre 29, 2013, 07:02:03 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #10 inserito:: Ottobre 15, 2013, 05:12:41 pm »

Editoriali
15/10/2013

Le riforme non più rinviabili

Ugo De Siervo

Intorno alla nostra Costituzione si sta sviluppando un confronto confuso ed animoso: a Roma si è addirittura svolta una vivace manifestazione per «salvare la Costituzione» che potrebbe essere - secondo gli organizzatori dell’iniziativa - rapidamente stravolta in senso presidenzialistico, mentre nulla si fa per il miglioramento della politica e per dare attuazione ai valori costituzionali. D’altra parte, pochi giorni fa si è assistito, sempre in nome della difesa della Costituzione vigente, a vistose proteste del Movimento Cinque Stelle, giunte perfino all’«occupazione» del tetto di Montecitorio.

Al tempo stesso, alcuni commentatori hanno accusato i promotori della manifestazione romana di essere solo nostalgici conservatori di regole pericolosamente inadeguate, mentre l’ambiente giornalistico più vicino a Berlusconi continua opinabilmente a sostenere che l’evidente inconcludenza dei suoi governi sarebbe da addebitare a difetti della nostra Costituzione. 

Ma soprattutto colpisce l’animosità delle polemiche, che hanno investito addirittura coloro che hanno operato nel settore. 

Così i componenti della Commissione governativa «per le riforme costituzionali», prima solo un po’ ironicamente definiti «saggi», sono stati tacciati di essere collaborazionisti «del potere», se non volgarmente denigrati da alcuni giornali o da blog che stanno facendo della violenza verbale la loro pericolosa caratteristica; addirittura qualche giornale ha cercato di coinvolgerne alcuni in generiche e non chiare indagini su scorrettezze nella passata gestione di alcuni concorsi universitari. 

D’altra parte, i promotori della manifestazione romana sono stati definiti come sterili denigratori, capaci solo di diffondere sospetti ed ombre per giungere alla creazione di nuove forze politiche o per combattere indirettamente governo e Presidente della Repubblica.

Eppure in termini sostanziali non è intervenuto nulla di nuovo o di imprevisto: è vero che la Commissione per le riforme costituzionali (quella appunto composta dai «saggi») ha consegnato la sua sintetica relazione finale, ma questa non contiene altro che una serie di ragionate considerazioni sui diversi modi per affrontare alcuni dei maggiori nodi di riforma, senza neppure proporre vere e proprie linee di soluzione. Anzi, l’esame delle rapide considerazioni contenute nella relazione potrebbe essere criticata proprio perché spesso non va oltre una corretta ricognizione delle tante e diverse possibili linee istituzionali, senza il più impegnativo suggerimento di quali possano essere le soluzioni preferibili. Questo significa che starà al governo, ai gruppi od ai singoli parlamentari, il compito impegnativo di proporre i disegni di legge di revisione della Costituzione: ma solo dopo queste proposte si potrà esprimere una prima valutazione sulla qualità e rilevanza delle innovazioni proposte, attualmente invece del tutto impossibile.

D’altra parte, è vero che si dovrebbe essere alla vigilia della seconda approvazione da parte delle Camere del disegno di legge costituzionale che, ove in tal modo approvato, permetterebbe la nomina dell’apposito Comitato parlamentare per le riforme costituzionali e l’inizio della vera e propria speciale procedura di revisione della Costituzione. Ma tutto ciò non significa certo che si sia davvero alle soglie di una stagione di organiche revisioni costituzionali, considerando i fragili rapporti fra le forze politiche, la stessa evidente divaricazione delle posizioni dei diversi partiti sui temi costituzionali, nonché la manifesta forza di conservazione delle istituzioni esistenti.

Né la pur discutibile procedura di revisione costituzionale che si prevede di utilizzare rappresenta uno strappo grave rispetto a quanto previsto in generale dall’art. 138 della Costituzione: le tante violente polemiche in materia lasciano sinceramente perplessi, se si considera che qualcosa del genere è stato purtroppo previsto (senza grandi reazioni) sia nel 1993 che nel 1997, allorché due diverse leggi costituzionali cercarono (invano) di agevolare il lavoro di revisione della Costituzione da parte di due diverse Commissioni parlamentari per le riforme. 

Il vero difetto della via prescelta per modificare la Costituzione è, ancora una volta, la tentazione di una complessiva «grande riforma», che appare invece chiaramente impossibile per le troppe contrapposizioni e per la stessa modesta elaborazione culturale dinanzi agli attuali enormi nuovi problemi. Ma piuttosto che fallire ancora una volta, ci deve essere lo spazio per approvare le più pressanti riforme istituzionali, su cui – almeno in apparenza - esiste un vasto consenso: ed è ovvio che si pensi alla trasformazione delle due Camere, ad una razionalizzazione del sistema di governo e di legislazione, ad una sostanziosa modernizzazione del sistema regionale e di amministrazione locale (oltre ovviamente alla nuova legge elettorale). Anche queste riforme esigono però grande impegno di progettazione e di scrittura: ma allora non si comprende davvero il senso delle troppe diffidenti contrapposizioni, dal momento che dovrebbe essere a tutti chiaro che riforme del genere, se fatte bene, possono largamente sbloccare il nostro sistema istituzionale.

da - http://lastampa.it/2013/10/15/cultura/opinioni/editoriali/le-riforme-non-pi-rinviabili-Tt6T0icafgl7eiXeLNk9uL/pagina.html
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« Risposta #11 inserito:: Novembre 29, 2013, 06:58:00 pm »

Editoriali
29/11/2013

Alla Consulta un ricorso inammissibile
Ugo De Siervo


E’ noto che fra pochi giorni la Corte costituzionale dovrà affrontare il problema posto dal ricorso di una sezione della Corte di Cassazione, che dubita della legittimità costituzionale di alcune parti della vigente pessima legislazione elettorale: il premio di maggioranza riconosciuto a chi consegua la semplice maggioranza relativa dei voti a livello nazionale per la Camera ed in ciascuna Regione per il Senato, l’impossibilità di esprimere voti di preferenza all’interno dei candidati proposti dalle varie forze politiche. 

Gli organi di informazione continuano in genere a sostenere che la Corte possa intervenire in materia, malgrado esista una sua costante giurisprudenza che esclude ricorsi del genere, in quanto non fondati sulla previa lesione di precise situazioni soggettive, e quindi ipotizzano che l’organo di giustizia costituzionale si predisponga a modificare più o meno in profondo la legislazione vigente. Si è così sostenuto che la Corte possa accogliere anche tutte le censure sollevate e perfino che possa eliminare tutta la legislazione del 2005, facendo rivivere il precedente sistema elettorale.

Si tratta però di opinioni sinceramente inaccettabili, a cominciare naturalmente dalla tesi più estrema, che ipotizzerebbe che la Corte costituzionale possa giudicare sull’intera legge del 2005: la Corte, invece, deve puntualmente rispondere ai dubbi sollevati dai giudici che ad essa si rivolgono, mentre non può - sulla base della legislazione che la disciplina - estendere il giudizio a disposizioni la cui legittimità costituzionale non sia stata formalmente posta in dubbio. E ciò al di là del fatto che la stessa Corte, appena l’anno scorso, ha escluso che una legge precedente che sia stata abrogata, possa essere fatta «rivivere» per la scomparsa della legge abrogatrice. 

Anche la tesi che la Corte possa far venir meno i (pur assai discutibili) premi di maggioranza va incontro a obiezioni molto serie: anzitutto è evidentemente escluso che la Corte possa manipolare la legge fissando essa stessa le soglie minime (attualmente inesistenti) per il conferimento dei premi di maggioranza, dal momento che un’operazione del genere, altamente discrezionale, non può che spettare ad un organo legislativo. Ma anche la tesi che la Corte possa allora semplicemente far venir meno i premi di maggioranza equivale - come ben noto - a trasformare il vigente sistema elettorale di tipo maggioritario in un sistema proporzionale, realizzando quindi un vero e proprio radicale mutamento legislativo, che però non può che spettare ad organi rappresentativi (così come già evidenziato da non pochi significativi «fuochi di sbarramento» emersi nel dibattito politico).

Allora la tesi che le questioni sollevate dalla Cassazione siano inammissibili non è solo fondata sull’interpretazione costante della legge che disciplina la Corte, ma permette di rispettare una precisa logica istituzionale, che tende a limitare al minimo l’incidenza della Corte nella produzione di nuove legislazioni: se è superata l’antica tesi che la Corte possa essere solo un organo demolitore di norme ( il «legislatore negativo»), però appare davvero impensabile una sentenza della Corte che addirittura produca un nuovo sistema elettorale.

Per quanto sia deplorevole il colpevole immobilismo del Parlamento in materia, la Corte in realtà non dispone della legittimazione a riscrivere i sistemi elettorali. E’ perciò auspicabile che la Corte non si faccia dominare dall’illusione della propria onnipotenza, una sua ricorrente e pericolosa tentazione.

In una democrazia costituzionale il ruolo di ciascun organo costituzionale (le Camere, il Governo, il Presidente della Repubblica, la Corte costituzionale, ecc.) viene definito dalle disposizioni che lo disciplinano, anche se certamente i diversi contesti entro cui essi operano influiscono non poco nello spingerli ad esercitare in modo più o meno incisivo i propri poteri. Ma tutto ciò solo in quello spazio di elasticità che è permesso dal sistema costituzionale, non certo oltre, dal momento che altrimenti viene meno la legittimazione di chi opera al di là dei propri limiti, con molteplici possibili conseguenze negative. Per questo si richiede a ciascuno di questi organi un effettivo autocontrollo nell’esercizio dei propri poteri, malgrado tutti gli stimoli, pur comprensibili, a cercare di supplire il colpevole immobilismo di altri poteri. 

Da - http://lastampa.it/2013/11/29/cultura/opinioni/editoriali/alla-consulta-un-ricorso-inammissibile-UatppzKlDy7qKYKA0ecTtM/pagina.html
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« Risposta #12 inserito:: Gennaio 14, 2014, 05:08:14 pm »

Editoriali
14/01/2014
Dalla Consulta forzature in buona fede

Ugo De Siervo

La lettura della sentenza n.1 del 2014, mediante la quale la Corte costituzionale ha fatto venir meno la legge elettorale del 2005 ed ha provvisoriamente introdotto un sistema proporzionale per l’elezione di Camera e Senato (un sistema certamente non voluto dal legislatore da almeno trent’anni!), conferma in sostanza i giudizi già espressi sulle luci e le ombre di questa importante decisione, quali si deducevano dal noto comunicato stampa. 

Alcuni passaggi della sentenza cercano opportunamente di escludere letture catastrofiche dei suoi effetti: penso, in particolare, alla decisa ed opportuna riaffermazione che questa sentenza non mette in gioco né la legittimità dell’attuale composizione delle Camere né la legittimità degli organi e degli atti del nostro sistema istituzionale.

Non è certo dubbia la scelta di dichiarare illegittimi i premi di maggioranza per i partiti che conseguono più voti alla Camera o nei vari collegi elettorali per la designazione dei senatori: qui la Corte ha buon gioco a denunciare come assolutamente irragionevole l’attribuzione di premi eccessivi a liste di cui non si determina la soglia minima da conseguire. 

Al tempo stesso, però, non solo emergono alcune forzature operate dalla Corte per giungere ad eliminare infine il pessimo sistema elettorale prima esistente, specie modificando in modo rilevante i criteri utilizzati per ammettere il giudizio di costituzionalità (ma è questione alquanto specialistica, che non si può trattare in questa sede), ma soprattutto si riconosce che la legislazione residuata dopo le demolizioni operate dalla Corte è applicabile, in quanto sistema decisamente proporzionalistico nel quale l’elettore dovrebbe poter esprimere una preferenza fra i diversi candidati, con qualche problema. La Corte, infatti, deve riconoscere che per far funzionare davvero il sistema prodotto dalla sentenza, occorrerebbe apportare alcune modificazioni alla legislazione rimasta in vigore, prevedendo, ad esempio, come e dove esprimere la preferenza o come prevedere la graduazione finale degli eletti. La Corte qui se la cava suggerendo di interpretare evolutivamente la legge residuata od addirittura utilizzando il potere regolamentare, ma certo questo suo evidente imbarazzo nel dare questi suggerimenti conferma l’opinabilità della sua decisione relativa al fatto che in sistemi con lunghe liste di candidati occorre restituire all’elettore il potere di esprimere una sola preferenza fra i diversi candidati. 

Ma perché una e non due o tre, se le liste dei candidati sono davvero tanto lunghe, e se quindi l’espressione di una sola preferenza potrebbe essere sostanzialmente inefficace in tanti collegi elettorali ? Qui, in realtà, si ha la riprova pratica che la Corte, certo in buona fede, si è impropriamente avventurata nell’area delle scelte tipicamente politiche, che in quanto tali non possono che spettare al Parlamento.

C’è davvero da augurarsi che il Parlamento attuale, che non sembra incontrare in questa sentenza limiti particolari alla sua discrezionalità legislativa (purché la ricerca ad ogni costo di forti e sicure maggioranze non spinga a nuove esagerazioni ipermaggioritarie) riesca a vincere l’incredibile incapacità attuale dei gruppi parlamentari di varare una legge ragionevolmente maggioritaria. Altrimenti, il rischio effettivo è di trovarsi improvvisamente a votare in un sistema accentuatamente proporzionalistico e per di più neppure particolarmente funzionale.

Da - http://lastampa.it/2014/01/14/cultura/opinioni/editoriali/dalla-consulta-forzature-in-buona-fede-9Tmg6vLHgoFc54VbUIsExM/pagina.html
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« Risposta #13 inserito:: Marzo 03, 2014, 05:44:59 pm »

Editoriali
03/03/2014

Per le riforme ci vuole un metodo
Ugo De Siervo

Questa settimana sapremo finalmente se la proposta di modificare il nostro sistema elettorale va davvero avanti, come sarebbe certamente auspicabile. 

Ma alcune delle tante difficoltà che la proposta sta incontrando dovrebbero far riflettere Matteo Renzi su alcune evidenti debolezze progettuali.

Proprio lui, che si è speso in prima persona per questa importante innovazione, così come per le due riforme costituzionali collegate (bicameralismo e modifica del riparto dei poteri fra Stato e Regioni) che dovrebbero caratterizzare ciò che resta di questa legislatura. 

Non vi sono, infatti, solo importanti contrasti «politici» sulla soglia di voti richiesta al partito più votato per far scattare il premio di maggioranza (35%, 37%, 40%?), o per prevedere o no la possibilità di esprimere un voto di preferenza, o per rinviare l’efficacia della legge al momento in cui non esisterebbe più l’attuale Senato, ma pure tutta una serie di carenze ed imperfezioni del testo legislativo che - così com’è attualmente - lo renderebbero praticamente inefficace.

Questa situazione evidenzia il problema, serio e più generale, che finora è mancata una regia adeguata alle politiche istituzionali, così come è già emerso con il «pasticciaccio» delle Province, là dove la fretta di anticipare una futura possibile riforma costituzionale con interventi legislativi ordinari ha prodotto solo una situazione di grande confusione e alcuni danni sicuri, mentre nel frattempo si sarebbe potuto procedere tranquillamente (se davvero convinti) ad una loro eliminazione con una modifica costituzionale.

Se, infatti, il nuovo sistema elettorale è, in un modo o nell’altro, collegato alle scelte che si vogliono fare a livello di assetto del nuovo Senato, i poteri e la composizione di quest’ultimo non possono che scaturire dalle scelte che vanno fatte in tema di rapporti fra lo Stato e le Regioni. Ma allora è evidente che tutto ciò va attentamente pensato in una visione unitaria e poi realizzato con adeguata coerenza.

Non a caso, nel recentissimo incontro con la stampa l’attuale presidente della Corte Costituzionale ha chiaramente insistito sul fatto che l’abnorme crescita della litigiosità fra Stato e Regioni potrà essere fermata non dalla sola indispensabile semplificazione dei criteri di suddivisione delle responsabilità fra queste istituzioni, ma dalla contemporanea creazione di autorevoli «luoghi istituzionali di confronto, allo scopo di restituire alla politica mezzi più efficaci per governare i conflitti centro-periferia». E naturalmente si è ricordato che in tutti i maggiori ordinamenti regionali e federali esiste una seconda Camera rappresentativa delle articolazione territoriali, pur nella diversità dei modelli realizzati.

E’ urgente quindi passare ad una organica e coerente progettazione istituzionale, che possa guidare con efficacia i lavori parlamentari di revisione di due parti della Costituzione, possibilmente con un lavoro contemporaneo nelle Camere sui diversi disegni di legge di revisione, se si vuole davvero risparmiare tempo (almeno in astratto, nelle aule parlamentari si potrebbe far tutto in sei mesi). 

Destinata a più che probabile fallimento sarebbe, invece, la riemersione della vecchia proposta di cercare di risolvere il problema nominando un’apposita Assemblea Costituente, incaricata di modificare la seconda parte della nostra Costituzione: infatti vi sarebbero naturali reazioni e diffidenze verso una proposta che vorrebbe eliminare la necessità di maggioranze qualificate, con la conseguente possibilità di poter cambiare in modo agevole ben altro oltre i due temi specificamente urgenti. Non bisogna, infatti, mai dimenticare che nella seconda parte della Costituzione si disciplina anche il Parlamento, il Presidente della Repubblica, il Governo, il potere giurisdizionale, la Corte Costituzionale, ecc. Una proposta del genere susciterebbe tali e tante reazioni che nell’esame del relativo disegno di legge di revisione costituzionale quanto meno si consumerebbe inutilmente tutto il tempo che potrebbe essere sufficiente per le due modifiche costituzionali urgenti. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/03/03/cultura/opinioni/editoriali/per-le-riforme-ci-vuole-un-metodo-wEm7NnpcAYKucdYJeZh3bK/pagina.html
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« Risposta #14 inserito:: Luglio 16, 2014, 05:45:54 pm »

Editoriali
15/07/2014

Stato-Regioni, la chiarezza che manca
Ugo De Siervo

Il Senato ha iniziato a esaminare la proposta, rielaborata dalla Commissione interni, di modifica delle disposizioni costituzionali in materia regionale: il testo ora in discussione non si discosta molto dalle proposte originarie del governo, pur introducendo varie specificazioni ed anche qualche parziale miglioramento. 

La proposta resta però caratterizzata da due discutibili scelte di fondo: in primo luogo, diminuiscono molto i poteri legislativi ed amministrativi delle Regioni rispetto a quanto attualmente previsto nel Titolo V della Costituzione, andando anche al di là di quanto era stato ipotizzato dagli stessi critici delle Regioni negli ultimi anni; tutte le innovazioni relative a Regioni e Province non si applicano che alle quindici Regioni ad autonomia ordinaria, mentre per le altre cinque (Sicilia, Sardegna, Valle D’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia) tutto resta come prima, in ipotetica attesa di future modifiche dei loro statuti speciali (che sono leggi costituzionali). 

Addirittura il forte gruppo di pressione che evidentemente ha operato sia al governo che nella Commissione ha addirittura fatto prevedere che queste future modifiche potranno intervenire solo se il Parlamento conseguirà previe intese con le Regioni e Province autonome interessate. 

In verità, la Commissione ha introdotto alcune limitate modifiche nello sterminato elenco di importanti materie o gruppi di materie (circa quarantacinque) di esclusiva competenza statale, al fine di disciplinarle per intero o per permettere la fissazione di «disposizioni generali e comuni» (formula quanto mai generica) in varie materie regionali. Al tempo stesso, la Commissione ha soprattutto tentato di garantire alle Regioni alcune loro funzioni legislative strettamente limitate alla gestione di servizi od interessi regionali, seppur sempre nel rispetto delle leggi statali. Tutto ciò però confermando la possibilità del legislatore statale di intervenire anche nelle materie regionali «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale». 

Malgrado l’intenso lavoro della Commissione, sembra però esser stato mancato l’obiettivo, pur tante volte dichiarato, di introdurre chiarezza nel riparto delle competenze di Stato e Regioni, riducendo così finalmente l’eccessiva conflittualità: si sono, infatti, largamente usate categorie dai complessi confini, come nel caso degli interessi nazionali e di quelli regionali, e non si è affatto chiarito cosa avviene quando interferiscono tra loro materie esclusive statali e materie esclusive regionali. In alternativa ai troppi ricorsi alla giustizia costituzionale, si sarebbe potuto prevedere la necessità di apposite leggi bicamerali di specificazione delle diverse aree di competenza, ma nulla del genere è stato neppure ipotizzato evidentemente per il timore di dover conseguire il consenso del nuovo Senato. 

 

Inoltre una definizione così insicura e fragile delle aree legislative statali e regionali equivale a porre a rischio pure il problema importantissimo della possibilità di un razionale riparto ed efficace riorganizzazione delle funzioni amministrative; ed una conseguenza concreta di tutto ciò è la probabile riedificazione di accresciuti poteri delle burocrazie ministeriali. Occorrerebbe sempre ricordarsi che dietro ai conflitti legislativi fra Stato e Regioni i veri protagonisti spesso sono i soggetti burocratici, chiamati a gestire i vari poteri amministrativi e di spesa, nonché quelle parti delle classi politiche che se ne fanno protettrici. Ed appare paradossale che, da una parte, si polemizzi contro le inefficienti burocrazie statali e, dall’altra, si pongano però le premesse per un deciso accrescimento dei loro poteri.

Una palese conferma della forte diminuzione dei poteri regionali la possiamo trovare nell’ espressa soddisfazione delle Regioni ad autonomia speciale di essersi sottratte a questo processo riformistico, se non in una ipotetica futura prospettiva da loro condivisa: anche se non è sostenibile un’immediata ed automatica modificazione degli speciali Statuti di queste Regioni, sembra evidente che una profonda mutazione del nostro regionalismo non può non riguardare almeno in alcune parti tutte le Regioni, così come è avvenuto anche nel passato. Basti fare solo un esempio fra i tanti possibili: se davvero il nostro Parlamento adottasse una legge espressiva di quel «potere di supremazia» che ora si prevede (quando cioè sarebbero in gioco rilevanti interessi nazionali), è pensabile che l’efficacia di questa legge si debba fermare ai confini delle cinque Regioni speciali? Ma la stessa abolizione delle Province, che è prevista in disposizioni contenute nella parte che si vorrebbe inapplicabile alle Regioni speciali, avverrebbe solo in quindici Regioni?

Tra l’altro, non disciplinare un preciso rapporto fra l’ordinamento di tutte le Regioni non solo accrescerà le polemiche e le tensioni, ma produrrà inevitabilmente molti dubbi interpretativi e quindi altri conflitti giurisdizionali. 

Ma soprattutto una simile scelta, tutta a favore di alcuni fra i più discussi soggetti istituzionali e politici, rischia di non rendere credibile il complessivo processo riformistico che si vorrebbe realizzare.

Da - http://lastampa.it/2014/07/15/cultura/opinioni/editoriali/statoregioni-la-chiarezza-che-manca-z2uBFsDy49yrES84KTXHZP/pagina.html
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