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Autore Discussione: Enrico MARRO -  (Letto 37027 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Maggio 19, 2015, 09:31:40 am »

Pensioni, la guida a scaglioni e mini risarcimenti
«Una tantum» al netto delle tasse ma esclude 1,2 milioni di persone.
Per restituire tutto a tutti servirebbero almeno 11 miliardi

Di Enrico Marro

ROMA - Spiccioli. Il premier ha scelto di rispondere alla sentenza della Corte Costituzionale sulle pensioni spendendo il meno possibile: appena 2 miliardi sugli 11 necessari per rimborsare tutto a tutti.

Nel 2012, secondo i dati del Casellario centrale delle pensioni, il blocco biennale della rivalutazione ha colpito 5,2 milioni di pensionati che prendevano più di 3 volte il minimo, cioè 1.443 euro lordi. Se oggi il consiglio dei ministri approverà la proposta di Matteo Renzi, un parziale, parzialissimo rimborso verrà dato, con la pensione di agosto, a coloro che hanno un trattamento complessivo (l’indicizzazione si applica sull’insieme delle pensioni percepite) superiore a 3 volte il minimo e fino a 3mila euro lordi (6 volte il minimo). Si tratta di circa 4 milioni di pensionati, mentre 1,2 milioni non riceverà nulla.

La platea interessata comprenderà certamente i 3,8 milioni di pensionati che nel 2012 prendevano fra 3 volte e 5 volte il minimo, cioè fra 1.443 euro e 2.405 euro lordi. Ai quali, secondo quanto ha detto il premier, dovrebbero sommarsi i circa 600mila pensionati tra 5 e 6 volte il minimo (2.886 euro lordi nel 2012, circa 3mila euro nel 2015). I 500 euro di una tantum a titolo di rimborso degli arretrati sono da intendersi, spiega Palazzo Chigi, come una cifra al netto delle tasse e media. Nel senso che chi ha una pensione più bassa, vicina cioè alla soglia di 3 volte il minimo prenderà meno mentre chi ha un trattamento più alto riceverà di più. Potrebbero esserci tre fasce di rimborso: fra 3 e 4 volte il minimo, Fra 4 e 5, fra 5 e 6.

I 2 miliardi (500 euro in media per 4 milioni di pensionati) rappresentano circa un quinto rispetto agli 11 miliardi di spesa netta (15 miliardi al lordo delle tasse, che diventano 18 proiettando la spesa sul 2016), secondo le tabelle consegnate dal viceministro dell’Economia, Enrico Morando, in Parlamento per illustrare il costo dell’applicazione della sentenza della Consulta se si fosse deciso di dare tutta la mancata indicizzazione a tutti gli aventi diritto. Cinquecento euro in media sono davvero pochi rispetto a rimborsi pieni che avrebbero dovuto oscillare fra 1.500 e 3.000 euro netti. I ricorsi alla magistratura sono certi.

Ma il governo, come aveva detto fin dall’inizio il ministro Pier Carlo Padoan, ha scelto di «minimizzare» l’impatto sui conti pubblici, per evitare di violare le regole europee su deficit (non deve superare il 3% del Pil). Per questo i saldi di finanza pubblica dovrebbero restare invariati. A cominciare dal deficit previsto per quest’anno al 2,6%. La spesa di due miliardi annunciata da Renzi sarà infatti coperta, come ha spiegato lo stesso presidente del Consiglio, ricorrendo al cosiddetto «tesoretto», cioè quel miliardo e 600 milioni che il governo aveva intenzione di spendere facendo salire di 0,1 punti il deficit tendenziale che quest’anno è previsto al 2,5%. Risorse alle quali si sommerà qualche centinaio di milioni che verranno trovati nelle pieghe del bilancio. Saltano così, almeno per il momento, i progetti ai quali stava lavorando l’esecutivo per spendere il tesoretto potenziando gli strumenti di contrasto della povertà.

18 maggio 2015 | 06:53
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_maggio_18/pensioni-guida-scaglioni-mini-risarcimenti-065f5d7c-fd19-11e4-b490-15c8b7164398.shtml
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« Risposta #46 inserito:: Agosto 09, 2015, 10:46:45 am »

Un impegno concreto contro la povertà
In Italia sono 4,1 milioni i cittadini in gravi difficoltà. Non possono permettersi i beni essenziali.
Oltre alla Grecia, siamo l’unico Paese in Europa a non aiutare gli «incapienti».
Se è una priorità per il governo, si deve passare ai fatti

Di Enrico Marro

In Italia, secondo la recente indagine Istat, ci sono 7,8 milioni di persone in condizioni di «povertà relativa», cioè con una capacità di spesa che non raggiunge la metà di quella media (per esempio, una famiglia di due componenti che spende meno di 1.041 euro al mese). Di queste, 4,1 milioni sono in «povertà assoluta», non in grado cioè di acquistare neppure un paniere di beni e servizi «essenziali per uno standard di vita minimamente accettabile», spiega l’istituto di statistica. Quasi cinque milioni di poveri relativi vivono nel Mezzogiorno, con un’incidenza sulla popolazione più che tripla rispetto al Nord: 23,6% contro il 6,8%.

Crescita o non crescita dell’economia, la lotta alla povertà dovrebbe essere una priorità, soprattutto per un governo di centrosinistra. Stando alle dichiarazioni ufficiali, lo è. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, lo ha più volte ribadito. Nei fatti no, almeno finora. Prendiamo gli 80 euro al mese: sono andati a 10 milioni di lavoratori dipendenti, ma non agli «incapienti», 4 milioni di persone che hanno redditi così bassi da non dover presentare il 730. Forse perché i poveri non votano? Con la legge di Stabilità 2015, la prima del governo Renzi, niente è arrivato loro. Ciò nonostante, il presidente del Consiglio non ha mai escluso la possibilità di estendere in futuro la platea dei beneficiari degli 80 euro. Che, per inciso, sono andati anche a famiglie che non ne avevano urgente bisogno, tipo due coniugi con redditi ciascuno di 24 mila euro, totale 48 mila euro l’anno, che hanno preso e prendono 160 euro al mese. Ma l’estensione agli incapienti avverrà solo «se ci saranno le risorse», ha sempre precisato il governo. Da qualche mese Poletti sta approfondendo la materia, in vista della prossima legge di Stabilità. Con impegno, va detto. Ha incontrato l’Alleanza contro la povertà, che riunisce 32 associazioni che si occupano del problema, le Regioni e gli enti locali, i quali, nel deserto di interventi statali, provvedono, tra mille difficoltà, a fronteggiare una piaga che altrimenti solo la Chiesa e qualche volontario allevierebbe.

Bene, che cosa viene fuori da questi incontri? Che mentre Renzi annuncia un piano da 35-45 miliardi per tagliare le tasse, Poletti dice che sarebbe già un miracolo trovare un miliardo e mezzo in tre anni per i poveri. E questo dopo che lo stesso ministro aveva giudicato ragionevole la proposta dell’Alleanza che propone l’introduzione in Italia — unico Paese in Europa oltre la Grecia a non avere uno strumento universale di lotta alla povertà — del Reis, un Reddito di inclusione sociale per quei 4,1 milioni di italiani che si trovano in povertà assoluta. Secondo l’Alleanza, per assicurare il reddito sufficiente a uscire da questa condizione, il governo dovrebbe stanziare a regime 7 miliardi l’anno. Ma intanto, suggerisce la proposta consegnata al governo, si potrebbe cominciare con 1,8 miliardi nel 2016 per soccorrere i più disperati e poi coprire l’intera platea nel giro di 4 anni. Ovviamente, secondo un approccio non meramente assistenziale, il sostegno non dovrebbe trasferire solo denaro, ma anche servizi, ed essere sottoposto, come si dice, alla «prova dei mezzi», per evitare cioè che vada agli evasori (si può ricorrere all’Isee e a tutti gli incroci di banche dati oggi possibili), e subordinato a un comportamento attivo dei beneficiari (accettazione di percorsi di reinserimento sociale per sé e i figli).

Allo stesso tempo, il presidente dell’Inps insiste nel proporre un «sostegno per l’inclusione attiva» per le persone che hanno più di 55 anni perché sono quelle, spiega Tito Boeri dal suo osservatorio, più penalizzate dalla crisi, nel senso che quando perdono il lavoro difficilmente ne trovano un altro, ma neppure hanno l’età per andare in pensione. L’economista, ha spiegato ieri in un’intervista al Mattino, che le risorse si potrebbero trovare nell’ambito delle politiche gestite dallo stesso Inps, dato che «ci sono molte prestazioni assistenziali oggi appannaggio del 30% più ricco della popolazione» e che «su 100 euro di spesa sociale solo 3 euro vanno ai più poveri». Se è così — e il presidente dell’Inps non avrà difficoltà a fornire tutti gli elementi per una valutazione approfondita — non dovrebbe essere difficile trovare quel miliardo e 800 milioni per partire con il Reis e cominciare a coprire l’intera platea della povertà assoluta. Basta che Lavoro, Inps e Tesoro si siedano attorno allo stesso tavolo e collaborino. Se davvero questa è una priorità del governo.

5 agosto 2015 (modifica il 5 agosto 2015 | 09:15)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_agosto_05/impegno-concreto-contro-poverta-3fd3e92e-3b3a-11e5-b627-a24a3fa96566.shtml
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« Risposta #47 inserito:: Agosto 09, 2015, 10:48:23 am »

SPESA ASSISTENZIALE
Il welfare al contrario, così lo Stato aiuta più i ricchi che i poveri
Il paradosso della spesa per assistenza: al 40% più povero delle famiglie italiane va meno di un quarto del totale


Di Enrico Marro

Tra i tanti paradossi della spesa pubblica italiana ce n’è uno particolarmente fastidioso, quello che vede la spesa assistenziale andare a favore più dei ricchi che dei poveri. Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, lo sospettava già da economista, ma ora che ha una visione diretta dei dati ne ha avuto la conferma.

Prendendo la spesa per prestazioni assistenziali gestita dall’Inps e legata anche a requisiti di reddito e suddividendo le famiglie che ne beneficiano in dieci decili secondo l’Isee (misura reddito e patrimonio) si osserva che essa va per meno di un quarto (il 23%, per la precisione) agli ultimi 4 decili, cioè al 40% delle famiglie più povere. In particolare, solo il 4% della spesa va all’ultimo decile, mentre il 10% delle famiglie più ricche beneficia del 14% della spesa e al secondo decile dei più ricchi va, in proporzione, la fetta maggiore dell’assistenza, il 19%. Insomma, un terzo della spesa si rivolge al 20% più ricco.

La spesa
Il totale delle uscite considerate vale circa 20 miliardi l’anno, di cui la metà per le integrazioni delle pensioni al minimo, quasi 5 miliardi per pensioni e assegni sociali e il resto per maggiorazioni varie delle pensioni, sempre legate al reddito. Ma allora come è possibile che la spesa si addensi verso i decili di famiglie più ricche? Per due ragioni. La prima è che una parte delle prestazioni in pagamento sono ancora quelle liquidate quando i requisiti di reddito non erano previsti dalle norme o erano meno severi. Per esempio, l’integrazione al minimo, che lo Stato dà a 3,5 milioni di pensionati che hanno meno di 15 anni di contributi versati e non raggiungono l’importo minimo fissato per legge ogni anno (502,38 euro al mese nel 2015), fino al 1983 era concessa indipendentemente dal reddito e dall’83 al 1992 sulla base dei redditi del solo pensionato, mentre solo dal 1992 si considera anche quello del coniuge. La seconda ragione che spiega il paradosso è che un conto è considerare come requisito per la prestazione il solo reddito Irpef, come si fa ora, un altro l’Isee, che include anche la ricchezza patrimoniale immobiliare e mobiliare (conti correnti, depositi, titoli, azioni e altri investimenti finanziari) e il possesso di veicoli e che lo fa non solo per il beneficiario, ma anche per il coniuge e i figli, cioè per tutti i tutti i componenti del nucleo familiare.

Il metodo
È evidente che se si applicasse l’Isee, soprattutto quello riformato nel 2013 che è abbastanza sofisticato e può contare sull’incrocio delle banche dati, non solo si scoverebbero più facilmente prestazioni erogate a evasori fiscali, ma si potrebbe anche risparmiare qualche miliardo di euro all’anno che oggi va a famiglie che non hanno bisogno di assistenza. Un’operazione che potrebbe servire alla spending review, la revisione della spesa pubblica, oppure a finanziare l’introduzione del Reis, il reddito di inclusione sociale, contro la povertà, ma che si scontra col tema dei cosiddetti diritti acquisiti. Altri risparmi sarebbero possibili se l’Isee si applicasse anche ad altre voci importanti di spesa, come per esempio l’indennità di accompagnamento per gli invalidi totali non autosufficienti (13,6 miliardi nel 2014 per circa 2 milioni di persone) e che sono state sempre slegate dal reddito. Ma quest’ultimo, come è facilmente intuibile, è un capitolo ancora più difficile da toccare.

7 agosto 2015 (modifica il 7 agosto 2015 | 11:12)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_agosto_07/welfare-contrario-cosi-stato-aiuta-piu-ricchi-che-poveri-584623f4-3cdf-11e5-a2f1-a2464143b143.shtml
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« Risposta #48 inserito:: Agosto 16, 2015, 04:34:49 pm »

Nel mondo sindacale serve più trasparenza
Quella delle retribuzioni d’oro è solo l’ultima puntata di una vicenda che affonda le sue radici nella natura non regolamentata delle organizzazioni sindacali in Italia.
Nessuno sa, per esempio, quanti sono gli iscritti a Cgil, Cisl e Uil

Di Enrico Marro

Fausto Scandola, è proprio il caso di dirlo, ha fatto scandalo. L’ex dirigente della Cisl del Veneto, che in una email ai piani alti del sindacato ha denunciato le retribuzioni di alcuni personaggi di primo piano dell’organizzazione che sfiorano i 300 mila euro lordi l’anno, ha suscitato le reazioni indignate di migliaia di iscritti, non solo della Cisl, e ha obbligato i leader sindacali a correre ai ripari, promettendo tetti ai compensi e divieti di cumulo. Tardi, purtroppo. Sono anni, infatti, che il sindacato è alle prese con una questione trasparenza grande come una casa. Quella delle retribuzioni d’oro è solo l’ultima puntata di una vicenda che affonda le sue radici nella natura non regolamentata delle organizzazioni sindacali in Italia.

Quanti sono gli iscritti a Cgil, Cisl, Uil e alle altre centinaia di sigle? Nessuno lo sa. Poiché i sindacati sono associazioni di fatto, bisogna fidarsi di ciò che dichiarano. E un discorso analogo potrebbe farsi per le associazioni imprenditoriali, dalla Confindustria in giù. Solo nel settore pubblico, grazie alla legge, esiste una certificazione degli iscritti, affidata a un ente terzo, l’Aran. Nel privato, per ora, c’è un accordo tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, firmato il 10 gennaio 2014, ma non ancora attuato. Prevede che debba essere l’Inps a conteggiare il numero di iscritti a ogni sigla. Ma la maggior parte delle aziende, non essendo obbligate per legge, non hanno comunicato i dati. Quanto ai pensionati, anche in questo caso, i dati sono presso l’Inps, che quattro mesi fa ha rivelato che gli iscritti al sindacato sono 7,1 milioni su un totale di 15,8 milioni di pensionati. I dati ottenuti dal Corriere fecero scoprire una differenza tra iscritti reali e dichiarati di circa il 20% in meno per le tre maggiori confederazioni e del 1000%, cioè dieci volte tanto, per sigle minori come l’Ugl e la Cisal. Qualche anno fa, del resto, era stato un altro sindacato autonomo, la Confsal, a produrre uno studio in cui denunciava che in Italia c’erano complessivamente «oltre 3 milioni di iscritti fantasma».

Quanti soldi prendono e quanti ne spendono i sindacati? Anche qui nessuno lo sa, non essendo obbligati a presentare i bilanci. Le sigle che stanno più avanti sono Cgil, Cisl e Uil, che però non redigono il bilancio consolidato di tutta l’organizzazione, ma budget separati per ogni struttura. Viviamo di tessere, dichiarano: fruttano circa 1,2 miliardi all’anno per Cgil, Cisl e Uil assieme. Ma sappiamo anche che al sistema dei Caf e dei patronati (dove i sindacati fanno la parte del leone) vanno rispettivamente circa 170 milioni e 4o0 milioni l’anno dal bilancio dello Stato.

Quanto guadagnano i dirigenti sindacali? La risposta è come le precedenti. Ogni sigla ha le sue regole e le tiene segrete. Solo dopo i recenti scandali — in particolare la retribuzione dell’ex segretario della Cisl Raffaele Bonanni salita fino a oltre 300 mila euro lordi per consentirgli di andare in pensione con più di 5 mila euro netti al mese — alcuni sindacati hanno iniziato a mettere i dati online. Ha cominciato il segretario della Fiom-Cgil, Maurizio Landini (2.262 euro netti la sua busta paga), seguito dalla Fim-Cisl. Ora, dopo la denuncia, riportata qualche giorno fa da Repubblica, di Fausto Scandola, che ha chiesto conto dei 256 mila euro lordi di Antonino Sorgi, presidente del patronato Inas-Cisl, dei 289 mila di Valeriano Canepari, ex presidente del Caf, dei 225 mila di Gigi Bonfanti, segretario dei pensionati e dei 237 mila di Pierangelo Raineri, leader della Fisascat, il segretario della Cisl Annamaria Furlan (circa 100 mila euro lordi la sua retribuzione), promette che metterà tutto online. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, lo aveva consigliato loro non appena arrivato a Palazzo Chigi. Adesso potrebbe affondare il colpo e attuare con una legge l’articolo 39 della Costituzione, che prevede la registrazione dei sindacati e di conseguenza il conferimento loro di personalità giuridica in modo da dare efficacia generale ai contratti firmati dalle organizzazioni maggioritarie (ma potrebbe servire anche per la proclamazione degli scioperi). La Cisl è stata sempre contraria all’intrusione della legge. Ma dopo gli ultimi scandali è molto indebolita. E i suoi stessi iscritti si chiedono se i loro interessi siano garantiti meglio dalla legge o dalle regole interne gelosamente custodite.

13 agosto 2015 (modifica il 13 agosto 2015 | 11:14)
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DA - http://www.corriere.it/opinioni/15_agosto_13/mondo-sindacale-serve-piu-trasparenza-1ba76aa4-4192-11e5-b414-c15278464aa4.shtml
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« Risposta #49 inserito:: Agosto 26, 2015, 11:49:50 am »

Quattro modifiche strutturali e ben dieci decreti legge per l'Imu in soli due anni

Di Enrico Marro

ROMA Quando le cose si mettono male, il governo fa cassa più del solito sulle voci che, per definizione, non possono sfuggire al Fisco: dagli stipendi e le pensioni con il prelievo alla fonte fino alla casa, bene immobile difficile da nascondere. Per la verità, nel 1992, il governo Amato, con l’Italia sull’orlo del baratro, si inventò anche il prelievo del 6 per mille, nottetempo, sui depositi bancari. Che è rimasta, in assoluto, la tassa più odiata dagli italiani. Ma, per fortuna, una tantum, almeno in quella forma. La casa, invece, è una sorta di bancomat al quale ricorrono tutti i governi, ciascuno a modo suo.

E poiché il 76% delle famiglie italiane vive in una casa di proprietà, è chiaro che togliere o mettere una tassa sugli immobili, aumentarla o ridurla, è una potente leva per guadagnare voti alle elezioni. Eppure si parla, per esempio con la Tasi sulla prima casa, di un prelievo che in media è stato di 175 euro nel 2014, cioè meno di 15 euro al mese, secondo i dati del ministero dell’Economia, per un gettito totale di 3,4 miliardi al quale ora il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha annunciato di voler rinunciare dal 2016. Perché, ha spiegato il suo consigliere economico, Yoram Gutgeld, la tassazione sulla casa, in particolare sulla prima, ha avuto un effetto recessivo, non tanto per l’entità del prelievo ma soprattutto perché ha aumentato la sfiducia e il senso di insicurezza delle famiglie. Comprensibile, davanti a un continuo cambiamento delle regole. In due anni, l’Imu, cioè la principale imposta sugli immobili, «è stata oggetto di 4 modifiche strutturali e di ben 10 decreti legge su aspetti secondari (come l’Imu agricola o sui macchinari imbullonati)», ha osservato Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale del ministero dell’Economia. «Ne è nato un inferno fiscale, dove nessuno ha capito più niente».

Ma cominciamo dall’inizio. In principio c’era l’Isi, imposta straordinaria sugli immobili, istituita anche questa dal governo Amato nel 1992, con un’aliquota del 3 per mille sul valore catastale degli immobili, e subito trasformata, nel 1993, in Ici (imposta comunale sugli immobili). Il prelievo da straordinario diventava strutturale e l’aliquota saliva (tra il 4 e il 7 per mille a discrezione dei comuni). Dieci anni dopo, nel 2003, il gettito già superava 11 miliardi, per salire fino a 12,7 nel 2007. Poi, nel 2008, l’allora premier Silvio Berlusconi, che già nella campagna elettorale del 2006 aveva promesso l’abolizione dell’Ici sulla prima casa, la tolse per decreto. Il gettito calò di tre miliardi e rimase intorno ai nove miliardi e mezzo all’anno fino alla drammatica estate del 2011, con l’Italia di nuovo a un passo dalla bancarotta. Arrivò il governo Monti e furono davvero lacrime e sangue. L’Imu, la nuova tassa messa a punto da Berlusconi, che avrebbe dovuto prendere il posto dell’Ici dal 2014 (sempre escludendo la prima casa), fu anticipata al 2012, imposta anche sulle abitazioni principali e inasprita con specifici moltiplicatori delle rendite catastali.

Una stangata che fece balzare il gettito dai 9,8 miliardi del 2011 ai 23,6 del 2012. Subito dopo Monti, toccò a Enrico Letta, premier del Pd, ma sostenuto anche da Berlusconi al quale dovette pagare il prezzo di togliere l’Imu sulla prima casa. Che però rispuntò, dal 2014, sotto un nome diverso, la Tasi, tassa sui servizi indivisibili. I fatti smentirono le promesse. Il carico fiscale sulla prima casa risultò alleggerito di appena 500 milioni che però, paradossalmente, sono stati pagati in meno da proprietari di case con rendite catastali alte mentre quelli con abitazioni di minor pregio hanno mediamente pagato di più di prima, perché sono state tolte le detrazioni fisse. Sulle seconde case l’imposta è aumentata molto.

Complessivamente, l’Imu-Tasi nel 2014 è costata ai cittadini 25,2 miliardi, il 15% in più dell’Imu 2013 (quando non si pagò sulla prima casa) il 7% in più del 2012 (quando l’imposta colpiva anche l’abitazione principale) e il 157% in più dell’Ici 2011. Adesso Renzi promette che semplificherà tutto con un un’unica tassa, la Local tax, che non graverà sulla prima casa. Si tratta di uno sconto di circa 3 miliardi e mezzo (che diventano 5 cancellando anche l’Imu sui macchinari imbullonati e quella agricola) su un prelievo patrimoniale sugli immobili che complessivamente vale circa 45 miliardi l’anno tra Imu, Tasi, Irpef, Ires, Iva, imposte di registro e catastali. E senza contare la Tari-Tares-Tarsu-Tia, cioè le varie tasse sui rifiuti: un rompicapo gestito dai comuni, che costa ai cittadini almeno altri 8 miliardi all’anno.

Ma come siamo messi nei confronti internazionali? A livello Eurostat e Ocse si possono paragonare solo le tasse sulla proprietà. Per l’Italia l’Imu, che è appunto passata da circa lo 0,6% del Pil nel 2011 all’1,2% nel 2013. Siamo ancora sotto la Francia (2,5% del Pil nel 2013), il Regno Unito (3,2%), gli Stati Uniti (2,7%). Ma sopra la Spagna (1,1%) e la Germania (0,4%).

21 luglio 2015 (modifica il 21 luglio 2015 | 11:24)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_luglio_21/casa-bancomat-fisco-2014-tasi-imu-piu-25-miliardi-euro-e15f7e70-2f78-11e5-882b-b3496f35c4c0.shtml
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« Risposta #50 inserito:: Settembre 05, 2015, 12:16:11 pm »

Così ho trasformato 6mila dollari in 67 miliardi: le tre regole d'oro di Buffett per guadagnare in Borsa
Il più grande investitore di tutti i tempi domenica ha soffiato su 85 candeline. I segreti del suo incredibile successo? Sono gli stessi da sempre. Ma funzionano sempre alla grande. Eccoli

Di Enrico Marro

1. Guadagnare in Borsa come Buffett / Il mago che batte regolarmente gli indici di Wall Street
La leggenda vivente dei mercati finanziari ha compiuto 85 anni. Warren Buffett era appena un bambino quando iniziò a guadagnare vendendo porta a porta chewing-gum, bottiglie di Coca-Cola e riviste. Dopo aver fatto lo strillone, ha avviato (sempre da piccolo) un business legato alle macchine da flipper. A 11 anni ha comprato le prime azioni della sua vita, guadagnando in quattro anni 6mila dollari. A 14 anni ha acquistato dei terreni agricoli che sono saliti di prezzo fino a “regalare” a Warren, alla fine dell'università, qualcosa come 90mila dollari attualizzati. Buffett, insomma, è davvero un mago. La sua Berkshire Hathaway ha battuto l'indice S&P di Wall Street per 43 anni negli ultimi 44.
Ma qual è il segreto dell'85enne “grande vecchio” dei mercati? Il bello è che non ci sono segreti: Buffett ha spiegato molte volte come sceglie le azioni che gli danno soddisfazione. Il mago analizza i fondamentali delle società con alcune semplici ma ferree regole, proprio come faceva il suo maestro Benjamin Graham (il guru del “value investing”, una leggenda di Borsa del passato). L'obiettivo? Cercare valore in quello che compra. Ecco le tre regole d'oro di Buffett per guadagnare.

2. Guadagnare in Borsa come Buffett / Primo: lente d'ingrandimento sui dati finanziari delle aziende (nel lungo periodo)
Nella sua accurata selezione di azioni da acquistare, Warren Buffet passa al setaccio innanzitutto i fondamentali finanziari delle aziende. Guarda al lungo periodo, come il suo maestro Graham, non al trading di breve respiro. «Le azioni non sono pezzi di carta, ma pezzi di business», ama ripetere. Buffett si focalizza in particolare sul ROE, ossia la redditività del capitale proprio (return on equity): per entrare nei suoi radar questo magico numeretto dev'essere robusto, almeno pari al 15% nell'ultimo decennio. Ovviamente le aziende devono avere una bassa leva finanziaria e magari una politica di dividendi degna di questo nome.
Un esempio? Coca-Cola, che l'oracolo di Omaha ha in portafoglio dal lontano 1988, e che vanta un ROE regolarmente superiore a quello della media dello S&P500.
Prima di scegliere, comunque, Buffett analizza un'enorme mole di dati finanziari storici sulle singole aziende. E guarda attentamente a management, debito e investimenti. Vediamo.


3. Guadagnare in Borsa come Buffett /Secondo: scegliere aziende poco indebitate e che investono (con un occhio attento al management)
L'oracolo di Omaha non ama le imprese indebitate: strangolate dal fardello degli interessi da pagare, risultano meno solide sul fronte degli utili, e in ogni caso sono più fragili. Meglio aziende sane, in grado di generare buoni margini e soprattutto focalizzate sul reinvestimento dei profitti.
Buffett ovviamente è molto attento anche alla qualità e alla stabilità del management. In particolare si concentra sul Ceo (l'amministratore delegato): guarda con attenzione al suo curriculum, alle sue scelte passate (che danno un'idea della propensione personale a rischi inutili) e perfino al suo stipendio (bonus stellari in aziende pesantemente indebitate accendono lampadine d'allarme).
Ma quello che più interessa al mago della finanza è trovare “valore”, perché è questo l'ingrediente magico che farà crescere un'azienda nel lungo termine, al di là degli scossoni temporanei. Ecco come fa.

4. Guadagnare in Borsa come Buffett / Puntare su aziende con prospettive di lungo termine (e con un solido “vantaggio di mercato”)
Come trovare il mitico “valore” delle aziende, quello che garantisce solidi ritorni su ampi orizzonti temporali? Intanto Buffett consiglia di puntare su compagnie con prospettive di lungo termine: «Questa impresa sarà in grado di vendere i suoi prodotti tra 30 anni?» è una delle domande preferite del mago, assieme a «Internet cambierà il modo di usare questo prodotto?». Se la rivoluzione digitale sta mutando un prodotto o servizio e rischia di farlo diventare irrilevante, meglio starne alla larga.
Buffett ama anche i modelli di business semplici e consolidati. Ma quello che adora è il cosiddetto “market edge”, il vantaggio di mercato: quindi predilige le aziende che fanno un prodotto unico o vendono qualcosa che non ha alternative.
Regole semplici, insomma, anche se qui ne abbiamo dato solo qualche breve flash. Ma collaudate, solide e soprattutto redditizie. Nel lungo periodo, che Warren da buon 85enne ama, hanno regalato al mago della finanza e ai suoi azionisti grandi soddisfazioni. Buon compleanno Warren, altri 85 di questi giorni. E altri 67 di questi miliardi.


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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2015-09-01/guadagnare-borsa-come-buffett-mago-che-batte-regolarmente-indici-wall-street-184124.shtml?uuid=ACvAhEq&nmll=2707#navigation

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« Risposta #51 inserito:: Settembre 22, 2015, 06:33:16 pm »

Come tagliare le tasse
La dura realtà del deficit

Di Enrico Marro

Con l’aggiornamento del Def, il Documento di economia e finanza che verrà approvato domani dal Consiglio dei ministri, va dato atto al governo di essere stato, una volta tanto, prudente nelle sue stime dello scorso aprile, tanto da doverle rivedere in meglio anziché in peggio. La crescita del Prodotto interno lordo sarà superiore al previsto, sia quest’anno (0,9% invece di 0,7%) che nei prossimi. E ciò è dovuto non solo a fattori esterni, forse irripetibili nella loro coincidenza, ma anche alle decisioni di politica economica che, alla fine, cominciano a produrre qualche effetto positivo sui consumi e sull’occupazione, sia pure ancora inferiori alle attese. Visti questi primi risultati, fa bene il governo ad insistere sulla linea intrapresa: taglio delle tasse e manovra espansiva. Ma est modus in rebus.

Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, annuncia che con la prossima legge di Stabilità, una manovra da 27 miliardi nel 2016 per evitare che aumentino le tasse (le cosiddette clausole di salvaguardia su Iva e accise che valgono 16 miliardi) e per tagliarne altre (da quelle sulla prima casa agli sgravi sul lavoro e per il Mezzogiorno), l’Italia sfrutterà i margini di flessibilità previsti delle regole europee fino a un punto di Pil, ovvero fino a 17 miliardi di euro, per finanziare gli interventi previsti. Ora, è bene chiarire che la formula «margini di flessibilità» ha un impatto diretto sul deficit. Ovvero: quando un governo chiede alla commissione di utilizzare i margini significa che sta chiedendo il via libera per aumentare il proprio deficit in rapporto al Pil. Per il 2016 l’Italia ha già ottenuto il permesso di far salire il deficit dall’1,4% tendenziale all’1,8%, grazie alle riforme per la crescita messe in campo. Si tratta di 6,4 miliardi di euro, che insieme con 10 miliardi di tagli della spesa pubblica (spending review) andranno a disinnescare le clausole di salvaguardia. In teoria rimarrebbe un altro 0,6% di margine di flessibilità, cioè una decina di miliardi di ulteriore espansione del deficit, che potrebbe essere concesso a fronte non solo delle riforme ma delle altre due condizioni previste dalle regole europee: il cofinanziamento di investimenti infrastrutturali; il dover far fronte a crisi, emergenze e calamità (gli immigrati?).

Renzi ha già detto che non intende utilizzare tutti i margini potenziali, anche perché sa benissimo che la Commissione europea non glielo concederebbe. E il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha precisato ieri alla Camera che il deficit nel 2016 non veleggerà verso il 3% e sarà inferiore al 2,6% previsto per quest’anno. Ma al di là di questo c’è una considerazione che dovrebbe consigliare prudenza al governo. Può un Paese con un debito pubblico di oltre il 130% del Prodotto interno lordo, che ogni anno si presenta sui mercati per chiedere circa 400 miliardi di euro di prestiti collocando titoli di Stato, finanziare quasi due terzi della manovra in deficit? Che fine farebbe la promessa di basare la credibilità della stessa sui tagli strutturali della spesa pubblica?

Il governo sa bene che la lunga stagione dei bassi tassi d’interesse potrebbe finire e che per l’Italia resta una priorità non prestare il fianco alla speculazione. Una maggior credibilità è stata conquistata al prezzo di anni di sacrifici senza precedenti. Ora dobbiamo consolidarla e non esporla al rischio di manovre con il passo più lungo della gamba.

17 settembre 2015 (modifica il 17 settembre 2015 | 07:29)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_settembre_17/dura-realta-deficit-f86c07c6-5cf7-11e5-aee5-7e436a53f873.shtml
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« Risposta #52 inserito:: Ottobre 14, 2015, 02:56:55 pm »

I diritti dei cittadini
Le proteste e una legge da cambiare
La norma che regola gli scioperi e i disagi per i cittadini

Di Enrico Marro

Ancora una volta uno sciopero proclamato da un sindacato minoritario riesce a fermare la metropolitana nella capitale. Ancora una volta di venerdì. Ancora una volta lasciando un profondo senso di rabbia e impotenza nei cittadini vittime di questi disagi. Cittadini che non hanno alcuna colpa del conflitto tra aziende e sindacati, ma ne pagano il prezzo, subendo danni concreti: giornate e appuntamenti di lavoro che saltano; visite mediche cui si deve rinunciare o che si raggiungono prendendo taxi costosi; anziani che devono chiamare figli o nipoti per farsi accompagnare in macchina. A Roma, ha ricordato il garante per gli scioperi nei servizi pubblici, Roberto Alesse, quello di ieri è stato il sedicesimo sciopero del trasporto locale dall’inizio dell’anno: quasi due al mese. Su tutto il territorio nazionale, nello stesso settore, ne sono stati proclamati 255, di cui 193 effettuati. Alla base delle proteste il mancato rinnovo del contratto di lavoro, scaduto da ben otto anni. Nella capitale, con l’aggravante che a circa un migliaio di lavoratori di Roma Tpl, consorzio di aziende private che gestisce parte del trasporto, non veniva più pagato lo stipendio da luglio. Motivi seri, dunque. E responsabilità pesanti dei datori di lavoro e dell’amministrazione capitolina.

L’Italia, fin dal 1990, si è dotata di una legge, la 146 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, per molti versi avanzata e severa, se confrontata a livello internazionale. N el nostro Paese non sono possibili scioperi ad oltranza, improvvisi, totali. Serve un preavviso, devono essere garantiti dei servizi minimi, vanno rispettati intervalli di tempo tra un’astensione del lavoro e la successiva, non sono possibili sovrapposizioni che paralizzino funzioni fondamentali della vita collettiva (nei trasporti, per esempio, non possono scioperare insieme treni e aerei). La legge ha cioè cercato di «contemperare», come dissero allora gli autori della normativa tra i quali Gino Giugni, il diritto allo sciopero tutelato dalla Costituzione e i diritti dei cittadini e degli utenti di vedersi assicurati servizi fondamentali (dai trasporti alla salute all’istruzione) anch’essi tutelati dalla Carta fondamentale. Del resto, lo stesso articolo 40 della Costituzione dice che «Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano».

La 146, però, ha disciplinato le modalità di svolgimento dello sciopero, ma non quelle di proclamazione. Così, ancora oggi, nulla impedisce anche a un sindacato microscopico di indire un’astensione dal lavoro, alterando proprio quell’equilibrio tra interessi diversi che la legge del 1990 voleva tutelare. Succede così, come è accaduto di nuovo ieri, che un sindacato minoritario possa paralizzare un servizio pubblico essenziale, grazie al fatto che per bloccare la metro basta che incroci le braccia una piccola parte degli addetti. È evidente a tutti che in questo caso c’è una sproporzione tra chi innesca la protesta e le conseguenze della stessa, spesso poi amplificate dall’effetto annuncio.

Ecco perché, senza nulla togliere alle ragioni di chi ieri ha scioperato a Roma (ma anche a Firenze e in altre città), è necessario un nuovo intervento per ristabilire un equilibrio non solo nel modo in cui lo sciopero nei servizi pubblici essenziali può svolgersi, ma anche nel modo in cui esso si proclama. Nella commissione Lavoro del Senato sono da tempo in discussione varie proposte di legge. Due in particolare, quella dell’ex ministro Maurizio Sacconi (Area popolare) e quella del giuslavorista Pietro Ichino (Pd), affrontano il problema, prevedendo, limitatamente al settore dei trasporti pubblici, che lo sciopero possa essere proclamato da sindacati che rappresentino la maggioranza dei lavoratori (o comunque una soglia minima), altrimenti sarebbe necessario sottoporre la proposta al referendum tra tutti i lavoratori interessati; una regola presente, sottolinea lo stesso Ichino, in Germania, nel Regno Unito, in Spagna. Il 26 luglio scorso, sul Corriere della Sera, nell’intervista a Lorenzo Salvia, il ministro dei Trasporti Graziano Delrio ha promesso che il governo avrebbe sostenuto l’approvazione in Parlamento di queste proposte. Ora bisogna accelerare.

3 ottobre 2015 (modifica il 3 ottobre 2015 | 07:33)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_ottobre_03/proteste-legge-cambiare-032261b6-698b-11e5-b67f-8dc132718e33.shtml
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« Risposta #53 inserito:: Gennaio 20, 2016, 04:08:17 pm »

Allarme di Hollande: «La Francia è in emergenza economica».
Piano da 2 miliardi contro la disoccupazione

Con un articolo di Enrico Marro
18 gennaio 2016Commenti (14)

Una emergenza economica, con due priorità: la sicurezza e la disoccupazione. Il presidente della Francia, François Hollande, ha lanciato stamane l’allarme sulla situazione del Paese, che non riesce a risolvere i suoi problemi strutturali. Il capo dell’Eliseo ha presentato, a meno di 18 mesi dalle presidenziali, un piano d'emergenza sul lavoro. Sette misure chiave finanziate «con oltre 2 miliardi di euro di sforzi di bilancio». Hollande ha sottolineato che le misure saranno realizzate «senza prelievi supplementari di alcuna sorta», e che un miliardo di euro verrà impiegato per la formazione di 500mila disoccupati.

«Ritengo che di fronte al disordine mondiale, di fronte ad una congiuntura economica incerta e una disoccupazione persistente, vada anche proclamato uno stato d'emergenza economico e sociale», ha detto Hollande. Per i media francesi questa «è l'ultima chance» del presidente. «È la sua ultima battaglia - scrive Le Monde - sarà quella che segnerà il bilancio del suo quinquennato e che determinerà la sua capacità di correre per un secondo mandato nel 2017».

Attualmente il tasso di disoccupazione in Francia è del 10,4%, pari a 3,57 milioni di persone. Hollande ha vincolato la sua ricandidatura alle presidenziali del 2017 - ritenuta difficile visti i sondaggi che lo vedono arrancare in campo socialista dietro il primo ministro Manuel Valls - alla riduzione di questa percentuale assai elevata. Il piano contro la disoccupazione è costituito da 7 punti. Hollande si è impegnato a non ricandidarsi all'Eliseo nel 2017 se non riuscirà ad invertire la cosiddetta “curva della disoccupazione” .

Il piano di Hollande prevede il versamento di un premio di 2mila euro alle imprese con meno di 250 dipendenti per ogni assunzione con contratto indeterminato oppure con un contratto a tempo determinato di oltre sei mesi con un salario pari ad almeno 1,3 volte il salario minimo. Inoltre, grazie ad un sostegno finanziario dello Stato, si punta a far crescere i contratti di apprendistato dagli attuali 8mila fino a 50mila. Infine si pensa ad un tetto massimo per le indennità di licenziamento, mentre la futura riforma del codice del lavoro permetterà degli accordi in seno alle imprese che potranno derogare al contratto nazionale in tema di organizzazione del lavoro «nell'interesse dell'occupazione».

È stato anche stanziato un miliardo di euro per la formazione di 500mila disoccupati meno qualificati in settori come il digitale e l'ambiente. Esprimendosi davanti al consiglio economico e sociale, il presidente ha spiegato che per i francesi l'occupazione è «l'unica cosa che valga oltre alla sicurezza».

I due miliardi di euro, spiegano al ministero dell'economia, «verranno interamente finanziati» da risparmi e tagli alla spesa. Il credito d’imposta per le aziende che assumono (Cice) da temporaneo diventerà definitivo con un abbassamento strutturale dei contributi sociali a carico delle imprese.

L’economia francese fatica a uscire dalla crisi degli scorsi anni. Nel 2015 il Pil è aumentato dell’1,2% secondo le stime preliminari della Banca di Francia e quest’anno dovrebbe crescere dell’1,4 per cento.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-01-18/allarme-hollande-la-francia-e-emergenza-economica-piano-2-miliardi-contro-disoccupazione-132705.shtml?uuid=AC82VGCC
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« Risposta #54 inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:28:51 am »

Le nuove tutele per i lavoratori autonomi: dalla maternità ai compensi, ecco come si cambia
Il nuovo statuto dei lavori prevede la possibilità di continuare a lavorare per chi aspetta un bimbo.
Misure contro la povertà, la figura del tutor per ridurre il tasso di abbandono scolastico

Di Enrico Marro

Piano contro la povertà e Statuto dei lavoratori autonomi. A Palazzo Chigi si lavora per approvare giovedì in consiglio dei ministri due disegni di legge collegati alla legge di Stabilità, che quindi godranno di una corsia preferenziale in Parlamento. Il primo sarà un ddl delega al governo per potenziare e riordinare gli strumenti a sostegno dei più bisognosi: secondo l’Istat gli italiani in condizioni di «povertà assoluta», cioè non in grado di acquistare un paniere di beni e servizi essenziali, sono 4,1 milioni. A questo fine la legge di Stabilità ha stanziato 600 milioni per la messa a regime del Sia, il Sostegno per l’inclusione attiva, e 220 milioni per l’Asdi, l’assegno che scatta dopo la Naspi (Nuova indennità di disoccupazione) per le persone in condizioni di bisogno.

Il secondo disegno di legge introduce o rafforza una serie di tutele (maternità, malattia) e di sostegni per i lavoratori autonomi. Qui la manovra di bilancio prevede 10 milioni per il 2016 e 50 per il 2017 (bisogna considerare che quest’anno serve meno perché le misure entreranno in vigore solo dopo l’approvazione di Camera e Senato).

Intesa con le fondazioni
A completamento degli interventi sulla povertà, nelle prossime settimane, verrà firmato un protocollo d’intesa con le fondazioni bancarie e con il Terzo settore (non profit) per il finanziamento di progetti di contrasto dell’abbandono scolastico e di miglioramento della qualità dell’istruzione nelle situazioni più disagiate. Si va dall’erogazione di sostegni monetari alla messa a disposizione di tutor per gli studenti. Le fondazioni forniranno una dotazione di 150 milioni di euro in tre anni che verranno distribuiti sui progetti selezionati fra quelli presentati da istituzioni scolastiche e locali. Per incentivare il progetto il governo concede un credito d’imposta col quale le fondazioni recupereranno fino a 100 milioni di euro.

800 milioni per i poveri
Va subito detto che il pacchetto povertà rappresenta un primissimo passo, quasi un atto dovuto, visto che tutti gli organismi internazionali rimproverano all’Italia la mancanza di strumenti universali di intervento (su questo piano, in Europa, siamo in compagnia della Grecia). Le risorse stanziate sono chiaramente insufficienti. Basti pensare che gli 800 milioni previsti per quest’anno (che saliranno a un miliardo nel 2017) equivalgono ad appena 200 euro in media a testa per i 4 milioni di poveri assoluti. Per questo la delega assegnerà al governo anche il riordino dell’assistenza. Arriverà un stretta sui requisiti per determinate prestazioni. La delega resterà sul vago. Per non creare allarme, verrà precisato che la riforma interverrà sulle prestazioni future e non su quelle in essere e non colpirà i disabili. Nel mirino, in particolare, le integrazioni al minimo e le maggiorazioni sociali delle pensioni degli italiani residenti all’estero. «Paghiamo integrazioni e maggiorazioni a persone che vivono e pagano le tasse altrove, riducendo il costo dell’assistenza in questi Paesi», ha denunciato in Parlamento il presidente dell’Inps, Tito Boeri.
La delega sulla povertà prevede l’estensione a tutto il territorio nazionale del Sia (sostegno all’inclusione attiva), assegno introdotto in forma sperimentale nel 2014 in 12 cità con più di 250 mila abitanti e che può arrivare fino a 400 euro al mese, a integrazione del reddito delle famiglie con Isee inferiore a 3 mila euro. L’intervento privilegerà quelle con figli minori.

Tutele per le partite Iva
«Lo Statuto del lavoro autonomo e l’intervento sulla povertà — dice il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei — estendono tutele e diritti in un disegno di continuità con il Jobs act». Ma vediamo le principali novità previste dal collegato che riguarderà le partite Iva individuali e gli iscritti alla gestione separata dell’Inps (collaboratori). Questi lavoratori potranno dedurre tutte le spese di formazione dall’imponibile fino a 10 mila euro l’anno. Che scendono a 5 mila per le spese per certificazioni professionali.

L’assegno di maternità per 5 mesi non sarà più vincolato alla sospensione dell’attività lavorativa, ma verrà erogato anche se la lavoratrice autonoma, come spesso accade, deve continuare a far fronte agli impegni presi. Inoltre, in caso di malattia grave, comprese quelle oncologiche, si potrà sospendere il pagamento dei contributi sociali fino a un massimo di due anni (recuperando poi con pagamenti rateizzati). Infine, ci saranno norme di tutela contrattuale per impedire clausole vessatorie (per esempio, modifiche unilaterali di quanto pattuito) e ritardi nei pagamenti da parte dei committenti. Dovrebbe esserci anche un capitolo sullo smartworking, quello svolto senza postazione fissa. Il lavoratore dovrà ricevere un trattamento economico non inferiore a quello dei lavoratori dipendenti della stessa azienda, «a parità di mansioni svolte», e avrà diritto all’assicurazione sugli infortuni.

25 gennaio 2016 (modifica il 25 gennaio 2016 | 07:04)
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Da - http://www.corriere.it/economia/16_gennaio_25/nuove-tutele-lavoratori-autonomi-maternita-compensi-ecco-come-si-cambia-partite-iva-b715604a-c2ed-11e5-9b69-aff8e7a41687.shtml
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« Risposta #55 inserito:: Luglio 12, 2016, 11:34:02 am »

Banche, il piano del governo per garantire i risparmiatori
Decisivi gli «stress test»
Secondo il governo non c’è un caso banche italiane. Ma soluzioni riguardo al piano per gestire la crisi ancora non sono state raggiunte. A sentire le opposizioni sembra che la situazione stia per precipitare. Beppe Grillo scrive sul suo blog: «Se salta Mps, nuova crisi globale». Intanto, il 29 luglio si attende il risultato degli stress test su 53 istituti europei, cinque italiani

Di Enrico Marro

La situazione delle banche italiane, in particolare del Monte dei Paschi di Siena, è drammatica oppure no? A sentire il governo c’è “solo” un problema di «sofferenze», cioè di crediti inesigibili da smaltire, che può essere affrontato con «soluzioni di mercato» mentre per il resto non c’è un caso banche italiane perché, per esempio, la montagna di derivati in pancia agli istituti di credito tedeschi è un bubbone altrettanto preoccupante. A sentire le opposizioni sembra invece che la situazione stia per precipitare. Il leader del Movimento 5 stelle, Beppe Grillo, scrive sul suo blog che «Monte dei Paschi di Siena potrebbe scatenare una nuova crisi finanziaria globale trascinandosi dietro anche colossi esteri come Deutsche Bank». E Renato Brunetta di Forza Italia sfida il presidente del Consiglio, Matteo Renzi: «Venga in Parlamento a dire la verità».Di sicuro il governo, al di là delle dichiarazioni, è preoccupato. Anche perché sui due fronti del piano per gestire la crisi non si sono ancora raggiunte soluzioni. Non è stata infatti lanciata l’operazione di cartolarizzazione dei crediti deteriorati di Mps, che secondo la Banca centrale europea dovrebbero essere ceduti per almeno 10 miliardi (su un totale di 47 miliardi lordi) entro tre anni. Mancano purtroppo investitori privati (banche innanzitutto) disposti a mettere altri soldi nel fondo Atlante che dovrebbe occuparsi appunto di rilevare i crediti deteriorati. Sul secondo fronte del piano, quello della ricapitalizzazione del Monte, non c’è ancora l’accordo con l’Ue.

Appuntamento il 29 luglio
Oggi il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, volerà a Bruxelles per la riunione con i colleghi dell’Eurogruppo e domani dell’Ecofin. Sui tavoli e ancora di più nei corridoi si parlerà delle banche, anche se il tema non figura all’ordine del giorno. La trattativa con la Commissione europea è complicata. Oggetto del contendere sono le conseguenze a carico dei risparmiatori nel caso di intervento dello Stato nel capitale del Monte dei Paschi. Intervento per qualche miliardo (la misura dipende anche dal prezzo cui verranno ceduti i crediti deteriorati) che potrebbe rendersi necessario quando il 29 luglio l’Eba, autorità europea, renderà noti i risultati degli stress test su 53 banche europee, di cui 5 italiane (oltre a Mps, Unicredit, Intesa , Banco popolare e Ubi). Le nuove regole Ue prevedono che in caso di salvataggio pubblico di una banca vengano salvaguardati solo i depositi fino a 100 mila euro. Nessuna protezione invece per le quote eccedenti e per chi ha investito in titoli azionari e obbligazionari della banca. Questo perché si vuole che il prezzo del fallimento sia a carico di chi si è assunto il rischio dell’investimento e non dei contribuenti. Queste regole (bail in) possono però essere sospese e quindi la protezione accordata a tutti nel caso in cui sia a rischio la stabilità finanziaria, dicono le stesse regole Ue. Ci sono due fattori che potrebbero configurare questo rischio. 1) Mps è la terza banca italiana. 2) Obbligazioni subordinate per complessivi 5 miliardi sono in mano a 60 mila piccoli risparmiatori (2,1 miliardi rappresentati dal bond con taglio minimo da mille euro rifilato alla clientela per finanziare l’acquisto di Antonveneta) e a vari investitori istituzionali (circa 2 miliardi). Un mix che potrebbe scatenare il panico in caso di bail in. Ecco perché, dice il governo, andrebbe sospeso. Tanto più se gli stress test evidenzieranno che ci sono problemi anche per grandi banche straniere.

10 luglio 2016 (modifica il 11 luglio 2016 | 07:35)
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Da - http://www.corriere.it/economia/16_luglio_10/banche-piano-governoper-garantire-risparmiatoridecisivi-stress-test-5c1d7048-46cc-11e6-991c-561dff04b946.shtml
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« Risposta #56 inserito:: Agosto 13, 2016, 10:57:10 pm »

Sempre più i miliardari nel mondo (+6,4%). Sei cose da sapere su di loro
In Europa circa un terzo dei Paperoni mondiali, mentre il “gender gap” tra uomini e donne si allarga. Tutte le curiosità sui super-ricchi

   Di Enrico Marro 11 agosto 2016

1/6 Ci sono più miliardari in Europa che nel Nord America o in Asia

Nel 2015 il numero di miliardari mondiali (in dollari) è cresciuto del 6,4% a quota 2473, annuncia il rapporto annuale di Wealth-X. La prima sorpresa è che l'Europa ha più Paperoni dell'intero Nord America o dell'Asia: nel Vecchio Continente i miliardari sono 806, in aumento del 4% rispetto all'anno precedente, con una ricchezza complessiva di 2330 miliardi di dollari. Il Nord America ha meno miliardari (628, comunque in aumento del 3,1%) ma una maggior patrimonio complessivo (2561 miliardi). In grande spolvero sia il numero di Paperoni asiatici (645, +15,2%) che la loro ricchezza (1686 miliardi, +19,6%).

© Riproduzione riservata

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-08-10/ci-sono-piu-miliardari-europa-che-nord-america-o-asia-190213.shtml?uuid=ADdJyS4&nmll=2707
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« Risposta #57 inserito:: Agosto 13, 2016, 11:00:49 pm »

INTERVISTA
«Contratti, non mi accontento di un caffè.
Pensione anticipata? L’Ape è come fare un mutuo, sarà un flop»
Il segretario della Cgil, Susanna Camusso, boccia l’idea del prestito per lasciare il lavoro prima.
Chiede più risorse sulle pensioni basse e avverte: nessuno scambio tra un accordo sulla previdenza e un atteggiamento morbido sul referendum costituzionale

  Di Enrico Marro

Dopo l’incontro del luglio governo e sindacati sembravano ottimisti su un accordo su pensioni e mercato del lavoro. Ora ottimista è solo il governo mentre lei ha detto che «la vertenza continua». Che è successo?
«È successo — risponde Susanna Camusso, segretario generale della Cgil — che il governo ci ha detto che con la legge di Bilancio avrebbe messo a disposizione risorse “rilevanti”, ma le anticipazioni parlano di appena 1,5 miliardi di euro, una cifra chiaramente insufficiente. Inoltre, non va avanti l’ottava salvaguardia per gli esodati, non ci sono soluzioni per i lavori usuranti e per i precoci mentre l’unica cosa che sembra interessare al governo è l’Ape, questa specie di mutuo pensionistico sul quale abbiamo molte obiezioni».
Per la Cgil servono almeno 2,5 miliardi di euro, giusto?
«Su questa cifra si potrebbe cominciare a ragionare»
Ma col governo non si sta discutendo solo di Ape, ma anche di ricongiunzioni, usuranti, precoci, quattordicesima, no tax area. Certo, non si potrà fare tutto. Quali le priorità per la Cgil?
«È urgente aumentare la no tax area e allargare la platea dei beneficiari della quattordicesima. Bisogna inoltre intervenire a sostegno di coloro che svolgono lavori usuranti o hanno cominciato da ragazzi. Infine, vanno corrette le leggi sbagliate che impediscono le ricongiunzioni gratuite».
Non ha citato l’Ape.
«L’Ape è nei fatti un prestito, un marchingegno che non può funzionare come soluzione generale al tema della flessibilità in uscita».
Continua a pensare che l’Ape sia “un regalo a banche e assicurazioni”?
«Rischia di esserlo. E di alimentare grandi aspettative in queste istituzioni ma non nei lavoratori che vedono questa come una cosa profondamente ingiusta. Del resto è facile capire che l’idea che ci si debba indebitare alla fine dell’età lavorativa, con un prestito da restituire in 20 anni sulla stessa pensione, è un’idea contraria alla naturale propensione delle persone».
Pensa che sarà un flop, come il Tfr in busta paga?
«Con queste caratteristiche non c’è dubbio. Non solo. C’è anche il rischio di dare alle aziende uno strumento che può rivelarsi un capestro per i lavoratori nei processi di ristrutturazione. Lavoratori ai quali verrebbe imposta l’Ape».
C’è nel governo l’idea di coinvolgere Confindustria: visto che dal 2017 le aziende non verseranno più lo 0,3% per l’indennità di mobilità, potrebbero dirottare 600 milioni a sostegno dell’Ape.
«Un’idea due volte sbagliata. Primo, è sbagliato che non ci sia più la mobilità mentre siamo ancora in crisi. Secondo, considerando anche le indennità di mobilità corrisposte ai lavoratori, parliamo di 3-4 miliardi di euro l’anno. In mancanza, come governeremo le ristrutturazioni?».
L’Ape non può servire?
«No, perché non tutti i lavoratori coinvolti nelle ristrutturazione sono a ridosso della pensione. E poi, si pensa di rilanciare la crescita obbligando un po’ di gente ad andare in pensione indebitandosi?»
Qual è la flessibilità che proponete voi?
«Partiamo dal fatto che non tutti i lavori sono uguali. Bisogna ragionare sulle diseguaglianze nelle aspettative di vita e arrivare a età di pensionamento differenziate in base al lavoro svolto. Questo nella fase di transizione. Per i giovani che hanno il contributivo puro, invece, ci deve essere libertà di scelta su quando andare in pensione senza gli aumenti dell’aspettativa di vita. Per i precoci devono bastare 41 anni di contributi e va costruita una solidarietà interna al sistema per i lavoratori discontinui».
Proposte con costi spropositati, secondo il governo. Come le finanziereste?
«Contestiamo il modo in cui il governo calcolano i costi, perché considera che una misura venga utilizzata da tutti i potenziali aventi diritto, mentre non è così. Trovare i finanziamenti è un problema di scelte politiche. Mi limito a suggerire una progressività fiscale migliore e la patrimoniale sulle grandi ricchezze».
Il premier Matteo Renzi dice che bisogna trovare i soldi per aumentare le pensioni minime.
«Mi pare un segnale positivo, ma ci sono delle cose che non tornano. Non torna questo stop and go sulle risorse. E non torna che ad ora, nonostante numerosi incontri col governo, non ci sia nulla di scritto. Vorremmo meno annunci e più concretezza».
Sempre Renzi dice che se vince il referendum costituzionale destinerà i 500 milioni di risparmi sui costi della politica ai poveri. Che dice?
«Sembra un modo per condizionare il voto. Se vuole tagliare i costi della politica può farlo senza far dipendere la lotta alla povertà dal referendum».
Con la legge di Bilancio bisognerà finanziare anche il rinnovo dei contratti pubblici. Quanto serve?
«Con i 300 milioni stanziati non si comincia neanche. Ci vorranno alcuni miliardi, che non graveranno tutti sul primo anno. Noi puntiamo a un rinnovo dei contratti che assicuri risorse al livello nazionale e a quello decentrato ma anche a un modello innovativo e premiale. Non ci accontenteremo però di un caffè».
Se si arriverà a un accordo sulle pensioni e sui contratti pubblici, la Cgil ammorbidirà la sua posizione sul referendum costituzionale che oggi vi vede orientati sul no?
«Non c’è alcuno scambio. Sul referendum le valutazioni riguardano solo la riforma costituzionale. Il direttivo Cgil ha approvato un documento molto critico nel merito ma, anche se molti di noi voteranno no, ha deciso di non impegnare l’organizzazione nei comitati perché pensiamo che su un questo tema è bene che ogni iscritto decida in libertà dopo essersi informato».
Per questo non avete aiutato i comitati per il no a raccogliere le firme?
«La Cgil non era impegnata come organizzazione. Quando lo facciamo, lo facciamo su temi sindacali, come sul Jobs act, e non abbiamo avuto difficoltà a raccogliere le firme».

10 agosto 2016 (modifica il 11 agosto 2016 | 07:19)
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Da - http://www.corriere.it/economia/16_agosto_10/contratti-non-mi-accontento-un-caffepensione-anticipata-prestito-sbagliato-5b7d3572-5f2e-11e6-bfed-33aa6b5e1635.shtml
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« Risposta #58 inserito:: Ottobre 10, 2016, 10:53:30 pm »

Guadagnare con i dividendi: come individuare le cedole «sane»

    –di Enrico Marro 10 ottobre 2016

Guadagnare da autentici “cassettisti”, piazzando in una parte del proprio portafoglio azioni dai ricchi dividendi e incassando le cedole, senza preoccuparsi troppo dell’andamento dei mercati. E' una strategia da non disprezzare, specialmente nell’epoca dei tassi a zero. Anche perché il “dividend yield” degli indici azionari resta sostenuto: il paniere Msci World Index per esempio offre un 2,61%, che sale al 3,67% se consideriamo il Msci Europe, al 4,05% per il Msci Uk Index e addirittura al 4,54% per il Msci Italy Index o il Msci Australia Index.

Ma quali sono i parametri da guardare per capire se i dividendi di queste aziende sono sostenibili nel tempo o verranno presto cancellati dai rispettivi board? Nick Clay, portfolio manager della Global Income Strategy a Newton, società del gruppo Bank of New York-Mellon, ha un suo metodo personale.

In primo luogo, bisogna individuare il “dividend payout ratio” della società. Si calcola in modo semplicissimo: basta dividere i dividendi distribuiti per gli utili netti, prendendo in considerazione la singola azione. Il dividend payout ratio è quindi un indicatore di quanti soldi l’azienda gira agli azionisti, in rapporto a quanti vengono tenuti in cassa per essere reinvestiti, per pagare debiti o per aggiungere liquidità.

Qual è la nazione più interessante il termini di crescita del dividend payout ratio? E' l’Australia, seguita a distanza dal terzetto costituito da Gran Bretagna, Francia e Canada. Poi ci sono Stati Uniti e Germania e infine, fanalino di coda, il Giappone.

Questo però non vuol dire che dobbiamo correre a investire in azioni australiane. Anzi. Come spiega Clay, «un payout ratio crescente è positivo solo se l’azienda sta pagando dividendi legati a utili robusti, senza “cannibalizzarsi” finanziando le cedole attraverso il debito».

Bisogna in altre parole capire se “payout ratio” crescenti non si traducano in utili calanti. Se un’azienda mantiene le cedole stabili nonostante un calo dei profitti, infatti, il suo payout ratio sale automaticamente, ma questo non indica che è sana. E' quello che è accaduto a molte imprese energetiche: dividendi stabili ma profitti in calo, quindi un payout ratio in crescita. Non certo un buon investimento. Anzi.

Un buon metodo per capire se un'azienda è sana, e sarà in grado di mantenere il livello della sua cedola senza brutte sorprese, è l’analisi del flusso di cassa. Bisogna focalizzarsi sulle aziende che da una parte generano un robusto flusso di cassa, ma dall’altra non hanno bisogno di investimenti “capital-intensive” e quindi non hanno ragione di tenersi tutti gli utili senza distribuirli. Questi, secondo Clay, sono i titoli da acquistare, perché anche se presentano un elevato payout ratio, sono in grado di mantenerlo nel tempo. Magari aumentando anche gli utili.

Vanno invece evitati i titoli di chi si indebita per distribuire dividendi allo scopo di rendere l’azienda appetibile: questo tipo di politica porta prima o poi a un collasso degli utili, spiega ancora Clay, che ha ovviamente pesanti ripercussioni anche sulle cedole. Attenzione quindi a chi presenta un payout ratio del 100% o superiore. «Significa che l’intera massa dei profitti, o anche una somma superiore, viene usata per remunerare gli azionisti: può essere piacevole nel breve termine - conclude Clay - ma a lungo andare diventa insostenibile».

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2016-10-09/guadagnare-i-dividendi-come-individuare-cedole-sane--150154.shtml?uuid=ADZaG5YB
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« Risposta #59 inserito:: Novembre 08, 2016, 11:20:28 pm »

Cartelle Equitalia, le regole per rottamarle e non pagare gli interessi
Disponibile on line sul sito di Equitalia il modulo per aderire alla procedura agevolata.
C'è tempo fino al 23 gennaio 2017

Di Enrico Marro

Al via la rottamazione delle cartelle esattoriali. Equitalia ha rilasciato il modulo col quale i contribuenti potranno aderire alla procedura di «definizione agevolata» delle cartelle prevista dal decreto legge che accompagna la manovra. Procedura che consentirà di non pagare più le sanzioni e gli interessi, con un risparmio che può arrivare fino al 50% del dovuto. Il modulo (4 cartelle di cui vanno riempite solo le prime due e mezzo) è scaricabile dal oggi sul portale www.gruppoequitalia.it. Il modulo (la cui sigla è DA1) sarà, da lunedì, disponibile anche presso tutti gli sportelli del gruppo Equitalia e i contribuenti avranno tempo fino al 23 gennaio 2017 per aderire alla rottamazione. Il documento dovrà essere consegnato presso gli sportelli Equitalia oppure inviato, insieme alla copia di un documento di identità, all’indirizzo di posta elettronica (email o pec) riportato sul modulo (ce n’è uno per ogni Regione). Come prevede il decreto legge 193/2016, con la definizione agevolata, si può scegliere di pagare in un’unica soluzione o a rate (fino a un massimo di quattro), l’ultima delle quali dovrà essere saldata entro il 15 marzo 2018. Equitalia invierà, come previsto dallo stesso decreto, entro il 24 aprile del 2017, una comunicazione ai contribuenti che hanno aderito alla definizione agevolata in cui sarà indicata la somma dovuta insieme ai relativi bollettini con le date di scadenza dei pagamenti. Nel modulo il contribuente può scegliere di pagare tramite domiciliazione bancaria. Anche chi ha un piano di rateizzazione già in corso può aderire, ma deve pagare integralmente le rate in scadenza fino al 31 dicembre 2016.

Equitalia, 100 miliardi di cartelle rottamabili Ecco chi potrà pagare le tasse senza interessi

La mappa delle cartelle «rottamabili»
Rinunciare al contenzioso
Gli interessati alla rottamazione dovranno compilare le caselle con le proprie generalità, il codice fiscale e l’elenco dei carichi pendenti di cui chiede la rottamazione. Possono rientrare nella «definizione agevolata» le cartelle, gli avvisi di accertamento esecutivo dell’Agenzia delle Entrate, delle Dogane e dei Monopoli e gli avvisi di addebito dell’Inps affidati al gruppo Equitalia dal primo gennaio 2000 al 31 dicembre 2015. Nello stesso modulo il contribuente indicherà se intende pagare in un’unica soluzione oppure in due, tre o quattro rate. In caso di pagamento rateizzato sono dovuti gli interessi di legge, pari al 4,5% annuo. Se anche una sola delle rate non verrà pagata o sarà pagata in ritardo, si decadrà dalla procedura agevolata. La rottamazione, infine, sarà possibile solo se le cartelle non sono oggetto di giudizi pendenti o, in caso contrario, se si rinuncia al contenzioso. Nonostante il modulo sia disponibile, visto che c’è tempo fino al 23 gennaio per aderire, forse conviene aspettare, perché nel corso dell’esame parlamentare del provvedimento potrebbero esserci importanti modifiche. In commissione, alla Camera, sono stati infatti presentati ben 1.043 emendamenti da parte di tutti i gruppi. Le richieste più frequenti riguardano l’ampliamento della possibilità di rateizzare il pagamento, la cancellazione dell’aggio dovuto a Equitalia, l’estensione della rottamazione anche alle cartelle del 2016 e ai 2.500 comuni che si avvalgono di società diverse da Equitalia per la riscossione. Il governo è disponibile a valutare correzioni, purché non pregiudichino il gettito previsto (2 miliardi nel 2017).

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4 novembre 2016 (modifica il 5 novembre 2016 | 08:47)

Da - http://www.corriere.it/economia/16_novembre_04/cartelle-regole-rottamarle-53f556d8-a2c0-11e6-9bbc-76e0a0d7325e.shtml
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