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Autore Discussione: Oreste Pivetta. Ma l’Italia si merita ancora Tremonti?  (Letto 3876 volte)
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« inserito:: Settembre 10, 2007, 10:46:54 pm »

Decadenza d’Italia

Oreste Pivetta


Ciò che colpiva a San Siro mentre la banda in campo intonava la Marsigliese erano più dei fischi la globalità della fischiata e la globalità della figuraccia. Come se il concerto antifrancese fosse preordinato, come se un regista avesse premeditato e organizzato tutto: non un fischio qui e là cui si uniscono altri fischi e altri ancora, fino a sommergere le note del più popolare inno del mondo, ma uno scatto collettivo, come il plotone d’esecuzione, quando il comandante abbassa la spada e ordina: «fuoco».

Fuoco contro chi: contro gli undici in campo, contro Domenech in tribuna, contro due secoli di storia, che appartiene, volenti o nolenti, a tutti, perché la Marsigliese non è un allenatore, non è Diarra, è un simbolo, qualcosa che riguarda l’umanità e alcuni tra i suoi principi più nobili, all’inizio, alla base, di qualsiasi possibile o realizzata civiltà.

Chissà se qualche fischio di dissenso si sarà levato: fischi contro fischi. Nel catino di San Siro, in quella bolgia, le sfumature si perdono. Ho visto gente che si alzava in piedi, com’era giusto. Anche i nostri calciatori, finita la competizione, hanno riconosciuto la detestabile violenza del fischio, mostrando stupore e rincrescimento: quello era l’inno di un paese che ci sta vicino, cugino se non fratello. Un paese amico e alleato. Ma anche fosse stato un impensabile nemico, che cosa sarebbe cambiato? Non dovrebbe essere lo sport una ragione di amicizia, non entusiasmò una volta la strategia del ping-pong a riavviare i rapporti tra Usa e Cina?

Verrebbe, per scusarsi, di ripiegare sulla solita conclusione-giustificazione: è solo calcio, per sminuire l’affronto e addolcire la sentenza. Cioè a muovere l’insulto corale sarebbero state soltanto la rivalità calcistica, le offese, la tensione eccetera eccetera, sostenute peraltro da quel melodrammatico e triviale marchingegno di enfatizzazione che i nostri media non ci negano mai (tranne rare eccezioni). Come se le parolacce dell’allenatore fossero un mare di fango che minaccia di scivolare fin sopra le nostre teste, come se vincere o perdere fosse questione di vita e di morte, come se la Francia del pallone dovesse evocare la «perfida Albione». Dimenticando l’autocritica, trascurando le inefficienze (e le fortune) sportive tutte nostre e altre magagne attorno alle quali ormai si preferisce sorvolare: arbitri, telefonate, persino Moggi, risalito dall’inferno della corruttela al paradiso delle tribune televisive, sulla via della beatificazione dopo il suo viaggio di preghiera a Lourdes in compagnia del cardinal Ruini. D’altra parte la Chiesa non volge mai le spalle ai peccatori. Figuriamoci se ne è capace la televisione (in virtù dell’audience).

Viene difficile però chiudere con il calcio, proprio in ragione di quella «globalità» del fischio, che non è un «caso», ma un brutto segno collettivo di decadenza, di volgarità, di incultura, di chiusura in un mondo che va da tutt’altre parti. Come se avessimo dimenticato il passato, avessimo cancellato la complessità del presente, avessimo oscurato persino banali regole di ospitalità (regole millenarie e molto spesso meglio rispettate in paesi, che nel «nostro» fondamentalismo occidentale consideriamo ai margini).

Viene difficile ragionare soltanto di tifo, di rivalità, criticare solo la retorica dei giornali, l’emotività di telecronisti, sempre sul punto di raccontare la fine del mondo, altre risse calcistiche, passionalità a pagamento, l’assenza di una misura che una volta, quando s’era tutti più poveri ed educati, esisteva. Viene voglia invece di spingersi in là, pensando che se il calcio staziona al centro della provincia italiana, qualche responsabilità è della politica, che non sa più attrarre, non aiuta a ricostruire graduatorie di valori autentici (nelle quali il calcio si troverebbe sistemato piuttosto in basso), ci illustra modelli rumorosi a colpi di fucilate e di bestemmie.

Forse i motivi dell’onda sibilante sono altri ancora, motivi che sembrerebbero lontanissimi: ai miei tempi a scuola fin dalle elementari insegnavano a cantare la Marsigliese, insieme con il coro del Nabucco e il Piave che mormorava, e un volonteroso maestro cercava di illustrarne i contenuti. Forse oltre la crisi della politica si dovrebbe contare il deficit della cultura, ridotta a teatrino di modeste e presuntuose esibizioni, da premio letterario o da quiz...

Per provare a capire, proviamo a guardare il quadro di un paese che non soffrirà più l’emergenza economica come ci assicura Tommaso Padoa-Schioppa, ma che di emergenze ne vive tante altre, più dirompenti del Pil. Basterebbe guardarsi attorno, senza pregiudizi consolatori. Basterebbero quei fischi.

Pubblicato il: 10.09.07
Modificato il: 10.09.07 alle ore 13.18   
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 09, 2008, 05:43:26 pm »

Il vescovo Mieli benedice la «costrizione provvidenziale»

Oreste Pivetta


Lo dirà o non lo dirà? A due mesi dalle elezioni l’interrogativo traversa la politica italiana e Paolo Mieli, ottimo direttore attento alle curve delle vendite, sa bene quanto possa giovargli l’incertezza dell’attesa. Due anni fa, l’8 marzo festa della donna e un mese dal voto, sorprese tutti dicendolo senza timori... «il nostro giornale auspica un esito favorevole ad una delle due parti in competizione: il centrosinistra». E spiegò, di nuovo senza timori, le ragioni: «... il governo ha dato l’impressione di essersi dedicato più alla soluzione delle proprie controversie interne e di aver badato più alle sorti personali del presidente del Consiglio che non a quelle del Paese». Per essere più chiaro, Mieli aggiunse elogi ben motivati intanto a Romano Prodi e poi a «quattro o cinque personalità del centrosinistra»: Rutelli, Fassino, Pannella, Boselli e, infine, anche Bertinotti... Per essere ancora più chiaro “auspicò” dopo la vittoria del centrosinistra anche il ridimensionamento di Forza Italia e la crescita dei partiti guidati da Fini e Casini...

L’altra sera Mieli, con Ferruccio De Bortoli, direttore del Sole24Ore, è passato da Giuliano Ferrara, per ascoltare rivelazioni a proposito della rinascita del partito delle libertà o del popolo che pareva morto neonato. Mieli lo vedremo ancora in tv, come è capitato in passato: più facile vederlo che leggerlo. Stavolta non s’è risparmiato: ha scritto pure il fondo del Corriere, presentato ieri da un titolo che non sarà endorsement, ma è già pronunciamento. Tra le righe, se si può dire a proposito di due righe: Il Pd e la scelta di andare solo (occhiello) e La costrizione provvidenziale (titolo).

Il corpo dell’articolo è un excursus storico: in breve, la storia delle socialdemocrazie europee, risalendo dal finesecolo (diciannovesimo) italiano alla repubblica di Weimar al dopoguerra inglese e tedesco per tornare all’Italia, su su fino alla nascita del centrosinistra e poi dell’Ulivo. Ma l’avvio del commento di Mieli è ovviamente d’attualità: il cammino solitario di Veltroni nel segno della rottura con il passato, con il passato anche delle alleanze (che Mieli sembra contare solo a sinistra, trascurando che il taglio vale anche per il resto dell’Unione: è vero che Dini e Mastella se ne sono andati per conto loro, ma il messaggio vale anche per gli eventuali emuli di Dini e Mastella e comunque non è unidirezionale, altrimenti che senso strategico avrebbe?). Scrive Mieli: Veltroni ha deciso così, costretto dalla situazione, se fosse tornato al “caravanserraglio” sarebbe andato al disastro elettorale (caravanserraglio che ha comunque consentito al governo Prodi di offrire «una prestazione di tutto rispetto»: questo riconosce Mieli, dopo aver nei mesi scorsi schierato il fior fiore dei suoi commentatori contro Prodi e i suoi ministri). Dopo aver considerato (ma si torna alla storia) che in Italia mai il principale partito della sinistra si è posto nelle condizioni di «candidarsi davvero a governare - con un programma di riforme coraggiose sì ma compatibili - al riparo da veti e intrusioni da parte di entità politiche collocate su posizioni estreme»,

Mieli conclude con entusiasmo che quanto sta accadendo al Partito democratico sarà qualcosa che andrà ben al di là di ciò che si deciderà con il voto.
E se proprio non andrà male, se si conterà un risultato oltre il 30 per cento, il partito di Veltroni «potrà dispiegare una politica potente in grado di dare frutti molto prima di quanto si pensi». Il direttore di via Solferino l’aveva già scritto, in un altro fondo dell’aprile 2007 (di anno in anno, primavera fatale), prevedendo: «Solo se guidato fin dai primi passi da un capo certo e carismatico il partito democratico potrà avere successo. Un successo i cui effetti, riverberandosi anche nel campo opposto, possono produrre una stabilizzazione dell’intero sistema. Di che c’è evidente bisogno». Il partito democratico “motore” del rinnovamento? Se non è l’endorsement dell’8 marzo, è almeno una benedizione, cui si contrappone la tiepida constatazione del ritardo di Berlusconi, compensata dal riconoscimento (anche davanti a Giuliano Ferrara) di «non immeritate chances di vittoria» che sa di accomodamento, di contraddizione, visto che non è successo nulla nel frattempo per cancellare la bocciatura, assai dura, netta, di due anni fa. La coerenza può piegarsi, evidentemente, al gusto della suspense o agli obblighi dell’ospitalità: avrà pur contato qualcosa la visita a palazzo Grazioli di qualche sera fa?

Si capisce che Mieli deve pensare anche al proprio futuro oltre che a quello del paese tutto. Si sa che il Corriere della Sera e Rcs sono “corazzate” ma non sono insensibili alla direzione dei venti, soprattutto non è insensibile il “condominio” (un altro caravanserraglio?) che la guida dai piani alti. Paolo Mieli presidente di Rcs? Oppure della Rai? La Rai una volta l’aveva rifiutata. Il direttore non può farlo a vita ed è ovvio che voglia tenersi aperte almeno due porte. Ma se la sente di riconoscere, in punta di storia e di teoria, il segno nuovo tracciato da Veltroni.

Pubblicato il: 09.02.08
Modificato il: 09.02.08 alle ore 9.38   
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 23, 2008, 11:26:49 pm »

Veronesi: lascio la corsia ora voglio fare le leggi

Oreste Pivetta


Lascia la corsia. Umberto Veronesi, il medico, lo scienziato più amato dagli italiani, ha deciso che è arrivato il momento di lasciare la corsia per la politica. Anzi «per fare le leggi», affidando alla politica la responsabilità dei passi avanti, della concretezza. Con il Partito democratico di Walter Veltroni. Guiderà la lista per il Senato in Lombardia. Ottanduenne (è nato a Milano il 28 novembre 1925), figlio di una famiglia contadina, laureato in medicina nel 1950, è stato uno dei pionieri della lotta contro i tumori in Italia, un ricercatore sempre vicino ai suoi malati. Tanti anni in camice bianco, un solo rapido contatto con la politica, quando tra il 2000 e il 2001 fu ministro della sanità con il governo Amato (ma nel ‘93 era entrato, invitato dall’allora ministro Costa, nella Commissione incaricata di programmare un piano nazionale contro il cancro). Gli italiani lo hanno visto tante volte spiegare come l’arma più efficace contro la terribile malattia fosse la prevenzione, niente fumo, alimentazione corretta, stile di vita sobrio. Tante volte in televisione, tante volte persino dai manifesti in una campagna per la lotta contro i tumori.

Professor Veronesi, ci dica perchè s’è deciso ad affrontare questa avventura.

«Mi è capitato di sentirmi corteggiato altre volte, tante altre volte. Due anni fa rinunciai a una candidatura importante: sindaco di Milano, la mia città. Ho continuato nel mio lavoro. Questa volta ho deciso diversamente. Mi hanno convinto gli amici, mi ha convinto la stima che ho sentito nei miei confronti. Mi hanno convinto anche la vista di un paese che manifesta una profonda disaffezione per la politica e la necessità di reagire. Della politica sono sempre stato un attento osservatore, fin dai tempi in cui ero compagno di ricerca con Pietro Bucalossi, che fu sindaco di Milano. Ma me ne sono sempre tenuto fuori. Dopo cinquant’anni sul campo, in corsia, accanto ai malati, nei laboratori di ricerca, ho pensato che si potesse percorrere quest’altra strada».

Proprio nel Partito democratico di Walter Veltroni?

«Un partito nuovo, aperto, che mi sembra possa garantire dibattito e circolazione di idee. È un sogno mio e di molti altri, credo, poter frequentare un luogo di democrazia vera, dove confrontare opinioni, problemi, soluzioni... Mi sono sempre sentito vicino alla sinistra. Ripeto: c’è tanta delusione in giro, mi sembra che il momento sia particolarmente difficile, credo che a un certo punto non si debba aver paura di metter le mani nella politica».

Per discutere anche di questioni etiche?

«Mi sembra che di questioni etiche si faccia un gran strumentalizzare, coltivando molti equivoci. Comunque non dovrebbero rappresentare l’oggetto di una attività parlamentare. Se si parla di aborto, facciamo presente che c’è già una legge, la 194, che nessuno vuole toccare. Se si parla di testamento biologico, ricordiamo che il tema è già affrontato da varie proposte legislative».

Allora quali obiettivi si dà il professor Veronesi?

«Intanto vorrei modernizzare il sistema sanitario. Vorrei ospedali più moderni. Quando ero ministro, con Renzo Piano s’era studiato e sviluppato un progetto architettonico, una ristrutturazione radicale che creasse spazi più liberi, più umani, più accoglienti... Vorrei poi che la ricerca nel nostro paese facesse un gran salto in avanti, che gli investimenti si collocassero ai livelli europei, cioè a un punto e mezzo in percentuale del pil, prodotto interno lordo, e vorrei che la ricerca si misurasse con grandi temi, come la biomedica, le fonti energetiche, il clima. Insomma ho di fronte a me due capitoli, molto concreti come si intuisce: gli ospedali e i centri di ricerca».

Sarebbero già due obiettivi di grande impegno...

«Ne aggiungerei altri, perchè sono un convinto pacifista e quindi credo che la pace del mondo debba stare al primo posto nell’agenda politica, vorrei che l’Italia si battesse per il disarmo, che desse il suo contributo alla lotta alla fame nel mondo, che si lavorasse per un’equa distribuzione del cibo, perchè si salvaguardasse una risorsa preziosa come l’acqua, vorrei che lungo questa strada s’avvertisse la corresponsabilità di tutti i paesi. Di fronte a queste urgenze, si riscopre il valore della politica. A questo si dovrebbe rivolgere il Parlamento. Per il resto, per le questioni etiche così come spesso vengono strumentalmente esposte negli ultimi tempi in Italia, ci sono i circoli culturali...».

Non tutti la pensano come lei?

«Non ho alcuna difficoltà a confrontarmi con chi non la pensa come me. Con la senatrice Binetti ho un ottimo rapporto».

Non altrettanto buono sembra il suo rapporto con Giuliano Ferrara... Che ha già fatto sapere con i suoi toni apocalittici: «Al Senato in Lombardia la battaglia elettorale è perfettamente definita: il diritto di vivere contro il diritto di morire, Roberto Formigoni contro Umberto Veronesi».

«Ferrara mi attacca da sempre. Non è una novità la sua polemica nei miei confronti. Niente di personale: lui può ripetere le sue idee, io esprimo le mie. Una volta s’è persino accorto d’aver sbagliato. Ha chiesto pubblicamente scusa»...

Quando Ferrara, durante Otto e mezzo, gli fece dire che avrebbe soppresso tutti i prematuri, leggendo malissimo un’intervista alla Stampa. Non era così. Ferrara rimediò, dichiarando l’errore.

Pubblicato il: 23.02.08
Modificato il: 23.02.08 alle ore 10.54   
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 10, 2008, 03:36:12 pm »

Ma l’Italia si merita ancora Tremonti?

Oreste Pivetta


Giulio Tremonti vive ormai in televisione, inchiodato, ingessato, i capelli irrigiditi nell’immutabile onda argentea, l’aria di chi si concede accanto a inutili comprimari a milioni di telespettatori in attesa, la voce che detta argentina le sentenze necessarie all’esistenza del Paese, l’ambizione del motto di spirito... E qui Tremonti frana perché è uno di quegli individui totalmente privi di quel senso dell’umorismo di cui vorrebbero recar dono all’universo mondo e che producono catastrofi quando tentano di mostrarne anche solo un’ombra. Era difficile sopportarlo prima, quando sedeva alla scrivania di un ministero. Peggio adesso quando è la ripetizione, ma senza il ministero. Che magari riavrà, perché in questo paese può succedere di tutto. In realtà Giulio Tremonti non avrebbe voluto un ministero. Avrebbe atteso ancora un paio di anni, avrebbe atteso volentieri la fine naturale del governo Prodi, avrebbe atteso che Berlusconi fosse invecchiato un poco ancora. Sarebbe salito così in alto, fino all’ufficio del capo del governo. Invece si ritrova umiliato nell’attesa di una successione, in una sfida che gli mette tra gli intralci persino la Brambilla.

Dopo anni di condoni e di gite in bicicletta con Umberto Bossi a progettare la grande strategia nordista, si ritrova al punto di partenza: fermo, fermissimo, con la speranza di rifare tuttalpiù quello che ha già fatto (anche nella corsa alla Farnesina si ritrova davanti qualcuno: Formigoni), senza l’entusiasmo del neofita, quasi con rassegnazione come lascia capire attraverso le dotte pagine di un suo libro quando scrive che di fronte alla crisi si sono buttati via dieci anni (una buona parte dei quali trascorsi con Berlusconi).

Il libro in questione si intitola “La paura e la speranza. Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla”. Centoventi pagine, sedici euro. Lo pubblica Mondadori, che spera probabilmente più che negli incassi in un futuro sgravio fiscale. Leggerlo pare di trovarsi accanto il solito compagno di panchina, uno di quei tipi acidi che parlano di tutto e che concludono, per dirla con Fazio il presentatore, che le stagioni non sono più quelle di una volta e che i cinesi ci tolgono il pane. Non che faccia il destro, non che faccia il berlusconista. Non si sa che cosa faccia. Seguendolo nella pratica dell’iterazione e dell’elencazione (una bestemmia, si dovrebbe lasciare in pace il grande Perec) lo si potrebbe definire all’interno di un apertissimo range di ismi, cioè di ista: anticonsumista, antimercatista, colbertista, protezionista, citazionista, ambientalista, familista, federalista, catastrofista, globalista, antiglobalista, localista, futurista, nuclearista, tributarista, fiscalista.

Se proprio volete mettervi alla prova con la lettura di Tremonti, siate forti perché si comincia con la “paura”. Alla prima riga scoprirete che «è finita in Europa l’età dell’oro». Che è finita la fiaba del progresso continuo e gratuito. Attenti: «Il tempo che sta arrivando è un tempo di ferro». Dove qualcuno potrebbe supporre che stia arrivando anche il fuoco e che quindi ci si possa ritrovare al più presto nel mezzo di una bella guerra... Ma no: è solo il fantasma della povertà che si sta affacciando alla nostra porta.... Colpa del mercatismo, dell’idea cioè che tutto si possa chiudere dentro le regole del mercato: una «fanatica forzatura», secondo Tremonti, sublime critica al capitalismo (ma s’era già fatto sentire un paio d’anni fa, in tono, ad un convegno di Gianni Alemanno). Da un estremo all’altro, sintetizza Tremonti, from Marx to market, comincia a dettare, dall’utopia comunista all’utopia mercatista, a «un territorio - leggete - popolato da nuovi simboli, da nuove icone, da nuovi totem: pop, rap, jeans, reality, ecstasy, pc, online, e-commerce, e-bay, i-pod, dvd, facebook, r’n’b, disco, tecno, tom tom, ecc.». Mai come in questo caso si sentiva le necessità dell’eccetera... L’eccetera che ci conduce alla... «Possiamo... chiamarla come vogliamo: turbamento, crisi, tempesta, collapse, storm, turmoil, distress, crunch». Dentro la crisi o il turmoil o il distress una parte hanno avuto le nuove megabanche e i loro subprime, «il primo anello di una lunghissima catena di fuga dal rischio e di corsa ai profitti». Lo dice Tremonti. «Una fuga e una corsa fatte con tanti altri strumenti: wehicle, conduit, asset-backed commercial papers, collateralized debt obligations, derivatives, monolines, hedge funds, ecc.». Un altro eccetera: altrimenti chissà dove sarebbe arrivato... «non si può più dire che questa sia linea giusta...». Sul mercatismo, però, la sinistra , la parte maggiore della sinistra, «cioè quella governista», «tace e acconsente». Sinistra “nuovista”, che considera bello e buono tutto ciò che le appare nuovo. Dunque sinistra trasformista, movimentista, populista, sincretista, relativista, liberista (per non dimenticare nell’ansia polemica il professor Giavazzi, colpevole d’aver scritto “Il liberismo è di sinistra”), una sinistra postsessantottina (postsessantottista), perché si dovrà pur criticare il Sessantotto (corre un decennale), che ha cancellato i bisogni e ha scoperto i desideri, senza rimediare ai suoi vizi statalisti: il mio impegno è il vostro desiderio, l’ope legis al posto del merito. Conseguenza: cadono i valori, cade l’autorità. Per rimediare, arrivando alle soluzioni tremontiane, bisogna ripristinare i valori e l’autorità e in più la famiglia e l’identità, l’ordine, responsabilità e, per concludere, il federalismo. Un’impennata: senza il ricorso a Bossi saremmo al lamento della panchina. Non ci sono più le stagioni di una volta, i giovani non rispettano l’autorità, l’ordine? dove sta l’ordine? con tutte queste leggi, chi le rispetta più? la famiglia con tutti questi divorzi e poi vogliono sposarsi anche tra di loro, l’orrenda famiglia orizzontale dei pacs, tutti alla pari (e cioè, testualmente: «cohabitation légale, wettelijke samenwoning, registeret partnerskab, pacte civil de solidarieté, eingetragene lebenspartnerschaft, civil partrnership»), nessuno si prende più le sue risponsabilità. Miracolo: Tremonti non cita l’invasione degli immigrati, ma ci vorrebbe armati di balzelli e vincoli fiscali contro l’invasione degli ultracorpi asiatici (suscitando la curiosità di Panebianco, ieri sul Corriere, ennesima puntata del reality di via Solferino pro-Tremonti).

Rivolgendoci lo sguardo l’ex ministro invoca una nuova forma di welfare. Affidandosi al volontariato, sotto il campanile, che è la piccola patria nella quale ciascuno di noi si può riconoscere, «ubi bene, ibi patria». Per uno che cita, in disordine, Platone, Hegel, Marx, Engels, Walter Rathenau, Luigi Einaudi, Malthus, Alessandro Manzoni, Dahrendorf, Paul Klee, Ulrich Beck, accanto agli innumerevoli scritti del medesimo professor Giulio Tremonti, è una fine misera, angusta, un po’ egoista.

Pubblicato il: 10.03.08
Modificato il: 10.03.08 alle ore 8.18   
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