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Autore Discussione: MARCO ALFIERI. "I soldi non ci sono" Le imprese temono la stretta credito  (Letto 2339 volte)
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« inserito:: Settembre 26, 2011, 09:38:27 am »

Economia

23/09/2011 - DOSSIER/ LA PAURA DEL NUOVO «CREDIT CRUNCH»

"I soldi non ci sono" Le imprese temono la stretta credito

Sale il costo dei prestiti, si chiudono i rubinetti

Come la tempesta dei mercati arriva alle aziende

MARCO ALFIERI
MILANO

Sarà stato il 5 o 6 settembre, dalla banca mi arriva una telefonata improvvisa: “dottore, deve passare in filiale per ridiscutere gli interessi sul fido”. Ci rimango di sale perché ho quasi 300 mila euro di titoli a garanzia», racconta trafelato Carlo Stefanoni, titolare di una piccola azienda di Pesaro (13 dipendenti) che fa mobili da 40 anni. Una impresa sana, conosciuta sul territorio.

Chiusura improvvisa
Eppure al rientro dalle vacanze qualcosa si è rotto. «Avevo anche chiesto un’estensione da 60mila euro sul fido per penetrare il mercato turco dopo i contatti stretti ad una fiera prosegue Stefanoni - ma niente, me lo hanno negato...».
Caso isolato? Non proprio. «Nelle ultime settimane ci arrivano dai nostri associati segnalazioni di nuove restrizioni sul credito», conferma Bruno Panieri, direttore per le Politiche economiche di Confartigianato. «Richieste di rientro improvvise, atteggiamenti occhiuti per una rata sforata di pochi giorni, ritardi nelle istruttorie di richiesta fidi…». Avvisaglie tipiche di credit crunch e di selezione brutale del credito. L’impressione di Panieri è che «si tratti di un’azione coordinata delle banche». Se il trend si consolida, influenzato dai criteri restrittivi di Basilea 3, per molte imprese sopravvissute alla crisi globale sarebbe il disastro.

Da Varese, una delle province manifatturiere più importanti d’Italia, il direttore generale di Univa (gli industriali locali), Vittorio Gandini, ammette il potenziale avvitamento: «purtroppo l’aumento del costo del credito che ha colpito il Tesoro italiano si sta riflettendo sulle banche che, a cascata, lo scaricano sulle imprese». Spiazzando un tessuto produttivo in convalescenza, intento a ristrutturarsi, rifinanziare il patrimonio e ricostituire le scorte, grazie anche alla ripartenza dei prestiti bancari: +3% a dicembre 2010, +4,5% nel semestre successivo. Sembrava un segnale di ripartenza. Dopo l’estate, invece, ecco il diluvio. Gli economisti in gergo lo chiamano « repricing ». In sostanza gli intermediari riprezzano tutti i loro crediti, chiamando uno a uno i clienti. Inevitabile. La velocità della stretta è legata al contagio dei nostri titoli di Stato. «I tassi sul debito pubblico sono il termine di riferimento per il costo della raccolta bancaria», scrive il professor Marcello Messori. Per questo «l’aumento del differenziale fra bund e Btp grava sui costi di approvvigionamento». Più lo spread sui titoli governativi aumenta, più gli istituti devono pagare per collocare il loro debito. Il resto lo fa l’urgenza di aumentare la redditività (nel 2010 i primi 5 gruppi italiani hanno avuto rendimenti sul capitale pari alla metà di quelli delle maggiori banche dell’eurozona).

Il baratro su cui stiamo ballando, nei miasmi della politica, lo riassume bene un banchiere: «Dopo la riduzione del nostro rating da parte di S&P - spiega sotto anonimato - i Cds (Credit default swap) delle banche italiane, da Intesa Sanpaolo a Unicredit a Banco Popolare, sono andati alle stelle. Se oggi dovessero finanziarsi sui mercati con emissioni non garantite da collaterale e non subordinate, sarebbero costrette a pagare spread altissimi». Falcidiando a valle un sistema industriale poco patrimonializzato (in media -30% rispetto alle imprese tedesche e francesi) e troppo bancocentrico, dove la borsa e il capitale di rischio non sono mai davvero decollati. E se non hai equity da terzi, o soldi tuoi, devi bussare strutturalmente di più allo sportello. Non a caso il rialzo dei tassi applicati dalle banche coinvolge l’intera industria italiana. Chi ha fatturati in calo ed è troppo indebitato insieme a chi esporta molto e possiede un’ampia gamma prodotti. Decotti e virtuosi. Come ha raccontato il giornale online Linkiesta , «in molti casi l’aumento dello spread applicato all’Euribor a 3 mesi (oggi a 1,5%) arriva fino a 4 punti percentuali».

Credito troppo selettivo
Insomma è una miscela esplosiva. «Differenziali così alti sono un grave problema per il sistema industriale. Il nervosismo delle imprese nasce da questa consapevolezza», ragiona Vincenzo Boccia, presidente della Piccola Industria di Confindustria. «Calmierare gli aumenti è possibile solo rilanciando la crescita e riacquistando credibilità». Specie in un paese in cui le sofferenze del sistema valgono quasi 100 miliardi di euro e sono uno dei motivi del recente declassamento del rating di alcune banche, i debiti verso fornitori non saldati causa fallimento fanno altri 40 miliardi e i default aziendali schizzano del 13,1% (nel secondo trimestre 2011).

«Nemmeno se metti a garanzia tutto quel che hai in questo momento riesci ad avere soldi...», si lamenta Enrico Romanato, uno dei titolari della padovana Sealand (elettropompe e sistemi di pressurizzazione), 30 addetti per 6,5 milioni di fatturato, la maggior parte fatto all’estero sui mercati emergenti. Già a fine luglio, in un sondaggio della locale Confindustria, il 47,7% delle imprese segnalava un aumento del costo del denaro e un credito bancario troppo selettivo.

Tre anni fa le piccole banche italiane diventarono lo sportellorifugio per le tante Pmi strozzate dal taglio dei fidi dei big del credito. Tirarono a tutta per sostenere distretti e territori produttivi, dando più credito in percentuale del resto del sistema e aumentando gli impieghi del 40 per cento. Il sistema è sano ma adesso anche loro tirano il fiato. Se nel 2007 l’utile complessivo della galassia Bcc valeva 4 miliardi, nel 2010 è crollato a 400 milioni. Cose mai viste. Significa che valvole di sfogo, questa volta, non ce ne sono davvero più…

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/421601/
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