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Autore Discussione: Enrico MARRO -  (Letto 37015 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Ottobre 16, 2013, 05:04:32 pm »

L’EDITORIALE
Legge di Stabilità, cifre sull’acqua

Speravamo in una legge di Stabilità di svolta, ma non lo è. Il presidente del Consiglio, Enrico Letta, aveva alimentato grandi aspettative. La manovra, disse in tv a Porta a Porta , «avrà come cuore l’intervento per ridurre le tasse sul lavoro e aumentare i soldi in busta paga dei lavoratori». Ma a conti fatti, con un misero miliardo e mezzo nel 2014, le retribuzioni nette aumenteranno, se va bene, in media di 10-15 euro al mese.
Come nel 2007, non se ne accorgerà nessuno. Non passa di qui il rilancio dei consumi. E, se non riparte la domanda, non saranno tardivi sgravi sull’Irap a rendere le imprese più competitive né alcuni incentivi a convincerle ad assumere. Lavoratori e pensionati si accorgeranno invece subito dei tagli e dovranno fare i conti con nuove tasse come la Tresi per capire se rispetto a prima ci guadagnano (forse, se hanno solo la casa d’abitazione) o ci rimettono (probabilmente, se hanno più abitazioni o se inquilini). Saranno in balia delle decisioni dei Comuni sulla stessa Tresi e delle Regioni, che si rifaranno sui cittadini per il miliardo di tagli subiti.
La manovra varata ieri dal Consiglio dei ministri è insufficiente a rilanciare lo sviluppo. Rischia invece di replicare un brutto film già visto. Appena un anno fa. La seconda manovra del governo Monti puntava anch’essa sulla riduzione dell’Irpef, in maniera diretta, anziché attraverso le detrazioni. Tagliava infatti di un punto le due aliquote più basse. Su questo si impegnavano ben 4,2 miliardi nel 2013. In Parlamento la manovra fu «riscritta» dai capigruppo della maggioranza Brunetta e Baretta. Le aliquote Irpef rimasero immutate e in compenso aumentarono le detrazioni sui carichi familiari e si stabilì che non sarebbe scattato l’aumento dell’Iva a luglio.
Quella legge di Stabilità non ha rilanciato la crescita, anzi la recessione è stata maggiore del previsto. Anche questa volta il Parlamento cambierà la manovra. Speriamo senza assalti alla diligenza. Ma la sostanza, temiamo, resterà la stessa: tanti interventi, magari singolarmente utili, sempre piccoli, talvolta che si annullano tra loro. Una legge di Stabilità all’insegna del «vorrei ma non posso». Perché le intenzioni possono essere le migliori, e quelle di Enrico Letta sicuramente lo sono, ma non si può realizzare una svolta se il governo di larghe intese, anziché realizzare poche grandi riforme che nessun altro esecutivo potrebbe fare, percorre la strada ovvia del compromesso. Non c’è un cambio di passo: né sulle tasse (la pressione fiscale scenderebbe in misura infinitesimale) né sull’evasione fiscale; né sulla spesa né sul debito pubblico.
Si parte con un testo di una novantina di pagine, una trentina di articoli e centinaia di commi, che si moltiplicheranno strada facendo. Si concluderà come al solito all’ultimo minuto a dicembre, su un maxiemendamento che cambierà tutto per non cambiare nulla. E tra un anno scopriremo che mezza manovra sarà rimasta sulla carta perché ancora non saranno stati varati i decreti attuativi, come ha rivelato Il Sole 24Ore due giorni fa, spiegando che tutte le leggi varate dal governo Monti e da quello attuale richiedono 725 provvedimenti applicativi, 469 dei quali ancora da adottare.

16 ottobre 2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA
ENRICO MARRO

http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_16/legge-stabilita-cifre-sull-acqua-59786afe-3622-11e3-b4e4-e4dfbe302858.shtmlhttp://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_16/legge-stabilita-cifre-sull-acqua-59786afe-3622-11e3-b4e4-e4dfbe302858.shtml
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« Risposta #16 inserito:: Novembre 03, 2013, 07:24:16 pm »

Sulla casa, per favore, più serietà

La patrimoniale dell’incertezza

Il governo non dovrebbe disorientare i cittadini, almeno sulle cose importanti. La casa è una di queste. Purtroppo il disegno di legge di Stabilità complica una situazione già complicata. Ormai, siamo davanti a un rompicapo: dopo l’Imu sugli immobili, la Tarsu sui rifiuti, la cedolare secca sugli affitti, sono in arrivo la Tasi sui servizi indivisibili (polizia locale, illuminazione pubblica e altro), la Tari che assorbirà la Tarsu, e la Trise, il nuovo tributo comunale composto dalle stesse Tasi e Tari.

Non è uno scherzo, ma ciò che hanno partorito in materia gli ultimi governi. Vittime i cittadini: proprietari e inquilini. Nessuno è in grado di districarsi da solo in questo groviglio di norme, aliquote e addizionali. Tutti hanno bisogno di uno specialista. Anche il pensionato, che non ha altro che la casa d’abitazione e magari quella al paese d’origine, deve ricorrere ai patronati o a professionisti. E stiamo solo parlando delle procedure. Se poi qualcuno volesse anche capire se e quanto pagherà, dovrebbe consultare l’indovino.

Prendiamo la seconda rata Imu sulla casa d’abitazione. Il governo, quando a maggio abolì la prima rata, promise che avrebbe cancellato anche la seconda. Solo che a poco più di un mese dal 16 dicembre, giorno ultimo per pagare, l’esecutivo non ha ancora né varato il decreto legge necessario, né indicato come farà a trovare i 2,4 miliardi di entrate alternative. Tanto che ogni giorno fioriscono nuove ipotesi, dall’aumento delle accise (sigarette, alcol e benzina) a un contributo straordinario sul settore bancario. E comunque non ha ancora chiarito se la cancellazione della seconda rata sarà totale o parziale.
I Comuni poi hanno tempo fino al 9 dicembre per deliberare sulle aliquote e, sempre a dicembre, scatterà l’aumento della tassa sui rifiuti, 30 centesimi in più a metro quadro. Poi qualcuno può meravigliarsi se non ripartono i consumi? Ci dicano che cosa dobbiamo fare: possiamo andare al ristorante con la famiglia o è meglio che i soldi li teniamo da parte per la seconda rata dell’Imu? Quando ce lo farà sapere il governo, il 15 dicembre?

Purtroppo questa confusione è drammaticamente comprensibile, anche se non giustificabile. Comprensibile perché, in verità, l’esecutivo Letta idee chiare sulla casa non le ha mai avute, per il semplice fatto che nella maggioranza e nella squadra di ministri convivono posizioni opposte. C’è chi l’Imu non l’avrebbe toccata per nulla e chi invece vuole cancellarla per sempre dal vocabolario.

L’idea della Service tax è nata così, per consentire ai primi di dire che attraverso Tasi e Tari un prelievo sulla prima casa sarebbe comunque rimasto, come avviene negli altri Paesi, e ai secondi di cantare vittoria sull’abolizione dell’Imu, salvo poi scoprire che dalla combinazione delle componenti del nuovo tributo potrebbe derivare un prelievo addirittura maggiore, anche sulle prime case.

Il governo smentisce che si pagherà di più e passa la palla ai Comuni: saranno loro a decidere, in omaggio al federalismo. Ma il federalismo come alibi non è quello che serve. Vorremmo invece che il governo facesse chiarezza e partorisse un sistema semplice. È troppo?

02 novembre 2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA
ENRICO MARRO

Da - http://www.corriere.it/economia/13_novembre_02/patrimoniale-dell-incertezza-d965a87e-4385-11e3-830a-3ecafc65029e.shtml
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« Risposta #17 inserito:: Novembre 19, 2013, 05:40:04 pm »

Proposte confuse e contraddittorie

L’instabilità di una legge

Questa legge di Stabilità è nata male e rischia di finire peggio. La manovra di finanza pubblica per il 2014 è stata scritta in fretta e furia all’ultimo momento per rispettare la scadenza del 15 ottobre. Le settimane precedenti erano state infatti assorbite da una battaglia politica dove solo in extremis , quando Silvio Berlusconi in Senato ha annunciato a sorpresa il voto di fiducia, si è capito che non ci sarebbe stata la crisi di governo.

L’esecutivo Letta-Alfano ne è uscito rafforzato, si disse. Ma del tempo prezioso si era perso. E ci siamo trovati così un disegno di legge che assomiglia alle vecchie Finanziarie, un testo «aperto al confronto parlamentare», come ha spiegato lo stesso presidente del Consiglio. Con l’aggravante che, questa volta, titolati ad assaltare la diligenza con un’alluvione di proposte di modifica sono due partiti, Pd e Pdl, che non vanno d’accordo su nulla e già pensano alla prossima campagna elettorale.

Assistiamo così da settimane a cose incredibili. Per esempio: Renato Brunetta, il capogruppo del Pdl alla Camera, non un deputato qualsiasi, che tutti i giorni attacca il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, ora perché «fa tenerezza», ora perché «non rispetta i patti», ora perché «fa male a se stesso e al Paese». È un suo diritto, per carità, ma stupisce che Saccomanni e lo stesso Letta subiscano questo logoramento. Il tutto accompagnato dagli oltre 3 mila emendamenti per cambiare la legge di Stabilità presentati da tutti i gruppi politici; dal relatore di maggioranza per il Pdl, Luigi D’Alì, che ha già proposto una sua riscrittura della Trise, la nuova tassa sugli immobili, sostituendola con la Tuc; e dalle contraddizioni del Pd. Con il relatore democratico Giorgio Santini che lavora per concentrare le detrazioni in busta paga sui redditi bassi mentre altri senatori dello stesso partito si accordano con colleghi del Pdl per seguire un’altra strada, l’aumento della no tax area. E con il viceministro dell’Economia, Stefano Fassina, anche lui del Pd, che prima dice «costerebbe troppo» e il giorno dopo «valuteremo».

Fermiamoci qui. La confusione è oltre il livello di guardia, i cittadini sono disorientati e le imprese bloccate dall’incertezza. Una manovra senz’anima e senza ambizione rischia di finire preda dei mille appetiti parlamentari e ostaggio di una battaglia dove gli interessi del Paese restano in secondo piano. Ci vorrebbe un sussulto di responsabilità. La legge di Stabilità è il provvedimento più importante per il Bilancio pubblico, il biglietto da visita con il quale ci presentiamo a Bruxelles che quest’anno svolgerà un esame rafforzato sulle manovre degli Stati membri. Fino al 31 dicembre, termine per l’approvazione della legge, si può rimediare. Sappiamo che i 3.093 emendamenti decadranno e che le sole modifiche che passeranno, magari con la fiducia, saranno quelle dei relatori in accordo con il governo.

Né il Pdl né il Pd possono illudersi di vincere: l’unico finale di partita sulla legge di Stabilità è il pareggio. Ne prendano atto subito, concordino le poche cose che tutti invocano, cioè un forte taglio delle tasse sul lavoro e una riforma dell’Imu semplice e trasparente, e chiudano il match. Evitando scenari che il Paese non merita.

13 novembre 2013
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Enrico Marro

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_13/instabilita-una-legge-46ce8598-4c28-11e3-b498-cf01e116218a.shtml
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« Risposta #18 inserito:: Febbraio 15, 2014, 10:42:00 am »

Il piano - Le proposte dovranno essere confrontate con il partito di Alfano e i centristi
Nel programma meno Irap e Irpef
Cabina di regia contro la burocrazia
Incentivi per le assunzioni, assegno ai disoccupati e rendite tassate



ROMA - Si partirà con una scossa all’economia, tagliando le tasse, per creare lavoro e rilanciare i consumi. Lo staff di Matteo Renzi sta compulsando schede e documenti che dovrebbero costituire la base del programma del prossimo governo. Per ora si tratta proposte non ancora condivise col Nuovo centrodestra e con i centristi, ma c’è da scommettere che il segretario del Pd non accetterà modifiche sostanziali. Se il governo Renzi otterrà la fiducia, i primi provvedimenti saranno dedicati all’abbassamento del costo del lavoro per creare nuova occupazione. Come prevede il progetto di Jobs Act, annunciato l’8 gennaio, l’Irap dovrebbe scendere del 10%, con un risparmio d’imposta per le imprese di quasi 2 miliardi e mezzo. Accanto a questo taglio generalizzato scatterebbero incentivi per l’assunzione di giovani con meno di 30 anni: le aziende, in questo caso, pagherebbero solo i contributi previdenziali ma non le imposte. Per le assunzioni di giovani in attività innovative e di ricerca ci sarebbe anche un credito d’imposta. In tutto, questi incentivi costerebbero un paio di miliardi.

Sempre il Jobs Act prevede l’introduzione del contratto d’inserimento a tutele progressive, che rende più facili i licenziamenti. E quindi sarà necessario un assegno universale di tutela del reddito per chi perde il lavoro. Che, nelle intenzioni di Renzi, dovrebbe sostenere in particolare chi viene licenziato e non è più ricollocabile e anche i giovani che non trovano lavoro, a patto però che seguano un corso di formazione. La misura (importo, durata) di questo intervento non è ancora definita perché bisognerà fare i conti con le risorse disponibili. Il taglio delle tasse nei piani di Renzi prevede infatti anche una riduzione dell’Irpef sui redditi più bassi: diminuire di un punto le prime due aliquote (23% fino a 15 mila euro, 27% tra 15 mila e 28 mila euro) costerebbe circa 5 miliardi di minor gettito. Fin qui il taglio del cuneo fiscale sul lavoro e la spinta ai consumi. Azione alla quale si affiancherà il capitolo scuola, che contiene un piano di manutenzione straordinaria degli edifici e per la realizzazione di campus universitari, per una spesa prevista di 5 miliardi, e lo sblocco della retribuzione accessoria degli insegnanti per premiare i più meritevoli.

Ma dove si troveranno le risorse per finanziare questo programma economico così dispendioso? Dal taglio della spesa pubblica (spending review), dalla riduzione degli interessi sul debito e dal rientro dei capitali dall’estero, come già prevedeva il governo Letta, ma anche da un aumento della tassazione delle rendite, come dice ancora il Jobs Act. Anche qui la manovra è da mettere a punto. Si tratta, come quello dell’assegno universale, di un capitolo molto delicato, dove le distanze con il centrodestra sono notevoli. L’inasprimento del prelievo dovrebbe risparmiare i titoli di stato (ma i falchi dello staff renziano vorrebbero includerli per lo meno oltre certe soglie di patrimonio) e riguardare in particolare le grandi ricchezze finanziarie, quei 3.800 miliardi di euro complessivamente detenuti dalle famiglie, secondo Banca d’Italia, ma fortemente concentrati sulle fasce più ricche. Quanto alla spending review il programma impostato dal governo Letta, con l’obiettivo di tagliare 32 miliardi di spesa pubblica a regime (dal 2016 in poi), andrà avanti, ma con un’accelerazione, per ottenere risparmi significativi già quest’anno. Ulteriori risorse dovrebbero arrivare anche da un piano di incentivi per l’emersione dal nero.

Se l’azione di governo e la ripresa internazionale produrranno un aumento del Prodotto interno, magari superiore all’1% previsto da Letta per il 2014 (impresa difficilissima, visti i dati di ieri sul mini rimbalzo del Pil dello 0,1% nell’ultimo trimestre del 2013), il compito di Renzi sul fronte dei saldi di finanza pubblica sarà agevolato. In ogni caso, l’aspirante premier punta a ottenere da Bruxelles, in cambio delle riforme, lo scomputo degli investimenti per la crescita dal deficit. Per rassicurare mercati e commissione Ue verrà confermato anche il programma di privatizzazioni e dismissioni, a patto che non si traduca in svendite di imprese pubbliche. Piuttosto si allargherà l’azione alle migliaia di aziende partecipate da Regioni ed enti locali, con l’obiettivo di restituire al mercato tutte le attività che è più logico siano gestite dal privato, comprese le farmacie comunali e le centrali del latte.

Infine, forse la cosa più importante per dare efficacia all’azione di governo: una cabina di regia a Palazzo Chigi che dovrà lavorare a ritmi forsennati per smaltire il prima possibile l’arretrato di circa 850 decreti attuativi che si trascina dal governo Monti, altrimenti tante riforme resteranno sulla carta. E per evitare il ripetersi di questo ingorgo e togliere il potere di interdizione dalle mani dei vertici delle burocrazie ministeriali, Renzi vorrebbe che i provvedimenti del suo governo fossero immediatamente precettivi. Anche questa un’impresa ardua. Ma i suoi ci credono. «Vedrete, sarà una svolta - assicurano -. Anche sul piano comunicativo. I provvedimenti non si prenderanno per rispettare i saldi finanziari, ma avranno la persona al centro: sia esso lavoratore o imprenditore, studente o giovane disoccupato».

15 febbraio 2014
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Enrico Marro

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_15/nel-programma-meno-irap-irpef-cabina-regia-contro-burocrazia-fae8a90a-960b-11e3-9817-5b9e59440d59.shtml
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« Risposta #19 inserito:: Febbraio 19, 2014, 11:51:44 am »

Le riforme

Lavoro, fisco, burocrazia: ecco l’agenda Renzi
Pronto il programma del premier. Spending review, verso la conferma del commissario Cottarelli


Programma in quattro tappe per il governo Renzi, secondo quanto ha annunciato ieri lo stesso presidente del consiglio incaricato, dopo l’investitura ricevuta dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Prima di tutto, entro febbraio, la legge elettorale e le riforme istituzionali, ma già a marzo, la seconda tappa, con i provvedimenti per incentivare l’occupazione, compresa l’abolizione dell’articolo 18 per i primi tre anni per i nuovi assunti. Lo scossone al mercato del lavoro dovrebbe essere accompagnato dalla detassazione delle assunzioni dei giovani fino a 30 anni, in particolare nei settori dell’innovazione e ricerca, e dalla creazione di un’Agenzia federale per l’occupazione che riporterebbe al centro il coordinamento delle politiche di collocamento e formazione, oggi svolte in autonomia dalle Regioni. Poi ad aprile la terza tappa, la grande riforma della pubblica amministrazione per sburocratizzare il sistema, allineando le regole per i dipendenti pubblici a quelle dei lavoratori privati, così da permettere l’utilizzo degli ammortizzatori sociali per ridurre le eccedenze di personale, togliendo di mezzo anche i Tar nelle cause di lavoro e riconducendole ai giudici ordinari, come nel settore privato. Una rivoluzione che toccherebbe anche l’inamovibilità dei dirigenti pubblici, che diverrebbero licenziabili come i manager privati. E comunque tutti gli incarichi per gli alti burocrati dovrebbero durare al massimo 6 anni.

Rilanciato il lavoro, riformata la macchina statale, a maggio il percorso iniziale del governo Renzi dovrebbe concludersi con la riforma del fisco. Meno Irap per le aziende; meno Irpef per i lavoratori dipendenti, con una manovra sulle detrazioni che dovrebbe alleggerire le tasse fino a un massimo di circa 450 euro l’anno sui redditi inferiori a 15 mila euro. In compenso aumenterà il prelievo sulle rendite finanziarie (non è ancora chiaro se e in che misura verranno coinvolti i titoli di Stato; sul programma inoltre non c’è stato ancora un confronto con il centrodestra). Le risorse per coprire la manovra verranno comunque in gran parte dal taglio della spesa pubblica: 3-4 miliardi già nel 2014. Gli uomini di Renzi sono molto soddisfatti del lavoro fatto dal commissario Carlo Cottarelli, che quindi dovrebbe essere confermato.


L’occupazione
Addio articolo 18 per i nuovi assunti Incentivi sui posti ad alta innovazione
Subito dopo la riforma della legge elettorale, i primi provvedimenti economici del governo Renzi, se il premier incaricato riceverà la fiducia, riguarderanno il lavoro. Entro marzo saranno varate le misure per rilanciare l’occupazione e riformare gli ammortizzatori sociali. Qualcuno, tra i collaboratori di Matteo Renzi, sogna il milione di posti di lavoro in più. Ma non rifacendosi alla fallimentare promessa di Silvio Berlusconi del ‘94 (l’occupazione non aumentò per nulla fino al 1998) bensì alle politiche del presidente americano Obama che incentivano i settori della ricerca e innovazione (nell’ultimo anno gli occupati negli Stati Uniti sono complessivamente aumentati da 143 a 145 milioni). Barack Obama che del resto si è ispirato anche alle ricerche di un giovane economista italiano, Enrico Moretti, che insegna negli Stati Uniti e che nei suoi studi spiega come ogni posto di lavoro creato nella ricerca e innovazione ne produca a cascata cinque nei servizi. Insomma, riuscire ad avere 200 mila occupati in più nei settori di punta dell’economia porterebbe appunto a un altro milione di posti di lavoro in più. Un obiettivo al quale Renzi ha sempre creduto. Ecco perché del piano per il lavoro faranno parte gli incentivi alle assunzioni dei giovani under 30, ma solo se aggiuntive (non verrebbero cioè dati alle aziende che prima licenziano). Queste assunzioni dovrebbero essere defiscalizzate (l’impresa paga solo i contributi previdenziali) e ulteriormente agevolate nel caso di lavoratori impiegati nei settori dell’innovazione e della ricerca. Il tutto sulla scia di provvedimenti già presi dal governo Letta. Ma il vero scossone al mercato del lavoro dovrebbe essere dato dall’introduzione del contratto di inserimento a tutele progressive, che per tutte le nuove assunzioni consentirebbe all’impresa di licenziare entro i primi tre anni in cambio di un indennizzo crescente in funzione dell’anzianità di servizio. Infine, a sostenere le assunzioni interverrebbe il taglio dell’Irap del 10%, che farebbe risparmiare alle aziende circa 2 miliardi e mezzo all’anno, e la costituzione di una Agenzia federale per l’occupazione che riporterebbe al centro le politiche per l’impiego e la formazione oggi di competenza delle Regioni (ma sarà necessaria anche una modifica del titolo V della Costituzione). L’abolizione dell’articolo 18 sulle nuove assunzioni renderà i licenziamenti più facili. In compenso saranno appunto rafforzate le politiche per l’impiego, mettendo in rete il sistema di collocamento pubblico e quello privato, e saranno riformati gli ammortizzatori sociali: indebolendo i sussidi per i lavoratori della grande industria e estendendoli a chi finora non ne ha beneficiato. La cassa integrazione, sulla scia di quanto già previsto dalla riforma Fornero, resterà solo per sostenere i lavoratori delle aziende che possono uscire dalla crisi mentre non ci saranno più gli ammortizzatori che durano 4-7-10 anni( Cigs+indennità di mobilità)per dare un sussidio ai dipendenti di aziende senza futuro. In questi casi, i lavoratori dovranno partecipare a corsi di formazione ricevendo un sussidio e solo coloro che non fossero ricollocabili continuerebbero ad essere assistiti, magari con un’Aspi (la nuova indennità di disoccupazione introdotta dalla Fornero) di durata maggiore, mentre gli altri dovrebbero accettare i nuovi lavori offerti.
Enr. Ma.


La semplificazione
Dipendenti pubblici uguali ai privati Tar ridimensionati, potrebbero sparire
Da vent’anni a questa parte non c’è stato governo che non abbia giurato di voler riformare la burocrazia. Ma non c’è stato governo che abbia tenuto fede alla promessa. La pubblica amministrazione è sempre rimasta quella palude stagnante che respinge gli investitori esteri e complica la vita delle aziende. Secondo la graduatoria Doing business della Banca mondiale, l’Italia è trentunesima su 34 Paesi avanzati per contesto favorevole a fare impresa, e occupa a livello mondiale la posizione numero 65 su 189. In questi numeri c’è la dimensione della scommessa del governo di Matto Renzi, che si propone di chiudere entro un paio di mesi la sua riforma della pubblica amministrazione. I suoi più stretti collaboratori stanno lavorando su alcune proposte che rappresenterebbero l’ossatura di un provvedimento da approvare nei primi consigli dei ministri. Tema principale, l’allineamento delle regole per i pubblici dipendenti con quelle del lavoro privato. Un intervento su argomenti da sempre considerati tabù, dalla mobilità interna alla flessibilità, all’orario di lavoro, fino all’applicazione degli ammortizzatori sociali e di strumenti come contratti di solidarietà in caso di esuberi. Il passaggio chiave sarebbe la fine della giurisdizione dei Tar sulle controversie nel pubblico impiego, che passerebbe così al giudice ordinario. Una svolta che metterebbe in discussione la stessa sopravvivenza dei tribunali amministrativi. L’obiettivo è rivoluzionare una cultura basata finora sulla intoccabilità del dipendente pubblico, trasformando la pubblica amministrazione da erogatrice di stipendi in erogatrice di servizi valutabili sulla base di costi e benefici. Proposito, per rimanere nel mood renziano, smisuratamente ambizioso: il che induce ad alzare ancora di più il livello del confronto con i poteri della burocrazia. Cominciando dalla revisione delle norme che nel 1972 hanno reso di fatto inamovibili i dirigenti pubblici, per i quali si potrebbe profilare la libertà di licenziamento come nel privato. Non dovrebbe essere più possibile per gli alti burocrati la permanenza a vita a capo di un ufficio o un dipartimento: ogni incarico dovrebbe ruotare dopo sei anni al massimo, anche per i manager delle aziende pubbliche. E i magistrati dovrebbero lavorare in esclusiva: quindi stop a consulenze governative e nelle authority, incarichi extragiudiziali e relative prebende. Un capitolo a parte dovrebbe poi riguardare la semplificazione, altro tema sul quale sono stati riversati inutilmente in questi anni fiumi di parole. Gli esperti di Renzi hanno proposto l’applicazione dei poteri sostitutivi del prefetto se una pratica non viene tassativamente completata entro un determinato lasso di tempo. Ma anche l’abolizione delle Camere di commercio e la loro sostituzione con speciali agenzie per gestire tutti i rapporti burocratici fra strutture pubbliche e imprese. E l’introduzione dell’obbligo della posta certificata in tutti i rapporti fra le amministrazioni, con pesantissime sanzioni a carico dei dirigenti che non rispettano la direttiva. Un’idea dei risparmi anche economici che sarebbe possibile ottenere dalla digitalizzazione degli atti è in una stima secondo cui ogni «faldone» relativo a un processo penale ha un costo medio a carico dello Stato di 30 mila euro per le sole spese di fotocopia e cancelleria. Auguri.
Sergio Rizzo


Le tasse
Prelievo più alto sulle rendite per agire sull’Irap e sulle detrazioni
A maggio toccherà al fisco. Giusto un paio di mesi per fare le cose per bene, assicura Filippo Taddei, responsabile Economia della segreteria di Matteo Renzi: «Il taglio della pressione fiscale sul lavoro sarà certo e duraturo. Solo così può ripartire la crescita». Sarà quindi una manovra strutturale, non una tantum. Uno sconto permanente, probabilmente articolato in un piano pluriennale di tagli crescenti, che darà ad aziende e lavoratori la prospettiva di un fisco via via più leggero. Meno Irap per le imprese e meno Irpef per le famiglie. Obiettivo: più occupazione, più consumi, l’economia che riprende a crescere. Il problema è che una manovra del genere costa molto. Tagliare l’Irap del 10%, come ha promesso Renzi presentando l’8 gennaio il Jobs act, vale quasi due miliardi e mezzo di euro. Ridurre di un punto le prime due aliquote dell’Irpef (quella del 27% fino a 15mila euro e quella del 28% tra 15 e 28mila euro) altri 5 miliardi, col rischio, per giunta, che spalmandosi sull’intera platea dei contribuenti il beneficio sia così piccolo che nessuno se ne accorga. Ecco perché lo staff del premier incaricato sta abbandonando quest’ultima idea per puntare invece su una riforma delle detrazioni per aumentare il risparmio d’imposta per i redditi tra 8mila (sotto questa cifra non si paga l’Irpef) e 15mila euro, con un vantaggio per questi ultimi di circa 450 euro l’anno. La manovra sarebbe limitata ai lavoratori dipendenti (per gli autonomi è previsto il taglio dell’Irap) e costerebbe sempre 5 miliardi, ma sarebbe avvertita dai redditi bassi. Essa restituirebbe inoltre una maggiore articolazione alla curva dell’Irpef che oggi, a causa dell’effetto distorsivo delle detrazioni, nonostante veda formalmente 5 aliquote (23, 27, 38, 41 e 43%) si riduce, di fatto, a due aliquote, del 30% tra 8 e 28 mila euro e del 40% sopra. Da dove verranno le ingenti risorse finanziarie che serviranno per coprire l’alleggerimento dell’Irap, dell’Irpef, la riforma degli ammortizzatori sociali e gli incentivi per le assunzioni? Anche da un aumento del prelievo sulle rendite finanziarie, che lo staff di Renzi conferma, anche se non è ancora chiaro se e come potrebbero essere coinvolti i titoli di Stato (circolano diverse ipotesi, dalla loro esclusione all’inasprimento del prelievo solo per i grandi patrimoni). Ma il grosso delle risorse arriverebbe dal taglio della spesa pubblica, centrale e periferica. Dagli ambienti vicini al presidente del consiglio incaricato filtra infatti una grande soddisfazione per il lavoro fatto finora dal commissario alla spending review, Carlo Cottarelli. Il tecnico nominato da Enrico Letta e Fabrizio Saccomanni, spiegano, avrebbe individuato con precisione le spese da tagliare e l’obiettivo di risparmiare almeno tre miliardi già nel 2014 sarebbe alla portata. È probabile quindi che Cottarelli resti al suo posto e anzi acceleri e magari aumenti l’obiettivo a regime di un taglio strutturale della spesa pubblica di 32 miliardi di euro a partire dal 2016. Altre entrate potrebbero arrivare dalla lotta all’evasione fiscale, ma queste non verranno cifrate perché incerte. Ma resta il fatto che ogni euro in più recuperato dall’evasione, confermano i tecnici, andrà nel fondo per ridurre le tasse sul lavoro già predisposto dal governo Letta.
Enr. Ma.

18 febbraio 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Enrico Marro Sergio Rizzo


Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_18/lavoro-fisco-burocrazia-ecco-l-agenda-renzi-b542f3b6-9862-11e3-8bdc-e469d814c716.shtml
« Ultima modifica: Febbraio 19, 2014, 11:53:19 am da Admin » Registrato
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« Risposta #20 inserito:: Febbraio 24, 2014, 06:04:36 pm »

Il piano prevede risparmi per 4 miliardi già nel 2014
Il summit Renzi-Padoan: tagli alla spesa pubblica e mobilità dei dirigenti
La spending review per ridurre il cuneo fiscale

Anche se il governo Renzi dovesse aumentare il prelievo sulle rendite finanziarie (Bot compresi, secondo quanto prospettato ieri dal sottosegretario alla presidenza Delrio), non è da qui che verrà il grosso delle risorse per rilanciare l’occupazione e la crescita dell’economia. Con un eventuale allineamento della tassazione alla media europea (l’Italia, col 12,5% sui titoli di Stato e il 20% su azioni, obbligazioni, dividendi e depositi, si colloca 2-3 punti sotto) si potrebbe incassare infatti al massimo un miliardo, dicono gli esperti. E comunque anche un inasprimento dell’aliquota del 12,5% sui titoli di Stato colpirebbe solo una piccola parte di questi, quelli in mano alle famiglie, ovvero 174 miliardi su un totale di 1.740 miliardi in circolazione (dati Banca d’Italia). Il 90% dei Bot, Cct e altri titoli di Stato è infatti detenuto da banche, assicurazioni e società finanziarie, tutti soggetti per i quali i redditi da capitale finiscono nell’imponibile fiscale complessivo, e che quindi sono indifferenti alle variazioni dell’aliquota secca.

Niente nuove tasse- La manovra sulle rendite avrebbe soprattutto un valore simbolico: come ha spiegato Delrio, far pagare di più chi vive di rendita per abbassare il prelievo sul lavoro. «Niente nuove tasse - dicono a Palazzo Chigi - ma una rimodulazione fermo restando l’orizzonte del governo di una diminuzione della pressione fiscale complessiva». Questo proposito di Renzi dovrà però fare i conti con le valutazioni del neoministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, impegnato già ieri sera, a Palazzo Chigi, nella prima riunione di lavoro con il presidente del Consiglio. Padoan, da economista, ha sempre sostenuto la necessità di un riequilibrio del trattamento fiscale tra lavoro e rendita. Ma in veste di titolare del Tesoro dovrà fare i conti con la necessità di non spaventare i mercati ai quali ogni anno l’Italia chiede di sottoscrivere circa 400 miliardi di titoli di Stato per finanziare il proprio debito pubblico.

Revisione della spesa - In ogni caso, non sono le rendite la leva sulla quale conta il governo per azionare il programma di rilancio economico. Che poggia invece su altre voci ben più consistenti. Innanzitutto la revisione della spesa pubblica. Secondo il lavoro fatto sui 25 tavoli di settore coordinati in questi mesi dal commissario Carlo Cottarelli, si potrebbero tagliare già nel 2014 almeno 4 miliardi di euro. Come? Un miliardo con l’estensione alle Regioni e alle forniture sanitarie del raggio di azione della Consip, la società dell’Economia per l’acquisto centralizzato di beni e servizi, e dal taglio della spesa per locazioni (730 milioni l’anno solo quella dello Stato centrale). Risparmi importanti dovrebbero arrivare dalla chiusura e messa in liquidazione delle società partecipate, in particolare quelle degli enti locali che ne contano oltre 2 mila in perdita, dalla rinegoziazione dei contratti di fornitura (energia, servizi, manutenzione), dalla riorganizzazione dell’amministrazione centrale con l’accorpamento di strutture (per esempio le scuole di formazione dei dirigenti), dall’attuazione dell’Agenda digitale, dal taglio dei costi della politica, a partire dalle auto blu. C’è poi il capitolo dipendenti pubblici: non ci saranno licenziamenti, ha detto Delrio. Ma la mobilità sì, per spostare il personale da dove non serve, e gli esuberi verranno gestiti con l’estensione al pubblico degli ammortizzatori sociali.

Eliminare gli abusi - Cottarelli ha anche verificato che è possibile ridurre gli incentivi alle imprese ed eliminare abusi e sovrapposizioni, anche con controlli più severi, nelle prestazioni sociali e assistenziali, così come si può risparmiare riorganizzando e informatizzando la giustizia, tagliando enti inutili e accorpandone altri. È chiaro che non tutto si potrà fare subito, ma almeno 4 miliardi si dovrebbero ricavare già nel 2014, secondo il governo, fermo restando l’obiettivo di raggiungere un taglio della spesa di 32 miliardi nel 2016.
Quattro miliardi dalla spending review quindi, ai quali si aggiungeranno 3 miliardi dal rientro dei capitali nascosti all’estero, secondo il provvedimento varato dal governo Letta, e 3 miliardi da minore spesa per interessi sul debito, grazie all’andamento favorevole dei mercati. Insomma una decina di miliardi per finanziare una robusta riduzione, si parla di 7-8 miliardi, del cuneo fiscale sul lavoro: 2,5 miliardi in meno per le imprese con un taglio del 10% dell’Irap e il resto ai lavoratori dipendenti e ai pensionati attraverso un aumento delle detrazioni sui redditi bassi per ottenere fino a 450 euro l’anno in più per chi guadagna 15 mila euro. I restanti 2-3 miliardi potrebbero essere destinati agli incentivi per assumere i giovani e all’assegno minimo di garanzia, cioè un sussidio di disoccupazione cui avrebbero diritto anche in giovani che non riescono a trovare lavoro purché partecipino a un programma di formazione. Ci sono infine le entrate una tantum, come gli 8-10 miliardi dalle privatizzazioni impostate dal governo Letta e i proventi da un eventuale accordo con la Svizzera per il rientro dei capitali. Entrate che andranno a riduzione del debito.

24 febbraio 2014
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Enrico Marro

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_24/summit-renzi-padoan-tagli-spesa-pubblica-mobilita-dirigenti-ec7d86de-9d1c-11e3-bc9d-c89ba57f02d5.shtml
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« Risposta #21 inserito:: Febbraio 28, 2014, 06:15:38 pm »

I conti in tasca ai piani di Renzi
Troppe cifre senza reali riscontri

Matteo Renzi, con i suoi interventi programmatici in Parlamento, ha cambiato l’approccio alle relazioni tra Italia e Unione Europea. Per la prima volta, nelle parole di un presidente del Consiglio, non c’è la preoccupazione prioritaria di impostare la politica economica secondo le raccomandazioni, gli indirizzi o le reprimende della Commissione europea. Non è un caso che Renzi non abbia fatto cenno alla necessità/obbligo di rispettare la regola del deficit del 3% del Prodotto interno lordo, al pareggio strutturale di bilancio, al Fiscal compact per rientrare dall’abnorme debito pubblico. E non è un caso che abbia voluto rimarcare come il suo primo viaggio all’estero non sarà né a Bruxelles né a Berlino, ma a Tunisi. Tutto ciò manda all’Europa il messaggio che, dopo la stagione dei governi tecnici o semitecnici, questo è un governo politico, senza alcun timore reverenziale verso i tecnocrati della Commissione europea. Detto che questa mossa riequilibra un atteggiamento che in passato a tratti è sembrato di sudditanza - che oltretutto finisce per nuocere all’idea stessa di Europa unita - i problemi base dell’economia e della finanza pubblica italiane restano quelli di sempre.

Il governo Renzi potrà anche andare a Bruxelles a chiedere, e magari ottenere, più tempo per rientrare dal debito pubblico, ma se non prenderà provvedimenti efficaci e credibili dovrà fare i conti con i mercati, ai quali ogni anno l’Italia è costretta a chiedere di sottoscrivere 400 miliardi di euro in titoli di Stato. E credibilità significa innanzitutto prendere misure che abbiano una copertura finanziaria certa. Va benissimo promettere un taglio del cuneo fiscale per alleggerire di 10 miliardi le tasse su imprese e lavoratori, ma se si dice che questo sconto verrà coperto con il taglio della spesa pubblica per 3-4 miliardi, bisogna spiegare come. Perché si può avere la massima fiducia nel lavoro del commissario Carlo Cottarelli, ma è un dato di fatto che altre valide persone prima di lui, da Piero Giarda a Enrico Bondi, ci hanno provato, ma con scarsi risultati.

Che cosa è cambiato davvero per farci credere che nei 7-8 mesi dell’anno che restano si potranno risparmiare diversi miliardi? Così come, se si dice che una parte della copertura del taglio del cuneo verrà dall’aumento del prelievo sulle rendite finanziarie per allinearlo alla media europea, bisogna che il governo non lasci i mercati nell’incertezza e chiarisca subito che cosa si appresta a fare. Pensa di partire aumentando le tasse? Farebbe meglio a guadagnarsi prima la credibilità tagliando la spesa. Così come non ci si può limitare, nell’annunciata riforma del lavoro, a prefigurare l’introduzione di un sussidio universale di disoccupazione senza dire almeno su che ordine di grandezza di spesa si ragiona e dove si prendono le risorse necessarie, perché un conto è potenziare l’Aspi, cioè l’indennità introdotta dalla Fornero, e tutt’altra cosa è dare 500 euro al mese a 3 milioni di disoccupati, per un costo annuo di 18 miliardi. Se Renzi non darà presto una risposta a questi interrogativi, che del resto lui stesso ha suscitato mettendo così tanta carne al fuoco, l’entusiasmo col quale sembra essere stato accolto dai cittadini, dalla maggioranza e dai mercati lascerà il posto a tensioni crescenti. E a danni rilevanti.

27 febbraio 2014
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Enrico Marro

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_27/i-conti-intasca-piani-renzi-069396ac-9f76-11e3-b156-8d7b053a3bcc.shtml
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« Risposta #22 inserito:: Marzo 26, 2014, 11:39:59 pm »

Tagli ai manager, mossa del Tesoro Da aprile scattano i primi risparmi
Retribuzione massima (escluse le quotate): 311 mila euro.
Il ministro Poletti: serve una maggiore equità tra il trattamento economico dei manager e quello di un impiegato


di Enrico Marro

ROMA - Secondo il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, nessun manager pubblico deve prendere un stipendio superiore a quello del presidente della Repubblica, cioè 239.181 euro lordi l’anno. Ma al momento non è chiaro se questo tetto dovrebbe applicarsi ai dirigenti apicali del pubblico impiego, ai presidenti e amministratori delegati delle società pubbliche o a entrambe le categorie. Al Tesoro si vuole prima di tutto far chiarezza sulle norme già vigenti e su quelle che stanno per scattare, visto che è stato appena pubblicato in «Gazzetta Ufficiale» (numero 63 del 17 marzo) il Regolamento sui compensi per gli amministratori delle società controllate dal ministero dell’Economia non quotate e che non emettono strumenti finanziari quotati sui mercati regolamentati.

Si tratta di un decreto ministeriale firmato dall’ex ministro Fabrizio Saccomanni che entrerà in vigore dal primo aprile e riguarderà quindi le prossime nomine. Per queste società, che vanno da Invitalia all’Anas, dalla Consap all’Expo 2015, dall’Enav al Poligrafico, da Italia Lavoro alla Sogesid, scatta una classificazione secondo tre «fasce di complessità», che tengono conto del valore della produzione, degli investimenti e del numero dei dipendenti. Nella prima fascia, quella dove rientrano le società più importanti come Rai e Anas l’importo massimo complessivo degli emolumenti, compresa la parte variabile, non potrà superare il trattamento economico annuo del primo presidente della Corte di Cassazione, cioè 311mila euro lordi. Nella seconda fascia, quella delle società intermedie come il Poligrafico, il tetto alla retribuzione totale sarà pari all’80% di quello della prima fascia, cioè 248.800 euro lordi. Nella terza fascia, quella delle società minori tipo Sogesid (tutela del territorio), il tetto scende al 60%, cioè a 186.600 euro lordi. Tali limiti, specifica il decreto, si applicano «all’amministratore delegato, ovvero al presidente, qualora lo stesso sia l’unico componente del consiglio di amministrazione al quale sono state attribuite deleghe». Qualora ai presidenti siano invece conferite specifiche deleghe operative l’emolumento «non può essere superiore al 30% del compenso massimo previsto per l’amministratore delegato».

Per le società quotate, cioè Eni, Enel e Finmeccanica, e per quelle non presenti in Borsa ma che emettono strumenti finanziari quotati, come la Cassa depositi e prestiti, le Ferrovie dello Stato, le Poste, si applicano invece le norme varate dal governo Monti con il decreto Salva Italia come modificate dalla legge 98 del 2013. Esse stabiliscono che per le società quotate direttamente o indirettamente controllate dalle pubbliche amministrazioni è sottoposta all’approvazione dell’assemblea degli azionisti una proposta sulla remunerazione dell’amministratore delegato e del presidente che preveda un taglio del 25% «del trattamento economico complessivo a qualsiasi titolo determinato, compreso quello per eventuali rapporti di lavoro con la medesima società». Tale proposta viene approvata dall’azionista pubblico, dice la legge. Per le società pubbliche o controllate dal pubblico non quotate ma che emettono titoli obbligazionari il taglio del 25% si applica direttamente, ovviamente sempre sulle nomine successive all’entrata in vigore della riforma, cioè dal 21 agosto scorso.

Detto questo, è evidente che anche dopo i tagli decisi dai governi Monti e Letta, siamo ancora lontani dall’obiettivo di Renzi. I 239mila euro del presidente Napolitano sono infatti abbondantemente sotto il tetto dei 311mila fissato per le società non quotate, mentre il taglio del 25% sulle altre interviene su emolumenti altissimi, come quelli degli amministratori delegati dell’Eni Paolo Scaroni (6,52 milioni lordi), dell’Enel Fulvio Conti (3,95 milioni lordi), di Finmeccanica Alessandro Pansa (1,02 milioni lordi), delle Poste Massimo Sarmi (2,2 milioni lordi, compresi 638.746 euro di competenza del 2011 ma erogati nel 2012), del presidente delle stesse Poste, Giovani Ialongo (903.611 euro lordi), dell’ad della Cassa depositi e prestiti Giovanni Gorno Tempini (1,035 milioni lordi), delle Ferrovie Mauro Moretti (873.666 euro lordi). Proprio con quest’ultimo continua la polemica politica. Moretti prima ha annunciato il suo addio nel caso gli tagliassero lo stipendio e poi ha spiegato al Corriere che è disposto a lavorare gratis purché si difendano le retribuzioni dei suoi dirigenti. Parole accolte ironicamente dal ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi: «Se vuole lavorare gratis sono molto contento». E comunque, aggiunge, «nessuno è indispensabile». Anche secondo il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, «serve una maggiore equità tra il trattamento dei manager e quello di un impiegato». «La differenza - aggiunge il renziano Davide Faraone, responsabile del welfare Pd - è di 12 volte: una vergogna. Nel resto d’Europa è al massimo di 5».

25 marzo 2014 | 10:15
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_marzo_25/tagli-manager-mossa-tesoro-aprile-scattano-primi-risparmi-7ad4f2cc-b3e4-11e3-be28-0f08b38e26f7.shtml
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« Risposta #23 inserito:: Aprile 07, 2014, 11:34:38 pm »

Sanità e sprechi, l’equità negata

Il Def che Renzi varerà sarà diverso dai precedenti solo se conterrà un credibile percorso pluriennale di tagli strutturali della spesa pubblica

di ENRICO MARRO

In queste ore alla presidenza del Consiglio e al ministero dell’Economia si stanno facendo le ultime verifiche sul testo del Def, il Documento di economia e finanza che domani verrà approvato dal governo, il piano triennale che, nelle intenzioni di Matteo Renzi, dovrà conciliare il rilancio della crescita con il rispetto del percorso di risanamento dei conti pubblici («non perché ce lo chiede l’Europa, ma per i nostri figli»).

Al centro della manovra per il 2014 ci sarà il taglio, da maggio, delle tasse di 80 euro al mese per i lavoratori dipendenti che guadagnano fino a 1.500 euro netti, ha promesso lo stesso presidente del Consiglio, per un costo su base annua di 10 miliardi. Per il periodo maggio-dicembre il governo deve quindi trovare 6,6 miliardi per finanziare lo sgravio Irpef. Le coperture ci sono tutte e verranno dai tagli di spesa, assicura Renzi. La credibilità dell’operazione bonus in busta paga si misurerà, in Italia e in Europa, proprio su questo, cioè su quanta parte delle risorse necessarie a far salire gli stipendi medio-bassi verrà da riduzioni permanenti della spesa pubblica.

Il presidente e il titolare dell’Economia Pier Carlo Padoan dovranno saper respingere i veti dei ministri. Non ci possono essere capitoli di spesa esclusi a priori, nemmeno la Sanità, dove gli sprechi sono doppiamente gravi, perché tolgono risorse preziose che potrebbero essere impiegate per migliorare un servizio fondamentale che, in tante parti d’Italia, è a livelli ancora inaccettabili.

È vero, il ministro della Sanità è impegnato in una trattativa con le Regioni per un nuovo Patto per la Salute che faccia risparmiare «dieci miliardi di euro in tre, quattro anni» da investire, spiega Beatrice Lorenzin, nello stesso settore «in infrastrutture, ricerca, personale e accesso alle cure più innovative». Non è un risultato scontato, visto che anche in questa materia lo Stato, a causa del Titolo V della Costituzione, deve scendere a patti col sistema delle autonomie, ma è il minimo che si possa fare. Secondo il rapporto del commissario per la revisione della spesa, Carlo Cottarelli, l’incidenza della spesa sanitaria pubblica sul Prodotto interno lordo è salita dal 5,7% del 2000 al 7,1% del 2013. Dal 2009 le uscite non crescono più, essendosi fermate intorno a 111 miliardi di euro l’anno, ma il peso sul Pil, dice il commissario, deve scendere se l’Italia vuole riuscire a ridurre le tasse. Si può fare, a partire dall’applicazione di criteri uniformi negli acquisti (costi standard), dalla famigerata siringa agli appalti più importanti. E invece, proprio a causa della gestione inefficiente della Sanità, metà delle Regioni sono commissariate, col risultato che i cittadini pagano pesanti addizionali Irpef per coprire i buchi di bilancio. Il tutto mentre il 50% degli assistiti e il 70% delle ricette sono esenti dal pagamento del ticket, con punte dell’86% nel Sud. Uno spreco inaccettabile ai danni degli onesti: prestazioni regalate agli evasori mentre c’è chi non ha i soldi per andare dal dentista.

Il Def che Renzi varerà domani sarà diverso dai precedenti solo se conterrà un credibile percorso pluriennale di tagli strutturali della spesa pubblica, come premessa di altrettanti tagli permanenti delle tasse. Non ci possono più essere zone franche. È stato lo stesso Renzi a dirlo, ponendo giustamente anche il tema delle spese militari. Sanità e pensioni sono i principali capitoli di spesa del bilancio. Tutti sappiamo che contengono ampie sacche di spreco. Adesso vanno rimosse.

7 aprile 2014 | 08:38
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DA - http://www.corriere.it/economia/14_aprile_07/sanita-sprechi-l-equita-negata-45bbd342-be13-11e3-955c-9b992d9cbe5b.shtml
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« Risposta #24 inserito:: Aprile 08, 2014, 04:17:15 pm »


Cosa c’è nel Def
Non è una legge, ma i numeri devono tornare (anche per la Ue)
Il «Documento di economia e finanza» dal 1988 al 2009) è stato sempre smentito dai fatti. Bruxelles lo commenterà entro l’inizio di giugno
Di Enrico Marro

Nonostante l’attività del ministero dell’Economia sia stata assorbita nelle ultime settimane dalla preparazione del Def, il piano economico triennale, è bene tenere a mente due cose: che il «Documento di economia e finanza» non è una legge e che fin da quando si chiamava Dpef (Documento di programmazione economico finanziaria, dal 1988 al 2009) è stato sempre smentito dai fatti. Le previsioni triennali si sono rivelate spesso sbagliate. In parte è comprensibile perché nessuno ha la sfera di cristallo. In parte dipende dal fatto che è forte la tentazione per i governi di piegare le stime ai propri obiettivi e strategie. Governi che oltretutto spesso impostano un Def che poi lasciano in eredità a esecutivi diversi. Le novità del Documento che oggi Renzi illustrerà al termine del Consiglio dei ministri, dal taglio delle tasse in busta paga alla riduzione della spesa pubblica, dagli investimenti che rilanceranno la crescita all’invio della dichiarazione dei redditi precompilata a casa dei contribuenti, sono ancora una volta solo un insieme di obiettivi che avranno bisogno di singoli provvedimenti di legge per diventare realtà. Nonostante tutti questi limiti, il piano economico del governo italiano, come quello di tutti gli altri Stati membri dell’Unione europea, verrà trasmesso a Bruxelles dove, entro il 2 giugno, la commissione pubblicherà il giudizio sui singoli piani con le eventuali raccomandazioni che, se adottate dal successivo consiglio europeo del 26-27 giugno, diventeranno vincolanti per i singoli Stati. Una sorta di esame preventivo che, secondo le nuove regole europee, debutta quest’anno con lo scopo di rafforzare il coordinamento delle politiche economiche nell’Ue e che condizionerà la stesura della legge di Stabilità, la manovra 2015, che il governo varerà a settembre. Si spera quindi che, questa volta, il piano sia più aderente alla realtà. Altrimenti sarà inevitabile concludere che sarebbe stato meglio impiegare tutte le energie utilizzate in queste settimane per scrivere subito e bene i provvedimenti di legge tanto attesi.

8 aprile 2014 | 09:19
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_aprile_08/non-legge-ma-numeri-devono-tornare-anche-la-ue-8f480c40-beec-11e3-9575-baed47a7b816.shtml
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« Risposta #25 inserito:: Aprile 23, 2014, 01:50:23 pm »

INTERVISTA AL MINISTRO DELL’ECONOMIA
«Il bonus deve restare. Solo così le famiglie tornano a spendere»
Padoan: «Regioni ed enti locali facciano la loro parte o scatteranno i tagli lineari. Dobbiamo fare presto, la tregua sui mercati durerà poco»
di Enrico Marro

ROMA - «C’è una ripresa dell’economia che è ancora debole ma che si sta pian piano rafforzando. Dare uno stimolo alle famiglie a reddito medio-basso può avere un effetto immediato, che sarà tanto più forte quanto migliori saranno le aspettative - dice il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan -. Se la fiducia si rafforzerà, allora ci sarà più propensione a spendere piuttosto che a risparmiare. Mi aspetto quindi che sia dal lato delle famiglie che delle imprese, che avranno un taglio dell’Irap del 10%, ci sia una maggiore propensione a spendere e a investire. E quindi una maggiore crescita dell’economia».

Il prodotto interno lordo crescerà nel 2014 più dello 0,8%?
«Credo proprio di sì, anche se non si può stimare di quanto. Il decreto che abbiamo approvato è una componente della strategia di riforme, comprese quelle istituzionali. Penso ci siano le condizioni per un salto di qualità. L’Italia finora ha sofferto di una percezione di qualità mediamente peggiore di quella di altri Paesi. C’è un enorme problema di fiducia nell’Italia. Per questo dobbiamo innanzitutto fare le cose seriamente: riforme strutturali, coperture che garantiscano l’equilibrio finanziario. Fatto questo si può andare in Europa e dire: cerchiamo di essere ragionevoli e avere regole più attente alla crescita e all’occupazione. E questo non lo chiede l’Italia come scusa per una scarsa disciplina finanziaria, ma lo richiedono i fatti e la gente. Veniamo da una recessione cominciata sette anni fa e abbiamo più del 12% di disoccupati. Queste sono le nostre priorità. E dobbiamo fare presto».

Perché?
«Perché lo stato favorevole dei mercati finanziari non durerà in eterno, il ciclo finanziario va verso una fase più restrittiva. I tassi in America riprenderanno a salire e questo ci arriverà addosso. Non abbiamo moltissimo tempo, dobbiamo sfruttare questa finestra di opportunità per fare le riforme e rilanciare l’economia».

Quanto sarebbe costato dare il bonus anche agli «incapienti», quelli con redditi sotto gli 8 mila euro lordi l’anno?
«Almeno un miliardo in più. Ora abbiamo dato una risposta all’obiettivo immediato del presidente del Consiglio di dare 80 euro in più al mese a una fascia di lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi, che noi stimiamo di 10 milioni di persone, che nella recessione hanno subito la decurtazione più forte del potere d’acquisto. Per gli incapienti si interverrà probabilmente con la legge di Stabilità per il 2015, anno in cui ci attendiamo dalla spending review risorse sufficienti non solo per rendere strutturale il bonus 2014, ma anche per intervenire a favore dei redditi fino a 8 mila euro».

Nel 2015 interverrete anche a favore dei pensionati, considerando che quasi la metà prende meno di mille euro al mese? Renzi ha recentemente promesso che nel 2015 provvederà. Conferma?
«Confermo innanzitutto che il bonus contenuto nel decreto deve essere permanente, perché se non è permanente non è credibile e non viene speso. Ovviamente cercheremo di allargare il più possibile la platea, compatibilmente con le risorse. E quindi guarderemo anche ai pensionati a basso reddito».

Ministro, lei non conosceva Renzi prima di entrare nel governo. Che cosa la colpisce di più del premier?
«Sicuramente la grande energia, ma anche la capacità di avere il polso del Paese e di leggere, al di là delle convenzioni, come si può dare più fiducia alla gente. Ha un approccio di estrema concretezza».

Discussioni, escludendo il calcio?
«Più che discussioni, un gioco delle parti. Da una parte la sua grande propensione a trovare soldi per risolvere i problemi della gente e dall’altra la necessità, propria del ministro dell’Economia, di richiamare tutti al vincolo dei conti in ordine».

Com’è andata con i suoi colleghi in consiglio dei ministri?
«La riunione era stata preparata. C’è stata una discussione costruttiva».

Con tutti?
«Se vuole farmi dire che ho litigato con questo o con quell’altro, non è andata così. Ci sono alcuni ministeri che sopportano tagli maggiori nel 2014, come l’Agricoltura e la Difesa. Per gli altri i tagli sono più limitati, ma ciò va interpretato come un incentivo a trovare riduzioni di spesa permanenti per gli anni prossimi, perché questo non è che un processo appena iniziato».

Avete portato dal 12 al 26%, il prelievo sulla rivalutazione delle quote di Bankitalia possedute dalle banche. Una stangata che secondo le banche sarebbe retroattiva, perché i bilanci sono già chiusi, e con evidenti profili di incostituzionalità.
«C’è stato un confronto molto franco con l’Abi, l’associazione delle banche, che è stato risolto perché si interverrà sulla situazione patrimoniale e non sui bilanci».

Lei sposa in pieno questa rivalutazione delle quote decisa dal governo Letta, che invece secondo alcuni sarebbe un regalo alle banche?
«Non è stato un regalo, ma un aggiustamento delle vecchie quote, che non erano mai state rivalutate, al valore di mercato».

Accanto a una tantum come questa, per finanziare il bonus ci sono i tagli della spesa pubblica. Se non dovessero arrivare i 4,5 miliardi attesi, scatteranno clausole di salvaguardia?
«Sì, ci sono clausole di salvaguardia misura per misura, altrimenti il provvedimento non potrebbe ricevere il visto della Ragioneria generale. Clausole che prevedono, secondo i casi, utilizzo di risorse accantonate per altri fini, tagli lineari, aumenti di imposta».

Sicuro che non scatteranno?
«Noi siamo molto fiduciosi che i tagli di spesa funzioneranno e che ne deriveranno i risparmi attesi».

Nel 2015 i tagli dovranno raddoppiare, come farete?
«Nel 2015 le voci una tantum saranno rimpiazzate da tagli permanenti. Si possono fare molti progressi in particolare sull’efficientamento dell’acquisto di beni e servizi. Il lavoro del commissario per la spending review entrerà in una nuova fase: dopo aver individuato cosa aggredire nella spesa dovrà occuparsi dei meccanismi perché a tutti i livelli si spenda meglio».

Anche a livello decentrato, dove i precedenti tentativi sono falliti?
«Sì. Anche Regioni ed enti locali dovranno fare la loro parte in egual misura che lo Stato, con meccanismi che premieranno chi spende meglio e penalizzeranno chi spende peggio. Sia i ministeri sia le autonomie locali hanno libertà su come tagliare nel 2014 i 700 milioni previsti, ma se non lo faranno scatteranno i tagli lineari».

Riuscirete a far vendere le municipalizzate in perdita?
«Le municipalizzate sono troppe. Ci vuole un processo di efficientamento assistito da meccanismi di incentivo e disincentivo. Dobbiamo gestire molto meglio questa materia, come anche credo che molte risorse possano venire dalla dismissione del patrimonio immobiliare. È un tema che sarà nella mia agenda molto presto».

Sulla sanità niente tagli?
«Non ci sono tagli specifici, ma è anche vero che le Regioni possono tagliare voci di spesa sanitaria per ridurre gli sprechi».

Ministro, nonostante il bonus e il taglio dell’Irap, l’Italia resterà ai vertici internazionali del prelievo fiscale. Quando riusciremo a perdere questo primato?
«Intanto cominciamo a ridurre il cuneo fiscale, che è particolarmente alto. Poi attueremo la delega fiscale. Avremo un significativo aumento della base imponibile e del gettito. A quel punto ci sarà un abbattimento del prelievo individuale perché spalmeremo il maggior gettito su una platea più ampia. Ci saranno risultati importanti nella lotta all’evasione».

Da diversi anni non si recuperano più di 12-13 miliardi l’anno su un gettito evaso di 120 miliardi. Perché dovremmo credere alla svolta?
«Nel 2015 prevediamo di aumentare di 3 miliardi il recupero dell’evasione. È possibile con una strategia modulare che riguarderà vari aspetti, dalla trasparenza alla lotta alla criminalità tributaria all’incrocio fra le banche dati. Sulla base dell’esperienza di altri Paesi, posso dire che i risultati maggiori si hanno modernizzando l’amministrazione tributaria, cambiando il rapporto fiduciario coi contribuenti».

Che ne pensa del contrasto d’interessi. La possibilità, per esempio, di detrarre la ricevuta dell’idraulico?
«Che se si stabilisce un rapporto nuovo tra Fisco e contribuente, ciò determina un cambiamento dei comportamenti. A quel punto non servirà il contrasto d’interessi, il livello di compliance, di fedeltà fiscale, aumenterà automaticamente. Io ho vissuto a lungo in Francia, dove il rapporto col Fisco è appunto molto diverso che da noi: l’idea di evadere o eludere è molto lontana dal modo di pensare della gente normale. In un Paese ad alta evasione come il nostro non è così. È questo che dobbiamo cambiare. Non si fa da un giorno all’altro, ma è il nostro obiettivo. Quindi: amministrazione trasparente, non vessatoria, più efficiente, usando le nuove tecnologie».

Anche con l’invio a casa della dichiarazione dei redditi precompilata?
«Sì. Cominceremo con i dipendenti pubblici e i pensionati, nel 2015».

Ministro, la manovra è soggetta al via libera della commissione europea, che lei ha informato del rinvio del pareggio strutturale di bilancio al 2016. Se il parere fosse negativo?
«La commissione ci darà un parere a maggio, dopo le sue previsioni economiche. Penso ci siano ragioni molto valide, sia in termini di eventi eccezionali sia di intensità delle riforme strutturali, per giustificare un leggero rallentamento del percorso di rientro. Aggiungo che molti Paesi sono ancora nella zona di deficit eccessivo dalla quale l’Italia è uscita. Se il nostro Paese non avesse il debito che ha, la nostra posizione fiscale sarebbe di gran lunga una delle più solide della zona euro. La riduzione del debito è essenzialmente un problema di crescita».

Glielo chiedo anche da economista. Un po’ di inflazione farebbe bene all’Italia?
«Se l’inflazione obiettivo per la zona euro, cioè il 2%, fosse effettivamente raggiunta, staremmo meglio tutti».

20 aprile 2014 | 08:00
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_aprile_20/bonus-deve-restare-solo-cosi-famiglie-tornano-spendere-506cfa40-c850-11e3-bf3a-6dacbd42b809.shtml
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« Risposta #26 inserito:: Aprile 28, 2014, 05:53:35 pm »

Le quattro regole d'oro per investire i propri risparmi senza ansie né rimorsi
Sia che ci si affidi a professionisti che si ricorra al fai-da-te, investire i propri risparmi comporta scelte molto importanti.
Dietro alle quali ci vogliono poche ma ferree regole. Vediamo quali sono secondo alcuni gestori i rischi da non sottovalutare

di Enrico Marro

1. Regole d'oro per investire / Individua il tuo profilo di rischio
Primo punto fondamentale, necessario prima di iniziare a investire, è quello legato alle tue caratteristiche. Quali sono i tuoi obiettivi di investimento? Qual è la tua propensione al rischio, quale il tuo livello di conoscenza degli strumenti, quale il tuo reddito presente e futuro? E soprattutto, quali sono le tue esigenze future? «Tutte queste informazioni consentono di capire il cliente e soprattutto di delineare un identikit di investitore/risparmiatore necessario a costruire un portafoglio in linea con le sue caratteristiche oggettive», spiega Gabriele Roghi, responsabile della consulenza agli investimenti di Invest Banca.
«Il rischio va considerato come fattore centrale della propria asset allocation – fa eco Antonio Bottillo, ad per l'Italia di Natixis Global AM - : è importante utilizzare parametri di misurazione del rischio come input primari per definire un obiettivo in termini di rischiosità anziché in termini di rendimento, in modo da conferire maggior stabilità al portafoglio».

2. Regole d'oro per investire / Scegli obiettivi e orizzonte temporale
Più è lungo l'orizzonte temporale, più elevato è il grado di rischio che si è in grado di sopportare. «Questo deriva dalla considerazione che asset class con maggiore rendimento atteso hanno anche una volatilità più elevata – spiega ancora Roghi - . Se sono disposto a "restare investito" per molto tempo, ho una buona probabilità di tornare a guadagnare anche se ho la sventura di iniziare a investire ai massimi di mercato (ad esempio lo S&P500 dal massimo del 2007 è tornato su nuovi massimi nel 2013)».
In ogni caso, come puntualizza Davide Pasquali, presidente di Pharus Sicav, «chi investe generalmente punta sul lungo periodo e deve evitare di andare in ansia ogni qualvolta ci sia un po' volatilità sul mercato».
Mai lasciarsi distogliere quindi da eventi di mercato di breve periodo, insomma. «E' necessario riuscire a costruire portafogli che consentano di rimanere protagonisti delle proprie decisioni d'investimento al fine di raggiungere obiettivi di lungo periodo», sottolinea dal canto suo Bottillo. Investire è infatti un processo continuativo che dura tutta la vita attraverso varie tappe: acquistare una casa, provvedere all'educazione dei propri figli, garantirsi adeguate risorse finanziarie per il proprio pensionamento. I risparmiatori dovrebbero partire nel loro orizzonte temporale proprio da questi obiettivi.

3. Regole d'oro per investire / Non diversificare è un errore grave
Massimizzare la diversificazione è indispensabile, non solo a livello geografico e settoriale, ma anche tra diverse asset class e tipologie di investimento, spiega l'ad per l'Italia di Natixis Global AM.
«La diversificazione geografica è quella forse a cui prestare maggiore attenzione al momento – continua Roghi - . È strategica per suddividere il rischio di mercato, di politica monetaria, fiscale, valutario e geopolitico che sembra essere tornato prepotentemente alla ribalta negli ultimi anni e che è probabilmente destinato a rivestire una crescente importanza per le politiche di investimento».

4. Regole d'oro per investire / Tieni sempre sotto controllo il rischio
«Non permettere mai che un investimento possa diventare una perdita: usa quindi delle tecniche di stop loss, di "taglio" delle perdite – spiega Davide Pasquali, presidente di Pharus Sicav - . Ed evita di fare medie al ribasso: il più delle volte sono controproducenti e portano alla rovina se non si è in grado di valutare bene l'investimento». Cogliere i primi sintomi di debolezza di un titolo o di un mercato è fondamentale, fa eco Roghi di Invest Banca, ma va associato a una serie di regole ferree di gestione della posizione che debbono essere superiori alle idee e alle propensioni del risparmiatore. «Anche se credo in un titolo in modo forte (perché i dati sono buoni, il business è sano ed il titolo deve salire) ma, al contrario, questo scende, allora deve esserci una procedura di uscita che sopravanzi questi sentimenti-idee. Lo stop loss è un modo semplice e oggettivo per fare un opportuno controllo del rischio».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-04-15/regole-d-oro-investire-1-individua-tuo-profilo-rischio-180655.shtml?uuid=ABblRGBB&nmll=2707#navigation
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« Risposta #27 inserito:: Maggio 01, 2014, 07:36:04 pm »

L'Europa prepara le banche all'Apocalisse: in Italia dovranno poter reggere un crollo di Borsa del 58%, con il Pil a -6% e la disoccupazione alle stelle
Negli stress test che l'Autorità bancaria europea effettuerà sugli istituti di credito (dopo la verifica degli attivi da parte della Bce) c'è anche uno scenario avverso che prevede una nuova crisi finanziaria mondiale. Con pesanti ripercussioni anche per il nostro Paese. Vediamo quali

Di Enrico Marro

1. Scenario apocalittico per gli stress test / Spread alle stelle, i BTp tornano al 6%

Alla base dello scenario peggiore ipotizzato dall'Eba c'è un incremento di 100 punti base dei T-Bond americani, con una graduale accelerazione sino a 250 punti base entro la fine di quest'anno. La conseguenza è una vampata di avversione del rischio, che porta a un'impennata dei rendimenti dei bond e a un deterioramento della qualità del credito. Nell'ipotesi di un incremento del rendimento dei T-Bond americani di 150 punti base, i tassi dei BTp salirebbero quest'anno al 5,9% (contro il 3,9% dello scenario base), al 5,6% nel 2015 (da 4,1%) e al 5,8% nel 2016 (da 4,3%). Lo spread con i Bund tornerebbe a circa 300 punti base. Livelli comunque inferiori a quelli toccati il 9 novembre 2011, il "mercoledì nero" dello spread a quota 575, quando i BoT a 12 mesi avevano toccato il 7%, i biennali il 7,5% e i decennali oltre il 7,48% (con l'inversione della curva dei rendimenti tra titoli a 2 e a 10 anni).


2. Scenario apocalittico per gli stress test / Il crollo di Piazza Affari

Nello scenario peggiore, quello appunto che porta a un'ondata generalizzata di panico e di "flight to quality", per Piazza Affari l'Eba prevede un crollo del 20,3% nel 2014, del 17,7% nel 2015 e del 20,4% nel 2016, non lontano dai cali medi ipotizzati nell'intera Eurozona (rispettivamente -18,3%, -15,9% e -18,1%). L'Italia farebbe peggio della media di Eurolandia anche per le conseguenze dello stallo generalizzato del processo di riforme, che metterebbe a repentaglio la sostenibilità delle finanze pubbliche.

3. Scenario apocalittico per gli stress test / L'Italia torna in pesante recessione
Lo scenario peggiore ipotizzato dagli stress test vede per l'Italia un triennio di Pil in calo con una deviazione del 6,1% rispetto allo scenario di base. Il Pil (che nella realtà è appena tornato positivo) tornerebbe a calare dello 0,9% quest'anno, dell'1,6% il prossimo e dello 0,7% nel 2016 anziché mettere a segno una crescita stimata rispettivamente nello 0,6%, nell'1,2% e nell'1,3%. Lo shock finanziario – spiega infatti la simulazione dell'Eba – avrebbe una pesante ricaduta anche sull'economia reale, con fuga di capitali dai Paesi emergenti e calo degli scambi commerciali con l'Europa.

4. Scenario apocalittico per gli stress test / Disoccupazione alle stelle, deflazione strisciante
La pesante recessione porterebbe a un nuovo aumento della disoccupazione italiana, che crescerebbe rapidamente fino a toccare il 14,4% nel 2016 (contro stime di un calo al 12%). Male anche l'occupazione nel resto dell'Eurozona, che nello scenario apocalittico arriverebbe al 13% nel 2016. Giù anche l'inflazione, con l'Italia che nel 2016 registrerebbe un costo della vita medio dello 0,6% (anziché l'1,8% stimato) e alcuni Paesi della Ue in pesante deflazione, in particolare Svezia, Repubblica Ceca e Slovacchia.

5. Scenario apocalittico per gli stress test / Per il mattone caduta meno rovinosa
Naturalmente lo scenario peggiore ipotizzato dall'Autorità bancaria europea prevede anche un ulteriore crollo del mattone. Anche se secondo l'Eba l'Italia registrerebbe una maggiore tenuta rispetto alla media di Eurolandia, almeno sui prezzi degli immobili residenziali. Il calo sarebbe infatti del 3,3% nel 2014 e del 5,2% nel biennio successivo contro una discesa nella zona euro del 6,9% nel 2014 e dell'11% in entrambi gli anni successivi.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-04-29/scenario-apocalittico-gli-stress-test-spread-stelle-btp-tornano-6percento-185848.shtml?uuid=ABcooeEB&nmll=2707
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« Risposta #28 inserito:: Giugno 14, 2014, 10:43:11 pm »

FRETTA NECESSARIA, CAUTELA LEGISLATIVA
Come muoversi in una giungla

Di ENRICO MARRO

Il 30 aprile, Matteo Renzi, annunciando la riforma della pubblica amministrazione, aveva detto: «Preferirei fare un disegno di legge ed evitare il decreto». Invece ieri in Consiglio dei ministri è entrata una bozza di un decreto monstre di circa 120 articoli. Un centinaio di pagine di testo. Un provvedimento omnibus : dalle misure sulla staffetta generazionale nel pubblico impiego alle incompatibilità per i magistrati; dalle semplificazioni fiscali alle norme anticorruzione; dall’informatizzazione del processo civile alla detassazione degli investimenti in azienda; dalle norme in materia di tutela ambientale alle «disposizioni per il rilancio del settore vitivinicolo». Alla fine, opportunamente, questa montagna di articoli è stata distribuita su due decreti legge. Il grosso delle 44 proposte per la riforma della pubblica amministrazione annunciate a suo tempo è finito invece in un disegno di legge delega. Pare che a far cambiare idea al premier sia stata la consapevolezza che il Consiglio dei ministri di ieri fosse l’ultimo utile per impacchettare dei decreti che abbiano la possibilità di essere convertiti da Camera e Senato in legge prima che le due Camere chiudano per le ferie estive. Gli osservatori e gli investitori internazionali, ha detto ieri Renzi, vogliono vedere se le riforme vanno avanti, e quindi la decretazione d’urgenza è necessaria.

A far pendere invece la bilancia della riforma della pubblica amministrazione verso il disegno di legge delega è stata la presa d’atto delle difficoltà di riorganizzare dalla sera alla mattina la macchina dello Stato e forse anche il calcolo che una delega lascia più ampi margini di azione al governo rispetto a un decreto o a un disegno di legge puntuale sul quale le resistenze trasversali in Parlamento si sarebbero organizzate più facilmente. Certo, a questo punto, i tempi della riforma della pubblica amministrazione, come già quelli del mercato del lavoro, si allungano: per i primi decreti di attuazione bisognerà aspettare il 2015, compreso per gli stipendi dei dirigenti legati al merito e per il taglio dell’1% della spesa di ciascuna amministrazione. Meno male che in uno dei decreti è finita l’abolizione del «trattenimento in servizio», l’istituto che permette agli statali di restare al lavoro anche dopo aver raggiunto l’età di pensione. Una decisione indebolita però dalla deroga strappata dai magistrati, che ancora per un po’ potranno post-pensionarsi. Con la fine del trattenimento in servizio si libereranno nei prossimi 3 anni 15 mila posti che saranno in parte coperti da giovani, assicura il governo. Forse si tratta di una stima ottimistica, come anche la previsione di riuscire a spostare i dipendenti pubblici entro un raggio di 50 km senza che ciò scateni un mare di contenziosi. C’è invece da sperare che risulti azzeccata la previsione di un risparmio di due miliardi per le imprese grazie al decreto che taglia le bollette elettriche e il costo d’iscrizione alle camere di commercio.

Si avverte, in quanto è successo ieri, tutta la difficoltà del governo Renzi di tradurre rapidamente in leggi, in un sistema come il nostro, i provvedimenti messi a punto. Il bicameralismo perfetto, in questo senso, mal si concilia con il ritmo dell’esecutivo, con la necessità di convincere i mercati e i partner europei che le riforme si stanno facendo, anche per dare forza al semestre italiano di presidenza dell’Ue che partirà il primo luglio. A complicare tutto c’è poi un problema innegabile tra il premier e una parte dei parlamentari del Pd, soprattutto al Senato, che continueranno, non solo sulle riforme istituzionali, a mettersi di traverso. Renzi lo sa e per questo ha fretta. Una fretta necessaria per riforme che attendono da troppo tempo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
14 giugno 2014 | 08:13

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_14/come-muoversi-una-giungla-d5707be0-f384-11e3-9746-4bf51e9b4d98.shtml
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« Risposta #29 inserito:: Giugno 28, 2014, 11:58:54 am »

I costi della politica

Parlamento senza tetto agli stipendi Bisogna trattare con 25 sindacati
Il percorso a ostacoli per applicare il limite di 240 mila euro


Di Enrico Marro

ROMA - L’altro ieri l’ufficio di presidenza della Camera ha approvato il bilancio pluriennale 2014-16 che verrà portato all’esame dell’aula il 21 luglio. Le spese di Montecitorio, assicura un comunicato, diminuiranno di 138 milioni in due anni. Un piccolo segnale rispetto al totale delle spese di funzionamento della Camera che ammonta a circa un miliardo l’anno. Segnale al quale tra l’altro non contribuisce, almeno per ora, il tetto di 240 mila euro lordi alle retribuzioni, già in vigore da maggio per tutti i dirigenti pubblici in virtù del decreto legge 66 del governo, ma che alla Camera, come al Senato, non può essere applicato. Affinché il tetto sia valido anche per i dirigenti del Parlamento, che nelle posizioni di vertice guadagnano il doppio, c’è infatti bisogno di una autonoma decisione delle camere, che arriverà però solo dopo una trattativa con i sindacati. I quali, incredibile ma vero, sono 25: 11 alla Camera per circa 1.400 dipendenti (una sigla ogni 127 lavoratori) e 14 al Senato per 820 dipendenti (una organizzazione ogni 58 addetti).

Il nodo degli oneri previdenziali
Questa mission impossibile è affidata alla Camera al «Cap», il Comitato per gli affari del personale guidato dalla vicepresidente Marina Sereni (Pd), e al Senato alla «Rappresentanza permanente» diretta dalla vicepresidente Valeria Fedeli, anche lei del Pd. Entrambe vorrebbero procedere insieme e chiudere la partita prima delle ferie d’agosto, ma al momento non esiste neppure la proposta da presentare ai sindacati. I due uffici, nei quali sono presenti parlamentari della maggioranza e dell’opposizione, si sono riuniti due volte, l’ultima l’altro ieri, ma senza trovare un accordo. Si fronteggiano infatti due posizioni: una, maggioritaria, che vorrebbe sì il tetto di 240mila euro, ma al netto degli oneri previdenziali e di indennità varie; l’altra, del Movimento 5 stelle, per il quale «il tetto deve essere onnicomprensivo, altrimenti si realizza un aggiramento dello stesso», dice Riccardo Fraccaro membro del Cap. Basti pensare che gli oneri previdenziali valgono da soli più di 71 mila euro l’anno per il segretario generale della Camera e più di 40mila euro per la metà dei consiglieri.

Clima di rivolta tra i dipendenti
Ma, al di là della difficoltà di arrivare a una proposta da presentare ai sindacati, il problema è che l’applicazione del tetto comporterebbe un taglio forte, in alcuni casi fortissimo, della retribuzione di almeno il 40% del personale. Non si può infatti applicare semplicemente il limite dei 240mila euro (che pure colpirebbe 88 consiglieri solo alla Camera) senza riparametrare tutte le fasce stipendiali. Altrimenti si avrebbe il paradosso che il vertice, cioè il segretario generale, prenderebbe quanto un documentarista o un tecnico ragioniere. Quindi, per mantenere le giuste proporzioni, se il segretario generale, che oggi prende circa 480 mila euro lordi, dovesse scendere a 240 mila, dovrebbero essere messi dei tetti a scalare per le qualifiche inferiori. Il clima tra i dipendenti rasenta la rivolta. Chi può, nel caso passassero i tagli, avrebbe convenienza ad andare in pensione: prenderebbe di più, visto che sulle pensioni almeno per ora non si parla di tetti e considerando che i lavoratori più anziani godono ancora di età di accesso al pensionamento anticipato e di regole di calcolo dell’assegno estremamente favorevoli.

I privilegi <dell’autodichia>
Ma perché quello che il governo ha stabilito con l’articolo 13 del decreto 66, cioè il tetto di 240mila euro lordi non può essere applicato a Camera e Senato? Perché il Parlamento gode della «autodichia», conseguenza dell’articolo 64 della Costituzione. L’autodichia significa che le Camere hanno una giurisdizione riservata sullo status giuridico ed economico dei propri dipendenti, che viene quindi definito attraverso atti interni, non modificabili dalla legge. L’istituto, nato per garantire l’indipendenza del Parlamento, ha tuttavia dato luogo a un insieme di trattamenti retributivi e pensionistici privilegiati. Di recente sull’autodichia si è pronunciata la Corte costituzionale con la sentenza 120 (pubblicata lo scorso 14 maggio sulla Gazzetta ufficiale) redatta da Giuliano Amato. Il caso riguardava un dipendente del Senato che in una controversia di lavoro voleva essere giudicato dalla magistratura ordinaria anziché dagli organi interni di Palazzo Madama e chiedeva quindi fosse dichiarata l’incostituzionalità dell’autodichia. Amato ha respinto la richiesta, ma solo per un fatto formale, cioè perché la Corte non è competente ad esprimersi sui regolamenti parlamentari in quanto non sono leggi. Il «dottor Sottile», tra le righe, ha però suggerito una via d’uscita al governo. Che se davvero volesse mettere in discussione il raggio d’azione dell’autodichia potrebbe sollevare «un conflitto di attribuzione» contestando che i regolamenti parlamentari possano disciplinare anche i rapporti di lavoro (in Francia, Germania, Regno Unito e Spagna infatti non è così, osserva Amato). In quel caso, conclude la sentenza, la Corte potrebbe «ristabilire il confine tra i poteri». Chissà che non debba finire così.

28 giugno 2014 | 07:02
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_28/parlamento-senza-tetto-stipendi-bisogna-trattare-25-sindacati-9ae72d78-fe80-11e3-8a2a-88aba4066e9e.shtml
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