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Autore Discussione: Stefano Rizzo, Obama, la Libia e la Siria  (Letto 1995 volte)
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« inserito:: Settembre 02, 2011, 09:54:34 am »

Stefano Rizzo,   30 agosto 2011, 17:08

Obama, la Libia e la Siria     

Il modello di intervento in Libia chiude una strada ponendo rigidi paletti. In netto contrasto con l'era Bush, gli Stati Uniti rinunciano ad agire da soli (a meno che la loro sicurezza non sia direttamente minacciata -ma questo è un diritto di ogni paese). E subordinano qualunque intervento sanzionatorio al consenso e alla partecipazione della comunità internazionale, in particolar modo dei paesi confinanti. Deve inoltre esservi una richiesta esplicita della popolazione colpita e la concreta possibilità di difenderla nel territorio dove si trova. Tutti questi elementi erano presenti in Libia. Non lo erano in Iraq. Non lo sono in Siria


Sembra che siamo ormai alle battute finali del regime di Gheddafi. Tripoli è conquistata dagli insorti. La resistenza all'ultimo sangue dei lealisti non c'è stata. La famiglia di Gheddafi è fuggita in Algeria. Lui stesso forse fuggito o forse ancora nascosto in uno dei suoi tanti bunker. Comunque isolato e in procinto di cadere. Le truppe dei ribelli intanto convergono su Sirte, la sede tribale del colonnello: andrà anche lì come a Bab al-Aziziya, cioè con una rapida resa, o ci saranno altri scontri sanguinosi? Lo sapremo nelle prossime ore e giorni. Tripoli intanto è una città nel caos e allo stremo, di fatto ancora isolata, dove manca tutto: luce, gas, benzina, generi alimentari, servizi sanitari. Gli ospedali sono al collasso per mancanza di medici e medicine. Le strade sono percorse da bande armate in cerca di bottino, che compiono regolamenti di conti - dall'una e dall'altra parte. Sono stati scoperti centinaia di cadaveri giustiziati nelle ultime ore prima della presa della città: vendette dei ribelli o esecuzioni dei lealisti contro i "traditori".

Tutto questo, purtroppo, rientra nella normalità dell'epilogo di una guerra civile, tanto più questa condotta da una parte dai militari del regime e dall'altra da truppe di ribelli disorganizzati, senza addestramento e senza un comando unificato. Il presidente pro-tempore del Consiglio nazionale di transizione Mahmoud Jibril ha lanciato l'allarme: servono soldi per pagare gli stipendi, per rimettere in moto la macchina amministrativa, per riorganizzare le forze di polizia e riportare rapidamente - la rapidità è essenziale per bloccare ulteriori degenerazioni - un minimo di ordine nella città sconvolta dalla violenza.

Se davvero questa guerra, iniziata sei mesi fa con l'insurrezione di Bengasi e la generalizzata repressione del regime, sta per finire, chi ne è il vincitore? Il popolo libico? I francesi e gli inglesi che hanno iniziato da subito i bombardamenti contro le truppe del regime? Gli americani che hanno bombardato anche loro e messo poi a disposizione il loro imponente e ipertecnologico arsenale militare? Le Nazioni Unite che hanno deciso di agire sulla base del principio della "responsabilità di proteggere" la popolazione civile e hanno autorizzato l'intervento armato? La Nato, che dopo le prime settimane, ha assunto la direzione delle operazioni dall'alto? L'Unione Europea e il "gruppo di contatto" comprendente anche numerosi paesi dell'area che ha dato la copertura politica ai ribelli e al loro embrionale governo provvisorio?

Pensiamo che il primo a vincere sia stato il popolo libico -- non tutto certo, ma quella parte consistente di esso che, anche a costo di grandi sofferenze, ha deciso di ribellarsi al suo dittatore di oltre quaranta anni. Non vi è nessuna certezza di cosa succederà adesso: se vi sarà un progresso verso un ordine più democratico e più rispettoso dei diritti umani, o se invece si assisterà ad una lunga situazione di stallo nella quale i gruppi dominanti del passato regime cercheranno di rientrare in gioco contendendo agli esponenti dei rivoltosi il controllo politico del paese. Potrebbe succedere come sta succedendo in Tunisia e in Egitto dove il processo di creazione di istituzioni democratiche sembra si sia arenato, o sta procedendo molto a rilento. Su tutto poi pesa lo spettro di una lunga coda sanguinosa della guerra civile - in stile Iraq - in cui le forze armate del regime, organizzate in alcune roccaforti tribali o diffuse sul territorio, scateneranno una serie di attentati, di vendette e di contrattacchi.

E' difficile prevedere cosa succederà. Le incognite sono ancora troppe e l'esperienza insegna che la strada verso la pacificazione democratica è lunga e tortuosa. Certamente determinante sarà il ruolo degli Stati Uniti, dei paesi europei e dei paesi arabi nel sostenere economicamente e organizzativamente il processo di transizione: riaprire gli impianti petroliferi, sbloccare i beni congelati del passato regime, fare affluire denaro fresco alla nuova amministrazione, aiutare a riorganizzare le forze di sicurezza, mantenere alta la guardia contro il riaccendersi di focolai di scontri.

Ci sono segnali incoraggianti che questo è quello che si intende fare: le dichiarazioni dei diversi protagonisti vanno tutte in questa direzione. Del resto, favorire la nascita di una nuova Libia è anche nell'interesse dei paesi occidentali e del mondo arabo. Non solo interessi economici (petrolio e investimenti), ma interessi legati alla sicurezza della regione. L'ultima cosa che l'Europa, l'America e il mondo arabo possono volere è che la Libia precipiti nel caos e - come è avvenuto per l'Iraq, la Somalia e lo Yemen - diventi terreno di addestramento e sicuro rifugio per il terrorismo di matrice salafita o al-qaedista, una base dalla quale fare partire gli attacchi spettacolari contro "l'Occidente" e i regimi arabi "traditori". Il recente attentato alla sede delle Nazioni Unite in Nigeria dimostra che non contano tanto il luogo e gli obbiettivi, quanto la possibilità di agire in un contesto di disordine sociale e di assenza dello stato.

Una parola va anche detta sugli Stati Uniti e in particolare sul ruolo che il presidente Obama ha voluto assumere nella guerra libica. Un ruolo per il quale è stato criticato in patria sia da destra che da sinistra; da destra perché la sua posizione è apparsa ai duri repubblicani di ripiego rispetto ai paesi europei - un "guidare da dietro", è stato detto con sarcasmo. Da sinistra, sia per il generale timore di un coinvolgimento in un'altra guerra mediorientale, dopo i fallimenti dell'Iraq e dell'Afghanistan; sia più specificamente perché Obama nell'impegnare i mezzi militari americani senza l'autorizzazione del Congresso avrebbe violato il War Powers Act del 1973, che fu approvato proprio per impedire che gli Stati Uniti si imbarcassero in una nuova avventura militare dopo quella del Vietnam (Obama ha invece sostenuto che non avendo inviato truppe di terra il War Power Act non si applicava).

Critiche più o meno interessate a parte, l'epilogo della vicenda libica segna una vittoria per Obama e la sua nuova strategia di uso della forza. Una "dottrina" che aveva delineato a marzo scorso in un discorso alla George Washington University e che è basata su due cardini: 1) gli Stati Uniti ritengono doveroso adoperarsi per impedire che venga sistematicamente massacrata la popolazione civile da parte di un suo leader (è, appunto, l'affermazione del principio della responsabilità di proteggere); 2) quando non sia direttamente minacciata la sicurezza degli Stati Uniti, qualunque intervento sanzionatorio di tipo economico o anche militare può avvenire soltanto in collaborazione con i paesi alleati e con quelli dell'area interessata, e - soprattutto - essere approvato dalle Nazioni Unite.

A chi giustamente si preoccupa che quello libico non diventi il modello o il pretesto per altri interventi in altri paesi, per avventure più o meno nascostamente neocoloniali, si può rispondere: sì è un modello. Ma non nel senso che apre una strada, bensì che la chiude ponendo rigidi paletti. In netto contrasto con l'era Bush, gli Stati Uniti rinunciano ad agire da soli (a meno che la loro sicurezza non sia direttamente minacciata -ma questo è un diritto di ogni paese). E subordinano qualunque intervento sanzionatorio al consenso e alla partecipazione della comunità internazionale, in particolar modo dei paesi confinanti. Deve inoltre esservi una richiesta esplicita della popolazione colpita e la concreta possibilità di difenderla nel territorio dove si trova. Tutti questi elementi erano presenti in Libia. Non lo erano in Iraq. Non lo sono in Siria. Per il momento possiamo stare tranquilli: i bombardieri occidentali non voleranno su Damasco. Tranquilli, ma non felici, perché intanto il regime di Assad continuerà a fare strage dei suoi oppositori.

da - http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=18513
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