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Autore Discussione: Così l'Italia di Silvio perse il petrolio ... ??  (Letto 1964 volte)
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« inserito:: Agosto 27, 2011, 09:58:14 am »

27/8/2011

La battaglia all'Onu per la ricostruzione


Cina e Russia vogliono la loro parte: non è un trionfo occidentale


Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna lavorano ad una risoluzione dell’Onu per far partire in fretta la ricostruzione della Libia ma la Cina interviene su Ban Ki moon per dettare le condizioni: «Non può essere solo un intervento occidentale, siamo pronti a partecipare e devono essere le Nazioni Unite a guidare gli aiuti civili». Dietro Pechino c’è anche Mosca. Quanto sta avvenendo al Palazzo di Vetro dimostra che le lacerazioni nella comunità internazionale verificatesi al momento di autorizzare, nel marzo scorso, l’intervento militare, si ripropongono sull’agenda del dopo-Gheddafi. «Ciò che distingue questa ricostruzione dalle altre - spiega un alto diplomatico europeo all’Onu chiedendo l'anonimato - è che qui i fondi non mancano» in ragione della presenza di decine di miliardi di dollari di Gheddafi congelati nelle banche occidentali e dei proventi della vendita del petrolio libico, di cui il Consiglio dei ribelli ha fatto conoscere la formale ripresa.

La bozza di risoluzione a cui Londra e Parigi stanno lavorando prevede lo scongelamento di parte dei 20 miliardi di dollari di beni di Gheddafi presenti nelle banche britanniche e l’amministrazione Obama sostiene tale approccio, dicendosi pronta a rendere disponibili «da subito» 1,5 dei 37 miliardi di beni di Gheddafi nelle banche americane. L’idea di ricorrere ai fondi del deposto colonnello per finanziare la ricostruzione è sostenuta dai Paesi della Lega Araba, pronti a loro volta a scongelare 2,5 miliardi di dollari per consentire al governo dei ribelli di «pagare i salari dei dipendenti pubblici e rispondere alle emergenze umanitarie». La convergenza d’azione fra Stati Uniti, Europa e Paesi arabi ripropone la coalizione che fece approvare al Consiglio di Sicurezza la risoluzione 1973 sulla protezione dei civili libici, sulla base della quale la Nato è poi intervenuta, ma è proprio questa la ragione dell’inquietudine di Pechino, che teme «un intervento gestito dagli occidentali».

È stato questo il messaggio che Yang Jiechi, ministro degli Esteri di Pechino, ha recapitato di persona al Segretario generale dell’Onu, Ban Ki moon, in una telefonata tesa a sostenere che il «ripristino della stabilità in Libia ha bisogno del coinvolgimento di tutte le parti rilevanti». Yang assicura che Pechino è «pronta a fare la propria parte sul versamento dei fondi», rivendica il ruolo che le viene dal disporre del diritto di veto al Consiglio di Sicurezza e fa capire di puntare ben più in là della gestione degli aiuti: «Vogliamo essere parte di un processo politico basato sulla tolleranza, fatto di dialogo, negoziati ed altri mezzi pacifici per promuovere riconciliazione e ricostruzione». Pechino intende dunque sedersi al tavolo dove verranno decisi gli assetti della nuova Libia con una determinazione che viene letta negli ambienti delle Nazioni Unite come la volontà di avere voce in capitolo sulla gestione delle risorse energetiche, non solo il greggio ma anche il gas.

La carta diplomatica che Pechino gioca a tal fine è nel proporre a Ban Ki moon che «la ricostruzione venga affidata a Nazioni Unite, Lega Araba e Unione Africana» con l’Onu «in posizione di guida» nell’evidente intento di ridimensionare l’influenza degli occidentali come anche di far valere i rapporti privilegiati con numerose capitali africane. Non a caso il Sudafrica si muove in sintonia con Pechino, come dimostra la decisione di opporsi, in occasione del recente incontro a Doha fra i Paesi che sostengono la transizione, allo scongelamento dei beni proposto dalla Lega Araba lamentando l’«incertezza della situazione sul territorio». L’alleato più importante dei cinesi tuttavia è Mosca che con il portavoce del ministero degli Esteri Alexander Lukasevich suggerisce la «necessità che nella fase seguente al conflitto ogni intervento deve avvenire solo sotto gli auspici delle Nazioni Unite». Se Pechino e Mosca temono la nascita di una Libia troppo legata all’Occidente, Seul ha motivi diversi per essere sulle stesse posizioni.

La Corea del Sud infatti, seppur alleata di Washington, ha numerose aziende nazionali impegnate in progetti edili e industriali in Libia sulla base di importanti commesse ottenute dal deposto regime di Muammar Gheddafi che ora teme di perdere a vantaggio di altri. Come se non bastasse è in atto anche una partita tutta interna all’Unione Europea perché se la Francia di Nicolas Sarkozy può vantare un rapporto privilegiato con il Consiglio di transizione, l’Italia ha iniziato a pianificare interventi diretti sul terreno - come ad esempio la costruzione di forze di polizia - e la Gran Bretagna può mettere sul piatto la forte esposizione militare nell’intervento della Nato, la Germania di Angela Merkel chiede spazio e visibilità pur essendo il partner europeo che più si è opposto alle operazioni belliche a sostegno della rivolta popolare. È Guido Westerwelle, ministro degli Esteri di Berlino, a sottolineare la «particolare esperienza della Germania in questo tipo di interventi» assicurando che «siamo pronti a dare il nostro contributo» e rivendicando «il sostegno politico, anche se non militare, garantito al Consiglio di transizione».

Da qui lo scenario di una settimana di delicate trattative a più voci in vista della conferenza sulla ricostruzione che Sarkozy ha convocato per il 1˚ settembre a Parigi. E che avrà in agenda non solo i piani per gli interventi civili ma anche un nuovo equilibrio nel Mediterraneo fra grandi e piccole potenze sulle ceneri della Jamahiriya.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2161
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