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Autore Discussione: Lucrezia REICHLIN. -  (Letto 8821 volte)
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« inserito:: Novembre 27, 2011, 03:32:23 pm »

La stabilità

La Bce intervenga con più forza sui mercati

L' indipendenza della Banca centrale europea (Bce) è un principio fondamentale che garantisce i cittadini contro la possibilità che pressioni politiche la inducano a creare inflazione. È giusto quindi che Angela Merkel l'abbia difeso nel corso della riunione a Strasburgo con Mario Monti e Nicolas Sarkozy, escludendo dall'ordine del giorno la Bce. Tuttavia, la domanda da porsi non è se la Bce debba salvare l'Italia o altri Paesi «peccatori» ma se la sua politica sia in linea con il suo mandato.

In quanto segue vorrei spiegare perché un intervento della Bce con l'obbiettivo dichiarato della compressione dello spread tra tassi d'interesse sui titoli sovrani è un'azione necessaria all'adempimento del suo mandato di stabilizzazione dei prezzi e non il suo contrario.

In tempi normali il consiglio Bce persegue l'obbiettivo della stabilità dei prezzi con un solo strumento, cioè determinando il livello del tasso d'interesse a breve termine. L'idea è che quest'ultimo poi si trasmetta a tassi più a lungo termine, cioè ai tassi sui prestiti bancari che regolano le condizioni a cui imprese e famiglie ottengono finanziamenti. I tassi a cui si finanziano gli Stati sono anch'essi legati a questi ultimi, ma contengono anche un fattore di rischio che dipende dalle aspettative che il mercato ha sulla solvibilità del Paese.

Dalla crisi finanziaria del 2008 il meccanismo di trasmissione tra il tasso d'interesse determinato dalla Bce e i tassi effettivi che determinano le condizioni del credito si è interrotto per via dell'incertezza sullo stato di salute delle banche e quindi del rischio di credito. Di conseguenza, la Bce, per adempiere al suo mandato, ha dovuto usare altri strumenti oltre al tasso d'interesse a breve tra cui operazioni speciali che facilitano la liquidità per le banche e, dalla primavera del 2010, l'acquisto sul mercato secondario di titoli degli Stati sotto stress. Se la Bce non fosse intervenuta in questo modo non ortodosso, l'Europa avrebbe vissuto una crisi finanziaria gravissima e il sistema bancario sarebbe andato velocemente al collasso. Altre banche centrali nel mondo hanno messo in opera simili operazioni per contrastare la crisi.

La crisi del debito sovrano cominciata in Grecia nel 2010, acuitasi nel 2011 e ormai estesa a gran parte dell'area, ha aggiunto un altro elemento di distorsione tra tassi d'interesse poiché il tasso che si esige per prestare soldi a un Paese fragile è più alto di quello di un Paese solido e la differenza riflette il rischio Paese. Queste differenze tra tassi sui titoli di Stato hanno determinato condizioni di finanziamento del debito sovrano molto diverse tra Paesi, con conseguenze sul costo del credito. Una banca spagnola che ha in bilancio molti titoli spagnoli è colpita negativamente quando questi titoli si svalutano a causa del fattore rischio Spagna. Inoltre, essa ha maggiori difficoltà delle banche dei Paesi a basso rischio nel reperire liquidità sul mercato. Questi costi inevitabilmente si trasferiscono sul costo del credito per i consumatori e le imprese spagnole.

Per la Bce questo crea un problema di politica monetaria che non si era mai manifestato nella storia dell'euro. Questa stabilisce un tasso d'interesse guida uguale per tutti i Paesi, ma la trasmissione tra questo tasso e il costo del credito risulta molto diverso tra di essi: i tassi d'interesse effettivi sono molto più alti in Spagna che in Germania, per esempio. In gergo si dice che il meccanismo di trasmissione della politica monetaria non è omogeneo, cioè la Spagna subisce una politica monetaria che è effettivamente diversa da quella tedesca.

È lecito chiedersi se questo non sia in contraddizione con il principio della politica monetaria unica. La risposta non è semplice. Da un lato una banca centrale non deve agire in modo da illudere il mercato che non ci sia rischio Paese quando questo c'è: una tale politica ucciderebbe ogni incentivo per i governi a mettere in atto il risanamento del bilancio. Dall'altro, per perseguire la stabilità dei prezzi in tutti i Paesi, la banca centrale deve far sì che il meccanismo di trasmissione dal tasso a breve ai tassi effettivi sia omogeneo. Se il fattore rischio riflettesse un reale problema di solvibilità per alcuni Stati, la Bce si troverebbe a far fronte ad un dilemma. Ma se quest'ultimo fosse distorto in quanto causato da un attacco speculativo dei mercati alla cui origine c'è un problema di liquidità e non di solvibilità, il da farsi è chiaro. Francoforte deve intervenire per adempiere al suo mandato di stabilità dei prezzi, cioè non per salvare gli Stati, ma per far funzionare la politica monetaria.

In pratica è difficile distinguere tra solvibilità e liquidità, ma la posta in gioco è troppo alta per poter peccare per il timore di sbagliare. Per ragioni di politica monetaria e per adempiere al suo mandato la Bce dovrebbe darsi un obbiettivo quantitativo sugli spread e programmare gli interventi di acquisto di titoli di Stato e le operazioni di liquidità alle banche necessarie per raggiungere questo obbiettivo. L'annuncio di tale obbiettivo avrebbe un effetto rassicurante per i mercati e darebbe lo spazio ai nuovi governi dell'Europa per mettere in atto le riforme strutturali necessarie a navigare verso una rotta più virtuosa nel lungo periodo. Farlo non significa rinnegare il mandato, ma, al contrario, perseguirlo.

Lucrezia Reichlin

26 novembre 2011 | 7:29© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_26/bce_intervenga_reichlin_ee80e406-17f6-11e1-9544-dc3583e849e1.shtml
« Ultima modifica: Agosto 21, 2014, 06:43:07 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 17, 2013, 11:14:53 pm »

REALTÀ DEI NUMERI, ILLUSIONI ITALICHE

Con la testa sotto la sabbia

Quasi sessant'anni fa Ennio Flaiano immaginò la storia, divertente e malinconica, di un marziano atterrato a Roma e poi ricevuto dalle maggiori autorità. Ma che cosa accadrebbe oggi, se un inviato proveniente da Marte, terminato un viaggio di ricognizione nel mondo, giungesse in Italia per incontrare ministri e banchieri, politici e industriali, deciso a farsi un'idea del nostro Paese? Proviamo a ipotizzarlo.


Dopo avere intercettato grande ottimismo per la ripresa incipiente, il nostro marziano torna in albergo e riguarda gli appunti preparati dai suoi esperti. L'Italia ha oltre il 130 per cento nel rapporto debito-Pil, in crescita: ben al di là delle previsioni di due anni fa quando i più sostenevano che fosse stato raggiunto il picco.

Le prospettive di rientro - sentenziano i tecnici di Marte - sono inesistenti. La crescita del reddito potenziale è infatti, nelle stime più ottimiste, appena sopra lo zero, l'inflazione presente e attesa è al di sotto dell'uno e mezzo (1,3 in agosto), ma i tassi d'interesse effettivi sono in rialzo. Dati poco incoraggianti per la sostenibilità del debito.

Dai giorni della crisi più profonda - precisano poi gli esperti - l'Italia non ha fatto niente per rilanciare la competitività. Né quella intesa in senso stretto, determinata, cioè, dal tasso di produttività e dal costo del lavoro; né quella più ampiamente considerata, determinata dall'efficienza nelle dinamiche amministrativo-burocratiche e del sistema giudiziario e dall'incidenza della corruzione. La conseguenza, nota il marziano spulciando numeri e percentuali, si fa sentire sugli investimenti e sulle esportazioni che, pur essendo cresciute più della domanda interna, non hanno avuto un andamento dinamico quanto quelle di Madrid, capitale che ha appena visitato. La disoccupazione è in crescita, l'occupazione in calo, mentre il settore bancario resta fra i più fragili d'Europa, con la necessità potenziale di capitali che sfiora i 30 miliardi, secondo le informazioni che gli esperti di Marte hanno raccolto a Francoforte e Bruxelles.

Se questo è il quadro, si chiede il marziano con gli occhi sbarrati dopo una notte a far di calcolo, perché le tante, eminenti personalità incontrate sono ottimiste? Perché non avvertono un senso di urgenza? Non temono di perdere il controllo delle finanze pubbliche, non li inquieta la prospettiva di dover chiedere aiuto all'Europa? Se, invece, gli italiani fossero forzati a comprare titoli di Stato per evitare questa prospettiva, non temono di scivolare lungo la via di un irreversibile declino economico? È davvero motivo di gioia una previsione di crescita del Pil che oscilla dal -1,3% al -1,7 nel 2013 e dal -0,5 al +0,7 nel 2014, visto che, secondo gli esperti, alle stime del governo con il suo +1,3% nel 2014 non crede nessuno?

Come mai, infine, tanti si compiacciono del surplus primario, ma non pensano che con questi dati macroeconomici, attuali e attesi (dal Pil all'inflazione ai tassi d'interesse), è difficile che l'Italia possa arrestare la dinamica perversa del debito?

Essendo la sua conoscenza degli esseri umani ancora molto superficiale, non fidandosi completamente dei suoi esperti, consapevole che gli economisti hanno spesso un approccio limitato ed eccessivamente tecnico, il nostro marziano decide di chiedere aiuto a un guru di Marte, amico suo. Il guru gli risponde così: «L'italiano è una specie particolare di essere umano. Ha età media elevata e, nella media, è ricco. Forse per questo la sua propensione al rischio è scarsa, un ricordo la voglia di emergere del dopoguerra. Si preoccupa soprattutto della tassa sulla casa, ovvero la tassa che incombe sulla sua ricchezza». Poi il guru aggiunge: «Non perdere troppo tempo a ragionare in Italia, ma goditela. È un Paese di grande bellezza». Il nostro marziano è molto occupato e deve terminare il suo viaggio tra gli umani: si ripropone di tornare e portarci suo marito in vacanza (va da sé, si tratta di una marziana). Nel finale del suo rapporto sull'Italia scrive: «Teniamo un occhio aperto. Quando tutte queste belle cose italiane dovranno essere vendute per fare fronte ai debiti, le compreremo a prezzo di saldo e ne faremo attrezzati luoghi di vacanza per i pensionati di Marte e del mondo emergente. La prima idea potrebbe essere quella di mini appartamenti al Colosseo. Bellissimo, nonostante i buchi».

16 settembre 2013 | 11:29
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Lucrezia Reichlin

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_16/con-la-testa-sotto-la-sabbia-lucrezia-reichlin_6893214e-1e8c-11e3-808f-8b9926394b81.shtml
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 03, 2013, 06:57:47 pm »

L’euro vicino a quota 1,40 col dollaro Doveva rompersi, ora è troppo forte

La famosa «maledizione dell’euro» colpisce ancora. Nonostante la ripresa della sua economia sia fragile e il Fondo monetario internazionale preveda un ben magro tasso di crescita annuale del Pil - meno 0,4 per cento nel 2013 e più 1 per cento nel 2014 contro l’1,6 e il 2,6 per gli Stati Uniti - l’euro ha raggiunto il picco degli ultimi due anni contro il dollaro e si è rivalutato di circa il 10 per cento rispetto alle valute dell’insieme dei suoi partner commerciali.

Le ragioni sono molte. In parte, ma non solo, spiegate dalla incertezza sul futuro dell’economia Usa, provocata dalla caotica discussione sul debito pubblico negli Stati Uniti e dalla aggressività della politica monetaria giapponese. Ma la verità è che, qualsiasi cosa succeda altrove, appena la situazione comincia a migliorare la nostra moneta si apprezza. E infatti, nonostante le nostre prospettive di crescita siano modeste, il peggio sembra essere passato e, dalla seconda meta di quest’anno, i segnali di ripresa sono emersi in modo sempre piu convincente sia nel Sud sia nel Nord della zona euro.
Con una moneta forte le nostre merci all’estero sono più care (a meno che non si compensi l’effetto cambio con un taglio dei costi). Questo implica una perdita di competitività nel breve-medio periodo che potrebbe rallentare la crescita delle nostre esportazioni fuori dell’area euro, cioè in quelle economie che mostrano un maggiore vigore della domanda.

C’è chi obbietta a questa osservazione che la competitività di un Paese non si gioca sul cambio, ma sulla produttività, l’innovazione, la capacità di conquistare nuovi mercati e che l’euro forte non ha impedito ai Paesi membri, Spagna e Irlanda per esempio, di passare da un grande deficit della bilancia commerciale a un surplus.
I Paesi della moneta unica hanno risposto alla crisi contraendo la domanda interna e, con più o meno successo, accrescendo la quota delle esportazioni sul Prodotto interno lordo (Pil). Nel 2013 il Fondo monetario stima che la zona euro nel suo insieme raggiungerà un surplus del 2,5 per cento del Pil. Chi ce l’ha fatta ha ottenuto risultati scommettendo sui mercati esteri, in particolare sui Paesi emergenti.

Nonostante queste osservazioni, un euro che a questo punto della congiuntura europea si rafforza ulteriormente è un fattore preoccupante che potrebbe mettere a rischio la ripresa. Le ragioni sono due.
La prima: il surplus della bilancia commerciale in Paesi come Italia e Spagna è finanziato da un eccesso di risparmio nel settore privato in una situazione in cui la domanda di consumo e investimento è debole. Le banche, nonostante il buon andamento dei depositi, non prestano sia perché devono aggiustare i loro bilanci, sia perché la domanda è debole. D’altro canto lo Stato - indebitato - deve piazzare i suoi titoli pubblici e questi vengono comprati dalle banche. Nello stesso tempo le imprese, complessivamente, hanno un eccesso di liquidità.

Questo meccanismo ha reso Paesi come Spagna e Italia meno vulnerabili alla volatilità degli investitori esteri poiché il debito pubblico è sempre più in mani domestiche, ma ha «imbastito» l’economia. Con una domanda interna debole che con ogni probabilità rimarrà tale anche con la ripresa, il fattore trainante della crescita sono le esportazioni e in particolare quelle al di là dei confini dell’eurozona. Colpirle ora significa correre il rischio di perdere il treno della ripresa dell’economia mondiale e rendere molto più doloroso l’aggiustamento necessario all’assorbimento del debito. La seconda ragione è dovuta al fatto che l’euro forte esercita una pressione al ribasso sui prezzi in un contesto in cui l’inflazione, all’1,1 per cento, è così contenuta da far temere l’entrata in un regime di deflazione simile a quello vissuto dal Giappone negli ultimi vent’anni. La deflazione (la generale diminuzione di prezzi) agisce negativamente sul consumo: chi spende oggi se ci si aspetta che i costi saranno più bassi domani? Inoltre, accresce il peso reale del debito che, insieme alla bassa crescita, è un fattore di rischio per la sua sostenibilità. Come il Giappone insegna, una volta che la deflazione si innesta, è molto difficile liberarsene. Essa modifica i comportamenti dei consumatori e spinge l’economia verso la stagnazione.

Mario Draghi ha recentemente dichiarato di guardare con preoccupazione alla rivalutazione dell’euro, non tanto per i suoi effetti diretti sull’export ma per quelli indiretti su Pil e inflazione. La Banca centrale europea, come la Federal reserve, non ha un target esplicito sul tasso di cambio, ma deve agire con forza se la dinamica di quest’ultimo dovesse avere l’effetto sui prezzi che è ragionevole prevedere. Ci auguriamo che lo faccia con forza, utilizzando le cartucce che ha ancora a disposizion e .

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30 ottobre 2013

Lucrezia Reichlin

Da - http://www.corriere.it/cronache/13_ottobre_30/doveva-rompersi-ora-troppo-forte-c34c461e-4129-11e3-b893-6da25b6fc0fa.shtml
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« Risposta #3 inserito:: Maggio 15, 2014, 10:38:10 am »

L’emergenza rimossa
Con la testa nascosta nella sabbia del debito

Di Lucrezia Reichlin

Nonostante i segni di ripresa congiunturale, il calo degli spread e il ritorno di investitori stranieri, la crisi italiana non potrà dichiararsi finita fino a che il Paese non avrà mostrato chiaramente di sostenere la dinamica del suo debito pubblico. Più in generale, la zona euro rimarrà a rischio fin quando l’indebitamento complessivo non sarà stabilizzato.

In Italia, il rapporto tra debito pubblico e Prodotto interno lordo (Pil) per quest’anno è stimato dalla Commissione europea attorno al 135%, in aumento rispetto al 2013. Se i dati su crescita e inflazione, nel 2015, saranno in linea con le previsioni e se l’impegno con l’Europa sul deficit sarà rispettato, l’anno prossimo potrà esserci, a parere della Commissione, una leggera diminuzione. Ma i «se» sono molti e una dinamica contraria, ovvero un ulteriore aumento, non è un evento improbabile. Eppure i mercati sembrano non «prezzare», non dare peso al momento, al rischio di una nuova crisi del debito, né in Italia, né in altri Paesi della zona euro.

Sembra di essere tornati agli anni precedenti alla crisi quando il mercato non faceva differenza tra l’affidabilità del debito pubblico greco e quello tedesco. Questo è l’effetto della stabilizzazione dell’euro, prodotta anche dalla convinzione che la Banca centrale europea (Bce) e le altre istituzioni europee siano disposte a salvare la moneta unica ad ogni costo.

È rischioso pensare di essere fuori pericolo. In un’unione monetaria si è facilmente soggetti al mutamento della sensibilità al rischio da parte degli investitori e ai conseguenti attacchi speculativi. La solidità del sistema potrebbe essere messa alla prova, una volta di più, dal mercato. Conseguenza di tanta vulnerabilità è il rigore fiscale e di bilancio che strozza l’economia. Per questo in un disordinato dibattito preelettorale come quello a cui stiamo assistendo, c’è chi invoca l’uscita dall’euro come soluzione a ogni problema. È un’illusione e lo è nella consapevolezza che ogni regime ha le sue croci. Le croci della moneta unica rendono impossibile risolvere il problema del debito affidandosi soltanto alle armi dell’inflazione e della svalutazione.

Ne consegue che l’unico rimedio per il debito sono misure in grado di abbattere il deficit. E questo strangola la ripresa. D’altro canto, negli anni Settanta, quando la Banca d’Italia non era ancora separata dal Tesoro (era costretta a sottoscrivere i suoi titoli), il debito si è stabilizzato creando inflazione, ma anche distruggendo in tal modo il valore del risparmio degli italiani. Mossa che incentivò la fuga di capitali con evidenti ricadute negative sulla crescita.

Negli anni Ottanta, poi, quando la banca centrale era nazionale ma indipendente, si sono avuti tassi reali molto alti che, combinati con la spesa incontrollata di quel periodo, fecero schizzare verso l’alto il debito. In quel regime monetario i mercati finanziari erano meno pronti a sferrare attacchi speculativi. Ma un modello fatto di alto debito e elevati tassi reali, alla lunga, rende l’economia inefficiente, scaricando il peso dell’aggiustamento di bilancio sulle generazioni future. Oggi, siamo costretti a occuparci ancora dei problemi del debito generato allora.

Uscire dall’euro non è una soluzione. Sarebbe una scelta con conseguenze devastanti sull’inflazione che ci porterebbe a una «crisi del debito» simile a quella dei Paesi emergenti, obbligandoci cioè a ripagare gli impegni contratti in euro con una lira debole. Questo non vuole dire però che l’unione monetaria non debba darsi nuovi strumenti per affrontare in maniera meno penalizzante il problema del debito.
In una unione monetaria un Paese non può unilateralmente creare inflazione e svalutare, inoltre la crisi del debito in una nazione contagia gli altri perché mette a repentaglio la sopravvivenza stessa della divisa comune. Va costruito quindi un meccanismo di risoluzione a livello federale che renda legittima la ristrutturazione.
Idee sul tema sono arrivate da economisti di vari orientamenti e il governo italiano dovrebbe considerarle come un elemento importante del negoziato europeo. Sia chiaro: le proposte più credibili oggi discusse non prevedono una semplice rinuncia unilaterale agli obblighi di pagamento del debito perché una mossa del genere porterebbe solo alla perdita di accesso al mercato.

Le proposte meritevoli di attenzione sono invece quelle che prevedono regimi di ristrutturazione sotto l’ombrello del meccanismo europeo di stabilità e che condizionano gli aiuti a Paesi con debito non sostenibile solo nel caso in cui quest’ultimo proceda a un accordo sul debito che preveda una modifica delle condizioni originarie del prestito.

L’esistenza di un tale meccanismo creerebbe anche un disincentivo al credito facile negli anni di espansione o a una eccessiva esposizione di banche e risparmiatori ai titoli sovrani. Funzionerebbe, quindi, da deterrente.

Va ricordato che il problema del debito non è solo italiano. In forme simili o diverse affligge tutte le economie del mondo: si sposta dal privato al pubblico e viceversa, dai Paesi a economie mature a quelli emergenti. Bisogna quindi che l’Europa, e in generale il sistema finanziario internazionale, si diano regole per affrontarlo con mezzi creativi, mettendo in chiaro - ex ante - come ripartire i costi delle crisi.

14 maggio 2014 | 08:01
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_maggio_14/con-testa-nascosta-sabbia-debito-055fdbf0-db27-11e3-998e-bb303caaf6c1.shtml
« Ultima modifica: Giugno 01, 2014, 06:10:47 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Giugno 01, 2014, 06:10:05 pm »

LE CHANCE DEL PREMIER IN EUROPA
Poche illusioni piedi per terra

di Lucrezia Reichlin

Il leader di un grande Paese come l’Italia può, anzi deve, avere una voce autorevole in Europa. Senza farsi grandi illusioni. Con i piedi per terra. Dice Renzi: «In Europa ci si va per far valere le nostre idee sul futuro dell’Unione e non solo per farsi fare la lezione». Giusto, però è necessario riflettere su alcuni temi, non riducibili a facili slogan. Il primo è che cosa ci si attende dall’Europa nel suo insieme. La definizione, cioè, di un progetto comune che sia una base utile per affrontare le grandi questioni degli anni a venire: il rallentamento della crescita di lungo periodo; la bassa produttività; l’endemica, irrisolta, fragilità finanziaria; le diseguaglianze. Il secondo tema riguarda la strada da intraprendere in Europa per affrontare, nello stesso tempo, anche i problemi specifici dell’Italia: la stagnazione ventennale; il debito pubblico a rischio destabilizzazione; la storica difficoltà politica nell’individuare la via delle riforme; la grave spaccatura tra Nord e Sud del Paese.

Sul primo punto bisogna aprire un confronto di idee finora soffocato dai conflitti d’interesse fra i Paesi. Un dialogo serio, costruttivo, sul futuro dell’Unione, sul livello di integrazione fra i mercati, sulla filosofia di fondo tra competitività e solidarietà. L’Italia può svolgere un ruolo da protagonista. Per tutta l’Europa si prevede un calo della crescita potenziale nei prossimi anni - dovuta a fattori demografici -; la diminuzione della partecipazione al mercato del lavoro; bassi investimenti. Il problema non è solo europeo. Gli Stati Uniti, nonostante abbiano saputo, meglio di noi, affrontare la crisi del 2008 e abbiano prospettive di crescita migliori, sono vittime di simili incertezze. Il Prodotto interno lordo (Pil) del primo trimestre è stato addirittura negativo, cogliendo di sorpresa tutti gli esperti. Voci autorevoli, come quella di Larry Summers, parlano di «grande stagnazione», per l’America, ma più in generale per le economie mature. Uno scenario che apre il dibattito su quali siano le riforme più adeguate per favorire lo sviluppo economico. Quali strumenti dobbiamo, dunque, darci per stimolare la crescita dell’Unione nei prossimi dieci anni? Alla base di questa ripresa, incerta e anemica, c’è una carenza strutturale della domanda - come dice parte dell’élite americana - o, invece, ci sono problemi legati alla scarsa flessibilità dell’economia? Nel primo caso la via da percorrere è un programma massiccio di investimenti, nel secondo una combinazione di riforme dal lato dell’offerta (flessibilità dei mercati e liberalizzazioni) e del consolidamento del debito. Al di là delle divisioni di stampo ideologico questi sono temi difficili che impongono lucidità ed equilibrio. La leadership d’Europa deve avere il coraggio di agire in tal modo, con l’obiettivo di superare il conflitto interno tra Paesi deboli e Paesi forti. Anche i più «forti», in realtà, devono avere consapevolezza di non esserlo affatto se messi alla prova con le enormi sfide del futuro e con una crisi che non è ancora finita.

Veniamo al secondo tema: l’Italia. In queste ore riceverà un primo giudizio dell’Europa sulle scelte di politica economica. Nei giorni del dopo voto le reazioni sono state eccessive e scomposte. Sono stati diffusi molti numeri a caso. Guardando con maggiore distacco e sobrietà, vedo pochi margini per fare ripartire la domanda e un contesto ancora fragile per dare gambe alle riforme. Per quanto riguarda la domanda, è inopportuno, e probabilmente controproducente, parlare di rinegoziazione del Trattato, perché questo aprirebbe un processo lunghissimo con esito incerto. Con più sobrietà si è sostenuto che entro i confini del Trattato ci sono spazi per escludere la spesa di investimento, che cofinanzia i progetti europei, dalla contabilità sul limite del 3% del deficit pubblico. Questa era la strada perseguita dai governi Monti e Letta. Dopo le ultime misure del governo non mi è chiaro, tuttavia, se ci siano ancora i quattrini necessari. D’altro canto, sforare unilateralmente il limite del 3%, con il 132,6% di debito pubblico, esporrebbe il nostro Paese a nuovi e più gravi rischi finanziari. Bisogna trovare altre strade.

Data la scarsa credibilità che storicamente affligge l’Italia, considerata da sempre poco capace di attuare riforme che aiutino l’economia a ripartire favorendo investimenti e innovazione dal lato dell’offerta, è necessario individuare meccanismi che leghino l’attuazione delle riforme agli aiuti europei per il sostegno della domanda. Questo potrebbe essere fatto, per esempio, nel meccanismo di quei contratti bilaterali tra Paesi suggeriti dai tedeschi. Una proposta - lo ricordo - che è stata scartata perché considerata troppo invadente a livello nazionale. Dovrebbe ora essere reinterpretata e inserita nel quadro di un rinnovato piano collettivo per la crescita. Un programma in cui tutti i Paesi membri possano riconoscersi, ma che vincoli le capitali nazionali a dare garanzie affinché gli aiuti ricevuti non servano a rinviare il cambiamento, ma a facilitarlo.

L’Italia, alle ultime elezioni, ha votato per le riforme. Nonostante la volontà dei cittadini, il cammino resta impervio perché gli interessi precostituiti non sono spariti, né spariranno d’incanto. E nemmeno tutti gli ostacoli politici. Per questo credo sia essenziale che l’Italia faccia sentire la propria voce di grande Paese europeo, senza escludere di vincolare il cammino delle riforme nazionali a seri impegni comunitari, a fronte dei quali si potrebbero rinegoziare vincoli e finanziamenti.

1 giugno 2014 | 08:32
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_01/poche-illusioni-piedi-terra-a9fe0a1a-e955-11e3-b53f-76c921903500.shtml
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 21, 2014, 06:39:36 pm »

Dichiarare l’emergenza e affrontarla subito la debolezza è dell’Unione: c’è un vuoto da colmare
Il Pil dell’area dell’euro è praticamente piatto e stride con quello di Usa e Regno Unito.
Bisogna coordinare politiche monetarie e fiscali, per l’Europa è l’ora della svolta

di Lucrezia Reichlin

L’Italia non è il solo Paese che sta attraversando una fase di contrazione: la crescita del Prodotto interno lordo nel secondo trimestre è risultata negativa anche in Francia e in Germania; il Pil dell’area dell’euro nel suo insieme - con una crescita dello 0,05 rispetto ai tre mesi precedenti - è praticamente piatto e stride con lo 0,97 degli Stati Uniti e lo 0,8 del Regno Unito. La doccia fredda di questo secondo trimestre era annunciata: è da marzo che i numeri della produzione industriale, le indagini sui sentimenti dei produttori e dei consumatori, i dati di import ed export danno segnali negativi. Dalla grande crisi, l’eurozona è uscita con una ripresa nel 2009-2010 per poi ripiombare in una seconda recessione nel terzo trimestre del 2011. Nonostante qualche segnale positivo nel 2013, da questa seconda recessione non ci siamo veramente mai ripresi: il Pil continua a oscillare intorno allo zero e l’occupazione è stagnante. Nonostante la recessione del 2008 abbia avuto caratteristiche simili a quella degli Stati Uniti - per tempi, durata, profondità - dal 2011 l’andamento ciclico dell’area euro è stato molto diverso. Questo scollamento è un fatto unico dal Dopoguerra. Ed è questo che deve farci riflettere, non solo il dato sul Pil del secondo trimestre.

La mancanza di riforme strutturali non può spiegare il fatto inedito e recente di uno scollamento dell’andamento ciclico tra noi e gli Stati Uniti, come non può spiegare la debolezza diffusa dell’Unione che tocca anche il Paese che ne è motore: la Germania. Questo non significa negare l’importanza delle riforme, ma suggerisce che un difetto su questo fronte non può essere la causa di tutti i nostri mali. La fondamentale differenza tra noi e gli Stati Uniti sta nelle politiche monetarie, fiscali e finanziarie messe in atto dal 2008 in poi. Le caratteristiche di quelle Usa sono state tre: tempestiva e massiccia espansione fiscale; tempestiva e massiccia politica di acquisto di titoli finanziari e pubblici da parte della Banca centrale (quantitative easing ); tempestiva azione di ricapitalizzazione delle banche. Al contrario, nella zona euro la risposta fiscale è stata nel suo insieme restrittiva: si è enfatizzato il problema del consolidamento del debito invece che concentrarsi sullo stimolo alla domanda. La politica monetaria, inizialmente tempestiva ed efficace per affrontare la crisi di liquidità delle banche, ha poi rallentato lo stimolo: da due anni il bilancio delle Banche centrali dell’euro-sistema è in contrazione e si esita a usare lo strumento del quantitative easing nonostante l’inflazione - il cui dato più recente è un tasso annuale dello 0,4% - sia in ribasso dal 2011. Il terzo elemento è il ritardo, sei anni dalla crisi per la precisione, con cui abbiamo affrontato il problema della ricapitalizzazione delle banche.

Il risultato è stato non solo la debolezza persistente dell’economia reale, ma, paradossalmente, un aumento del rapporto tra debito totale (privato e pubblico) e Pil invece della sua auspicata diminuzione. Ci sono molte ragioni che spiegano questa inerzia. Per la politica fiscale, il problema è la differenza del livello del debito pubblico tra diversi Paesi dell’Unione, differenza che preoccupa i Paesi creditori perché non vogliono esserne gli impliciti garanti. Una simile preoccupazione spiega anche l’avversione della Bce a politiche monetarie che possano suggerire un implicito finanziamento al debito pubblico di alcuni Paesi. Per l’azione di ricapitalizzazione delle banche, l’inerzia è spiegata da risorse nazionali limitate in una zona economica integrata in cui i bilanci delle banche sono tipicamente molto grandi rispetto a quelli dei Paesi in cui risiedono legalmente.

I problemi sono complessi e le preoccupazioni motivate. Ma è arrivato il momento per i governi dei Paesi dell’Unione e per le nostre istituzioni federali di dirsi che questa complessità non può più frenare un’azione coraggiosa e rapida che faccia ripartire l’economia. Il problema da affrontare non è quello della convivenza tra una Germania forte e una «periferia» europea debole, ma la debolezza dell’Unione nel suo insieme. Va dichiarata l’emergenza e va disegnato un piano di azione che coordini politiche monetarie e fiscali. Il percorso è difficile perché comporta il coordinamento tra un’autorità federale indipendente, la Bce, e diverse autorità nazionali di bilancio, i governi. Tutto questo in un contesto in cui il Trattato stabilisce regole per garantire la stabilità, ma non ne prevede per l’emergenza e per un’azione atipica di rilancio dell’economia. C’è dunque un vuoto che va colmato, con prudenza, ma anche coraggio.

16 agosto 2014 | 09:52
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DA - http://www.corriere.it/economia/14_agosto_15/debolezza-dell-unione-c-vuoto-colmare-76b8d63e-24b6-11e4-a121-b5affdf40fda.shtml
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« Risposta #6 inserito:: Ottobre 05, 2014, 07:45:37 pm »

Regole punitive e credibilità
La cosa giusta che non facciamo
Di Lucrezia Reichlin

La tragedia era annunciata ma nonostante in molti l’avessimo vista arrivare, il treno è andato dritto contro il muro. La Francia ha dichiarato che non rientrerà nei limiti del deficit del 3% fino al 2017, l’Italia è vicina a sforarlo anche se continua ad affermare che lo rispetterà. La Banca centrale europea è da tempo ben sotto all’obiettivo dell’inflazione al 2% a cui è vincolata dal suo mandato. La Germania è in surplus commerciale eccessivo. Tutte le parti coinvolte sono in evidente difetto rispetto alle regole che si sono collettivamente e consensualmente date.

Come in un film al rallentatore, tra accuse reciproche, in un gioco in cui l’attribuzione della responsabilità della crisi è sempre e regolarmente dell’«altro», si è finiti sull’orlo di un suicidio collettivo. Le voci sono ormai cacofoniche, si ha l’impressione che manchi il direttore di orchestra. La Bce bacchetta i governi del Sud e del Nord: i primi per le mancate riforme, i secondi, in particolare la Germania, perché non si fanno motore di una ripresa della domanda attraverso un’espansione di bilancio. I governi francese e italiano si lamentano di un rallentamento inaspettato (inaspettato?) dell’economia.

I tedeschi accusano i Paesi che non hanno seguito la via del rigore e delle riforme di non rispettare i patti. Ma, per una ragione o per l’altra, tutti, alla fine, hanno infranto qualche regola.

Un sistema in cui nessuno riesce a rispettare le regole va ripensato. Le misure da attuare subito per rilanciare la domanda, al livello dell’Unione, sono chiare e se non ci fossero vincoli politici si andrebbe dritti per quella strada. C’è un largo consenso tra gli studiosi sul fatto che quando un’economia è in pericolo di deflazione e appesantita dal debito bisogna attuare politiche di bilancio espansive (attraverso un taglio delle tasse o tramite un aumento della spesa) finanziate dalla Banca centrale.

I vincoli politici per seguire questo percorso ci sono e sono comprensibili. Il tema posto dai tedeschi sulla necessità di darsi istituzioni in cui gli interessi dei creditori siano protetti e dove non si creino incentivi per i debitori ad allentare i vincoli di bilancio nei tempi buoni, è un tema chiave e non può che rimanere centrale in una Unione monetaria senza integrazione delle politiche di bilancio. Il nostro Paese in particolare manca, per buone ragioni, di credibilità. Il Trattato e il patto di Stabilità sono stati costruiti in modo da rispondere a questa esigenza. Ora però, nella loro interpretazione più conservatrice, impediscono all’Unione nel suo insieme di fare la cosa giusta. I trattati non si cambiano in cinque minuti e sono il frutto di un compromesso faticoso, ma, o all’interno delle vecchie regole o dandosene delle nuove, dobbiamo uscire dall’eccezionalità di un’Unione in cui la politica della banca centrale è limitata da vincoli dettati da interpretazioni di parte del Trattato.

E questo mentre l’approccio alle politiche di bilancio è sordo alla congiuntura economica e si basa su regole eccessivamente punitive e quindi poco credibili. È il legame tra l’eccessivo rigore dei vincoli e la loro mancanza di plausibilità a renderci, tutti, inadempienti.

3 ottobre 2014 | 07:10
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_03/cosa-giusta-che-non-facciamo-38a97e2c-4abb-11e4-9829-df2f785edc20.shtml
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« Risposta #7 inserito:: Ottobre 05, 2014, 07:54:29 pm »

Dichiarare l’emergenza e affrontarla subito
La debolezza è dell’Unione: c’è un vuoto da colmare
Il Pil dell’area dell’euro è praticamente piatto e stride con quello di Usa e Regno Unito.
Bisogna coordinare politiche monetarie e fiscali, per l’Europa è l’ora della svolta

di Lucrezia Reichlin
Unione Europea

L’Italia non è il solo Paese che sta attraversando una fase di contrazione: la crescita del Prodotto interno lordo nel secondo trimestre è risultata negativa anche in Francia e in Germania; il Pil dell’area dell’euro nel suo insieme - con una crescita dello 0,05 rispetto ai tre mesi precedenti - è praticamente piatto e stride con lo 0,97 degli Stati Uniti e lo 0,8 del Regno Unito. La doccia fredda di questo secondo trimestre era annunciata: è da marzo che i numeri della produzione industriale, le indagini sui sentimenti dei produttori e dei consumatori, i dati di import ed export danno segnali negativi. Dalla grande crisi, l’eurozona è uscita con una ripresa nel 2009-2010 per poi ripiombare in una seconda recessione nel terzo trimestre del 2011. Nonostante qualche segnale positivo nel 2013, da questa seconda recessione non ci siamo veramente mai ripresi: il Pil continua a oscillare intorno allo zero e l’occupazione è stagnante. Nonostante la recessione del 2008 abbia avuto caratteristiche simili a quella degli Stati Uniti - per tempi, durata, profondità - dal 2011 l’andamento ciclico dell’area euro è stato molto diverso. Questo scollamento è un fatto unico dal Dopoguerra. Ed è questo che deve farci riflettere, non solo il dato sul Pil del secondo trimestre.

La mancanza di riforme strutturali non può spiegare il fatto inedito e recente di uno scollamento dell’andamento ciclico tra noi e gli Stati Uniti, come non può spiegare la debolezza diffusa dell’Unione che tocca anche il Paese che ne è motore: la Germania. Questo non significa negare l’importanza delle riforme, ma suggerisce che un difetto su questo fronte non può essere la causa di tutti i nostri mali. La fondamentale differenza tra noi e gli Stati Uniti sta nelle politiche monetarie, fiscali e finanziarie messe in atto dal 2008 in poi. Le caratteristiche di quelle Usa sono state tre: tempestiva e massiccia espansione fiscale; tempestiva e massiccia politica di acquisto di titoli finanziari e pubblici da parte della Banca centrale (quantitative easing ); tempestiva azione di ricapitalizzazione delle banche. Al contrario, nella zona euro la risposta fiscale è stata nel suo insieme restrittiva: si è enfatizzato il problema del consolidamento del debito invece che concentrarsi sullo stimolo alla domanda. La politica monetaria, inizialmente tempestiva ed efficace per affrontare la crisi di liquidità delle banche, ha poi rallentato lo stimolo: da due anni il bilancio delle Banche centrali dell’euro-sistema è in contrazione e si esita a usare lo strumento del quantitative easing nonostante l’inflazione - il cui dato più recente è un tasso annuale dello 0,4% - sia in ribasso dal 2011. Il terzo elemento è il ritardo, sei anni dalla crisi per la precisione, con cui abbiamo affrontato il problema della ricapitalizzazione delle banche.

Il risultato è stato non solo la debolezza persistente dell’economia reale, ma, paradossalmente, un aumento del rapporto tra debito totale (privato e pubblico) e Pil invece della sua auspicata diminuzione. Ci sono molte ragioni che spiegano questa inerzia. Per la politica fiscale, il problema è la differenza del livello del debito pubblico tra diversi Paesi dell’Unione, differenza che preoccupa i Paesi creditori perché non vogliono esserne gli impliciti garanti.


Una simile preoccupazione spiega anche l’avversione della Bce a politiche monetarie che possano suggerire un implicito finanziamento al debito pubblico di alcuni Paesi. Per l’azione di ricapitalizzazione delle banche, l’inerzia è spiegata da risorse nazionali limitate in una zona economica integrata in cui i bilanci delle banche sono tipicamente molto grandi rispetto a quelli dei Paesi in cui risiedono legalmente.

I problemi sono complessi e le preoccupazioni motivate. Ma è arrivato il momento per i governi dei Paesi dell’Unione e per le nostre istituzioni federali di dirsi che questa complessità non può più frenare un’azione coraggiosa e rapida che faccia ripartire l’economia. Il problema da affrontare non è quello della convivenza tra una Germania forte e una «periferia» europea debole, ma la debolezza dell’Unione nel suo insieme. Va dichiarata l’emergenza e va disegnato un piano di azione che coordini politiche monetarie e fiscali. Il percorso è difficile perché comporta il coordinamento tra un’autorità federale indipendente, la Bce, e diverse autorità nazionali di bilancio, i governi. Tutto questo in un contesto in cui il Trattato stabilisce regole per garantire la stabilità, ma non ne prevede per l’emergenza e per un’azione atipica di rilancio dell’economia. C’è dunque un vuoto che va colmato, con prudenza, ma anche coraggio.

16 agosto 2014 | 09:52
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_agosto_15/debolezza-dell-unione-c-vuoto-colmare-76b8d63e-24b6-11e4-a121-b5affdf40fda.shtml
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« Risposta #8 inserito:: Agosto 24, 2015, 05:41:07 pm »

Non è solo un affare cinese

Di Lucrezia Reichlin

La fine dell’estate ha portato nuova volatilità sui mercati generata, sembra, da una parziale liberalizzazione del tasso di cambio in Cina, a sua volta indice di un rallentamento della crescita della sua economia. La domanda chiave di fine estate è se questa volatilità sia un fenomeno passeggero, legato in modo specifico alle vulnerabilità dei Paesi emergenti, o piuttosto riveli una incertezza più radicata sulle prospettive dell’economia globale, Europa e Stati Uniti inclusi. La seconda ipotesi prende corpo da molte osservazioni. La prima è che la ripresa Usa è meno solida di quanto non ci si aspettasse. Le previsioni di molti, incluse quelle di metà anno del congressional budget office , danno per il 2015 un tasso di crescita del Prodotto interno lordo del 2%, un punto in meno di quanto si ipotizzava a febbraio, e l’inflazione allo 0,2%, contro l’1,4% previsto sempre a febbraio. A questo si accompagna un prolungato rallentamento della produttività sia negli Stati Uniti che negli altri Paesi avanzati.

È difficile interpretare il significato di questi dati e anche la Federal Reserve sembra essere incerta nella lettura. Perché l’inflazione non riprende? Perché la produttività rallenta? È questo un fenomeno ciclico o indica invece un rallentamento di tendenza che si prolungherà nel futuro? Come si concilia questo rallentamento con la vivacità dell’innovazione tecnologica?

Dati deludenti, nonostante l’intervento massiccio delle Banche centrali, arrivano anche dal Giappone e dall’area dell’euro. L a Gran Bretagna va meglio ma anche qui, come negli Usa, una visione ottimista della ripresa è contraddetta dalla bassa produttività e da un’inflazione che continua ad essere vicina allo zero. Per questa ragione la Banca d’Inghilterra ha deciso che per ora non alzerà i tassi di interesse. Non è quindi da escludere che la volatilità di questi giorni indichi un’incertezza generale sull’economia globale che non è solo legata alla questione cinese.

Le previsioni dei mercati rivelano una grande diversità nelle opinioni dovuta, io penso, alla difficoltà di interpretare i dati e di capire l’entità del rischio che gli Stati Uniti entrino in una nuova recessione. L’economia Usa continua ad essere il motore dell’economia mondiale e fino a poco fa si pensava che la sua forza ci avrebbe difeso dai rischi provenienti dai Paesi emergenti. Ma se il gigante americano dovesse entrare in recessione quando gran parte del resto del mondo o è ancora debole, come nel caso dei Paesi avanzati, o è in deciso rallentamento, come in molti Paesi emergenti, ci si ritroverebbe ancora una volta, dopo il 2008, di fronte a una crisi globale. Questo avverrebbe inoltre in una situazione in cui i tassi di interesse in molti Paesi, inclusi area euro, Giappone, Stati Uniti, sono a zero o vicino allo zero. Il che costituisce un vincolo per la politica monetaria e costringerebbe le Banche centrali a estendere gli acquisti di titoli pubblici e privati o a introdurre tassi negativi, politiche i cui effetti sono molto incerti e che potrebbero comportare rischi per la stabilità finanziaria.

In una situazione di questo tipo dovrebbe essere prioritario affrontare i grandi temi della crescita, capire gli effetti dell’innovazione sulla distribuzione del reddito, pensare a politiche innovative, appropriate alle grandi trasformazioni dell’economia globale. È successo negli anni Trenta. Dopo la crisi del 2008, invece, l’iniziativa è stata lasciata quasi esclusivamente alle Banche centrali. La loro azione ha certamente evitato il peggio, ma ora non basta più. In assenza di politiche economiche di altro tipo non è difficile prevedere che i Paesi ricorreranno ad una guerra del cambio e a politiche protezionistiche. D’altro canto queste ultime sono sempre più presenti nei programmi elettorali di partiti politici di ogni colore e, per ragioni comprensibili, raccolgono crescenti consensi da parte dei cittadini sia in Europa che negli Usa.

Mai come oggi ci sarebbe bisogno di una rinascita politica e intellettuale che sappia affrontare i grandi temi, nazionali e globali, con una risposta adeguata, combattendo la frammentazione delle nostre società.

23 agosto 2015 (modifica il 23 agosto 2015 | 07:31)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_23/non-solo-affare-cinese-b4f5dafc-4957-11e5-b566-99560c716b18.shtml
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« Risposta #9 inserito:: Settembre 06, 2015, 09:49:22 am »

La crescita ha bisogno dei governi

Di Lucrezia Reichlin

Giovedì scorso il presidente della Bce Mario Draghi, al termine della riunione del Consiglio, ha spiegato ai giornalisti che la ripresa nell’area euro delude, l’inflazione rimane pericolosamente vicina allo zero e preoccupa la volatilità causata dal rallentamento dei Paesi emergenti (in particolare la Cina). Per questa ragione - ha detto Draghi - la Banca centrale europea non cambia per il momento politica. Anzi, si deduce dalla conferenza stampa, nel futuro sarà probabile un aumento del volume degli acquisti dei titoli di Stato e un prolungamento oltre il 2016 del cosiddetto Quantitative easing. Nonostante i timidi segni di ripresa, il messaggio che viene dalla Bce è molto cauto. Anche il messaggio del Fondo monetario internazionale (Fmi) ai Paesi del G20, riuniti ad Ankara in questi giorni, rivela preoccupazione. Il Fmi incita le Banche centrali, anche quelle dei Paesi la cui ripresa è più robusta (come Usa e Regno Unito) a continuare a mantenere i tassi di interesse a zero fino a che il quadro economico globale non si rischiari.

Le Banche centrali sono chiamate a fare la loro parte, ma ancora una volta i governi dei Paesi coinvolti sembrano avere grandi difficoltà a coordinarsi in modo efficace e costruttivo su politiche in grado di sostenere la crescita globale. La storia di questi anni insegna che quando i governi, divisi da interessi contrapposti, non riescono a percorrere questa strada, le Banche centrali, per evitare il peggio, sono costrette a riempire il vuoto lasciato e a intraprendere azioni che vanno al di là della politica monetaria in senso stretto. I l paradosso è che nonostante dalla crisi del 2008 l’azione delle Banche centrali sia stata essenziale per evitare un collasso dell’economia ancora piu devastante di quello che abbiamo vissuto, i cittadini (e si sentono in Italia queste voci sia a destra che a sinistra) non si fidano di istituzioni guidate da tecnocrati non eletti, così potenti da poter creare moneta dal niente. Le loro azioni sono in grado di salvare banche e Stati ma i cittadini non capiscono chi, alla fine, sarà chiamato a pagare i conti.

Nell’area dell’euro questa contraddizione tra l’irrilevanza di governi che non riescono ad agire in modo coordinato e la Banca centrale che, come unica istituzione federale, diventa onnipotente e garante della sopravvivenza della moneta unica, si sente più che mai. Ma ha ragione chi diffida dell’enorme peso che hanno acquistato le Banche centrali nella politica economica mondiale e, in particolare, in Europa? Da un lato, se la Bce non continuasse a sostenere l’economia garantendo tassi bassi e indirettamente un tasso di cambio favorevole per gli esportatori, buone condizioni di liquidità per le banche e non scoraggiasse il crollo delle aspettative di inflazione, la nostra economia sarebbe probabilmente ancora in recessione. Dall’altro, però, c’è una certa saggezza nello scetticismo di molti. L’Europa, ma anche tutti i Paesi seduti intorno al tavolo del G20, può riprendere la strada della crescita in modo convincente solo se i governi saranno in grado di fare la loro parte. Se le Banche centrali possono mettere olio sulla ruota, non possono essere loro ad affrontare i grandi problemi della crescita e della distribuzione del reddito tra Paesi e, all’interno di ognuno di essi, tra differenti segmenti della società. Su questi temi devono essere i governi eletti a pronunciarsi e a formulare politiche percorribili.

La verità è che non bisogna essere ingenerosi con i tecnocrati delle Banche centrali. Piuttosto dobbiamo riflettere sull’inadeguatezza di chi ci governa e ci rappresenta e, in particolare, sulla generale incapacità a dare maggiore contenuto alla nostra democrazia, a comunicare con i cittadini in modo più onesto e trasparente, ad ammettere le difficoltà oggettive e l’incertezza del contesto in cui si è chiamati a decidere ma senza rinunciare al coraggio di scegliere. È un tema nazionale ed europeo.

Per l’Europa le difficoltà non sono finite. È essenziale che alla azione della Bce si affianchi anche una iniziativa volta ad aumentare gli strumenti di politica economica a livello europeo, in particolare nei campi della spesa pubblica e della tassazione. Nel contesto della crisi greca si sono sentite in estate voci incoraggianti, disposte ad andare avanti su questa strada. Mi auguro che simili attese non vadano deluse.

6 settembre 2015 (modifica il 6 settembre 2015 | 07:54)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_settembre_06/crescita-ha-bisogno-governi-0990602e-545b-11e5-b241-eccff60fea73.shtml
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« Risposta #10 inserito:: Ottobre 26, 2015, 11:33:21 am »

La spinta della Bce La ripresa non aspetta i governi
È giusto che la Bce si tenga pronta a ulteriori misure straordinarie.
Se i governi non dovessero entrare in campo con iniziative altrettanto decise ci troveremmo di fronte non solo a un insuccesso economico ma anche a una crisi della legittimità democratica

Di Lucrezia Reichlin

Giovedì scorso il presidente della Banca centrale europea (Bce) ha spiegato che, nonostante la ripresa, l’economia della zona euro rimane vulnerabile. Per questo, e poiché si prevede che il tasso d’inflazione rimarrà al di sotto del target oltre il 2016, la Bce non esclude ulteriori misure straordinarie che definirà probabilmente a dicembre. A quella data, quando le proiezioni preparate da tutto lo staff delle banche centrali della unione monetaria saranno rese disponibili, ci si aspetta l’annuncio di ulteriori acquisti di titoli e un abbassamento dei tassi dei depositi che le banche parcheggiano alla Bce a livelli ancora più negativi.

Al di là dell’immediato effetto dell’annuncio della Bce sui mercati finanziari, che lo hanno salutato con la consueta e probabilmente temporanea euforia, ci sono tre riflessioni da fare sul significato di questo annuncio. Primo, il messaggio della Bce rivela una preoccupazione sulla solidità della ripresa.

L’istituto si unisce alle altre grandi banche centrali nel sottolineare i rischi per l’economia globale: il mondo emergente è in serio rallentamento, la Cina a rischio economico e finanziario e l’Europa ha una ripresa ancora debole. Quadro sicuramente non catastrofico ma preoccupante se si considera che i deboli segni dell’economia reale si combinano a un indebitamento complessivo nel mondo che non sembra stabilizzarsi. Alto indebitamento, inflazione vicina allo zero e investimenti anemici sono un cocktail preoccupante.

Nonostante anni di iniezione di liquidità e di politiche monetarie aggressive il mondo stenta a ripartire. Le possibili cause so no ampiamente dibattute: demografia, ineguaglianza, incertezza, peso del debito ereditato dalla Grande crisi, ma la verità è che una ricetta per riportare le economie a crescere ai tassi del decennio prima della crisi non ce l’ha nessuno. In questo vuoto le banche centrali hanno acquistato un ruolo sempre più importante e sono diventate veicoli essenziali nell’intermediazione finanziaria, grandi acquirenti di titoli di Stato e altri strumenti, andando al di là del loro tradizionale ruolo di controllo del tasso di interesse a breve termine. È molto probabile che questo non sia un fatto temporaneo.

Secondo, non si può capire l’azione delle grandi banche centrali senza osservare che le loro politiche monetarie sono intimamente connesse. La volatilità che abbiamo visto sui mercati emergenti nei mesi scorsi è in parte dovuta alle aspettative di un rialzo dei tassi Usa che provocano la fuga dei capitali da quei Paesi. L’esitazione della Fed, d’altro canto, spinge la Bce a una politica più espansiva per evitare che, come è successo nel passato, la percezione di una politica monetaria conservatrice nella zona euro eserciti una pressione al rialzo sul tasso di cambio. Nonostante la retorica che esclude le svalutazioni competitive, la discussione sui tassi di cambio è divenuta sempre più esplicita tra i banchieri centrali. Ed è ovvio che sia così. In un mondo con circolazione libera di capitali e tassi di cambio flessibili nessuna banca centrale nazionale può agire in modo indipendente. Questo ormai è vero anche per grandi economie come Cina, Usa e area euro.

Terzo. Il caso della zona euro ha caratteristiche speciali. Se Draghi dovesse essere costretto a continuare acquisti massici di titoli di Stato diventerebbe inevitabile cambiare le proporzioni nazionali degli acquisti che ora dipendono dal Prodotto interno lordo del Paese e non dall’ammontare del debito pubblico. Possiamo immaginare che in una eventuale prolungamento nel tempo del Quantitative easing e aumento del volume degli acquisti, la Bce sarà costretta ad acquistare in percentuale maggiore i titoli di Stato di quei Paesi dove il mercato del debito pubblico è più grande, in particolare l’Italia. Questo non sarebbe un problema se gli acquisti fossero temporanei ma, se come sembra dall’esperienza delle altre banche centrali, dal Qe si entra ma è poi difficile uscirne, una politica del genere sarebbe altamente divisiva e questo finirebbe per ostacolarne la efficacia e la tempestività.

Concludendo. È giusto che la Bce si tenga pronta a ulteriori misure straordinarie. Questo è condizione necessaria a riportare l’inflazione al 2%, cioè a rispettare il suo mandato. Ma la condizione non è sufficiente. Dati i rischi dell’economia mondiale, l’alta disoccupazione in alcuni Paesi e l’effetto negativo che il debito ha sulla domanda sia privata che pubblica, il nesso tra azione monetaria e inflazione è debole e alcune banche centrali saranno costrette a una escalation delle politiche straordinarie. Se i governi non dovessero entrare in campo con iniziative altrettanto decise ci troveremmo di fronte non solo a un insuccesso economico ma anche a una crisi della legittimità democratica, con istituzioni guidate da manager non eletti protagoniste loro malgrado della politica economica. Non c’è tempo da perdere.

26 ottobre 2015 (modifica il 26 ottobre 2015 | 07:20)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_26/ripresa-non-aspetta-governi-2fdbd564-7ba8-11e5-9069-1cf5f2fd4ce8.shtml
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« Risposta #11 inserito:: Novembre 30, 2015, 03:00:26 pm »

Una proposta concreta
Un’Europa più stabile è possibile

Di Lucrezia Reichlin

La robustezza di un’economia e delle istituzioni che la governano si giudica dalla sua capacità di affrontare in modo adeguato eventi imprevisti. Lo choc della recessione globale del 2008 è stato un test per la zona euro che aveva appena celebrato quasi 10 anni di stabilità. I sette successivi hanno messo in luce fragilità e inadeguatezze e innescato un processo di riforma che molti, me inclusa, pensano sia ancora inadeguato.

Ma mentre stiamo ancora digerendo la storia degli ultimi sette anni, ecco che l’Europa è colta impreparata da nuove emergenze: l’immigrazione e la sicurezza. Si tratta di un tema complesso, ma non c’è dubbio che qualsiasi risposta si voglia dare, sarà necessario mettere i soldi sul piatto. Per il problema dei migranti nuovi stanziamenti sono indispensabili sia per la difesa dei confini comuni che per la loro integrazione. Pochi Paesi saranno in grado di contribuire senza infrangere le regole del patto di Stabilità che li vincolano a un tetto preciso sul deficit e sul debito. La Francia ha già detto esplicitamente che non rispetterà le regole sul deficit e l’Italia sta giocando con il fuoco. Altri seguiranno.

Ci sono due strade alternative che si possono percorrere. La prima è quella di allentare le regole per tutti e lasciare maggiore flessibilità di spesa ai Paesi. Questa a mio avviso è una strada potenzialmente pericolosa. Come ho scritto più volte, regole che sono oggetto di un continuo negoziato perdono credibilità e finiscono per indebolire il sistema invece di rafforzarlo.

Non dimentichiamoci che anche se le regole del deficit fossero rispettate e la crescita del Pil tornasse ad un tasso medio annuo del 2 per cento, il debito ereditato dalla crisi del 2008 non si eliminerà nell’arco dei prossimi 10 anni. In questa situazione, una flessibilità à la carte potrebbe portare i mercati a dubitare di nuovo della solidità dei Paesi piu indebitati e a provare a testare nuovamente il sistema come nel 2011 e 2012. Per queste ragioni penso che sia non solo auspicabile, ma anche inevitabile, percorrere una seconda strada e aumentare la capacità di spesa dell’Unione emettendo debito federale. Quest’ultimo, in quanto garantito dall’insieme dei governi, sarebbe «sicuro» e non ci esporrebbe quindi al rischio di instabilità finanziaria.

Proposte di questo genere sono state bocciate nel passato in quanto implicano, potenzialmente, un trasferimento di risorse dai Paesi creditori a quelli debitori. Ma allora si trattava di «salvare» alcune banche o qualche Paese, non di mettere risorse in comune per affrontare un problema comune. L’incentivo ad agire insieme è, oggi, più forte. Una proposta in questo senso è appena stata formulata da un documento cofirmato di Emmanuel Macron, ministro dell’Economia francese e Sigmar Gabriel, vice cancelliere e ministro dell’Economia e dell’Ambiente in Germania. Spero che l’iniziativa non rimanga inascoltata e che l’Unione Europea la faccia propria. La zona euro in particolare ne beneficerebbe perché questo sarebbe il veicolo per un’espansione fiscale che altrimenti non sarebbe possibile mettere in opera. Un bond per finanziare la sicurezza e l’integrazione dei migranti, emesso da una agenzia apposita e garantito dall’insieme dei Paesi dell’Unione, potrebbe peraltro essere il primo passo per quella federazione fiscale dell’eurozona di cui tanto si parla ma che stenta a nascere.

Come hanno fatto recentemente notare gli economisti Jacob Funk Kirkegaard e Thomas Philippon, gli Stati Uniti hanno speso nel 2015 per la difesa della loro frontiera 32 miliardi di dollari mentre la disponibilità finanziaria dell’agenzia europea Frontex, che garantisce la sicurezza dei nostri confini, è stata, nello stesso anno, di 140 milioni di euro. Non è pensabile costruire un’Europa prospera e sicura rimanendo prigionieri di regole disegnate per proteggerci dall’instabilità ma che nell’insieme limitano la nostra capacita di azione collettiva.

28 novembre 2015 (modifica il 28 novembre 2015 | 07:26)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_28/europa-piu-stabile-possibile-lucrezia-reichlin-f4636db2-9597-11e5-92c5-a69ccd937ac8.shtml
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« Risposta #12 inserito:: Dicembre 26, 2015, 11:20:44 pm »

L’era dei tassi zero
La crescita che serve per il 2016

Di Lucrezia Reichlin

Siamo arrivati alla fine del 2015. La Banca centrale europea, che ha sperimentato quasi un anno di Quantitative Easing (Qe), continuerà con acquisti di titoli di Stato e tassi intorno allo zero nel 2016 e probabilmente oltre. La Federal Reserve americana ha invece compiuto il primo passo verso una graduale stretta monetaria alzando dello 0,25 per cento il tasso di interesse, in risposta a dati che segnalano un’economia Usa in riscaldamento con un mercato del lavoro che marcia verso la piena occupazione.

Un’interpretazione facile della diversità delle politiche delle due banche centrali è che mentre gli Usa sono ripartiti e possono celebrare un ritorno alla normalità dopo sette lunghi anni di trauma post 2008, nella zona euro siamo ancora lontani dalla guarigione. In parte è così, ma non proprio. Per capirlo, torniamo a un anno fa. Dove siamo oggi, in chiusura del 2015, rispetto a dicembre 2014?

La zona euro chiudeva il 2014 dopo un anno di crescita anemica, sotto l’un per cento, che seguiva due anni di crescita negativa. Per l’Italia, con un 2014 ancora in rosso, il quadro era ben peggiore. Inoltre, le stime per il 2015 suggerivano che la stagnazione sarebbe continuata: a fine 2014, infatti, la Bce stimava la crescita per l’anno successivo a un tasso appena dell’un per cento. Con una inflazione in decelerazione e un debito complessivo ancora in aumento, si discuteva se l’istituto dovesse o no lanciare il programma di Qe, programma poi effettivamente messo in opera nel gennaio del 2015.

Ben diversa la situazione degli Usa che uscivano da un 2014 cresciuto al ritmo del 2,5%, lo stesso dell’anno precedente, e prevedevano che l’economia si sarebbe rafforzata ulteriormente arrivando a crescere nel 2015 al 3,5%. Con quei numeri la svolta della Fed era attesa ben prima di quanto non sia effettivamente avvenuto.

Un anno è passato. A fine 2015 sappiamo ora che la zona euro è andata meglio del previsto e gli Stati Uniti peggio. Nel 2015 questi ultimi sono rimasti inchiodati a un tasso appena appena sopra al 2% mentre noi ci siamo attestati all’1,5%. È ragionevole pensare quindi che per ambedue le economie la crescita potenziale, ovvero quella di lungo periodo, si assesterà a ritmi più bassi di quelli dei 15 anni precedenti il 2008.


Per questo, nonostante la Fed aumenti i tassi oggi, è probabile che li mantenga bassi per lungo tempo per evitare di strozzare quel poco di crescita che c’è e per far sì che l’inflazione ritorni a tassi intorno al 2%. Low for long (bassi per un lungo periodo), così i mercati hanno definito questa prospettiva. E se questo è vero per gli Usa, tanto più è vero per l’Europa e per il Giappone. Non aspettiamoci di tornare alla cosiddetta «normalità» della politica monetaria nel prossimo futuro.

Ma ciò che conta non sono solo i tassi, ma anche la dimensione dei bilanci delle banche centrali, bilanci che si sono ingrassati ovunque in questi anni di Qe. La Fed non prevede di diminuire il suo stock di attivi finanziari prima di avere completato il ciclo di graduale aumento di tassi d’interesse, una data probabilmente lontana. È inoltre probabile che la Banca del Giappone e la Bce aumenteranno gli acquisti: si stima che per il 2017 la prima raggiungerà un rapporto attivi-Pil del 34% e la seconda del 108%.

Quindi, anche con il rialzo dei tassi da parte della Fed, il mondo continuerà ad avvalersi di condizioni finanziarie facili a fronte di un’economia debole e un debito globale che non si stabilizza. Rischi di volatilità permangono e mai come ora è importante focalizzare gli sforzi sull’economia reale chiedendo alle banche centrali di continuare a vegliare su stabilità dei prezzi e stabilità finanziaria. Con un’economia globale appesantita da fragilità strutturali e destinata a bassa crescita, come ha detto Larry Summers, «non stiamo dicendo addio per sempre ai tassi di interesse a zero» e, aggiungo io, neanche a quelle azioni straordinarie delle banche centrali delle maggiori economie del mondo che, messe in atto in risposta alla grande crisi, stanno diventando parte di una nuova «normalità».

Lucrezia Reichlin
24 dicembre 2015 (modifica il 24 dicembre 2015 | 07:21)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_24/crescita-che-serve-il-2016-lucrezia-reichlin-a15e12fc-aa05-11e5-85c0-9f00ee6a341c.shtml
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« Risposta #13 inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:33:49 am »

L’Italia, l’Ue e il mondo
Le regole che è giusto rivedere

Di Lucrezia Reichlin

A leggere i giornali della settimana scorsa si poteva pensare che il mondo si trovasse sull’orlo del precipizio. L’allarmismo della stampa è il riflesso del nervosismo dei mercati, che senza dubbio c’è stato. Ma un distacco dagli eventi di questi giorni e un’analisi più pacata sono necessari.

Vorrei cominciare col richiamare alcuni fatti. Il mercato, innanzitutto. L’andamento del mercato azionario ha un legame tenue con la dinamica dell’economia reale. I modelli economici più semplici ci dicono che il primo anticipa la seconda, ma i fatti smentiscono ciò: i corsi azionari sono influenzati dal cosiddetto premio al rischio. Questo, a sua volta, è difficile da prevedere poiché riflette meccanismi psicologici legati a eccessi di ottimismo e pessimismo. Infatti, i periodi di alta volatilità del mercato sono molto più frequenti delle recessioni che, nelle economie mature, avvengono in media una volta ogni 10 anni.

Il secondo elemento da valutare è la Cina, ovvero un’economia che ha avuto una crescita media del 10 per cento per oltre dieci anni, crescita trainata dall’industria manifatturiera e dalle esportazioni. Quel Paese vive ora una fase di riequilibrio dell’economia verso i servizi e il consumo interno che ne comporta un naturale rallentamento: la crescita nel 2015 è stimata al 7% e nel 2016 al 6,7. Non si prevede un crollo, ma un semplice aggiustamento. Questa diminuzione di qualche punto, secondo le stime della maggior parte degli esperti, avrà un impatto minimo sulla crescita di Usa ed Europa, anche se la Germania è leggermente più esposta.

Veniamo all’Italia. Tutti i segnali dell’economia reale indicano che il 2016 confermerà la ripresa del 2015 anche al di là delle aspettative annunciate pochi mesi fa. Tutti questi fatti sono rassicuranti, ma ciò non significa che i rischi siano assenti. Passiamo quindi ad esaminare questi ultimi. Per quanto riguarda l’economia reale, il fattore di rischio principale non è a mio avviso la Cina, ma sono gli Stati Uniti. L’economia Usa è in ripresa da più di sei anni e ciò storicamente suggerisce che una recessione non sia lontana. I dati della produzione (non quelli dell’occupazione che li seguono con ampio ritardo e quindi non possono essere usati come indicatore del futuro) continuano a mandare segnali di un progressivo indebolimento dell’economia. Se gli Usa dovessero entrare in recessione tra la fine del 2016 e il 2017, l’Europa seguirebbe dopo qualche mese. Per noi sarebbe troppo presto: abbiamo ancora bisogno di correre per recuperare quanto abbiamo perduto dal 2008 a oggi.



Ma la grande volatilità nei mercati finanziari deriva soprattutto dai movimenti di capitali. E questi sono conseguenza dell’apprezzamento del dollaro combinato a un alto indebitamento dei Paesi emergenti, del calo del prezzo del petrolio e della liberalizzazione in corso del mercato dei capitali in Cina. In una economia in cui i mercati finanziari sono integrati a livello globale e in cui i flussi finanziari sono molto più ingenti di quanto sarebbe giustificato dall’import-export di merci e servizi, anche piccoli cambiamenti nelle aspettative provocano grandi spostamenti di capitali e quindi una volatilità difficile da comprendere sulla base dell’andamento dell’economia reale, ma che su quella stessa economia reale può avere però conseguenze. Da qui il ruolo chiave delle Banche centrali nel garantire liquidità al sistema e calmare le acque.

E l’Italia? L’Italia è finalmente uscita dai giorni più bui e sta consolidando la sua ripresa, ma è appesantita da sei anni in cui ha oscillato tra stagnazione e recessione. I crediti malati sono la conseguenza di questa crisi e alla crisi possiamo attribuire anche un buon 25 per cento del nostro debito pubblico. Per questo, nonostante i buoni segnali provenienti dall’economia reale, restiamo vulnerabili al primo singhiozzo del mercato. Non solo. Se effettivamente l’insieme dei rischi globali - e in particolare un rallentamento degli Usa - dovessero accorciare la ripresa europea, noi ci ritroveremmo ad affrontare un nuovo choc negativo senza esserci ancora liberati dell’eredità dell’ultima crisi, quindi con pochi strumenti per affrontare la nuova. L’Italia non è il solo Paese dell’area euro che si trova in questa situazione. La crisi delle banche portoghesi, ad esempio, si iscrive nello stesso scenario.

Non c’è dunque tempo da perdere. Il problema delle banche e del trattamento delle sofferenze va affrontato con rapidità e lucidità. Era una crisi annunciata. Siamo arrivati in ritardo. Ma ciò che sta avvenendo in Italia deve valere da richiamo per l’Europa e farle comprendere che lo sforzo di riforma di questi ultimi anni è stato tutto mirato alla costruzione di regole appropriate per il «tempo di pace», cioè quando il peso della crisi sarà riassorbito. L’Europa, invece, non ha dedicato sufficiente attenzione a come accompagnare la transizione verso quella situazione di «normalità». Senza affrontare il problema della transizione, regole che sono da ritenersi giuste in tempi normali potrebbero rivelarsi controproducenti nel breve periodo. Il bail-in è un esempio illuminante di questa situazione. Ecco il tema che l’Italia e gli altri Paesi come noi esposti a nuove turbolenze per via del debito e delle sofferenze bancarie dovrebbero mettere al centro della discu ssione con Bruxelles.

24 gennaio 2016 (modifica il 24 gennaio 2016 | 08:28)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_24/italia-ue-regole-rivedere-editoriale-reichlin-66ab8efa-c26a-11e5-9b69-aff8e7a41687.shtml
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