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Autore Discussione: Susanna TURCO. Pecorella: 'E ora prepari la successione'  (Letto 5771 volte)
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« inserito:: Ottobre 07, 2011, 04:41:07 pm »

Eretici

Pecorella: 'E ora prepari la successione'

di Susanna Turco

L'ex avvocato di Berlusconi, fa un bilancio cortese e spietato di tre anni e mezzo di legislatura. E avverte il premier: per non fare la fine di Craxi fine deve preparare il proprio ritiro dalla politica

(06 ottobre 2011)

Gaetano Pecorella Gaetano PecorellaDice, come Bartali, che sulla giustizia "gli è tutto sbagliato, tutto da rifare". E che il Cavaliere, per non finire come Craxi, o Mussolini, deve preparare il futuro, vale a dire il proprio ritiro dalla politica: "Cincinnato è passato alla storia per quello".

Eretico, ma fedele al Pdl, Gaetano Pecorella, ex avvocato di Berlusconi, fa un bilancio cortese e spietato di tre anni e mezzo di legislatura - peraltro senza mai citare l'architetto di tante mezze riforme Niccolò Ghedini - perché tanto "non siamo al livello della storia, siamo alla cronaca". Niente strategia, nessuna visione: risultato, uno zero rotondo. "Nel 2001-2006 facemmo 70 riforme di giustizia, e per la legge sulle rogatorie si impiegò un giorno; non siamo stati a parlare per mesi di leggi che non si facevano. Oggi, invece, a parte lo stalking, mi pare che non abbiamo fatto granché".

Dal delirio di onnipotenza, al delirio d'impotenza (legislativa). Bel paradosso. Quel che manca, dice Pecorella, è "la visione d'insieme. Non è che in Italia va tutto bene e abbiamo solo un problema sulle intercettazioni, o sulla durata del processo: abbiamo invece il sistema giustizia che non funziona, ed è sbagliato pensare che aggiustando un pezzetto il resto andrà meglio. Anzi, come accade nelle barche, se cambi solo un pezzetto finisce che gli altri non resistono alla novità e vanno in frantumi".

Che i "pezzetti" siano proprio quelli che interessano al Cavaliere, per Pecorella è solo una parte dell'impasse: "Condivido Angelo Panebianco quando dice che per riformare la giustizia la figura del premier è un problema. Qualunque punto andiamo a toccare, da vicino o da lontano, riguarda uno dei 18-20 processi di tutti i tipi che ha. Però anche l'opposizione strumentalizza tutto ciò". E allora come se ne esce? "Se ci si mette nell'ambito delle grandi riforme, allora diventa possibile fare cambiamenti anche su aspetti che non sono urgenti. Altrimenti no. Un esempio: sono convinto, e non lo dico pro-Berlusconi, che oggi una ragazza di 17 anni non abbia la stessa consapevolezza del proprio corpo di quella che li aveva negli anni Trenta, quando fu scritto il codice Rocco; tanto è vero che nel 2001 la proposta di Biondi per abbassare a 17 anni l'età dei reati sessuali fu discussa seriamente. Però oggi, se si provasse a modificare solo questo aspetto, avrebbe un significato troppo chiaro, no?".

Non sarà che pure l'approccio a spezzatino, da "tecnico", di Ghedini è sbagliato? "Intanto la paternità di quelle riforme dovrebbe averla il Guardasigilli, non altri. Dopodiché pure Rocco era un tecnico, ma anche un grande giurista: aveva una visione che oggi manca. Non abbiamo un'idea di quel che vogliamo fare. Aspetto un segno di vita". Come fa ad aspettarsi vita da una maggioranza che vuol solo durare e da un premier che vuole solo non mollare? "Secondo me Berlusconi oggi è indispensabile, ma bisogna che prepari il futuro. Ha fatto bene Zapatero a fissare le elezioni, annunciare il ritiro e stabilire le riforme da fare fino ad allora. Se lo facesse Berlusconi, rinforzerebbe il Pdl, in vista della sua continuità". Ma il Cavaliere interpreta la parte del "dopo di me, il nulla". "Già, ma il dopo Berlusconi, così come il dopo Luigi XVI, il dopo Napoleone o il dopo Mussolini, c'è per forza". Nessuno di loro ha fatto una bella fine... "Mi pare che la questione sia la lungimiranza di capire quando è il momento di preparare il dopo di sé, mantenendo così intatta la propria autorevolezza. Insomma: Cincinnato è passato alla storia per aver intuito quando era ora di tornare a fare il contadino; Mussolini, se avesse capito che nel Gran Consiglio sarebbe finito in minoranza, avrebbe trovato accordi diversi, e noi avremmo evitato la guerra civile". Il rischio è quello? "Berlusconi dice che non vuol fare la fine di Craxi. Io me lo auguro e penso che non la meriterebbe. Ma purtroppo non se l'è scelta Craxi la fine che voleva fare".

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« Risposta #1 inserito:: Marzo 19, 2013, 05:48:38 pm »

Politica

Qual è il gioco del Professore

di Susanna Turco

Uscire dalle dinamiche dei partiti e rientrare in quelle degli incarichi istituzionali. In primis il Quirinale. Anche dopo la fallita trattativa sulle presidenza del Senato, le ambizioni di Mario Monti non sono state rinchiuse in cantina. Tutt'altro

(18 marzo 2013)

Sfilarsi dalla politica dei partiti e reinfilarsi nel gioco grande, quello degli incarichi istituzionali, non escluso il Quirinale. Anche dopo la fallita trattativa sulle presidenza del Senato, le ambizioni di Mario Monti non sono state rinchiuse in cantina. Tutt'altro.

La vedono così persino alcuni parlamentari di Scelta civica, che con il Professore hanno avuto ampio margine per confrontarsi: «Più che far politica, aspetta una sua ricollocazione, e ancora spera di andare al Quirinale".

E, da questo punto di vista, l'intervista data dal Professore alla "Stampa" per chiarire che non ambisce a poltrone ma solo alla "governabilità", non cambia di una virgola la questione. Anche perché, dietro giri di parole sempre più involuti e burocratici che sono all'opposto del periodare secco della "nuova politica", il sottointeso del premier è chiaro: la governabilità c'est moi.

In più, proprio in questi giorni, Monti ha confermato il proprio disimpegno dal Parlamento: con la decisione, non da poco, di ritirare il proprio cognome dal titolo dei costituendi gruppi parlamentari. Si chiameranno semplicemente "Scelta civica", senza il "Con Monti" che ha accompagnato la campagna elettorale.

Un indizio chiaro, per capire quanto il premier voglia mischiarsi con gli affari del parlamento.

Per questa via, con un leader fuori dai giochi, paradossalmente, finisce il movimento montiano per somigliare un pezzetto di più al suo opposto politico, vale a dire quel Movimento cinque stelle che nel nuovo parlamento è l'altra faccia della neo-anti-politica: anche nell'elezione dei presidenti del Senato, la soluzione adottata è stata la medesima, la scheda bianca; e qualche defezione, così come tra i grillini, c'è pure stata tra i montiani, anche se in quel caso nessuno è andato a indagare sulla compattezza del gruppo («ma Grasso è un nome talmente breve che in cinque secondi si può scrivere sulla scheda, fingendo di averla lasciata bianca», faceva notare – per nulla a caso -un parlamentare di Scelta civica a ridosso del voto).

Del resto, se il Pd ha interesse a far esplodere le contraddizioni in seno a Cinque stelle, il faro acceso sulle spaccature di Scelta civica interessa poco. Anzi. Il pacchetto dei montiani, coi suoi numeri esigui ma pesanti al Senato per aspirare alla fiducia, è utile solo se non si spacca. E naturalmente su questo anche Monti concorda.

L'obiettivo del professore in questa fase è invece proprio mostrare quanto il suo gruppo possa essere determinante, per la nascita di un governo. Non a caso, all'indomani del voto, il montiano Andrea Olivero si è speso per sottolineare come «senza di noi Grasso non sarebbe stato eletto».

Un modo per ricordare al Pd che Scelta civica ha un credito da riscuotere. E Monti sottolinea con la matita rossa che la sua discesa in campo è stata utilissima. A cosa? «Se non ci fossero stati i nostri tre milioni di voti, Berlusconi avrebbe vinto le elezioni e oggi sarebbe lui a scegliere se tornare a Palazzo Chigi o farsi eleggere al Quirinale».

Insomma, Monti si propone come l'unico argine possibile: è grazie a lui, secondo questa ricostruzione, che Bersani può scegliere. Su Palazzo Chigi, e sul Quirinale. Scegliere chi? Rifiutando di intavolare una trattativa su nomi diversi dal proprio per il Senato ?€“ come avrebbe invece fatto qualunque politico - il professore ha dato su questo una risposta chiara. Perché Monti, in questo caso, è sì all'opposto dei Cinque stelle: «Non "uno vale uno", ma "io valgo tutto"; non Beppe Grillo, ma il Marchese del Grillo», sintetizza un uddiccino. Del resto, la strada verso il colle è parecchio in salita, ma non del tutto sbarrata.

«Nella vita non si esclude mai niente", dice adesso il leader del Pd, parlando della candidatura di Monti al Colle, «non è che io non ci pensassi mesi fa, ma ora si tratta di una figura pienamente dentro alla politica e questo lo rende più difficile«. Proprio per questo, Monti adesso dai giochi del Parlamento cerca di sfilarsi, trattando la propria discesa in campo come qualcosa di temporaneo e revocabile.

 
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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/qual-e-il-gioco-del-professore/2202818/24
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 19, 2014, 11:54:47 am »

Riforme

Matteo Renzi vince in Aula con l'Italicum
Ma nel Pd la minoranza si compatta "Tu non sei uno di noi"
Con la legge elettorale, la tenaglia democratica si è materializzata compiutamente contro il segretario-premier. Per la prima volta dopo la botta primarie-caduta di Letta, tutte le componenti della minoranza si sono schierate a falange

di Susanna Turco
      
L’Italicum alla Camera è passato, le tensioni nel Pd figuriamoci: lo psicodramma è rinviato alla prossima occasione. Magari l’assemblea-redde rationem tra sette giorni, magari anche prima. Basti guardare, in una giornata che dovrebbe essere di quiete dopo la tempesta, ai mugugni e malumori che suscita quel “volevano farmi fuori ma ho vinto io” che Renzi consegna a Repubblica, facendo andare di traverso la colazione a tre quarti del Pd.

Parole alle quali Gianni Cuperlo risponde non solo, come altri, promettendo battaglia per il futuro (“la riforma elettorale deve migliorare”) ma soprattutto con una frasetta al fiele: “Penso che il segretario del Pd e premier dovrebbe togliersi gli occhiali che gli fanno vedere un congresso permanente. Quel congresso è finito e lui lo ha vinto”. Traduzione: tensioni e spaccature del Pd viste sull’Italicum non sono “la rivincita delle primarie”, come dice Renzi, e non sono battaglie che si vincono una volta per tutte (come un congresso), sono la normalità. Una normalità sfibrante, il veleno domestico che ha fiaccato tanti leader del centrosinistra. Renzi si regoli.

Con l’Italicum, la tenaglia democratica si è materializzata compiutamente contro il segretario-premier. Per la prima volta dopo la botta primarie-caduta di Letta, tutte ma proprio tutte le componenti della minoranza si sono schierate a falange. Bersani, Bindi, Boccia, Civati, Cuperlo, Fassina, e via in ordine alfabetico. Non più solo D’Attorre, non più solo seconde file. Mancava giusto Letta, comunque presente in spirito. Opposizione interna nelle votazioni, come si è visto in Aula tra dissensi, franchi tiratori, e assenze, ma anche agitando argomenti tipicamente ortodossi, primo fra tutti quello identitario del “tu non sei uno di noi”.

Francesco Boccia, lettiano, poi renziano deluso, per esempio: “Votare contro le primarie per legge è stato come rinnegare l’atto costitutivo del Pd”, o anche “non vorrei che nel giro di due mesi si sia completamente stravolta la cultura del Pd”. Bersani: “Non mi va bene che non si discuta da nessuna parte”, “è sbagliato dare l'ultima parola a Berlusconi”, “Renzi alza le aspettative, è una cosa che comporta rischi”.

Parole che rafforzano l’interpretazione renziana: perché di certo in questi giorni si è giocata, come dice il segretario Pd, “una partita tra due modelli culturali”. Il tragico è che i due modelli culturali in gioco, il noi e loro, sono entrambi di matrice democratica. Ed è poco probabile che questa partita possa dirsi vinta o persa adesso, una volta per tutte. Anche perché, pur di affermare il suo modello del “portare a casa la riforma, a tutti i costi”, Renzi ha costretto il Pd ad una torsione fortissima rispetto alle proprie bandiere (quote rosa, primarie, preferenze, accordo con Berlusconi), e non è detto che la ditta sia in grado, o voglia, sopportarne la tensione a lungo. Per ora sta a guardare il vincitore (Renzi), aspettando, come dice Bersani, “come andrà e dove si va a parare”.

12 marzo 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2014/03/12/news/renzi-vince-in-aula-ma-deve-guardarsi-dal-pd-tu-non-sei-uno-di-noi-1.156891
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 19, 2014, 05:14:37 pm »

A lezione da Berlinguer
Il film di Walter Veltroni in edicola con l'Espresso e Repubblica.
Che i renziani usano come manuale. Per studiare il Pci

Di Susanna Turco
16 ottobre 2014

Berlinguer chi? L’autore di Guerra e pace?”. Chissà cosa direbbe oggi Walter Veltroni se fosse costretto a riascoltare questo refrain, da uno dei tanti ragazzi che ha intervistato per la sequenza iniziale del suo “Quando c’era Berlinguer”. Magari ora, dopo che il docu-film (in allegato con “l’Espresso” e “Repubblica” da venerdì 24 ottobre) ha guadagnato nelle sale un milione di euro e su Sky ha totalizzato più ascolti di Farenheit 9/11, di giovani che rispondano «un commissario», «uno scrittore», «uno dell’Unione europea della Corea» ce ne sarebbero di meno. Veltronianamente, sarebbe il primo intento: «Restituire ai giovani la memoria» di quel leader carismatico, che sfondò il muro del 30 per cento a sinistra ma poi mancò il sorpasso della Dc, il segretario del compromesso storico e dello strappo col Pcus, quello che con la sua morte, come racconta Jovanotti nel film, segna «la fine della parola comunista, perché la parola comunista in Italia è Berlinguer». Raccontare tutto questo, spiega Veltroni, ma «trasmettendo anche un’emozione».
      
Già, l’emozione: piangere, hanno pianto tutti. Quelli della vecchia guardia, che c’erano e hanno ricordi adulti. Giorgio Napolitano, Pierluigi Bersani, Massimo D’Alema persino. «Si sono commossi tutti, anche i giornalisti più cinici», raccontava Veltroni nei giorni dell’uscita del film. Ugo Sposetti, storico tesoriere della Ditta, no, niente lacrime: «Ma solo perché io quelle cose le ho vissute da vicino», si schermisce precisando che il film lo conosce a memoria, «e forse oggi il comizio di Padova non lo mostrerei più: Enrico stava troppo male per stare sul palco, lo si vedeva già nel comizio a Genova del giorno prima». E Matteo Renzi si è commosso? Non si sa. La sera della prima, il segretario Pd non c’era per un impegno a Bruxelles, e chissà se ha poi recuperato. Eppoi, certo, Berlinguer è un nome che il premier porta soprattutto in tv o nei comizi («sciacquatevi la bocca quando parlate di lui», urlò a Grillo).

Nel Pd di oggi, tra le nuove leve, su Berlinguer circolano molte meno emozioni. C’è pure chi il film non l’ha visto, e non la considera lesa maestà. Da quelle parti, del resto, le misure si fanno anche col «quanti anni avevi nel giugno dell’84». Maria Elena Boschi, tre. Marianna Madia quattro. Renzi, nove. Matteo Richetti dieci, e non ha pianto: «Ma vederlo è stato illuminante: ho imparato un sacco di cose che non sapevo», ammette il deputato renziano: «Non vengo da quella cultura, Berlinguer non l’ho vissuto, ma l’ho sentito evocare e invocare. Guardando il film, si capiscono tante difficoltà del Pd di oggi».

Il deputato Emanuele Fiano, oggi in segreteria, 21 anni nell’84, elettore ma non tessera Pci, si domanda se ci fosse allora in embrione qualcosa che ha in parte riannodato il suo filo solo in questi anni, col Pd a vocazione maggioritaria dello stesso Veltroni prima, di Renzi poi. «Certo, niente si ripete, e la storia non si fa con i se: mi piacerebbe poter sapere cosa sarebbe successo se, allora, i rapporti col Psi di Craxi fossero stati impostati in un altro modo», aggiunge. «Nel coraggio di cambiare di Berlinguer ho rivisto la velocità renziana», azzarda invece Richetti.

Paragoni che Veltroni si rifiuta di fare, e che pure rispuntano dalle sue stesse parole. «Sono partito da una domanda: come riuscì Berlinguer trasformare un partito fermo al 25 per cento, in un partito votato da un italiano su tre». Se lo chiedeva a febbraio, sull’Unità, dieci giorni prima che il governo Renzi giurasse, tre mesi prima che il Pd prendesse il 40,8 per cento alle europee. Senza sapere forse fino a che punto, la mitizzazione di quel Pci coincidesse con la definitiva rottamazione dei suoi eredi.

© Riproduzione riservata 16 ottobre 2014
Da - http://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2014/10/16/news/a-lezione-da-berlinguer-1.184263?
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 07, 2015, 09:54:32 pm »

Analisi
Meteore, dissidenti e promesse mancate: qualcuno ha visto questi onorevoli?
Morani, Moretti, Picierno e Bonafè nel Pd, Capezzone e Minzolini a destra, gli ex 5 stelle Currò e Rizzetto.
E poi ancora tanti altri. C'è stato un momento in cui il dibattito politico ruotava solo intorno a loro.
E adesso sembrano scomparsi


Di Susanna Turco
06 novembre 2015

Un Parlamento di meteore. Grandi o piccole come granelli di sabbia. Veloci come bolidi, oppure più lente: visibili giusto per il tempo del loro incendiarsi, dopo l’impatto con la notorietà o con il leader di turno, poi basta. Alcune magari torneranno a illuminare le prime pagine, chissà. Dipende.

Sta di fatto che mai come in questi anni, il fenomeno dello sciame di meteore è massiccio. Sarà anche colpa di un Parlamento sbilenco e inedito: nel quale il Pd è quello selezionato da Bersani, ma governa con Renzi; dove il centrodestra è entrato unito, per poi dissolversi nei tanti rivoli della decadenza berlusconiana; o i Cinque stelle, naïve delle Camere, hanno aperto la scatoletta di tonno della loro prima selezione sul campo.

Nell’insieme, comunque, non pochi. Come in una specie di Spoon River della rilevanza, giusto per cominciare dal Pd ci si può chiedere che fine abbia fatto una come Alessia Morani. Iniziale notorietà per un tatuaggio sul piede, poi responsabile giustizia del Pd, tanta tv e qualche gaffe, infine l’approdo alla vicepresidenza del gruppo alla Camera e la sostanziale sparizione. Una parabola terrificante, quasi brutale.

E Simona Bonafè? Lanciata in orbita per le europee, agguantò un record di preferenze: oltre 288 mila, terza arrivata, prima tra le donne. Poi basta: come se non ci fosse. Eppure, era una delle fedelissime di Renzi, se la batteva con la Boschi e ne usciva persino meglio di lei. Sparita pure Pina Picierno, la terzina di sfondamento che esibiva i propri scontrini in tv, pur di dimostrare che gli ottanta euro di Renzi avrebbero cambiato la vita agli italiani. Alessandra Moretti? La sua scia luminosa è stata più lunga: prima con Bersani, responsabile della comunicazione poi renziana in lizza alle europee (230 mila preferenze, arrivò quarta) quindi in corsa per la Regione Veneto. Incarico per il quale ha mollato l’europarlamento. Dopo il flop contro Zaia, quasi nulla: fa la capogruppo dem in regione, dopo aver auspicato un profonda analisi nel partito sulle ragioni della sconfitta, e aver chiarito che un po’ è dipeso anche da look castigato da ferroviera.

C’è poi la massa sempre crescente dei cosiddetti dissidenti. Si illuminano più forte via via che si avvicinano all’annuncio di una scissione: poi si scindono (o decidono di non scindersi) ed entrano nell’emisfero nero. Che fine ha fatto Roberto Speranza? La grande partita del rinnovamento nella continuità, nel Pd, pareva potersi reggere sull’aria da ragazzino dell’uomo scelto da Bersani per fare il capogruppo alla Camera. Invece, poi, ci si è messa di mezzo la battaglia sull’Italicum: all’annuncio delle sue dimissioni di protesta, Renzi invece di aprire il “dibattito”, ha alzato le spalle ed è andato oltre.

Adesso, come certi grandi amici che si son persi di vista, ci si accorge che Speranza non è più tanto in giro solo quando capita di incrociarlo. Non poi tanto dissimile la parabola di Pippo Civati. Grande promessa dell’anti-Renzismo, da quando non sta nello stesso partito del suo antagonista filosofico, ha perso motivazione, si è come dissolto. Ma non è sparito. Certo, perché poi non tutte le meteore si dissolvono: alcune arrivano a terra, salvo diventare invisibili nel tratto terminale del percorso. E’ il cosiddetto “volo buio”. Una categoria cui si può dire appartenga Miguel Gotor: dopo sei mesi passati a parlare di derive autocratiche, è sparito. Sta ancora ben là, pronto a rispuntare, chissà quando.

In Forza Italia e dintorni, per non entrare nei casi meteoritici delle giovani promesse che paiono già bruciate prima di cominciare (vedasi Silvia Sardone e i fratelli Zappacosta), si hanno pure casi di “volo buio”. Dieci mesi fa, in piena epoca di elezioni quirinalizie, impazzava il duo Raffaele Fitto e Daniele Capezzone. Sembravano i padroni prossimi venturi del centrodestra. E invece si sono scissi e hanno smesso di diventare determinanti.

Spariti, fino al prossimo giro almeno. E che fine ha fatto Augusto Minzolini? L’ex direttorissimo del Tg1 dettava la linea nel partito di Berlusconi: poi si è fatto via via sempre più dissidente, fino a cadere nell’ombra. Maleficio oscuro sembra quello che ha avvolto Mario Mauro. Già possibile delfino di Berlusconi, poi montiano, quindi saggio di Napolitano e ministro con Letta, infine perno del Parlamento: fu estromesso dalla commissione Affari costituzionali, dopo che il suo voto era stato determinante per far passare l’ordine del giorno di Calderoli sulla riforma del Senato. Parlò di “purghe renziane”, poi finì a Gal. Le ultime notizie, a cercarle, lo danno partecipante al cosiddetto “gruppo di Rovereto”, insieme con Antonio Fazio, Raffaele Bonanni e Mario Tassone.

Perché poi fino a poco tempo fa, diciamolo, era più semplice. Se ti eri conquistato la tua fama, che fossi un Razzi o al contrario un Follini, poi nessuno ti toglieva il ruolo, almeno fino alla fine della legislatura. Finché c’era la poltrona, c’era lo spazio. Adesso, al contrario, la poltrona resta: è semmai la sua incidenza a sparire. E soprattutto, la faccenda si brucia in tempi rapidissimi, fulminei. Meteoritici, appunto.

La cosa prende un suo giro particolare tra i grillini. Qui il caso è un po’ diverso: entrati con lo slogan dell’uno vale uno, i Cinque stelle hanno attraversato il processo di selezione della classe dirigente quando erano già in Parlamento. Per questa via, si sono perse le tracce ad esempio di Vito Crimi, uno dei primi volti pentastellati quando insieme con Roberta Lombardi si incaricò da capogruppo delle estenuanti consultazioni di Bersani.

Pareva lui quello con più cartucce, e invece. Ma ci sono anche casi di promesse mancate: a inizio legislatura i bookmaker puntavano parecchio su Marta Grande da Civitavecchia, in predicato addirittura per diventare presidente della Camera, prima di svanire nella quotidianità parlamentare. Ci sono quindi i casi dei mezzi leader, la cui incidenza va in combinato disposto con la critica al capo: per mesi pareva che il futuro dei Cinque stelle dipendessero dalle mosse di Tommaso Currò o di Walter Rizzetto. Poi Currò è entrato nel Pd, Grillo ha fatto il direttorio con Di Maio e Di Battista, e molti saluti.

© Riproduzione riservata
06 novembre 2015

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2015/11/06/news/meteore-dissidenti-e-promesse-mancate-qualcuno-ha-visto-questi-onorevoli-1.237589?ref=HRBZ-1
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« Risposta #5 inserito:: Gennaio 30, 2018, 01:38:32 pm »

ANTICIPAZIONE

«Matteo Renzi? Ha preferito gli incompetenti ma fedeli». Il j'accuse di Michela Marzano
La filosofa racconta per la prima volta all'Espresso i suoi cinque anni da deputata e il progressivo distacco dal Pd: «È un partito che ha abbandonato i valori e i principi della sinistra». L'intervista in edicola dal 28 gennaio

DI SUSANNA TURCO
26 gennaio 2018

Incompetenti al potere, leader fuori dalla realtà, deputati che pensano solo alla rielezione. La ex Pd Michela Marzano racconta per la prima volta i suoi cinque anni da deputata in una intervista sull'Espresso nel numero in edicola da domenica 28 gennaio.

Dalla telefonata di Bersani per la candidatura nel 2013 («non ci avevo mai parlato prima»), fino alla progressiva distanza dal Pd, lasciato nel maggio 2016: «È un partito che ha abbandonato i valori e i principi della sinistra, non ha più presa sulla gente».

Duro il giudizio sul segretario Matteo Renzi: «A lui rimprovero di aver scelto, tra tante persone brave nel Pd, non le più preparate, ma le più fedeli. Capisco che avesse paura di finire come Enrico Letta, di essere tradito», ma «si è scollato della realtà, non ascolta più».

Abbandonati. Come si sentono alcuni leader che i sondaggi vedono in calo. Abbandonati si sentono alcuni elettori che abitano le periferie o i piccoli centri, o fanno parte di categorie ignorate come i giovani. Il nuovo numero dell'Espresso dedica la sua copertina a queste due categorie di "abbandonati", con l'approfondimento di Emiliano Fittipaldi sul Giglio magico di Renzi sempre più in crisi. E con il reportage di Fabrizio Gatti dalle periferie delle città: questa settimana il nostro inviato è a Torino. Poi, sul nuovo numero: inchiesta sul Fezzan e il Niger, le regioni africane sempre più importanti per l'Italia; le nuove rivelazioni sul caso di Giulio Regeni; il viaggio nei reparti dedicati alla salute mentale dei bambini; la rivincita della geografia, materia spesso ignorata ma oggi sempre più importante. Il direttore Marco Damilano racconta cosa trovate sul nuovo numero del settimanale
   
Tante battaglie in Parlamento, a partire dalla legge sul doppio cognome, ma nessuna vittoria: «Quando sei deputato semplice, arriva sempre un capogruppo, un vice capogruppo, un segretario d'Aula che ti blocca d'autorità. E non vai più avanti», racconta la filosofa che, dice, non tornerà a candidarsi in futuro. Un consiglio ai prossimi intellettuali prestati alla politica? «Non farsi fagocitare dalle logiche del potere».

L'intervista integrale sull'Espresso in edicola da domenica 28 gennaio

© Riproduzione riservata 26 gennaio 2018

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2018/01/26/news/marzano-renzi-ha-preferito-gli-incompetenti-ma-fedeli-1.317588?ref=HEF_RULLO
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« Risposta #6 inserito:: Marzo 29, 2018, 06:35:27 pm »

POTERE

Link Campus, l'università in cui Luigi Di Maio studia il potere tra boiardi e 007
Viaggio nell'ateneo emblema del nuovo M5S. Fondata dal dc Scotti, già legata a Malta, in partnership con Mosca, un legame societario con Londra.
Tofalo ci ha studiato intelligence e il leader pentastellato ci pesca i ministri

DI SUSANNA TURCO
25 marzo 2018

«Ci mancano Harry Potter e il Grande Puffo, giusto loro: poi siamo al completo». In un vialetto della Link Campus University, Elisabetta Trenta da Velletri, 51 anni, vicedirettrice del master in intelligence e sicurezza, nove pagine di curriculum pesante, presentata al mondo come ministra della Difesa di un eventuale esecutivo M5S appena un paio di settimane dopo aver conosciuto Luigi Di Maio, sbuffa vistosamente, da grillina prima maniera quale è.

Tutti i riferimenti simbolici che i giornalisti hanno intravisto nell’università privata in cui lei insegna non esistono mica, sostiene. I servizi segreti, la massoneria, i disegni occulti: macché. È tutto «molto più semplice», arringa lei in montgomery blu e scarpe Hogan azzurre, appena fuori dal suo ufficio, ultimo piano dell’edificio “Romagnoli”, stanza “i” che divide con tre colleghi, tra pranzi consumati in loco, ciotola dell’insalata sulla scrivania, professori che si affacciano ironici («Toc toc, c’è il ministro?»), studenti che si precipitano a salutare la prof «adesso, finché è senza scorta».

Sarà pure più «semplice» ma - c’è da dire - tra legami con Malta, professori coinvolti nel Russiagate, democristiani doc, lezioni di intelligence a mazzi, ottimi rapporti col Vaticano, partnership con l’università di Mosca, partecipazioni societarie inglesi, ex ministri e prossimi ministri sparsi a frotte tra aule e viali, il problema non sembra essere l’eventuale assenza di Harry Potter e Grande Puffo.

Ecco la Link Campus University, università privata, lezioni in inglese, obiettivo tremila studenti, creatura del democristiano e sette volte ministro Vincenzo Scotti, 85 anni, fino al 2011 filiazione dell’università di Malta, poi italiana, oggi (anche) cuore pulsante del grillismo rampante - apparentemente come fu la Luiss per il renzismo, ai tempi in cui la Boschi teneva lezioni sulle riforme, a volerla raccontare ottimistica e a pelo d’acqua. Un legame molto diverso, in realtà.

Dove, tanto per cominciare, M5S sta pescando la sua classe dirigente: l’assessora del digitale a Roma Flavia Marzano, le ministre dello shadow cabinet di Di Maio come la Trenta o come anche Paola Giannetakis, criminologa molto più in tiro e (sottolineano) meno curriculata della prima; i candidati alle politiche, come lo sono state anche le due professoresse (una al proporzionale, l’altra all’uninominale); i possibili assessori regionali come Nicola Ferrigni, direttore del Master in Sicurezza Pubblica e Soft Target, indicato come papabile dalla Lombardi. Fino alla rimarchevole circostanza che pure il deputato M5S Angelo Tofalo, da membro del Copasir, ha frequentato il master in Intelligence, cioè le lezioni della Giannetakis («Ma ha fatto tutti i colloqui come gli altri e pagato la retta per intero», circa 14 mila euro, chiarisce il direttore generale Pasquale Russo, ex sindacalista, esperto di Reti fin dagli anni Ottanta, passate collaborazioni con Letta, Bassanini e D’Alema).

M5S, chi sono i nuovi grillini eletti: basta disoccupati, ecco notabili e professionisti
Potenti locali, presidenti di banca, figli di sindaco, commercialisti, avvocati. Il placido regno borghese che dal Sud entra in Aula, pronto a farsi casta, a immagine somiglianza del nuovo capo M5S Luigi Di Maio
«Ah voi siete l’università grillina?» è la domanda che si sente rivolgere, ormai, chi va a fare orientamento nei licei. Emblema, la Link, della svolta moderata e lobbista impressa dalla guida di Luigi Di Maio. Quella di un M5S con meno grilli per la testa, e in compenso un sacco di intense relazioni con tanta gente che conta, di luce come d’ombra. Un movimento cui il nuovo capo ha dato un profilo più filo americano, filo israeliano, europeista - la “svolta”, manco a dirlo, Di Maio l’ha pronunciata proprio nell’Aula magna della Link, davanti alle opportune rappresentanze diplomatiche, e con quelle statunitensi e israeliane in piena levitazione. Un passaggio che ha agevolato l’avvicinamento di personaggi come la Trenta: «La politica mi è sempre piaciuta, e l’ho anche fatta. Ma con la mia storia, in un movimento no Nato e no euro non ci sarei potuta stare», chiarisce infatti lei, che milita dal 2013 ma per la verità conosce il M5S sin dalle origini, per via del fratello minore Paolo, capogruppo in consiglio comunale a Velletri e attivista dai tempi dei Vaffa day.

Un M5S, quello alla Di Maio, che però ha legami a qualsiasi latitudine, come si conviene a un potere che vuol restare, che è determinato a non andare via. Come la Dc? Un po’ come la Dc, diciamo. Il paragone è doc, opera di Vincenzo Scotti in persona, il quale già due anni fa sospirava, tra la brama e la nostalgia: «Sono gli unici rimasti a fare politica». Per quel che riguarda la sede dell’università, Casale San Pio V, il genius loci democristiano è vibrante: dimora estiva di sette Papi, in concessione alla Link per sessant’anni a canone variabile tra gli 800 mila e il milione e 200 mila euro (restauri e manutenzione straordinaria escluse ma obbligatorie) è un luogo che cadrebbe a pennello in un film di Paolo Sorrentino. Una prosecuzione del Divo tendenza Grande Bellezza. A otto minuti a piedi dalla Domus Pacis e a quindici dalla Domus Mariae, posti che hanno fatto da cornice scenografica a pezzi di storia della Democrazia cristiana nel quadrilatero magico alle spalle del Vaticano.

Ma, a differenza di quelle epoche, qui, nel caso del M5S, non è affatto chiaro chi contamini chi, e chi governi che cosa: il punto sarebbe centrale nello svolgersi di quello che pure la Trenta considera un «esperimento politico». Premeditazione e casualità si intrecciano continuamente, in effetti. Ad esempio, Di Maio stesso non sapeva, quando andò alla Link University in febbraio, che avrebbe preso lì due delle ministre del suo eventuale governo.

È Trenta stessa a raccontare di averlo conosciuto giusto quel giorno. Il capo M5S ignorava di avere tra i professori ben tre candidati del Movimento. «Ci incontrammo dieci minuti, gli dissi che potevo dare una mano, ma intendevo consulenze, spiegazioni». Invece dopo qualche altro contatto è arrivata la proposta: «Mi ha telefonato un suo collaboratore, per chiedermi se ero disponibile. Ho pensato a uno scherzo».
Ecco, in effetti, cosa accade alla Link: la compenetrazione. È il luogo fisico in cui il Movimento 5 stelle si fa establishment, potere, influenza; e un certo establishment si muta a Cinque stelle. «La prima e la terza Repubblica s’incontrano», dice il vaticanista Pietro Schiavazzi, nume tutelare dei primi avvicinamenti alla Chiesa di Di Maio, anche lui manco a dirlo docente alla Link University. Un talento proteiforme del potere. Qui, in effetti, ci si può imbattere in interi pezzi di storia. Vi insegna l’ex ministro Franco Frattini, il democristiano Ortensio Zecchino, il cossighiano Paolo Naccarato, l’ex sottosegretario Antonio Catricalà, ma pure l’uomo che racchiuse la sua vita in un referendum: Mario Segni. Basta? Non basta. A volte vi si incontra Zingaretti: non Nicola, governatore del Lazio, ma Luca, il commissario Montalbano, arruolato nel Dams, guidato da Alessandro Preziosi.

Del resto - giusto per chiarire quanto siano «semplici» le cose - alla Link ha insegnato per anni (prima di sparire) uno come Joseph Mifsud, il professore maltese finito nel Russiagate perché secondo il procuratore Muller già nell’aprile 2016 avrebbe offerto a George Papadopoulos, membro dello staff elettorale del futuro presidente Trump, «dirt» ossia materiale compromettente sulla Clinton. Nella sua ultima intervista a Repubblica, Mifsud risultava barricato proprio nel suo ufficio alla Link. E si raccomandava: «Dite che non mi avete visto». Non l’hanno più visto, in effetti.

Le sue tracce sono state rapidamente cancellate dal sito dell’Università - dove pure fino a poco fa presiedeva il corso di Relazioni internazionali. Così come pure sono spariti, i riferimenti a Mifsud, dal sito di Stephan Roh, avvocato tedesco residente in Svizzera, moglie russa, che lo aveva come consulente nel suo studio. Roh, a proposito di link tra mondi, risulta fondatore del London Center for International Law and Diplomacy - un nome che sembra frutto di una miscela tra il London centre of International Law Practice, dove hanno lavorato sia Mifsud che Papadopoulos, e la London Academy of Diplomacy, di cui Mifsud era direttore. Tornando in Italia anche Stephan Roh, almeno fino a fine 2017, è tra i consiglieri della Link: e risulta tutt’ora socio di minoranza, attraverso la londinese Drake global Ldt, che detiene il 5 per cento della Global education management, la società di servizi che con un capitale da 18 milioni di euro fa da cassaforte all’università.

«Tutte queste trame che stanno sui giornali sono proprio delle fake news», sospira Vanna Fadini, amministratrice unica e socia di maggioranza della Global, facendo dondolare la lunga collana di perle Chanel, nella stanza più alta del Casale, là dove si narra che Pio V ebbe la visione della vittoria a Lepanto. L’espansione della Link è pronta a continuare, un aumento di capitale è stato già deliberato. Così come la partnership con la prima università statale di Mosca, la Lomonosov - alla quale è intitolata una sala della Link. Già l’estate scorsa i moscoviti sono venuti per un campus: torneranno la prossima. Arriverà anche un corso di lingua russa. Nell’attesa, Scotti si immerge nell’ennesimo incontro per parlare anche del futuro a Cinque stelle, a Villa Malta, dove ha sede il periodico Civiltà cattolica, in una giornata di studio organizzata dalla Fondazione Formiche, con l’ambasciatore Giampiero Massolo, già vertice dei Servizi. E il valzer, grillino e non, continua.

© Riproduzione riservata 25 marzo 2018

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2018/03/22/news/link-campus-m5s-1.319932?ref=RHRR-BE
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« Risposta #7 inserito:: Aprile 16, 2018, 12:07:09 pm »

TRAVERSATA NEL DESERTO

Toc toc, c'è qualcuno al Nazareno?
Rintronato dalla sconfitta epocale, il partito è come una statua rotta. «E ci vorrà un anno solo per numerare i pezzi».
Nel frattempo ci si domanda: mi si nota di più se resto all'opposizione, o se partecipo a un governo?

DI SUSANNA TURCO
13 aprile 2018

Venghino, signori, non perdano lo spettacolo. Alla più travolgente débâcle della storia del Pd, che fatalmente coincide con la più monumentale sconfitta della sinistra negli ultimi settant’anni, si aggiunge in queste settimane una emozionante battaglia interna sul da dirsi e il da farsi - ci si spacca persino sull’ipotesi di fare un referendum tra gli iscritti, o di ridiscutere la linea il martedì piuttosto che il sabato. Cose alle quali, nel bene e nel male, la striminzita era renziana aveva disabituato. Sullo sfondo la tentazione ultima: andare oltre il Pd. Partito «devastato», «andato in pezzi», «incidentato come un motociclista» - le metafore cambiano a seconda dell’orizzonte fenomenologico del parlamentare interpellato. Comunque, a sconfitta fuori questione, ci si domanda anzitutto se sia più disdicevole restare all’opposizione o partecipare a un governo. Eccolo, l’orizzonte politico, la visione del mondo, lo stare tra la gente. Nonostante tutto, il partito resta avviticchiato alla colonna sonora azzeccata a suo tempo da Veltroni, quando i milioni di votanti erano 12 (oggi sono 6): «Mi fido di te, quanto sei disposto a perdere?». Un elettore su due, è la risposta, drammaticamente provvisoria.

La sinistra che sta facendo finta di niente dopo la batosta elettorale deve cambiare
Lo sconquasso non è cominciato con Renzi ma ha radici più lontane. Eppure gli ultimi anni sono 
stati una grande occasione perduta

Più segretari che iscritti
Nei giorni del primo giro di consultazioni al Quirinale, dette anche «modello Bersani» per l’intrinseca probabilità di successo (si ricordi il glorioso «preincarico» che l’allora segretario ricevette nel 2013 da Napolitano), nel partito del Nazareno si sta concentratissimi sul toto nomi per la prossima segreteria. Dice: ma che c’entra? C’entra. Anzi c’è una serie di nomi candidabili. Tra cui Maurizio Martina, il reggente, il volto del renzismo sconfitto, l’uomo pescato dal quasi anonimato dopo il referendum costituzionale e che fino a pochi mesi fa risultava irriconoscibile persino al barista di fronte alla sede nazionale del Pd («ma ora le cose sono cambiate», si afferma volenterosi nella ridotta renziana). C’è Debora Serracchiani, già veltroniana, franceschiniana e rottamatrice ante litteram che ha preferito il Parlamento alla ricandidatura in Friuli e poi, visto il successo anche là, ha offerto le dimissioni da segretaria regionale con la solita perfetta sincronia che è tra le principali sue doti. C’è Matteo Richetti, renziano dell’ora zero, già recuperato per il terzo tempo, il quale indomito ha voluto ricominciare dal palcoscenico dell’Acquario romano, laddove nel 2013 il Pd poté comodamente mandare in technicolor la diretta della propria sconfitta (auguri). Ci sono anche altri, figurarsi. Ad esempio Graziano Delrio, che ha la dote eccelsa di essere l’unico a mettere d’accordo il Giglio magico (non piace né a Boschi, né a Lotti): peccato continui a dire di no, come gli hanno raccomandato di fare anche i figli («saggio consiglio», è la reazione più diffusa). «Ma tutti questi che si candidano, vogliono davvero fare i segretari?», è la domanda verace che circola tra i quadri residui del partito. Macché, certo che no. È uno stile da vita spericolata, alla Vasco: «Ognuno con il suo viaggio, ognuno diverso, ognuno in fondo perso dietro i fatti suoi».

Effetto lumache
Ma allora cosa c’entra la guida del Pd? Poiché Renzi si è dimesso, è apparentemente contendibile anche la linea del partito. In realtà, come spiegano, non è affatto detto che sia così, visto che lui continua ad avere la maggioranza, in posti come il Senato o l’Assemblea nazionale del Pd, e visto pure che «elezioni e congresso sono due cose diverse». Ma poiché, come le lumache, i democratici tendono naturalmente a raggrupparsi nei posti più protetti dal vento, queste maggioranze potrebbero cambiare nelle prossime settimane, anche senza un nuovo congresso. È già successo all’epoca del passaggio tra Bersani e Renzi, e innumeri volte prima. Così, adesso, ciascuna sfumatura di candidato segretario incarna una risposta leggermente diversa alla domanda: partecipiamo o no a un governo, alla fine?

Non ci sono alternative: questo Pd va sciolto
I democratici dovevano rinnovare la sinistra e invece l’hanno riportata al passato tenendola bloccata su divisioni figlie di tradizioni superate. E no, non possono stare insieme quelli che vogliono dar voce ai nuovi sfruttati e quelli che cercano voti nell’elettorato filo berlusconiano

Fermo, come dietro la linea gialla
È il suo lascito pre-dimissioni, dallo strano sapore prodiano. Renzi vuole a tutti i costi stare fuori dall’esecutivo: «All’opposizione anche nel caso di un governo di tutti dentro, ma non per partito preso», è una delle più recenti, illuminanti, raccomandazioni. Ma poi, a tastargli il terreno attorno, salta fuori che anche l’ex premier non è così sicuro e potrebbe, dicono i renziani, «cambiare idea». Si può capirlo. La posizione è comunque scomoda, visto che è costretto a scegliere tra due rischi: il niente (l’opposizione) e l’irrilevanza (il governo). Di qui, la triplice linea di «non».

Non vedo l’ora
I renziani di stretta osservanza seguono la pista con più sicurezza del loro mentore: «Non vedo l’ora che giuri un governo Salvini-Di Maio», scrive su Facebook Andrea Marcucci, il renziano che ha preso il posto di Zanda come presidente dei senatori Pd. Ovviamente il presupposto è che presto sia chiaro che quel governo non va da nessuna parte. Ma sarà davvero così? E ce l’ha Renzi il tempo di aspettare? Non lo sa neanche lui.

Non auspico
La faccenda è talmente ambigua, che si riflette pure nella linea di Maurizio Martina. Capofila di un linguaggio da Enciclica papale. Il reggente del Pd dice che il partito anche dall’opposizione può fare tante cose diverse, mica è congelato: «Non auspico un governo M5S Lega, dico che l’esito elettorale ci consegna una funzione, stare all’opposizione. Ma questo non significa isolarci o metterci nel freezer».

Non mi auguro
Ecco perché dal «non auspico», si arriva presto al «non mi auguro», che sta però dall’altra parte del fiume - dalla parte che si sporcherebbe le mani per fare un governo, eccome. «Non mi auguro che Lega e Cinque Stelle facciano il governo. Un esecutivo populista-sovranista non è una prospettiva positiva per il Paese. Io in realtà non vedo l’ora che falliscano». Con queste parole Walter Verini, veltroniano, spiega come una parte del Pd sarebbe pronta a rientrare il gioco. È la linea governista, quella che va da Dario Franceschini ad Andrea Orlando passando per gli altri big non renziani e che sarebbe più pronta a raccogliere i solleciti del Quirinale per scendere dall’Aventino.

Sette per cento
È il teorema utilizzato da Renzi per chiarire che il governo coi Cinque stelle non si può fare. «Ci vorrebbe praticamente tutto il Pd, Il 93 per cento dei gruppi. E diciamo che almeno il 7 per cento sta con me, questo almeno potete concedermelo?». Non pochi però ipotizzano per Renzi un futuro a stampo socialista. Craxiano, anche quanto a percentuali. Un partito piccolo, agile: da 7 per cento appunto.

Statua, o astronave
Ma il partito? Metafora di un deputato Pd, al battesimo della legislatura: «È un partito devastato interiormente. È come una statua rotta. Ci vorrà un anno per numerare i vari pezzetti, capire cosa è rimasto. Dopodiché si deciderà se con quei pezzi ci si vuol rifare la statua o una astronave».

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