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Autore Discussione: Enrico MARRO -  (Letto 37055 volte)
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« inserito:: Ottobre 26, 2011, 05:11:12 pm »

I contenuti - Il Cavaliere consapevole che non sarà facile convincere i partner europei

Nella missiva tutte le «cose fatte»

«Il nostro sistema è sostenibile»

Debito pubblico: l'Ue si attende misure concrete per una riduzione non simbolica dello stock, in tempi rapidi

ROMA - Una lettera a Bruxelles, lunga quattordici pagine. Con la quale il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, non elenca nel dettaglio tutte le misure che il governo prenderà per rafforzare il risanamento dei conti pubblici, ma alla quale il premier affida comunque la speranza di passare il severo esame che subirà oggi al Consiglio dei capi di Stato e di governo dell'Unione. Speranza riposta su un solo impegno preciso: il rispetto dell'obiettivo dell'anticipo del pareggio di bilancio al 2013 deciso con le manovre della scorsa estate, costi quel che costi, se necessario anche con misure aggiuntive.

Sulla previdenza si afferma l'obiettivo dell'età pensionabile a 67 anni nel 2026, senza spiegare come. In pratica, il governo si sarebbe orientato ad anticipare, dal 2014 al 2012, il percorso di aumento graduale da 60 a 65 anni dell'età pensionabile delle donne del settore privato. L'accordo con la Lega, ha detto ieri sera il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini a Ballarò , prevede «67 anni per donne e uomini del settore pubblico e di quello privato, gradualmente aumentando l'età pensionabile dal 2012 al 2025». In pratica da quell'anno tutti, anche per effetto della «finestra mobile» e dell'adeguamento alla speranza di vita, andranno in pensione di vecchiaia non prima di aver compiuto 67 anni.

La lunghezza della missiva alla Commissione europea serve per ricordare tutti i provvedimenti già adottati dall'esecutivo con i decreti di luglio e agosto, che comportano una correzione dei conti pubblici del valore cumulato di 145 miliardi di euro nel quadriennio 2011-2014. Anche sul nodo delle pensioni, dove pure lo stesso Berlusconi si era esposto direttamente qualche giorno fa annunciando nuovi provvedimenti, si ricordano tutte le riforme fatte negli ultimi anni, che hanno ricevuto giudizi positivi dallo stesso esecutivo di Bruxelles e dall'Ocse, e si ritiene che questi provvedimenti garantiscano la sostenibilità finanziaria del sistema. Un'orgogliosa rivendicazione delle riforme fatte e che diversi Paesi a cominciare la stessa Francia, che come noi conservano le pensioni di anzianità, non sono riusciti a fare.

Nella lettera Berlusconi illustra anche i capitoli sui quali il governo interverrà con il decreto sviluppo, anticipando novità importanti rispetto alle bozze circolate nei giorni scorsi. Ci sarebbe una nuova stretta sul pubblico impiego, con l'obiettivo di ridurre il numero dei dipendenti pubblici, ricorrendo, se necessario, anche alla messa in mobilità. Per il settore privato si accennerebbe invece a una revisione delle norme sui licenziamenti per motivi economici, con l'obiettivo di stabilire in questi casi un indennizzo del lavoratore, senza diritto al reintegro. Ci sono poi le liberalizzazioni dei servizi pubblici locali e la riforma delle professioni, con l'abolizione delle tariffe minime. Tutte richieste, per inciso, sollecitate dalla Bce nella lettera di inizio agosto, e che finora erano rimaste inesaudite.
Grande importanza viene data anche al rilancio delle infrastrutture e alle norme di semplificazione. Per favorire la crescita si punta sull'aumento del tasso di occupazione, in particolare femminile, con i contratti agevolati di inserimento. Per i giovani si conferma la già annunciata riduzione dei contributi sull'apprendistato e si prevedono misure per frenare l'abuso dei contratti atipici e favorire la stabilizzazione dei rapporti di lavoro. Per il Mezzogiorno e le aree sottoutilizzate ci sarebbe il credito di imposta sulle assunzioni.

Berlusconi sa bene che convincere la Ue e soprattutto i mercati, su queste basi, sarà molto difficile. Sa che dovrà affrontare il forte scetticismo delle altre capitali europee sulla capacità del suo governo di gestire la crisi, ma anche quello dei mercati sull'efficacia del nuovo Fondo Salva Stati. La trattativa su questo fronte, in questi due giorni, non ha fatto grandi progressi sui meccanismi per rafforzare e rendere più flessibile lo strumento. Avanzamenti che sarebbero tanto più urgenti proprio perché quel Fondo, pensato per i piccoli Paesi, domani potrebbe essere lo strumento europeo con il quale, se servisse, intervenire in Italia e in Spagna. E c'è anche il timore che se i mercati domani dovessero reagire male, giudicando il Fondo inadeguato all'impresa, gli altri governi potrebbero anche addossarne a Berlusconi la responsabilità.

Quello che è certo è che oggi, a Bruxelles, all'Italia verranno chiesti sforzi aggiuntivi e impegni molto precisi. Non solo garanzie puntuali sulla tenuta degli obiettivi di deficit. Al punto in cui si è arrivati potrebbe non bastare. Una nuova forte riforma delle pensioni non porterebbe grandi risparmi nell'immediato, ma sarebbe utile per blindare i conti a lungo termine e soprattutto darebbe all'Europa, che lo chiede, un segnale di capacità politica. Il premier ci puntava, ma al momento non è in grado di offrire molto al riguardo. Così l'attenzione rischia di spostarsi, a partire da domani, sul nodo cruciale, il debito pubblico. Da ridurre, e in modo certo non simbolico, in tempi molto rapidi.

Enrico Marro
Mario Sensini

26 ottobre 2011 07:20© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/11_ottobre_26/lettera-europa-marro-sensini_7e59ebd8-ff90-11e0-9c44-5417ae399559.shtml
« Ultima modifica: Agosto 20, 2012, 10:07:18 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 01, 2012, 06:18:23 pm »

La leader della Cgil: «Situazione grave Ma quella di Monti non è la ricetta giusta»

Camusso rompe con il governo: «Sulle pensioni un intervento folle» «La Fornero aggredisce i lavoratori».

Il contratto unico? Sarebbe solo un nuovo apartheid a danno dei giovani


ROMA - La stangata del governo Monti ha provocato la mobilitazione di tutti i sindacati, che cercano di dar voce alla protesta di lavoratori e pensionati. I motivi di questa opposizione durissima e di quella che ci sarà rispetto a ogni ipotesi di modifica dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori li spiega il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso.

Il governo dice che la manovra ha salvato l'Italia da una situazione dove erano a rischio i risparmi e le tredicesime. È d'accordo?
«Vedo che si autoattribuiscono il ruolo di salvatori della Patria. La realtà è che la situazione era ed è grave, ma la ricetta giusta non è quella di Monti».

Perché?
«Perché grava sui soliti noti: chi ha un reddito Irpef dichiarato, in genere medio basso. Perché punta a far cassa rapidamente su chi non può sottrarsi e non si è mai sottratto al Fisco. Determina recessione e quindi non mette affatto al riparo il Paese. Hanno solo preso tempo».

Servirà un'altra manovra?
«Di sicuro, non c'è una spinta alla crescita. C'è invece l'impoverimento di gran parte del Paese, perché la logica è stata quella di trovare chi pagasse il prezzo del pareggio di bilancio».

Lei al posto di Monti che avrebbe fatto?
«Lo abbiamo detto molte volte. Avremmo introdotto forme serie di prelievo sulle grandi ricchezze e non misure così leggere che rasentano la trasparenza. Avremmo messo un sano tetto alle retribuzioni più alte e alla pluralità di incarichi pubblici e cumuli multipli tra stipendi e pensioni d'oro. E avremmo fatto cose più incisive sull'evasione, solo per fare qualche esempio».

La riforma delle pensioni è pesante. Ma nell'opinione pubblica c'è anche la consapevolezza che è la conseguenza degli errori del passato. Non crede che nel '95 fu uno sbaglio, anche del sindacato, escludere dal contributivo i lavoratori con più di 18 anni di servizio?
«La Cgil già allora pensava che il contributivo pro quota potesse essere una soluzione e Sergio Cofferati lo disse pubblicamente. Oggi comunque tra i lavoratori e i pensionati che frequento io non c'è nessuno che trovi la riforma Fornero ragionevole. C'è una straordinaria sottovalutazione e una supponenza impressionante da parte del governo nel non capire le conseguenze di questa riforma, che rappresenta un intervento brutale sui prossimi 6-7 anni per tante persone che non potranno accedere alla pensione e non avranno un sussidio. C'è un livello di aggressione nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici che, fatto da una donna, stupisce molto».

Ma come, si dice che Fornero ministro l'abbia voluto la Cgil, sbarrando la strada a Carlo Dell'Aringa...
«Non è vero. La Cgil non ha partecipato al totoministri e non ha posto veti di sorta. Ma mi interessa tornare sulle pensioni perché c'è una cosa che nessuno ha notato ed è gravissima».

Quale?
«Nella riforma c'è una norma programmatica che affida a una commissione di studiare la possibilità che i lavoratori spostino una parte dei contributi previdenziali dal sistema pubblico alle assicurazioni private. Questa è una riforma per smontare il pilastro delle pensioni pubbliche. Quindi Fornero non tiri in ballo a sproposito Lama, perché lei ha fatto esattamente una riforma contro i suoi figli, anzi i suoi nipoti».

Mettere in sicurezza finanziaria le pensioni è un modo per garantire il pagamento delle stesse alle prossime generazioni.
«No, no, il sistema era già in sicurezza».

Non può negare che finora chi è andato col retributivo spesso ha ricevuto un regalo rispetto ai contributi versati.
«Guardi che il fondo lavoratori dipendenti è in attivo mentre le gestioni in passivo sono pagate coi contributi dei parasubordinati. Ha idea invece di che dramma sociale creerà questa riforma per i lavoratori dipendenti e i precari, determinando insicurezza e paure? Che senso ha tutto questo? Quello di regalare il sistema alle assicurazioni?».

Sta dicendo che Fornero lavora per le assicurazioni private?
«Se guardo la manovra, sì. Ma un governo di tecnici non può pensare di trasformare il Welfare senza discuterne con nessuno».

Quasi quasi era meglio Berlusconi?
«No, perché se siamo arrivati a questo punto è per colpa dei suoi governi. Ma ciò non significa che questo esecutivo possa fare qualsiasi cosa. Quando sento dire che bisogna riformare il ciclo della vita..., ma chi sono gli unti del signore pure loro?».

Meglio andare alle elezioni anticipate?
«Questo governo è nato per affrontare un'emergenza. Trovo che ci sia un tratto autoritario nel voler dire che sarà il grade riformatore del Paese, perché questo spetta alla politica».

Ci saranno altri scioperi?
«Valuteremo con Cisl e Uil. Io sono per continuare la mobilitazione. Non finisce qui. Contesto che si possa pensare che ci siano lavori che si possono fare fino a 70 anni. Fornero scenda dalla cattedra: se la immagina una sala operatoria con infermieri settantenni? Si rende conto che c'è gente che si fa un mazzo così e non può farselo più nemmeno a 66 anni? Mica sono tutti banchieri. Invece, trattiamo la gente che va in pensione dopo 42 anni come se fossero dei profittatori mentre c'è a chi basta una legislatura».

Dopo le pensioni, tocca al mercato del lavoro. Fornero propone il contratto unico per i giovani, senza le tutele al 100% dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
«Sarebbe un nuovo apartheid, a danno dei giovani. Se facciamo un'analisi della realtà, vediamo che la precarietà c'è soprattutto dove non si applica l'articolo 18, nelle piccole aziende. Quindi tutta questa discussione è fondata su un presupposto falso. Vogliamo combattere la precarietà? Si rialzi l'obbligo scolastico, si punti sull'apprendistato e si cancellino le 52 forme contrattuali atipiche».

Insomma per la Cgil l'articolo 18 resta un totem, come dice Fornero. Ammetterà almeno che bisogna superare il dualismo del mercato del lavoro tra garantiti e precari.
«Non è un totem, ma una norma di civiltà. Vogliamo superare il dualismo? Lancio una sfida: facciamo costare il lavoro precario di più di quello a tempo indeterminato e scommettiamo che nessuno più dirà che il problema è l'articolo 18?».

Fornero dice che le donne non devono rivendicare compensazioni ma parità, anche nei lavori domestici. È d'accordo?
«Fornero dovrebbe intanto ripristinare la legge contro le dimissioni in bianco e farne una sulla paternità obbligatoria. Sarebbero passi in avanti concreti verso la parità».

Enrico Marro

19 dicembre 2011 | 11:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/11_dicembre_19/camusso-sulle-pensioni-un-intervento-folle-governo-supponente-enrico-marro_77532ece-2a12-11e1-88bd-433b1e8e4c01.shtml
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 07, 2012, 04:44:38 pm »

Il caso PARTICOLARE NELLA VICENDA ESODATI

Esodati, il giallo del messaggio Inps

La questione dell'adeguamento dei requisiti per chi ha 40 anni di contributi alle regole sull'aspettativa di vita


ROMA - La circolare «scomparsa», la chiama Giancarlo Santorsola, lavoratore esodato del settore bancario attualmente a carico del Fondo di solidarietà del credito, che ha scritto alle segreterie dei ministri del Lavoro e del Tesoro, oltre che ai leader sindacali e ai parlamentari Giuliano Cazzola del Pdl e Cesare Damiano del Pd. È successo che il 3 agosto scorso sul sito dell'Inps è apparso il messaggio numero 13.052 che per qualche ora ha rovinato la giornata del signor Santorsola. Il quale è uno dei 120 mila esodati finora salvaguardati attraverso due decreti del governo (il primo per 65 mila lavoratori e il secondo per altri 55 mila).

Gli esodati sono quei lavoratori che rischiano di restare senza stipendio e senza pensione perché usciti più o meno volontariamente da aziende in crisi, con l'aspettativa di andare di lì a poco in pensione e invece si sono ritrovati improvvisamente con lo scenario cambiato dalla riforma della previdenza dello scorso dicembre, che ha inasprito fortemente i requisiti (età e contributi) necessari per lasciare il lavoro.
Quanti siano questi lavoratori a rischio di rimanere senza reddito per periodi più o meno lunghi nessuno lo sa.

La questione è stata e ancora è al centro di un duro scontro fra governo e sindacati, governo e Inps, governo e forze politiche. Alla fine lo stesso ministro del Lavoro, Elsa Fornero, ha ammesso che gli esodati potrebbero essere più dei 120 mila salvaguardati finora, ma che il problema, nel caso, si presenterà nei prossimi anni. Intanto quelli salvaguardati possono dormire sonni tranquilli, perché potranno andare in pensione con le vecchie regole (quelle prima della riforma Fornero) non appena le raggiungeranno. I 120 mila sono stati individuati in una serie di categorie (lavoratori in mobilità, ammessi a contribuzione volontaria, usciti con accordi individuali, assistiti dai fondi di solidarietà, eccetera) a patto che abbiano determinati requisiti di età e contribuzione.

Il signor Santorsola è uno di questi. È stato lo stesso Inps presieduto da Antonio Mastrapasqua a dargli la buona notizia con una lettera come quella che è stata spedita a tutti gli altri esodati da salvaguardare individuati dall'istituto. Solo che quando il nostro bancario ha letto il messaggio 13.052 dell'Inps è improvvisamente diventato di cattivo umore, perché lì dentro si prevedeva che anche ai cosiddetti «quarantisti» si applicava l'adeguamento alla speranza di vita, cioè i tre mesi in più necessari per raggiungere la pensione a partire dal 2013, già decisi prima della riforma Fornero. I quarantisti sono quelli che con le vecchie regole potevano andare in pensione anticipata (si chiamava pensione di anzianità) con 40 anni di contributi, indipendentemente dall'età. Tra gli esodati salvaguardati ci sono diverse migliaia di lavoratori che come Santorsola potranno andare in quiescenza al raggiungimento dei 40 anni (dopo la riforma Fornero servono invece 42 anni e un mese per gli uomini e 41 anni e un mese per le donne). Ma a costoro si applicano anche i tre mesi in più che scattano dal 2013? In questo caso ci sarebbero circa 1.200 lavoratori a rischio di restare senza reddito per qualche mese.

Secondo il bancario che protesta, l'applicazione dei tre mesi ai quarantisti salvaguardati sarebbe «illegittimo». Comunque sia, già la sera del 3 agosto l'Inps ha ritirato dal sito il messaggio. «Sono necessari ulteriori approfondimenti con i ministeri vigilanti» (Lavoro, Economia), spiegano all'Inps. «Del resto - aggiungono - non c'è urgenza perché i tre mesi in più scatterebbero dal prossimo anno». E i tecnici assicurano: «Si troverà una soluzione per salvaguardare anche questi casi, o non applicando l'adeguamento alla speranza di vita o prolungando di qualche mese l'ammortizzatore sociale». Un piccolo caso, che conferma però quante spine riservi ancora la questione degli esodati.

Enrico Marro

7 agosto 2012 | 8:18© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_agosto_07/20120807NAZ11_05_82880372-e052-11e1-8d28-fa97424fa7f2.shtml
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 10, 2012, 05:11:08 pm »

Pdl e Pd pronti a cambiare anche la riforma del lavoro se torneranno a Palazzo Chigi

Pensioni a 58 anni e più esodati

Ecco la Controriforma dei partiti

La possibilità di lasciare dopo 35 anni accettando un assegno mensile calcolato con il sistema contributivo


ROMA - Fatte le riforme già si pensa alle controriforme? Ovviamente per Pd e Pdl non si tratta di questo, ma di correggere gli «errori» della riforma delle pensioni e di quella del mercato del lavoro, entrambe firmate dal ministro del Welfare, Elsa Fornero. Ed entrambe che già si annunciano argomento della campagna elettorale per le elezioni politiche del 2013.

Per cambiare la riforma della previdenza, nel mirino sia del Pd sia del Pdl (per non parlare delle opposizioni), alla Camera qualche giorno fa è già stato compiuto un primo atto. È passato un ordine del giorno, proposto dall'ex ministro del Lavoro Cesare Damiano (Pd), che impegna il governo a favorire l'iter parlamentare del testo di riforma della riforma già varato dalla commissione Lavoro. Si tratta di 5 articoli che unificano le proposte di legge Damiano, Dozzo (Lega) e Paladini (Idv) e che hanno ricevuto anche il voto di Pdl (tranne Giuliano Cazzola), Udc, Fli, Pt (Popolo e territorio). Nel testo, consegnato ora al parere delle altre commissioni, non solo si propone un ulteriore ampliamento della platea degli «esodati» da salvaguardare, ma si introduce un nuovo canale di pensionamento che riporta in vita la possibilità di lasciare il lavoro a 58 anni.

È vero che si tratta di un canale aggiuntivo e non sostitutivo delle regole previste dalla riforma Fornero, ma di fatto la ammorbidirebbe di molto. La proposta di legge, passata col voto bipartisan in commissione Lavoro, introduce infatti la sperimentazione fino al 2017 della possibilità di andare in pensione per uomini e donne in una età vantaggiosa: per i lavoratori dipendenti 58 anni (57 le donne) fino a tutto il 2015 e poi 59 (58 le donne) fino alla fine del 2017, purché si abbiano 35 anni di contributi e ricevendo però un assegno più leggero perché calcolato tutto col sistema contributivo. Oggi, dopo la riforma Fornero, per andare in pensione anticipata ci vogliono almeno 42 anni e un mese di contributi (41 e un mese per le donne) e 62 anni di età (sotto scattano le penalizzazioni).
Il testo bipartisan prevede inoltre due allargamenti della platea degli esodati. Potrebbero andare in pensione con le vecchie regole: 1) i lavoratori coinvolti in accordi di mobilità stipulati entro il 31 dicembre 2012 anche in sede non governativa; 2) le persone autorizzate alla contribuzione volontaria, eliminando i vincoli attuali (aver versato almeno un contributo prima del 4 dicembre 2011 e non aver lavorato dopo l'autorizzazione). Inoltre, la maturazione del diritto alla pensione entro 24 mesi dalla fine della mobilità avverrebbe senza tener conto dell'adeguamento alla speranza di vita, spiega Damiano.
L'ultimo articolo prevede la spesa per finanziare queste novità e le relative coperture. Servirebbero 5 miliardi di euro fino al 2019 (che si sommerebbero ai 14 miliardi già stanziati dal governo per salvaguardare 120 mila esodati). Il testo propone di reperirli aumentando il prelievo fiscale su giochi pubblici online e lotterie istantanee, ferma restando la clausola di salvaguardia già prevista dalla legge, che potrebbe far aumentare i contributi sulle imprese.

Che la riforma delle pensioni vada «aggiustata, innanzitutto per risolvere il problema degli esodati e per introdurre degli spazi di flessibilità sul pensionamento», lo ha ribadito ieri in una conversazione con il quotidiano Il Foglio anche Stefano Fassina, responsabile Economia e Lavoro del Pd. Ma già due mesi fa dal Pdl era arrivato un messaggio ancora più duro. Era stato l'ex ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, a dire che la riforma Fornero, a causa del «repentino passaggio alle nuove regole senza scale o scaloni», aveva reso il sistema previdenziale italiano «insostenibile sul piano sociale». È necessario, concludeva Sacconi, reintrodurre una «transizione che gradualmente conduca alle età più elevate in termini di maggiore flessibilità». E lo stesso Cazzola, esperto di pensioni del Pdl, spiega che non ha appoggiato il testo di legge bipartisan della Camera perché «non è il caso di riaprire la questione degli esodati», ma che condivide l'idea di un canale di pensionamento anticipato, sia pure penalizzato dal calcolo contributivo. Anzi rivendica: «Quella proposta l'avevo presentata io».

Sull'altra grande riforma Fornero, quella del mercato del lavoro, sia il Pd sia il Pdl sono pronti, se torneranno al governo, a rimetterci le mani. Ma, a differenza che sulle pensioni, con intenti opposti. Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha confermato ieri in un'intervista al Sole 24 Ore l'intenzione di intervenire. È chiaro poi che un governo che dovesse avere anche il sostegno di Sel (Nichi Vendola) probabilmente subirebbe la pressione per ripristinare l'articolo 18 (tutela dai licenziamenti) e comunque per restringere l'area dei contratti precari.
Al contrario, un governo di centrodestra potrebbe tornare sulla riforma del mercato del lavoro per aumentare la flessibilità.

Enrico Marro

10 agosto 2012 | 7:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_agosto_10/pensioni-a-58-anni-e-piu-esodati-la-controriforma-dei-partiti-enrico-marro_e1ae4f54-e2ab-11e1-84ce-ad634664744d.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 16, 2012, 07:05:10 pm »

Rata dimezzata per i mutui precrisi a tasso variabile.

Dalla recessione c'è chi ci guadagna. Ecco perché

di Enrico Marro

15 agosto 2012


Anche nella crisi dei debiti sovrani ci sono risparmiatori fortunati, che averlo minimamente calcolato incassano un piccolo dividendo dalla crisi, e risparmiatori sfortunati, che sono costretti a pagarlo, invece, il "dividendo".

Un esempio lampante è quello del mutuo: chi ha avuto la fortuna di accenderlo prima della crisi, cioè prima del 2008, e di sceglierlo a tasso variabile, oggi vede la sua rata dimezzata rispetto ai terribili mesi seguiti al fallimento di Lehman Brothers, quando (con un mercato interbancario impazzito) il valore dell'Euribor a tre mesi era schizzato fino a sfiorare il 5,5%.

Come è possibile? Basta fare un rapido calcolo: lo spread medio per un mutuo acceso nel 2007-2008 era dell'1-1,5% (ma con alcune offerte online che scendevano sotto l'1%), a cui bisognava aggiungere nel dopo Lehman un Euribor a tre mesi arrivato al 5,5%. Un esempio: il signor Rossi, che aveva spuntato a suo tempo uno spread dell'1% per il suo mutuo variabile, ai picchi della crisi di liquidità interbancaria di fine 2008 paga un tasso complessivo del 6,5% (5,5% Euribor e 1% spread). Vale a dire, per un mutuo trentennale da 200mila euro, una rata che supera i 1.200 euro al mese. E oggi? Con l'Euribor a tre mesi sceso allo 0,34% stappa lo spumante: il tasso complessivo è dell'1,34% e la rata mensile è scesa a circa 650 euro, quasi la metà.

Un mutuo così a buon mercato oggi, pur avendo liquidità, si può pensare anche di non estinguere. Sì, perché impiegando la liquidità in un conto deposito vincolato attualmente si porta a casa un ulteriore "dividendo della crisi". In che modo? Torniamo al nostro esempio: il signor Rossi eredita dalla nonna 200mila euro di risparmi. Vincolandolo a 36 mesi presso uno dei migliori conti deposito (i pochi che tra l'altro continuano a pagare i bolli sui depositi), porta a casa un tasso lordo del 5,4%. Cioè il 4,32% netto, che su 200mila euro si traducono in un incasso mensile di circa 720 euro. Quindi il signor Rossi, al momento, guadagna se si tiene il mutuo a tassi stracciati senza estinguerlo e investe la liquidità su un prodotto teoricamente sicuro come un conto deposito.

Certo, non sarà sempre così: l'Euribor potrebbe rialzare la testa (anche se la politica monetaria Bce lascia presupporre un ulteriore lieve abbassamento), e le banche - meno assetate di liquidità che in passato - stanno abbassando i tassi dei conti deposito, ma al momento uno dei paradossi dell'eurocrisi è questo. Uno strabismo, come nota Marco Liera in un articolo comparso sul Sole 24 Ore, che rappresenta il combinato disposto tra la recessione (che abbassa il costo del debito per chi l'aveva contratto negli anni passati) e l'incertezza sulla solvibilità dell'emittente sovrano Italia (che spinge al rialzo i ritorni sul reddito fisso domestico) determinando questo fenomeno inusuale.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-08-15/ecco-guadagna-crisi-132049.shtml?uuid=AbeompOG
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 20, 2012, 09:51:13 am »

La crescita L'esecutivo punta a semplificare la burocrazia per le aziende

Aiuti per le nuove imprese

Ecco il piano del governo

In un decreto anche le misure per l'agenda digitale La spending review

ROMA - L'agosto terribile sui mercati finanziari non c'è stato. Almeno finora, per fortuna. Ma questo non significa che il governo possa abbassare la guardia e non c'è da stupirsi quindi che ieri il presidente del Consiglio abbia voluto smentire qualsiasi ipotesi di un prossimo abbassamento delle tasse. Mario Monti sta invece studiando i dossier presentati dai singoli ministri sulle cose fatte e quelle da fare, che verranno esaminati nella prossima riunione di governo venerdì 24 agosto. Tre le priorità: rilanciare la crescita, tagliare ancora la spesa pubblica improduttiva, ridurre il debito pubblico.

Sulla crescita l'agenda del ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, ha in programma un decreto legge Sviluppo bis nel quale confluiranno due provvedimenti già in preparazione da tempo, quello sull'agenda digitale e quello per favorire lo start up imprenditoriale, cioè la nascita di nuove aziende.

L'agenda digitale ha come obiettivo l'e-government, cioè la telematizzazione dei rapporti tra pubblica amministrazione e utenti (famiglie e imprese) e più in generale la diffusione dell'economia online. Per questo bisognerà portare, entro il 2013, la copertura della banda larga di base (2 megabit per secondo) al 100% della popolazione e avviare la realizzazione della banda ultra larga (100 megabit) nelle grandi città. Saranno anche previsti sgravi per favorire l'e-commerce, cioè gli acquisti e le transazioni online. Quanto alle misure per le start up, si punta a riunire in un unico fondo le risorse (alcune decine di milioni) attualmente sparse in diverse voci del bilancio pubblico per concentrarle sui progetti migliori. Sia sull'agenda digitale sia sul resto il problema maggiore è quello delle risorse. Servirebbero investimenti massicci mentre al massimo nelle pieghe del bilancio si reperiranno 2-3 miliardi.

Molto atteso dalle imprese è il provvedimento sulle semplificazioni, che tra l'altro sarebbe a costo zero. In questi mesi le associazioni imprenditoriali hanno suggerito al ministero un'ottantina di semplificazioni che coinvolgono procedure, autorizzazioni, concessioni volte a snellire oneri e passaggi burocratici che complicano la vita delle aziende soprattutto in materia ambientale e di mercato del lavoro.
Una spinta alla crescita dovrebbe infine arrivare dal capitolo infrastrutture. Le opere in lista d'attesa per essere sbloccate sono molte. Tra queste gli assi autostradali Orte-Mestre, Benevento-Cancello (Telesina) e Termoli-San Vittore. Entro la fine della legislatura il ministro vorrebbe sbloccare infrastrutture per complessivi 25 miliardi, in buona parte coinvolgendo capitali privati, anche attraverso il nuovo strumento dei project bond.

Completano l'agenda Passera progetti di più lungo periodo e la cui fattibilità è tutta da verificare. C'è il piano nazionale degli aeroporti, per tagliare quelli di piccole dimensioni (ma ci hanno già provato senza successo altri governi) che dovrebbe arrivare entro la fine dell'anno. Tempi lunghi anche per la Strategia energetica nazionale, documento che verrà sottoposto alla consultazione pubblica online e che prevede l'aumento della produzione nazionale di idrocarburi (anche attraverso le trivellazioni in mare) e punta a fare dell'Italia il principale hub per l'ingresso di gas verso l'Europa con la costruzione di rigassificatori, gasdotti di importazione e impianti di stoccaggio.
Sulla revisione della spesa pubblica i tempi saranno invece più veloci. È atteso a settembre il secondo decreto di spending review. Il superconsulente di Monti, Enrico Bondi, ha individuato almeno 10 miliardi di spesa fuori linea negli enti locali. Attraverso la definizione dei costi standard e il potenziamento della Consip (acquisti centralizzati) si dovrebbero ridurre gli sprechi. Obiettivo al quale dovranno concorrere, nei piani del governo, anche il riordino delle agevolazioni fiscali (rapporto Vieri Ceriani) e il taglio degli incentivi alle imprese (rapporto Giavazzi).

Infine, l'attacco al debito pubblico. Il sentiero è stato tracciato dal ministro dell'Economia, Vittorio Grilli: dismissioni per 15-20 miliardi l'anno che, accompagnate a un consistente avanzo primario di bilancio e a una moderata crescita del Pil, ridurranno il debito in linea con gli obiettivi del Fiscal compact, cioè del 3% l'anno. Può funzionare solo a una serie di condizioni, tra le quali la ripresa della crescita e il ritorno della calma sui mercati finanziari, che appaiono ancora lontane. Altrimenti serviranno misure più forti. Per saperlo bisognerà tenere d'occhio tre date: il 6 settembre, la riunione del consiglio direttivo della Banca centrale europea (abbasserà i tassi?); il 12 settembre, quando la Corte costituzionale tedesca deciderà sulla legittimità del fondo salva Stati e del Fiscal compact; il 14-15 settembre, la riunione dei ministri finanziari della zona euro (partiranno i nuovi aiuti alla Spagna? E l'Italia che farà?).

Enrico Marro

17 agosto 2012 | 8:12© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #6 inserito:: Ottobre 10, 2012, 07:32:24 pm »

L'EDITORIALE

Scelte tormentate

La manovra decisa dal governo Monti è fatta con i tagli della spesa. Spesso simbolici ma sempre utili


Non è una stangata vecchia maniera. E meno male, perché il Paese non l'avrebbe sopportata. Quella decisa nella notte dal governo è una manovra fatta in gran parte con tagli della spesa. E verrà ridotta l'Irpef, anche se l'Iva aumenterà di un punto. Proprio ieri l'Istat ha certificato che la capacità di acquisto delle famiglie è scesa al minimo dal 2000 e quella di risparmio ha anch'essa toccato il fondo. L'economia italiana ha davanti una montagna da scalare. Per la ripresa bisognerà aspettare il 2014, ha confermato sempre ieri il Fondo monetario internazionale. A maggior ragione non è stato serio lo spettacolo al quale hanno assistito ieri sera milioni di telespettatori con il sottosegretario all'Economia, Gianfranco Polillo, che va a Ballarò e annuncia, mentre è ancora in corso il Consiglio dei ministri, il taglio dell'Irpef e Palazzo Chigi che, poco dopo, smentisce categoricamente, salvo poi prendere per fortuna altre decisioni.

In questo contesto arriva una manovra che ha la forte impronta di Enrico Bondi, il commissario per la revisione della spesa pubblica voluto dal presidente del Consiglio. Grazie a lui la spending review è passata dalle discussioni accademiche alle misure concrete. Ecco allora il giro di vite sulle consulenze, il blocco degli acquisti di immobili da parte delle pubbliche amministrazioni, il divieto di comprare o affittare altre auto blu fino alla fine del 2014 (e ci mancherebbe!), le disposizioni per lo spegnimento delle luci negli uffici pubblici la notte (ma non ci si poteva pensare prima?) e perfino dei lampioni, dove possibile. Talvolta misure simboliche, ma sempre utili. Così come è giusto che Monti abbia scelto la linea dura sulla riscossione delle multe per le quote latte, richiamando in campo Equitalia. Un atto doveroso nei confronti degli allevatori onesti.

E ci voleva anche l'adesione alla Tobin tax, la tassa sulle transazioni finanziarie. Con la scelta dell'Italia sono infatti 11 i Paesi europei favorevoli e ciò può aiutare a vincere resistenze di bottega come quelle del Regno Unito. Se siamo tutti d'accordo che un eccesso di finanza ha arricchito solo gli speculatori e precipitato nella crisi gli Stati e le famiglie, non si vede perché il Fisco dovrebbe voltarsi dall'altra parte. Infine, non è molto, ma può aiutare, lo stanziamento di 1,6 miliardi per detassare il salario di produttività.

Restano i punti dolenti. Tagliare un altro miliardo e mezzo alla Sanità può avere un senso solo se si tratta di sprechi, ma chi ce lo garantisce con queste Regioni? Non è che finirà con nuove addizionali e ticket o con liste d'attesa più lunghe in ospedali e ambulatori? Attenzione anche al riordino delle agevolazioni fiscali, per non colpire i più deboli. Sappiamo inoltre che il decreto Bondi di luglio sta incontrando mille resistenze, sul taglio delle Province e dei dipendenti pubblici. Anche le misure di ieri richiedono una miriade di provvedimenti applicativi. Gli inciampi si nascondono nei dettagli. Vedremo quante decisioni incideranno davvero e quante invece rimarranno sulla carta. Intanto prendiamoci il taglio dell'Irpef e proviamo a ripartire.

Enrico Marro

10 ottobre 2012 | 7:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_10/scelte-tormentate-marro_a6605200-1297-11e2-9375-5d5e6dfabc1a.shtml
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« Risposta #7 inserito:: Ottobre 19, 2012, 06:12:30 pm »

Spesa pubblica da rivedere

Che fine hanno fatto i tagli di Bondi?

Monti è stato così contento della spending review che ha chiesto al supercommissario di andare avanti


Enrico Bondi tutte le mattine arriva nel suo ufficio al primo piano del ministero dell'Economia alle 8.30 e va via dopo circa 12 ore, ma pochissimi sanno quello che fa. Lo sa ovviamente il presidente del Consiglio, Mario Monti, che a questo anziano manager, che venerdì compirà 78 anni, ha affidato il compito di risanare l'azienda Italia, dopo aver rimesso a posto Montedison e Parmalat.

Monti è stato così contento della prima operazionedi revisione della spesa pubblica, la cosiddetta spending review, varata su proposta dello stesso Bondi il 5 luglio, che ha chiesto al supercommissario di andare avanti. Dopo aver tagliato gli sprechi negli acquisti pubblici di beni e servizi, aver disposto la riduzione dei dipendenti pubblici, quella delle Province, il taglio delle auto blu, e quello dei consigli di amministrazione delle società pubbliche, Bondi dovrebbe proseguire a caccia di altri risparmi, dopo i 26 miliardi di euro individuati per il triennio 2012-2014. I nuovi provvedimenti arriveranno, a metà ottobre, con la legge di Stabilità, quella che una volta si chiamava Finanziaria. Intanto però, Monti, Bondi e gli altri ministri interessati sono alle prese con le mille difficoltà che sta attraversando il processo di attuazione del provvedimento di luglio. Difficoltà inevitabili, se si pensa che il decreto legge 95 prevedeva circa cento provvedimenti applicativi fra regolamenti, circolari, direttive, decreti ministeriali e interministeriali. Ma il fatto è che stanno emergendo non solo ostacoli procedurali, ma resistenze di ogni genere.

Prendiamo il taglio dei dipendenti pubblici: del 20% per quanto riguarda i dirigenti, del 10% per il restante personale. La norma interessa i ministeri e tutte le altre amministrazioni centrali e gli enti pubblici non economici. La circolare del ministro della Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, prevedeva che tutti questi soggetti dovessero inviare le loro proposte di taglio entro il 28 settembre se sono enti o agenzie - cioè avrebbero dovuto farlo al massimo l'altro ieri -, oppure entro giovedì prossimo negli altri casi. Al ministero sono ottimisti, dicono che «i moduli stanno arrivando» ma intanto hanno convocato per domani mattina a Palazzo Vidoni i capi del personale di tutte le amministrazioni interessate. Cercheranno di convincerli non solo a far presto, ma anche che devono proporre tagli superiori alle soglie indicate dalla legge, altrimenti non saranno possibili le «compensazioni» tra un ufficio e l'altro, cioè quegli aggiustamenti (spostamenti e mobilità) finalizzati a evitare tagli lineari e licenziamenti.

Ma i desiderata del governo si scontrano già con i problemi sollevati formalmente da alcune amministrazioni di prima grandezza. Per esempio, l'Inps. Il presidente dell'istituto di previdenza, Antonio Mastrapasqua, ha scritto una lettera al ministro Patroni Griffi chiedendogli senza tanti giri di parole di «non ricomprendere l'Inps nell'ambito della riduzione delle dotazioni organiche». Altrimenti verrebbe messa a repentaglio la «tenuta dei servizi e, nel complesso, dell'efficienza del Welfare del Paese». Negli ultimi 15 anni, conclude Mastrapasqua, i dipendenti dell'Inps sono già diminuiti da 42 mila a meno di 27 mila. Ora è vero che con l'incorporazione di Inpdap ed Enpals il SuperInps avrà 34 mila dipendenti ma è pur sempre la metà, dice il presidente, rispetto ai 70 mila del superInps tedesco e un terzo nei confronti dei cugini francesi.
Dal centro alla periferia, le resistenze, se possibile, aumentano. Il caso eclatante è quello delle 107 Province. La legge ne prevede il dimezzamento, ma sono le Regioni, anche qui, a dover proporre l'accorpamento tra gli enti presenti nel loro territorio. E anche qui c'è un termine, che scadrà fra appena tre giorni, mercoledì 3 ottobre, assegnato ai Consigli delle autonomie locali, e uno appena più in là, il 23 ottobre, per le proposte finali delle Regioni. Bene, pure in questo caso, vista l'aria che tira, Patroni Griffi ha dovuto fare la voce grossa e in un doppio incontro che ha avuto con i governatori e con l'Upi, l'unione delle province, ha avvertito tutti che se le proposte non arriveranno, il governo procederà d'ufficio, se necessario anche con un decreto legge. Vedremo.

Monti e Bondi comunque guardano avanti. Il governo ha individuato almeno altri tre campi sui quali intervenire per ridurre ancora la spesa pubblica improduttiva: gli incentivi alle imprese, dove ha chiesto una consulenza all'economista Francesco Giavazzi, i costi della politica, dove si è rivolto all'ex premier Giuliano Amato, la giungla delle agevolazioni fiscali, già censite a suo tempo in oltre 720 per un valore di 260 miliardi dal sottosegretario Vieri Ceriani. Il nuovo pacchetto di misure di riduzione della spesa pubblica ha un obiettivo minimo: trovare circa 6 miliardi e mezzo di euro per evitare che dal primo luglio 2013 le aliquote Iva del 10% e del 21% aumentino di due punti.
L'operazione è complicata su tutti e tre i fronti. Per quanto riguarda gli incentivi alle imprese, i tagli sui quali si lavora non ammontano ai 10 miliardi suggeriti da Giavazzi, ma a 2-2,5 miliardi, ai quali si potrebbero sommare altrettanti risparmi eliminando parte degli incentivi regionali, ma qui il governo non può intervenire direttamente a causa dell'autonomia concessa in materia dal titolo V della Costituzione. Quanto alle agevolazioni fiscali, buona parte sono intoccabili perché si tratta di detrazioni familiari e per spese mediche. Infine, i costi della politica. Qui ci sono ampi margini. Il governo comincerà a intervenire già giovedì con un decreto legge taglia costi e taglia poltrone (vedi articolo sopra). L'importante è che poi vada avanti.

Enrico Marro

30 settembre 2012 | 22:02© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_settembre_30/bondi-tagli_a6bdea70-0b38-11e2-a8fc-5291cd90e2f2.shtml
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« Risposta #8 inserito:: Novembre 03, 2012, 12:00:21 pm »

La voce dei prestiti potrebbe essere eliminata dal conteggio dei 3.000 euro

Mutui prima casa e spese mediche

Rivisti il tetto e la franchigia di 250 euro

Legge di Stabilità, i relatori lavorano all'aumento delle detrazioni


ROMA - Ci saranno più detrazioni sul lavoro dipendente e sui carichi familiari, ma sarà rivista anche la stretta sugli sgravi: non solo non ci sarà più la retroattività (il nuovo regime scatterà infatti nel 2013 e non più nel 2012) ma si interverrà anche nel merito della manovra su detrazioni e deduzioni. L'obiettivo è di togliere alcune voci dal tetto di 3mila euro, in particolare gli interessi passivi del mutuo. Ma anche di rivedere la franchigia di 250 euro, a partire dalle spese mediche, che potrebbero essere escluse oppure considerate nel loro insieme anziché per singola ricevuta. È possibile anche un aumento delle risorse per detassare il salario di produttività.

Sono queste le ultime novità che emergono dalla discussione in corso tra i relatori di maggioranza alla Legge di Stabilità, Renato Brunetta (Pdl), Pier Paolo Baretta (Pd) e Amedeo Ciccanti (Udc), in vista delle modifiche alla manovra che gli stessi presenteranno la prossima settimana, dopo l'intesa raggiunta mercoledì scorso con il ministro dell'Economia, Vittorio Grilli.

I paradossi della franchigia
Sul togliere le spese per i mutui dal tetto di 3 mila euro c'è un largo consenso, tanto più che essendo questo limite valido per l'insieme delle spese detraibili, chi ha un mutuo fa presto a raggiungere i 570 euro sottraibili dall'imposta (il 19% di 3mila euro) e non può quindi detrarre nient'altro. Ma anche sulla franchigia la volontà di intervenire è forte. Spiega Baretta: «Sarebbe meglio escluderla per le spese sanitarie. La norma della legge di Stabilità va sicuramente rivista perché produce effetti paradossali in quanto la franchigia si applica a ogni singola spesa». Questo significa, continua il relatore, che se una persona sostiene molte spese mediche e farmaceutiche durante l'anno ma nessuna di queste singolarmente supera i 250 euro, non può portare in detrazione nulla, anche se ha speso molte migliaia di euro. Al contrario un'altra persona che in un anno ha una sola ricevuta, poniamo di 400 euro per una prestazione specialistica, può detrarre dall'imposta il 19% della quota eccedente 250 euro, quindi in questo caso 28,5 euro (il 19% di 150 euro).

Migliora il fabbisogno
Ovviamente tutte queste modifiche dovranno fare i conti con le coperture finanziarie necessarie. Infatti, il governo ha posto un limite invalicabile: gli emendamenti non devono cambiare i saldi della manovra, che dovrà quindi sempre assicurare il pareggio di bilancio nel 2013. In questo senso, buone notizie sono arrivate ieri dalla rilevazione sul fabbisogno di ottobre. Anche se nel mese è aumentato (13,1 miliardi rispetto a 1,9 miliardi dell'ottobre 2011), nei primi dieci mesi del 2012 il fabbisogno complessivo è migliorato, scendendo a 58,5 miliardi rispetto ai 60,9 miliardi dello stesso periodo dell'anno scorso. Un andamento, commenta il ministero dell'Economia, «coerente con il trend ipotizzato per il raggiungimento dell'obiettivo annuo». Le entrate vanno bene, dice il Tesoro, e «si evidenziano minori pagamenti di interessi sul debito pubblico». Il dato negativo di ottobre è invece condizionato dall'«erogazione di 5,7 miliardi a favore dell' European Stability Mechanism (Esm)», il cosiddetto fondo salva Stati, e dal «venir meno dell'introito di circa 2,8 miliardi» realizzato un anno fa con l'asta delle frequenze 4g (banda larga).

Il nodo delle coperture
Ma torniamo alla legge di Stabilità. Con l'abbandono del disegno iniziale, che prevedeva il taglio di un punto delle prime due aliquote Irpef sui redditi fino a 28 mila euro, si liberano risorse nel 2013 per 4,3 miliardi circa. Quasi 1,2 devono però essere destinati a coprire il mancato aumento di un punto dell'aliquota Iva al 10% dal prossimo mese di luglio. Inoltre, per eliminare la retroattività  al 2012 della stretta su deduzioni e detrazioni serve poco più di un miliardo. Dei 4,3 miliardi ne restano quindi circa 2. Secondo l'intesa di massima tra maggioranza e governo, dovrebbero essere destinati in particolare alla riduzione del cuneo fiscale, cioè la differenza tra il costo del lavoro per l'impresa e il salario netto che va al lavoratore. Ma se si interverrà anche per mitigare la stretta a base di tetti e franchigie, che, al netto della retroattività, vale un miliardo, il tesoretto per tagliare il cuneo si alleggerirà di conseguenza.

Meno detrazioni
Appare molto probabile un aumento delle detrazioni sul lavoro dipendente. Oggi, quella base, pari a 1.840 euro per chi ne dichiara non più di 8mila, si riduce progressivamente fino ad annullarsi per chi ha redditi superiori a 55mila euro l'anno. L'incremento di questo sgravio sta particolarmente a cuore al Pd. Ma si interverrà anche sui carichi familiari, cavallo di battaglia dei centristi. La detrazione sui figli oggi è al massimo di 900 euro (mille per i disabili), anche qui decrescente, fino a scomparire per chi guadagna più di 95mila euro (110mila con due figli). Quella sul coniuge, 800 euro di base, si annulla sopra gli 80mila euro. Di quanto saliranno queste detrazioni? Dipende appunto da quanto dei due miliardi a disposizione per il 2013 si utilizzerà per questo scopo e da quanto verrà invece destinato a modificare franchigie e tetti, come vorrebbe Baretta, oppure a rafforzare la dote per la detassazione del salario di produttività, come invece propone Brunetta. Il relatore del Pdl chiede addirittura di raddoppiare lo stanziamento del governo (1,2 miliardi nel 2013 e 400 milioni nel 2014). In particolare sul 2014 sembrerebbe esserci spazio. E sempre nel 2014 dovrebbero arrivare sgravi per le imprese, forse sull'Irap.

Esodati
Oltre alle modifiche che riguardano l'impianto della manovra restano numerose questioni collaterali da risolvere. Per esempio, trovare nuove risorse per gli esodati, i lavoratori che dopo la riforma delle pensioni rischiano di trovarsi nei prossimi mesi senza lavoro e senza pensione. Giuliano Cazzola (Pdl) propone «un contributo di solidarietà sulle baby pensioni a valere sulla quota eccedente il trattamento minimo. Si tratta di una platea di circa 500mila persone per una spesa annua di oltre 9 miliardi. Così la copertura per la tutela degli esodati resterebbe nell'ambito del sistema pensionistico e avrebbe un segno di equità». Intanto, il capogruppo Pdl al Senato, Maurizio Gasparri, avverte il governo: «Se non si correggono i tagli agli organici delle forze di polizia la legge di Stabilità non è votabile. Così come, senza modifiche, finirà nel cestino il regolamento sulle pensioni del comparto sicurezza-difesa», quello approvato di recente dal consiglio dei ministri che prevede un piccolo e graduale aumento dell'età pensionabile, da 60 a 62 anni.

Enrico Marro

3 novembre 2012 | 8:11© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_novembre_03/legge-stabilita-detrazioni-mutui-sanita_41bb8c98-257f-11e2-a01c-141eb51207fd.shtml
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 03, 2013, 05:43:11 pm »

TOTALMENTE DISATTESO L'ESITO DEL REFERENDUM ABROGATIVO PROMOSSO 20 ANNI FA DAI RADICALI

Un «tesoro» da centinaia di milioni cresciuto di dieci volte in 14 anni

Il picco nel 2008: 503 milioni a fronte di 110 di spese. Dopo il taglio dl 2012 ai partiti toccano 159 milioni di euro



ROMA - E pensare che se solo si fosse rispettata la volontà degli elettori, il finanziamento pubblico ai partiti non esisterebbe più da 20 anni, da quando cioè più di 34 milioni e mezzo di italiani dissero di sì al referendum abrogativo promosso dal partito radicale di Marco Pannella. Invece stiamo ancora parlando di come eliminare il finanziamento. Anzi l'argomento non è mai stato vivo come ora mentre, paradossalmente, ad essere scomparsi, almeno dal Parlamento, sono proprio i radicali. Adesso quella loro antica battaglia è diventata di nuovo di massa grazie al Movimento 5 stelle di Beppe Grillo, che ieri ha annunciato la rinuncia alla propria quota di rimborsi per le elezioni appena tenute, 42,7 milioni di euro, in attesa di ottenere, nel nuovo Parlamento, una legge che abolisca per tutti i partiti i finanziamenti elettorali. Finora si è trattato di quasi 200 milioni di euro l'anno, considerando i rimborsi per tutte le elezioni - politiche, europee e regionali - che vengono incassati appunto in rate annuali. Ora, dopo la riforma dello scorso luglio, questa cifra si è all'incirca dimezzata. E per le sole elezioni politiche del 24 e 25 febbraio la torta che i partiti dovrebbero spartirsi durante la legislatura ammonta, secondo l'Ansa, a 159 milioni. Una somma che verrà ripartita proporzionalmente ai voti presi.
Ma perché il finanziamento c'è ancora? Perché, nonostante il 90,3% di sì al referendum del 1993, i partiti di allora si inventano un sotterfugio per farlo rinascere, attraverso appunto i rimborsi elettorali o meglio il «contributo per le spese elettorali», come lo definisce la legge 515 del 10 dicembre 1993. Del resto, il ragionamento che fanno allora tutti i partiti, radicali esclusi ovviamente, è che il voto è stato condizionato dal clima di protesta dovuto a Tangentopoli e che se la politica non deve essere appannaggio solo dei ricchi una qualche forma di finanziamento è necessaria. E pazienza se gli elettori non sono d'accordo, col tempo capiranno. Non è andata così. L'indignazione popolare è cresciuta di pari passo con l'entità dei rimborsi.

Calcolando tutto in euro (fino al 2001 c'era la lira), si è infatti passati, considerando solo i rimborsi per le elezioni politiche, dai 47 milioni di contributi erogati complessivamente ai partiti per le politiche del 1994 agli oltre 500 milioni previsti per le consultazioni del 2008. La spesa a carico dei contribuenti si è insomma decuplicata in 14 anni. Ma soprattutto è aumentato il divario tra il contributo e quanto effettivamente speso. Se nel 1994 a fronte dei 47 milioni incassati le spese documentate erano state di 36 milioni, nel 2008 il rapporto era di quasi cinque a uno: 503 milioni di rimborsi previsti a fronte di 110 milioni di spese. Un meccanismo illogico e indifendibile. Che gli stessi partiti, senza vergogna, hanno perfezionato negli anni. E così nel 1999 con la legge 157 il contributo viene sganciato dalle spese sostenute e ritorna a tutti gli effetti un finanziamento alimentato da un fondo per le politiche di quasi 200 milioni di euro per la legislatura.

Ma non passano neppure tre anni e nel 2002 l'ingordigia dei partiti si sfoga nella legge 156 che più che raddoppia il fondo, portandolo a 469 milioni, e nell'abbassamento dal 4% all'1% della soglia di voti da prendere alle elezioni per accedere al bottino. Il risultato sarà un altro dei tanti intollerabili paradossi di questa storia: che anche i partiti che non entrano alla Camera perché non superano la soglia di sbarramento del 4% prevista dalla legge elettorale, accedono ugualmente ai rimborsi purché abbiano preso almeno l'1%. Ma la ciliegina finale arriverà nel 2006 quando con la legge 51 si stabilirà addirittura che i soldi sono dovuti per l'intero ammontare previsto dal fondo anche se la legislatura finisce anticipatamente. Prima invece le rate annuali si interrompevano in caso di elezioni anticipate. Succede così che, dal 2008, a causa della brusca fine della quindicesima legislatura (governo Prodi), i partiti mentre cominciano a prendere le rate del rimborso delle politiche di quell'anno continuino a riscuotere anche le rate della legislatura precedente che doveva finire tre anni dopo. Doppio rimborso, insomma. Un'enormità davanti alla quale gli stessi partiti si rendono conto che conviene tornare indietro e la norma infatti viene presto cancellata.

Ci sono però voluti gli scandali che nel 2012 hanno colpito i tesorieri della Margherita e della Lega e le spese folli che sono venute fuori anche alla Regione Lazio per riaprire il dibattito. E arrivare a una prima risposta con una legge approvata il 5 luglio: taglio del 50% dei rimborsi ai partiti. Dai previsti 182 milioni incassati nel 2011 sommando le rate dei rimborsi elettorali (politiche, europee, regionali) si passa a 91 milioni dal 2012. Il 70% di questi saranno erogazioni ricevute direttamente dallo Stato (63,7 milioni), il 30% (27,3 milioni) «cofinanziamenti»: in pratica per ogni euro di contributi privati ricevuti da persone fisiche o enti i partiti avranno anche 50 centesimi dallo Stato. Diventa obbligatoria la certificazione dei bilanci; viene istituita una Commissione di controllo formata da 5 magistrati designati dai presidenti della Corte dei Conti, della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato; i conti dei partiti devono essere pubblicati in Internet; sono previste dure sanzioni per chi viola le regole; la soglia oltre la quale le donazioni private devono essere dichiarate scende da 50 mila a 5 mila euro. Per avere i contributi bisogna avere almeno un eletto in Parlamento.

Pensavano di aver fatto abbastanza i partiti questa volta. I 163 milioni che si risparmieranno nel 2012 e nel 2013 andranno ai terremotati, si vantavano. E il Pd sul suo sito spiegava che i 91 milioni di contributi previsti per il 2012 per tutti i partiti equivalgono a 1,5 euro per italiano contro i 2,4 che vengono dati in Francia e i 5,6 in Germania. Solo che accanto ai rimborsi elettorali andrebbero conteggiati anche i contributi ai gruppi parlamentari erogati dai bilanci di Camera e Senato, fino al 2011 circa 75 milioni l'anno, e i finanziamenti ai giornali di partito, una cinquantina di milioni l'anno. E questo senza contare tutti i finanziamenti a livello regionale, altri 75 milioni circa l'anno, prima delle ultime riforme. Un sistema che non poteva andare avanti se anche un vecchio comunista come Ugo Sposetti, strenuo difensore del finanziamento pubblico, giusto un anno fa, davanti al moltiplicarsi degli scandali, diceva all'Espresso: «L'indignazione dei cittadini ci metterà tutti sullo stesso piano. E ci spedirà a casa tutti. Tra sei mesi». Sulla data è stato precipitoso, ma sul resto ci è andato molto vicino.

Enrico Marro

13 marzo 2013 | 11:22
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da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_03/un-tesoro-da-centinaia-di-milioni-cresciuto-di-dieci-volte-in-14-anni-enrico-marro_57d97ff0-83c4-11e2-9582-bc92fde137a8.shtml
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« Risposta #10 inserito:: Maggio 27, 2013, 04:56:06 pm »

Duello sull'energia

Barilla: Confindustria cambi Squinzi: ma senza distruggere

Conti: per Enel nessun conflitto d'interessi


ROMA - Scintille in Confindustria tra Guido Barilla, presidente dell'omonimo gruppo alimentare, e i vertici dell'associazione di rappresentanza degli imprenditori. Confindustria «potrebbe essere facilmente assimilata a quel mondo politico e istituzionale che tanto critichiamo», ha detto mercoledì Barilla intervenendo all'assemblea privata, alla vigilia dell'assemblea pubblica di oggi, dove oltre al presidente Giorgio Squinzi parleranno il presidente del Consiglio, Enrico Letta, e il ministro dello Sviluppo, Flavio Zanonato. L'uscita di Barilla non ha colto di sorpresa i colleghi, che già mercoledì mattina avevano potuto leggere un'intervista dello stesso imprenditore al quotidiano La Stampa, molto critica verso la Confindustria: «Nata per sostenere le imprese di prodotto è diventata rappresentante anche di interessi contrastanti, come quelli delle aziende di servizi alle imprese e delle utilities inciampando in un continuo e concreto conflitto d'interesse». Nel mirino di Barilla le aziende di servizi, come l'energia, altrimenti Confindustria «non può battersi sui prezzi» perché rappresenta anche le società che di questi prezzi beneficiano.

Nell'assemblea privata il presidente del gruppo alimentare ha allargato il discorso: «Abbiamo perso di vista la visione generale e d'insieme del nostro ruolo, finendo per essere corresponsabili della crisi del nostro Paese». Per questo, ha concluso, è «necessaria e urgente» una «rigenerazione».
A Barilla ha subito replicato il vicepresidente della Confindustria, Fulvio Conti, che è anche amministratore delegato dell'Enel: «Non c'è alcun conflitto d'interessi. Barilla ha per caso un conflitto di interesse con chi gli fornisce la farina? Ha semplicemente un fornitore che gli fornisce un materiale. Il nostro costo dell'energia è equivalente a quello di altri Paesi, la differenza in più che viene dalle tasse, imposte e sussidi alle rinnovabili».

Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi (Imagoeconomica)Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi (Imagoeconomica)
Per mediare è intervenuto il presidente Squinzi che, nell'assemblea privata, è ricorso a una battuta efficace: «Faccio collanti, sono abituato a tenere insieme i pezzi. Anche le divergenze vanno bene, ci si confronta per trovare una sintesi». Squinzi ha quindi confermato che la commissione Pesenti da lui nominata sta lavorando a una riforma della Confindustria che «dovrà interpretare la forte esigenza di modernizzazione». «Abbiamo avuto - ha concluso - solo una minima flessione delle associate dello 0,6% ma la domanda di adesione è rimasta alta, nonostante la crisi». Ieri l'assemblea ha approvato all'unanimità il bilancio 2012 dell'associazione, dice una nota, chiuso in «sostanziale pareggio», con un risultato positivo della gestione operativa e finanziaria di 91.303 euro. Risultato raggiunto grazie anche al taglio del 3,3% della spesa per consulenze, del 6,1% di quella per telecomunicazioni, del 5,1% delle uscite per acquisti di beni e servizi e del 5,6% delle erogazioni ad enti. L'assemblea privata ha anche rinnovato il 40% dei membri della giunta, il parlamentino di Confindustria, che conta 190 persone. Entrano tra gli altri (56 le new entry) Francesco Gaetano Caltagirone, Marco Patuano (Telecom), Chicco Testa (Confindustria energia), Lamberto Vallino Gancia (Federvini), Daniel Lapeyere (Sanofi Aventis).

Enrico Marro

23 maggio 2013 | 12:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_maggio_23/barilla-confindustria-squinzi_3b865e4e-c394-11e2-8072-09f5b2e9767e.shtml
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« Risposta #11 inserito:: Giugno 19, 2013, 11:59:22 am »

OTTANTA ARTICOLI E QUALCHE DIFETTO

Buona volontà e vecchi riflessi

Ottanta articoli «per gli italiani che vogliono fare», dice il presidente del Consiglio Enrico Letta. Col provvedimento approvato sabato il governo prova a invertire le aspettative, superando la fase dei sacrifici acuti che ha caratterizzato il «montismo». Le aspettative sono importanti, ma il decreto «del fare» è solo un primo passo. Ora ci vuole che il Parlamento lo approvi rapidamente, che le imprese facciano la loro parte e che l'esecutivo affronti con coraggio il taglio della spesa e la lotta all'evasione.

Le misure più importanti del decreto sono indirizzate agli imprenditori. I 5 miliardi della Cassa depositi per i prestiti agevolati; il potenziamento del fondo di garanzia; l'alleggerimento del costo dell'energia; i tre miliardi spostati sulle infrastrutture comunali; l'allentamento della morsa di Equitalia e il piano per smaltire un milione di cause civili prefigurano un ambiente meno ostile all'impresa. Che si spera venga colto. Anche le famiglie, con più difficoltà, possono trovare qualcosa di buono: dalle bollette che si ridurranno (ma prima vediamo di quanto) alle borse di studio per gli studenti fuori sede. Oggettivamente segnali modesti, in attesa delle decisioni che il governo deve ancora prendere su Iva, Imu e occupazione giovanile, cruciali per stabilire se l'esecutivo Letta sarà capace di una manovra a tutto tondo per la crescita.

Il decreto varato venerdì è la dimostrazione che si possono prendere decisioni utili senza dover ricorrere per forza a manovre lacrime e sangue. E ciò è buono per far tornare un clima di fiducia e ottimismo. Ora però è auspicabile continuare con coerenza e trovare le risorse, questa volta denari sonanti, per le scelte più difficili. Servono svariati miliardi per sciogliere tre nodi ineludibili: l'Iva, l'Imu e gli incentivi alle assunzioni dei giovani. Poiché non ci sono i soldi per far tutto, bisogna partire dalle cose più urgenti. In questo senso, un rinvio sull'Iva, spostando di qualche mese l'aumento dal 21 al 22%, consentirebbe intanto di investire sul lavoro, priorità fra l'altro in linea col percorso cominciato venerdì, e di cercare le risorse per la riforma del prelievo sulla casa. Come hanno scritto Alesina e Giavazzi sul Corriere , ogni anno lo Stato spende 350 miliardi di euro, al netto delle pensioni: possibile che non si riesca a trovare qualche miliardo per coprire Iva e Imu? Possibile se il Tesoro continua ad essere sommerso da richieste dei partiti di nuove e ingenti spese da coprire «in qualche modo», mai con tagli di spesa e spesso con nuove e improbabili tasse: sulle sigarette, gli alcolici, i giochi e via dicendo. Del resto, anche la copertura degli ecobonus è stata alla fine trovata aumentando alcune aliquote agevolate dell'Iva. Si rischia così di perdere l'occasione unica di un governo di larghissima maggioranza per affondare il coltello negli sprechi della spesa pubblica.

Una considerazione analoga si può fare anche dal lato delle entrate. Sappiamo che ogni anno ci sono almeno 120-150 miliardi di euro di tasse evase. Possibile che non si riesca a recuperarne 4-6-8 in più di quanto fatto finora? Il CorrierEconomia spiega che ci sono 129 banche dati che se fossero incrociate tra loro permetterebbero una lotta più efficace all'evasione. A chi paga le tasse interessa certo che il fisco sia amico, ma anche che faccia pagare chi finora non lo ha fatto. Sono anni che non si va oltre 10-12 miliardi di maggiori entrate da lotta all'evasione. Quanti ne incasseremo nel 2014 grazie al fisco amico?

ENRICO MARRO

17 giugno 2013 | 10:23© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_17/buona-volonta-vecchi-riflessi-marro_218f00ca-d70f-11e2-a4df-7eff8733b462.shtml
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« Risposta #12 inserito:: Agosto 19, 2013, 07:24:09 pm »

Soluzione ponte e riforma delle imposte

Imu: service tax e prima rata cancellata

Il Tesoro cerca risorse per 2,4 miliardi per evitare il pagamento di settembre


ROMA - Il rompicapo dell'Imu ruota attorno alle coperture. Per ora l'unica disponibilità data dal ministero dell'Economia è sulle risorse per abolire la prima rata del 2013, quella che si doveva pagare a giugno e che è stata rinviata al 16 settembre. Col decreto che il governo approverà probabilmente nell'ultimo consiglio dei ministri di agosto si stabilirà, in un modo o nell'altro, che quella rata, appunto, non è più dovuta. Per fare questo l'Economia sta cercando una copertura di 2,4 miliardi, pari al mancato gettito della prima rata dell'Imu sulla prima casa e sui terreni agricoli. Benché si tratti di una copertura una tantum, spiegano al Tesoro, i tecnici stanno faticando a trovarla, stando attenti a evitare aumenti delle entrate, altrimenti per i contribuenti sarebbe fin troppo facile concludere che mentre risparmiano da una parte pagano di più da un'altra. Insomma, una presa in giro. Ma la questione si complica maledettamente quando si passa a esaminare il destino della parte restante dell'Imu 2013 sulla prima casa e che cosa fare dal 2014, tenendo conto che il gettito annuo dell'imposta sull'abitazione principale è di circa 4 miliardi.

DUE DOMANDE - In altri termini, le due domande che non hanno ancora una risposta sono:
1) Nel 2013 l'Imu sulla prima casa non si pagherà per nulla o solo per metà?
2) Dal 2014, quando l'Imu dovrebbe essere sostituita con una nuova imposta, sulla prima casa si pagherà ancora?
Le risposte non ci sono perché finora non è stato trovato un accordo nella maggioranza tra il Pdl, che chiede di abolire del tutto il prelievo sulla prima casa a partire da quest'anno, e il Pd, che propone una rimodulazione dell'imposta che esenterebbe dal pagamento i redditi medio bassi. Potrebbe essere una riunione della cabina di regia al massimo livello politico, probabilmente la prossima settimana a Palazzo Chigi, ad affrontare la questione. Ma ancora una volta decisivi saranno i costi della riforma. Non a caso, dall'Economia, il sottosegretario Pier Paolo Baretta avverte: «Se qualcuno pensa che si possa cancellare completamente l'Imu sulla prima casa nel 2013 e trascinarsi questa manovra nella riforma strutturale, allora deve dire come copre i 4 miliardi di mancato gettito per quest'anno e i 4 che servirebbero dal 2014 in poi».

IPOTESI - Al Tesoro ritengono che questa sia un'ipotesi irrealistica e lavorano a soluzioni di compromesso sulla scia del dossier tecnico diffuso il 7 agosto che individua nove diverse vie d'uscita mettendone in risalto pregi e difetti. L'idea principale è quella della cosiddetta Service tax, una nuova imposta che, nella sostanza, metterebbe insieme l'Imu e la Tares cioè la rinnovata tassa sui rifiuti (più cara delle precedenti). Sarebbero poi i Comuni a decidere come modularla fino al punto, se vogliono, di non applicarla alla prima casa. Per fare questo sarebbero agevolati dal fatto che lo Stato, con la riforma, aumenterebbe di due miliardi l'anno i trasferimenti agli enti locali.

SERVICE TAX - Se la Service tax partisse quest'anno con un pagamento a dicembre, formalmente l'Imu sarebbe cancellata, ma non è detto che tutti i proprietari di prima casa non pagherebbero più nulla. Per loro, infatti, il 2013 si concluderebbe certamente col fatto di non aver pagato l'Imu mentre l'eventuale versamento della nuova imposta a dicembre dipenderebbe dalle decisioni del Comune dove si trova l'immobile. In questo schema servirebbe una copertura una tantum di 2 miliardi quest'anno e di 2 miliardi strutturale dal 2014, che dovrebbero essere trovati soprattutto sul versante della spending review, cioè con tagli della spesa improduttiva. Se invece la nuova tassa debuttasse l'anno prossimo, la copertura da trovare per quest'anno salirebbe a 4 miliardi. Decisamente troppi per il Tesoro, tenendo conto che bisognerebbe reperire anche le risorse per evitare l'aumento dell'Iva a ottobre (un miliardo), per rifinanziare la cassa integrazione in deroga e per tagliare il cuneo fiscale sul lavoro.

17 agosto 2013 | 10:53
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Enrico Marro

da - http://www.corriere.it/economia/13_agosto_17/imu-service-tax-e-prima-rata-cancellata-enrico-marro_5ef1a474-06f6-11e3-9c6f-1ce18bc58c39.shtml
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« Risposta #13 inserito:: Agosto 29, 2013, 04:30:36 pm »

Scelta civica: «Cedimento pericoloso del premier alle richieste del Pdl»

Letta: ora il governo non ha più scadenza

Berlusconi: rispettati i patti. Epifani soddisfatto, la Cgil no. Dai ministri del Pdl una nota per ringraziare il Cavaliere



ROMA - «Adesso possiamo guardare al futuro con molta maggiore fiducia». Un Enrico Letta in maniche di camicia, affiancato dal vicepremier Angelino Alfano e da mezza squadra di governo, scesa in sala stampa per spiegare le decisioni prese sull'Imu e sul resto, ostenta a tal punto la sua soddisfazione che, quando gli chiedono quanto andrà avanti l'esecutivo, risponde: «La giornata di oggi credo possa far finalmente finire le domande sulla durata del governo. Non c'è più scadenza».

Sono le 19.30, il Consiglio dei ministri è finito prima del previsto e ha approvato un pacchetto di misure che vanno dall'abolizione dell'Imu sulla prima casa al rifinanziamento della cassa integrazione in deroga, dal piano casa alla salvaguardia di altri 6.500 lavoratori esodati. Un lavoro «equilibrato», dice Letta, che va incontro alle richieste del Pdl e del Pd. «È una vittoria del governo, non del Pdl».

Il presidente del consiglio raccoglie l'approvazione di Alfano: «Faccio fatica a nascondere la mia soddisfazione, gli italiani dovevano pagare una tassa e non la pagheranno», esordisce in conferenza stampa. E subito dopo arrivano le parole del leader del Pdl, Silvio Berlusconi: «Promesso. Realizzato. Sull'Imu sulla prima casa e sui terreni e fabbricati funzionali alle attività agricole il Popolo della libertà ha rispettato il patto con i suoi elettori e il presidente Letta ha rispettato le intese con il Pdl. Con la riforma di oggi invertiamo la rotta su un sentiero virtuoso di crescita: il valore degli immobili aumenta, il reddito aumenta, i consumi ripartono, si creano nuovi posti di lavoro, le aspettative sul futuro tornano ad essere positive».

Ma anche il segretario del Pd, Guglielmo Epifani, approva: «Le decisioni prese dal Consiglio dei ministri costituiscono una soluzione equilibrata dal punto di vista sociale e delle emergenze. Il governo ha tenuto conto delle situazioni più difficili. Anche la scelta sull'Imu è corretta, soprattutto in vista della riforma e della trasformazione nel senso di un'imposta federale a partire dal prossimo anno». Fuori dal coro invece il terzo leader della maggioranza, l'ex premier Mario Monti che, a nome di Scelta civica, critica l'abolizione totale dell'Imu sulla prima casa che lui stesso aveva varato due anni fa. Si è trattato, dice, di un «cedimento pericoloso» alle richieste di Berlusconi «per far sopravvivere il governo». Una decisione, aggiunge, che realizza «un'apparente soddisfazione per i proprietari di case, che tutti i cittadini finiranno per pagare con piccoli aumenti di piccole tasse e con l'aumento dei tassi d'interesse». Accuse brucianti lanciate poco prima che il consiglio dei ministri si riunisse e alle quali Letta replica così in conferenza stampa: «È una riforma che difendo per il merito non per l'intesa politica. È un buon compromesso e una buona riforma che riguarda questo settore, aiuta l'edilizia, i comuni e la famiglia». Ma a ribadire la valenza politica della soluzione trovata ieri arriva una nota dei ministri del Pdl: «La cancellazione di una tassa ingiusta e recessiva è certamente un risultato di tutto il governo. A noi sia consentito un ringraziamento particolare al presidente Berlusconi», senza il quale «questo risultato non ci sarebbe stato».

Dall'opposizione il Movimento 5 stelle boccia senza appello il decreto: «La service tax promette di essere confusa, pasticciata, poco trasparente. E vedrà i cittadini nel solito ruolo di vittime destinate a risparmiare da un lato e a pagare di più dall'altro». Critiche alle quali aveva preventivamente risposto Letta in conferenza stampa, assicurando che «la service tax non sarà un'Imu mascherata». «Per nulla convinta delle soluzioni sull'Imu» si dice la Cgil, che giudica insufficienti anche le decisioni sulla cassa integrazione in deroga e sugli esodati, e per questo si prepara ad avanzare al governo forti richieste di taglio delle tasse sul lavoro e di modifica delle regole pensionistiche in vista della prossima legge di Stabilità.

29 agosto 2013 | 8:12
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Enrico Marro

da - http://www.corriere.it/politica/13_agosto_29/letta-governo-non-ha-piu-scadenza_5105aebc-106c-11e3-abea-779a600e18b3.shtml
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« Risposta #14 inserito:: Settembre 13, 2013, 04:32:49 pm »

Cinque anni fa il crac di Lehman.

Salvare le banche è costato almeno 18mila miliardi di dollari

di Enrico Marro
13 settembre 2013


Sono passati cinque anni dal crack di Lehman Brothers, avvenuto quel 15 settembre in cui il colosso americano - travolto dalla crisi dei mutui subprime - annunciò di voler ricorrere al Chapter 11 trascinando il mondo sull'orlo di una crisi sistemica senza precedenti. Come ricorda Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos, per tenere in piedi gli istituti di credito le banche centrali hanno schiacciato i tassi a zero e immesso liquidità in misura mai vista. I bond di ogni ordine e grado sono saliti di prezzo e Wall Street ha festeggiato con l'indice S&P cresciuto di due volte e mezza mentre a Main Street, cioè nell'economia reale fiaccata da disoccupazione e stretta ai finanziamenti, i consumi hanno languito a lungo.

Ma quanto è costato rimettere in sesto le banche e far ripartire l'economia? Se lo è chiesto il famoso blog finanziario Usa Zero Hedge, provando a fare i conti grazie ai dati contenuti in un report di Deutsche Bank. Ecco i risultati: il debito consolidato dei Paesi del G-7 (dove c'è anche l'Italia) è cresciuto di 18mila miliardi di dollari a un record mai visto di 140mila miliardi. Ma attenzione: di questi 18mila miliardi ben 5mila miliardi arrivano dall'azione delle banche centrali del G-7 (ossia Fed, Banca del Giappone, Banca d'Inghilterra e Bce). E solo mille miliardi si devono alla crescita del Pil nominale.

In altre parole: per ottenere un dollaro di crescita nel mondo sviluppato, sono stati necessari 18 dollari di debiti, 5 dei quali forniti dalle banche centrali. E come nota Deutsche Bank nel report citato da Zero Hedge, l'enorme debito consolidato accumulato negli ultimi anni (pari al 440% del Pil dei G-7) resta gestibile solo se i tassi dei bond governativi non si impennano. Altrimenti sono dolori.


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da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-09-12/cinque-anni-crac-lehman-175201.shtml?uuid=AboID6VI
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