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Autore Discussione: Tonia MASTROBUONI.  (Letto 7836 volte)
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« inserito:: Agosto 12, 2011, 09:07:22 am »

Economia

12/08/2011 - RETROSCENA

Draghi diventa il miglior alleato di Silvio

Berlusconi scrive al banchiere centrale Trichet: "Garantisco sui tempi"

TONIA MASTROBUONI
ROMA

«Molto cordiale»: nella ristretta cerchia dei fedelissimi di Berlusconi e nei corridoi ovattati di Palazzo Koch il verdetto sull’incontro di ieri tra il presidente del Consiglio e il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi è unanime. Il tete-a-tete pomeridiano a Palazzo Chigi durato all’incirca mezz’ora, fortemente voluto dal Cavaliere, doveva servire d’un lato a confermare al presidente designato della Bce che il Governo sta accelerando sul decreto di correzione dei conti - un messaggio diretto a Francoforte, più che a via Nazionale. Dall’altro, Berlusconi si sta palesemente consigliando con il governatore sulle mosse da fare per tener fede all’impegno di anticipare il pareggio di bilancio al 2013.

Al di là delle singole misure in discussione che stanno velocemente assumendo la forma di un decreto, è evidente che l’ombrello salvifico della Banca centrale europea steso sull’Italia da lunedì scorso è la risposta a un impegno del presidente del Consiglio a raddrizzare seriamente i conti e ad anticipare all’anno elettorale l’obiettivo del “deficit zero”. Una promessa fondamentale, quella sui tempi, che il Cavaliere ha fissato nella lettera inviata nei giorni scorsi al presidente dell’Eurotower Jean-Claude Trichet. E che sarebbe stata anche ribadita in una telefonata tra i due di mercoledì sera, secondo fonti governative. Una risposta, in entrambi casi, all’arcinota missiva a doppia firma Draghi-Trichet della scorsa settimana che conteneva esortazioni forti a fare le riforme - in primis liberalizzazioni dei servizi, il riordino delle pensioni e una maggiore flessibilizzazione delmercato del lavoro. Ma che invitava soprattutto il governo ad approvare la manovra bis entro settembre.

La stessa lettera Trichet-Draghi è stata citata ieri, con un’interpretazione «a dir poco disinvolta» secondo fonti qualificate, dal ministro dell’Economia Tremonti. Il responsabile dei sta concretamente salvando il Paese dalla bancarotta. In audizione in Parlamento, Tremonti ha sostenuto che tagliare gli stipendi agli Statali o una maggiore libertà di licenziamento o altre misure impopolari sono tra quelle suggerite nella lettera. Ma il punto è che alla Bce interessa poco l’antica rivalità tra il ministro e Draghi che può aver ispirato alcune frasi un po’ fuori dalle righe. Francoforte non ha voluto commentare le strumentalizzazioni della lettera arrivate ieri sia dal ministro sia dal leader della Lega Umberto Bossi che ha accusato il pezzo di carta addirittura di «voler far saltare il governo».

L’importante è che qualcun altro abbia capito qual è la posta in gioco: ossia, Berlusconi. Il presidente del Consiglio sa perfettamente che i numeri tranquillizzanti che scorrevano sugli schermi degli operatori di Piazza Affari anche ieri, al quarto giorno di acquisti massicci di titoli di Stato da parte della Bce, sono anche la sua unica, vera polizza su Palazzo Chigi. Con rendimenti sui titoli decennali scesi ieri, per la prima volta da oltre un mese, sotto il 5 per cento e il differenziale tra decennali italiani Btp e il solido Bund tedesco che è sceso a 270 punti base, il cavaliere resta in sella. Se lo spread tornasse, come la scorsa settimana - prima degli acquisti Bce - oltre i 400 punti, la sua poltrona comincerebbe di nuovo a ballare. Ed è utile ricordare che l’Eurotower ha cominciato a comprare i nostri bond lunedì, ossia dopo le rassicurazioni sulla volontà di anticipare il pareggio di bilancio di un anno.

Ieri Francoforte ha anche diffuso il consueto bollettino mensile. Quello di agosto sostiene che dopo la «vigorosa » espansione economica del primo trimestre, per l’area euro «i dati recenti indicano un'attenuazione della crescita». Per «il prossimo futuro ci si attende il protrarsi di una crescita contenuta». Inoltre, la Bce difende il rialzo dei tassi all’1,50 per cento deciso lo scorso luglio: i prezzi al consumo, sostiene, rimarranno «nettamente » sopra il 2 per cento nei prossimi mesi. Uno studio citato nel rapporto parla specificamente dell’Italia. Il focus rileva una ripresa economica che dopo la recessione è stata particolarmente lenta. L’Italia ha mostrato una «debolezza relativa» rispetto alla «locomotiva » Germania, ma anche a Francia e Spagna. «In tutti i Paesi ad eccezione dell’Italia le esportazioni si sono riportate su livelli pari o prossimi a quelli massimi rilevati prima della recessione».

Infine, riportando la dichiarazione di Trichet di domenica, il testo ricorda che «accoglie con favore gli annunci dei governi di Italia e Spagna in materia di nuove misure e riforme nei settori delle politiche fiscali e strutturali». Repetita iuvant.

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/415481/
« Ultima modifica: Maggio 08, 2014, 05:18:53 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 04, 2011, 05:31:31 pm »

Politica

04/09/2011 - LA MANOVRA, I PROVVEDIMENTI VARATI IERI

Una tassa sugli immigrati per aiutare le coop bianche

Le cooperative "rosse" saranno più penalizzate dalla manovra

Per le farmacie alla fine prevista una liberalizzazione solo parziale

TONIA MASTROBUONI
ROMA

Le cooperative «non sono tutte uguali» e «non è detto che siano tutte una buona cosa». Era facile intuire dopo le parole di Maurizio Sacconi come sarebbe cambiata la norma presa di mira venerdì dal segretario di Stato vaticano. Contenuta nel «pacchetto fiscale» presentato nei giorni scorsi dal governo alla manovra, la misura attaccata da Tarcisio Bertone prevede un aggravio fiscale sia per le cooperative «sociali» che per quelle della grande distribuzione. Ma a Vittorio Veneto, dove ha partecipato al festival Comodamente, il ministro del Lavoro ha fatto capire ieri che le proteste dei cattolici hanno indotto il governo a un ripensamento parziale dell’intervento. Verranno graziate dalle novità fiscali sicuramente le banche di credito cooperativo, mentre l’aggravio delle tasse resterà confermato per le coop cosiddette «di consumo». Una distinzione che sembra favorire le coop «bianche» rispetto a quelle «rosse».

In commissione Bilancio del Senato è stata approvata nel pomeriggio una norma «propedeutica», che intanto si è preoccupata di reperire le necessarie coperture al salvataggio delle Bcc e affini. È la misura che introduce un’imposta di bollo del 2 per cento sui trasferimenti in contanti di minimo tre euro che vengono fatti attraverso i «money transfer» o altri intermediari finanziari. Dalla tassa sarà esentato chi potrà esibire matricola Inps e codice fiscale. La norma che va a colpire evidentemente gli immigrati irregolari, come ha fatto notare ieri con tono polemico Giovanni Legnini (Pd) è stata firmata dal vicecapogruppo dei senatori leghisti, Massimo Garavaglia e dalla senatrice pidiellina Cinzia Bonfrisco.

Saranno in sostanza gli immigrati irregolari a coprire il nuovo buco che rischiava di aprirsi nella manovra dopo l’intenzione dichiarata di salvare parte delle coop. È stato Garavaglia stesso a spiegare che l’imposta di bollo sui money transfer dovrà reperire i soldi necessari a fare marcia indietro sulle banche di credito cooperativo. Che Sacconi nelle stesse ore metteva nel novero di quelle «buone»: «Ci sono cooperative a scopo mutualistico ha precisato il ministro - e altre che non lo sono. Ci sono cooperative cosiddette spurie, cooperative di consumo e dell’edilizia, e ci sono cooperative sociali alle quali io credo tantissimo». Il ministro ha aggiunto quindi che esistono coop «di serie A e di serie B», alcune in cui l’esponente del Pdl «crede moltissimo» come quelle agricole e quelle bancarie.

Dopo una seduta che è finita ieri a tarda notte, stamane la commissione Bilancio è nuovamente convocata alle 9 per fare in modo che i tempi annunciati dal presidente del Senato Schifani siano rispettati. «Nessun rallentamento dei tempi» ha assicurato ieri, rispondendo all’appello del Presidente della Repubblica Napolitano. L’approdo nell’aula di Palazzo Madama è previsto per martedì e assieme a Schifani diversi esponenti della maggioranza hanno assicurato ieri che non ci sarà bisogno di mettere la fiducia sul provvedimento.

Una delle novità scaturite dalle votazioni serali è la possibilità per il fisco di intervenire coattivamente per il recupero delle somme non riscosse del condono tombale del 2002. I contribuenti dovranno pagare entro fine anno, altrimenti scattano «una sanzione pari al 50%» delle somme dovute e i controlli. La commissione Bilancio ha anche dato l’ok a un limite per la liberalizzazione delle farmacie e ha approvato un emendamento che obbliga il Tesoro dal 2015 a usare gli introiti da evasione per ridurre la pressione fiscale. Un vecchio pallino di Nicola Rossi.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/418517/
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 03, 2011, 04:54:20 pm »

Economia

01/11/2011 - CRISI, VERSO IL VERTICE G20

Bce, Draghi al debutto fingendo di non essere italiano

Il mercato attende un taglio dei tassi, ma forse la decisione slitterà

TONIA MASTROBUONI

Forse per qualcuno degli indignati accampati nelle scorse settimane davanti alla Banca d’Italia sarà una sorpresa. E magari ne terrà conto per scrivere il prossimo tazebao. Ma per chi ha capito che Palazzo Koch è una delle ultime istituzioni a garantire ancora un minimo di dignità al Paese, l’articolo apparso ieri su Le Monde è addirittura banale. Titolo: «Mario Draghi, l’anti-Berlusconi». La tesi del quotidiano parigino è che la carriera dell’ex governatore della Banca d’Italia si è sviluppata in maniera inversamente proporzionale rispetto a quella del presidente del Consiglio. Più la biografia di Draghi acquistava in termini di credibilità e prestigio, più quella del presidente del Consiglio rotolava giù per la china. La sua nomina alla guida della Bce deve essere dunque «un motivo di orgoglio nazionale», chiosa Le Monde .

Ciò non toglie che l’allievo prediletto di Federico Caffè si insedi a Francoforte in un momento terribile. Oggi inizia formalmente il suo incarico (anche se la Bce è chiusa per Ognissanti) e già ieri sera una cena offerta dal presidente uscente Jean-Claude Trichet è stata l’occasione informale per confrontarsi sul momento più pericoloso per il futuro dell’Italia e dunque dell’Europa, come segnalano i tassi di interesse sui titoli Btp, schizzati ieri a un nuovo record, oltre il 6,10 per cento. La soglia d’allarme è il 7, come insegna la drammatica evoluzione della crisi dell’euro dalla primavera del 2010 ad oggi. Superata quella, Grecia, Portogallo e Irlanda hanno chiesto prestiti alla Ue e al Fmi.

Oltretutto, le vette di ieri sono state raggiunte in presenza di acquisti di bond italiani da parte della Bce, come riferiscono fonti finanziarie. L’appuntamento più atteso della settimana, assieme al G20 di Cannes, è quindi la prima riunione del board della Bce presieduta da Draghi. Ma per l’ex economista del Mit di Boston, al di là delle decisioni operative, quella di dopodomani sarà anzitutto una sfida politica e psicologica. Dovrà possibilmente dimenticarsi di essere italiano nel momento in cui il suo Paese d’origine rischia di saltare per aria. E ieri, non è un caso, il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, gli ha dato il benvenuto con un avvertimento.

Il capo dei cosiddetti «falchi» ha ricordato a Draghi che la priorità è la lotta all’inflazione e che le operazioni di acquisto di titoli di Stato dovranno durare il meno possibile. Notoriamente è stato Weidmann a votare contro l’avvio degli acquisti di bond italiani, ad agosto di quest’anno. Ed è il segreto di Pulcinella che l’altro membro tedesco del governing council, Jürgen Stark, si sia dimesso, al di là delle motivazioni ufficiali, per un profondo dissenso su quella decisione. Sul costo del denaro i mercati hanno già scontato in parte le attese di un taglio dei tassi di interesse a causa del forte rallentamento della crescita.

La sforbiciata ci sarà. Ma è improbabile che Draghi prema già alla prima riunione per una decisione che confermerebbe i sospetti di chi, come i tedeschi appunto, teme che l’ex direttore generale del Tesoro finisca per tirare fuori l’anima «italiana». In realtà, su questo aspetto Draghi è sempre stato molto «falco». A un quotidiano tedesco spiegò tempo fa la sua filosofia. Gli anni 2000 con tassi di interesse ai minimi sono stati anche gli anni della «crescita zero» per molti Paesi, in primo luogo per l’Italia. Ergo, ai fini della crescita, serve a poco mantenere il costo del denaro basso. Per quella, sin dall’insediamento a Palazzo Koch nel 2006, Draghi ha ripetuto a ogni piè sospinto che servono politiche economiche.

Quanto alle operazioni straordinarie c’è da attendersi una continuità con la linea di Trichet. Il neogovernatore ha sottolineato di recente che l’Italia può salvarsi soltanto da sola. Ed è estensore della lettera con le ricette più urgenti per riemergere dalle secche della stagnazione, scritta a quattro mani con Trichet. Ma anche la scorsa settimana ha detto di essere d’accordo con le operazioni straordinarie come l’acquisto di bond. Grazie al solido pragmatismo anglosassone, Draghi ha una consapevolezza in più rispetto ai tedeschi, rigoristi e maniacali nemici del «moral hazard». Sa bene che se salta l’Italia salta il mondo.

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/427548/
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 06, 2011, 11:07:27 pm »

Economia

06/11/2011 - INTERVISTA

Mersch: "La Bce può smettere di comprare bond italiani"

Il governatore della Banca centrale del Lussemburgo: Bini-Smaghi ha un mandato di 8 anni, il passaporto non conta



TONIA MASTROBUONI
INVIATA A LUSSEMBURGO

Yves Mersch è netto. Non dobbiamo dare affatto per scontata la «ciambella» degli acquisti dei titoli di Stato da parte della Bce: «il nostro compito non è rimediare agli errori della politica». In quest’intervista il governatore della Banca centrale del Lussemburgo - l’unico nel direttorio sin dalla fondazione della Bce - rivela anche come ha interpretato l’arrivo di Draghi alla presidenza e perché Bini Smaghi ha ragione da vendere.

Cosa pensa dell’acquisto di bond?
«Dovrebbe essere limitato nella quantità e nel tempo e avere come unico obiettivo quello di garantire il pieno meccanismo di trasmissione della politica monetaria. Ma se osserviamo che i nostri interventi vengono minati dai mancati sforzi dei governi nazionali, dobbiamo porci il problema degli incentivi».

Vuol dire che smetterete di comprare titoli se l’Italia non riuscirà a fare le riforme che ha promesso alla Ue?
«Se il board della Bce arriva alla conclusione che le condizioni che lo hanno spinto a prendere una decisione non esistono più, è libero di cambiare questa decisione in qualsiasi momento. È il contenuto perenne delle nostre discussioni».

Giovedì il neogovernatore, Mario Draghi ha schivato una domanda. Cosa succederà quando il fondo salva-Stati Efsf sarà pienamente operativo? Lei pensa che la Bce dovrebbe interrompere le operazioni straordinarie, come affermava Trichet?
«Non penso che abbiamo cambiato filosofia. Ma tenga conto che su questo aspetto non esiste un vincolo specifico. Noi ci attiviamo se i Governi si comportano in modo tale da garantire la stabilità finanziaria dell’Eurozona».

Teme, come qualche osservatore, che Draghi guardi più alla situazione economica che alla stabilità dei prezzi?
«Come il suo predecessore è impegnato nella continuità della politica monetaria che si preoccupa proritariamente di garantire la stabilità dei prezzi. Ed è giusto così».

Cosa pensa della situazione italiana?
«Ogni Paese ha una responsabilità. Finché molte decisioni economiche vengono prese esclusivamente a livello nazionale, si arriva regolarmente a effetti di contagio. Questa consapevolezza non è ancora abbastanza diffusa. Si continuano a prendere decisioni guardando solo all’elettorato, anche se gli effetti riguardano anche i non elettori, dentro e fuori il Paese».

Papandreou è finito nel tritacarne per il referendum sull’accordo europeo. Ma non pensa che anche la decisione di Angela Merkel di far passare l’accordo nel Bundestag danneggi i meccanismi decisionali?
«Queste decisioni indicano che sta cambiando il clima. I Trattati attuali non sono conciliabili con una crisi che ha raggiunto dimensioni europee. Abbiamo un problema di governance. Non è neanche pensabile che la legittimazione democratica di alcune decisioni sia sottratta al livello nazionale senza che ci sia un processo di legittimazione sul piano europeo. Siamo in una fase di transizione e dobbiamo andare verso una modifica dei Trattati che si concentri sulla legittimazione democratica e sulla divisione delle responsabilità tra livello nazionale ed europeo. Non solo al livello del Consiglio europeo, ma anche per il Parlamento e la Commissione. Tra l’altro, queste ultime sono istituzioni che rappresentano l’Europa a 27, mentre l’Eurozona è orfana, a parte la Bce, di istituzioni specifiche. Anche il teatrino politico cui assistiamo in questa fase non mi convince. Abbiamo bisogno di risposte serie».

La Bce può diventare un “prestatore di ultima istanza”?
«Non siamo affamati di potere e non vogliamo mandati ulteriori. Siamo molto soddisfatti con il compito che ci è stato attribuito dal Trattati. E siamo orgogliosi, come dice Trichet, di soddisfarlo. La nostra preoccupazione, tuttavia, è che il nostro compito venga aggravato se altri settori della politica, sui quali non abbiamo il controllo, non si attengono alle loro responsabilità. Il nostro compito non è quello di rimediare agli errori della politica».

Cosa pensa dell’asse franco-tedesco? Non rischia di minare ulteriormente le istituzioni europee?
«In passato è stato efficace. Ma è come un carro con due ruote: se una delle due è più grande, il carro gira in tondo. D’altra parte, senza ruote il carro si fermerebbe».

In Italia si parla molto del caso Bini Smaghi. Lei cosa ne pensa?
«Ha un mandato di otto anni. Non c'è scritto nel Trattato che se uno viene da uno specifico ministero del Tesoro ha il diritto a un posto nel direttorio Bce. Lo spirito dei Trattati è che ognuno di noi dovrebbe lasciare il passaporto nel guardaroba, quando partecipa alle riunioni».

Non pensa che questa discussione sia un po’ ipocrita? Il Trattato dice anche che la nomina dei membri è politica, passa attraverso il Consiglio europeo. E lì contano le bandiere.
«Questo atteggiamento non rispetterebbe l’indipendenza della Bce. È importante che la politica capisca che le ambizioni nazionali non sono accettabili. Se questo fosse il principio, andrebbero cambiati i Trattati. Siamo federati, non intergovernativi. Siamo banchieri centrali nominati personalmente, non rappresentanti dei Paesi. Questo viene spesso frainteso».

Lei è considerato un falco: con le dimissioni di Weber e Stark i falchi sono diventati più deboli nella Bce?
«Le mie conoscenze ornitologiche sono insufficienti. Ma a quanto mi risulta le colombe sanno essere molto crudeli: a volte beccano i piccoli. Nei falchi il senso della famiglia è molto più sviluppato».

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/428415/
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 07, 2012, 11:11:08 am »

Politica

02/01/2012 - LA CRISI- INTERVISTA

Baldassarri: ruberie mostruose da cancellare

Il senatore Fli: forniture, appalti, acquisti all'esterno.

Altro che indennità, sono questi i veri costi della politica


Roma

A prescindere della spending review sulla spesa pubblica che il governo Monti ha già intrapreso, secondo Mario Baldassarri si può incidere in maniera significativa sugli sprechi stabilendo alcune regole semplici che possono garantire da sole risparmi per 40-50 miliardi di euro all’anno. Perché non è al numero di parlamentari o al loro stipendio che bisogna fare la guerra, secondo il senatore... ma alle «ruberie mostruose» che si annidano nella amministrazione pubblica.

Monti ha confermato che sta facendo la spending review che dovrebbe aiutare a impostare una politica seria di tagli alle spese.
«Se spending review vuol dire fare l’inventario di tutte le spese delle amministrazioni pubbliche non ne usciremo mai, altro che governo tecnico: ci diamo appuntamento tra 30 anni».

In un recente rapporto il ministro per i Rapporti con il Parlamento Giarda sottolinea che «in tutti i decenni passati la velocità di crescita della spesa pubblica è stata quasi sempre superiore alla crescita del Pil».
«Con Piero Giarda eravamo nella commissione tecnica della spesa pubblica 25 anni fa e già allora scoprimmo che una penna Bic poteva costare da 300 a 3000 lire. I veri costi della politica non sono negli stipendi o nel numero dei Parlamentari. Se impostassimo un taglio di metà dei loro stipendi e del numero di deputati e senatori risparmieremmo 450 milioni di euro all’anno. Invece ne buttiamo altrove 45 miliardi. Sono questi i costi della politica veri».

E dove si può incidere?
«Partiamo dal totale della spesa pubblica. Sul 2011 la spesa pubblica ammonta a 820 miliardi di euro, più o meno il 52 per cento del Pil. Le voci più importanti sono anzitutto gli stipendi della pubblica amministrazione (181 miliardi), le pensioni (250 miliardi) e gli interessi sul debito (87 miliardi). Le prime due sono bloccate, sulla terza, ahimè non si può intervenire. Una quarta voce riguarda gli investimenti ma è una voce che abbiamo costantemente tagliato, che non si può sacrificare ulteriormente e che vale 36 miliardi. Quindi bisogna incidere sulle voci che mancano».

Quali?
«È su queste ultime, che riguardano gli acquisti dei beni e servizi della pubblica amministrazione, che si annida un 30 per cento di ruberie mostruose. Questa voce comprende forniture, appalti, global service, insomma le lenzuola, le medicine o le siringhe dell’ospedale. Sono 137 miliardi di euro. Infine, una voce molto nascosta negli ultimi anni, è quella dei contributi alla produzione, 42 miliardi che nel 2011 scendono a 39. Il totale è un patrimonio da 180 miliardi che si può aggredire con enormi risultati».

E perché non si è mai fatto sinora?
«Perché il nodo è politico: significa tagliare il brodo di coltura di 300 mila persone che si nasconde e prospera nella zona grigia che sta tra politica, economia e affari. Faccio un esempio. Ogni posto letto italiano consuma ogni giorno nove siringhe. La degenza media è di nove giorni. Mediamente ogni paziente che esce da un ospedale dopo nove giorni dovrebbe avere 81 buchi... Un altro elemento di riflessione: mentre i fondi perduti sono stabili, nel 1990 gli acquisti per beni e servizi erano 52 miliardi; nel 2000 erano lievitati a 86 miliardi; ma nel 2011 sono letteralmente esplosi a 137 miliardi. Solo nella sanità abbiamo registrato un aumento di queste voci del 50 per cento in ultimi cinque anni – neanche ci fosse stata un’epidemia di colera!».

Cosa si può fare?
«Tutti i sussidi vanno trasformati in credito d’imposta. Io ti do il sussidio, ma tu stai sul mercato, mandi avanti l’azienda e riscuoti quando paghi le tasse. Mentre sugli acquisti bisogna dare un budget. E dire: tutte le p.a. possono spendere sulle voci di spesa quello che hanno speso nel 2009, più l’inflazione. I risparmi così ammonterebbero secondo me a 40-50 miliardi all’anno. Occorrono tagli verticali sulle voci sospette, non orizzontali. E i tagli di Tremonti sono stati un errore non solo perché erano orizzontali ma perché calcolati sull’andamento tendenziale. Il trucco era: ti taglio il 10 per cento su quello che spenderai l’anno prossimo. Ma magari tu prevedevi di spendere il 20 per cento in più. Ecco perché la spesa pubblica continuava a salire nonostante Tremonti desse l’impressione di tagliare sempre».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/436518/
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« Risposta #5 inserito:: Marzo 26, 2012, 06:29:17 pm »

Politica

26/03/2012 - LAVORO IL BRACCIO DI FERRO

Camusso: sciopero a maggio

La sindacalista Susanna Camusso guida la Cgil dal 3 novembre 2010.

Ieri, dopo il faccia a faccia di sabato con Mario Monti a Cernobbio, è tornata a parlare della riforma del lavoro durante la trasmissione «In mezz’ora»

Camusso attacca "Monti colpisce solo i lavoratori"

La leader della Cgil: lavoratori in ansia, il governo ha commesso un errore clamoroso

TONIA MASTROBUONI

Roma

Dopo lo scambio di sorrisi con Mario Monti ostentato dietro la vetrata-vetrina del forum di Cernobbio, Susanna Camusso ha indossato ieri la faccia feroce. Sulle riforme del lavoro, ha scandito nel corso della trasmissione di Lucia Annunziata «In mezz’ora», per la prima volta da quando si è insediato, il governo «ha sbagliato i calcoli, ha commesso un errore clamoroso» e merita in questa vicenda una «pagella insufficiente, anche nel rapporto con il Paese e con chi li ha sostenuti». Monti, ha chiosato la leader Cgil, «ha generato ansia tra i lavoratori che ora pensano vi sia accanimento». Ma il rischio di un ritorno agli anni di piombo non c’è, ha aggiunto. E in ogni caso il principale sindacato italiano manterrà «una vigilanza massima» per evitare derive violente.

Tuttavia Camusso ha anche dato una notizia che ha il sapore di un segnale distensivo, se non nei confronti del Governo, sicuramente verso il Pd. Lo sciopero generale annunciato nei giorni scorsi sarà a fine maggio, ovvero dopo le elezioni amministrative. La numero uno del maggiore sindacato italiano smina in questo modo un percorso che per il partito democratico rischiava di diventare esplosivo. Scongiurato il pericolo di uno sciopero generale in piena campagna elettorale, e che avrebbe potuto produrre pesanti spaccature tra i democratici, la leader Cgil lascia il tempo ai partiti per una nuova mediazione. Ma con la spada di Damocle sulla testa, comunque, di una mobilitazione di massa.

L’annuncio dello sciopero quando non è ancora noto il provvedimento della riforma del lavoro, peraltro, era stata a stretto rigore una «sgrammaticatura» cui Camusso rimedia, allungando i tempi e lasciando la porta aperta, in teoria, a un ripensamento, se la discussione dovesse andare nella direzione giusta. E anche nelle parole di Raffaele Bonanni, che ieri l’ha attaccata perché «va cercando solo pretesti per litigare» e le ha suggerito di «cercare di mettere da parte le divergenze di opinione e aprire con il governo un discorso sulla crescita», si percepisce l’ansia del leader Cisl di trovare di nuovo la via della mediazione. Anche se Bonanni ne ha ricordato i limiti temporali. Il disegno di legge andrà approvato «entro l’estate», altrimenti Monti «perde la faccia».

Ma dopo i «fuorionda» tra Monti e Camusso che hanno messo in evidenza la disponibilità del governo ad accettare modifiche parlamentari, i due capigruppo del Pdl hanno cercato invece di esercitare pressioni nella direzione opposta e di richiamare il presidente del Consiglio a una maggiore inflessibilità. Il presidente dei senatori pidiellini Maurizio Gasparri ha invitato il Pd a «liberarsi dal guinzaglio della Cgil» e ha detto che la riforma va approvata in tempi brevi, il capogruppo dei deputati Fabrizio Cicchitto ha avvertito che il provvedimento dovrà rimanere inalterato. Il segretario dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, non ha nascosto invece una certa irritazione nei confronti della Cgil. «Sento in questi giorni cose che non mi piacciono: gli imprenditori non sono cannibali che vogliono licenziare. L'imprenditore serio è quello che vuole crescere con la sua azienda e punta ad assumere». D’altra parte, se si continua sulla strada della contrapposizione frontale, «prima o poi il governo entra in crisi sul serio».

Oggi ci sono tre appuntamenti importanti per capire che direzione prenderà il dibattito: Pier Luigi Bersani riunisce la direzione del Pd, a Roma il Consiglio permanente della Cei e a Milano la conferenza sul lavoro del Pdl. Il cuore del dibattito, per tutti e tre gli appuntamenti, saranno le riforme Monti-Fornero. Intanto la filosofia dell’esecutivo è stata riassunta ieri nuovamente dal ministro dello Sviluppo Corrado Passera: «Questa riforma è completa veramente, equilibrata, orientata allo sviluppo. Si porta dietro delle misure che permetteranno di ridurre la piaga del precariato». Ma sulla possibilità di modifiche al testo durante l’iter alle Camere «il Parlamento, come in tutte le cose, ha l’ultima parola».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/447811/
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« Risposta #6 inserito:: Maggio 20, 2012, 11:13:13 pm »

19/5/2012

L'occasione mancata della Cancelliera

TONIA MASTROBUONI

Al di là della querelle che ha contrapposto Angela Merkel e il presidente greco Karolos Papoulias, non è la prima volta che si affaccia in Europa l’idea di un referendum da sottoporre ai greci. Ma a inizio novembre del 2011, quando lo suggerì al G20 di Cannes il premier George Papandreou, l’Europa reagì con estrema durezza.

E anche nel suo partito partì la rivolta che lo costrinse alle dimissioni da primo ministro e, mesi dopo, da leader del Pasok.

Quello che non si sa, sono alcuni retroscena che gettano una luce inquietante su Merkel, ma anche sul partito di Papandreou. Anzitutto, la cancelliera disse segretamente di sì all’idea del premier socialista del summit di Cannes. E propose addirittura una data, il 4 dicembre. Durante un incontro a tre con Nicolas Sarkozy, a margine del summit del 3 novembre, la cancelliera suggerì addirittura a Papandreou il quesito, come racconta una fonte autorevole presente alla riunione. Suonava così, più o meno: «Accetti l’accordo del 26 ottobre che garantisce la nostra permanenza dell’euro?».

Merkel si era resa conto che era arrivato il momento di restituire la parola ai greci, stremati dall’austerity «alla tedesca». E che il quesito sarebbe stato sufficientemente furbo da non mettere a rischio il risanamento: l’intesa del 26 ottobre prevedeva nuovi sacrifici, certo, ma il cuore era la cancellazione di 100 miliardi di debito ellenico. Del resto, Papandreou aveva raccontato ai suoi interlocutori che riservatamente aveva già fatto fare quattro sondaggi e la risposta era stata sempre una stragrande maggioranza di sì, «almeno il 65%», ricorda la fonte.

Il problema fu la reazione di Sarkozy. Violentissima. Quando Papandreou annunciò il suo intendimento pubblicamente, il Presidente francese e ospite del summit andò su tutte le furie perché il premier greco aveva monopolizzato l’attenzione del «suo» G20 e compattò l’Europa – compresa la Merkel – attorno a uno sdegnato rifiuto.

Ma al ritorno da Cannes, in aereo, Papandreou parlò a lungo con il suo ministro delle Finanze, Evangelos Venizelos e si convinse definitivamente del fatto che il referendum andava fatto. Che sarebbe stato un modo per regalare una valvola di sfogo ai greci e frenare l’emorragia di deputati del Pasok che stava prosciugando pericolosamente la sua maggioranza in Parlamento. Venizelos annuì, assentì, sembrò d’accordo. Ma ad un certo punto Papandreou si addormentò, mentre l’aereo aveva cominciato già la sua discesa per Atene. E in quei venti minuti, seduto gomito a gomito con il suo rivale di sempre, Venizelos cominciò a scrivere. Ne firmò la condanna. E cambiò il destino della Grecia.

Appena atterrato, il ministro delle Finanze fece diffondere un comunicato in cui prendeva nettamente le distanze dal referendum e fece capire a Papandreou che la sua ventina di deputati avrebbero votato contro (in Grecia il referendum deve passare per il Parlamento). Il premier capì, si dimise prima dal ruolo di primo ministro e poi dal partito. Il resto è storia. Ma forse se Merkel avesse avuto il coraggio di ascoltare e appoggiare Papandreou allora, le cose non sarebbero precipitate.

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da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10122
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« Risposta #7 inserito:: Luglio 25, 2012, 05:09:38 pm »

Economia

25/07/2012 - Retroscena

Tra i bazooka della Bce c'è anche l'acquisto dei bond delle società

Il 2 agosto probabili novità dal consiglio direttivo Bce guidato da Mario Draghi

Ma su quelli di Stato è indispensabile una copertura politica

TONIA MASTROBUONI

È vero, la Banca centrale europea ha strumenti straordinari a disposizione, alcuni ancora inutilizzati, per far fronte alla crisi. Ma senza una piena copertura politica dei Paesi dell’Eurozona, alcuni di essi rischiano di rimanere sul tavolo. O, peggio ancora, di essere controproducenti.

I titoli di Stato
È il programma straordinario avviato nel 2010 dall’ex presidente della Bce, Trichet, ma che è costato le polemiche dimissioni di due banchieri tedeschi: Axel Weber e Jürgen Stark. La Bce compra sul mercato secondario (cioè non direttamente alle aste) i bond statali per raffreddarne i tassi di interesse. Il piano, che da agosto dello scorso anno era concentrato sui titoli spagnoli e italiani, è stato interrotto da venti settimane. Ma da tempo ai vertici dell’Eurotower si discute se riprenderlo. I problemi, però, sono due.

Il primo è che i falchi - tedeschi in testa -, sono fortemente contrari. Anche al vertice europeo di giugno, quando i leader europei hanno parlato della possibilità che il fondo salva-Stati garantisse per le eventuali perdite dei bond acquistati dalla Bce, l’idea è stata affossata da loro. Invece, sarebbe stata una delle poche novità in grado di regalare una forza prorompente a questo strumento: sarebbe diventato il vero «bazooka» contro i mercati. Il messaggio sarebbe stato che la Bce avrebbe fatto scudo all’Eurozona comprando titoli in maniera illimitata per proteggerla da rendimenti troppo alti sul debito, ma con il paracadute dell’Esm. In altre parole, con la copertura politica dei governi. Una differenza importante rispetto a quanto accaduto sino a 20 settimane fa, quando la Bce agiva autonomamente ed era sempre costretta a puntualizzare che gli acquisti dei titoli erano «limitati» e «temporanei». Anche per calmare i tedeschi, agitati per i rischi di eventuali default spalmati sull’Eurosistema e, dunque, in proporzione maggiore sulla Germania. Svanita - per ora -, questa «pallottola d’argento» per fermare la crisi dell’euro, è prevedibile che i tedeschi dell’Eurotower si metterebbero di traverso, se Draghi insistesse per riprendere il programma con la stessa modalità di 20 settimane fa.

Ma c’è un secondo problema: quando si è decisa la ristrutturazione del debito greco, la Bce ha goduto di condizioni più favorevoli degli altri detentori di “sirtaki bond”. Il rischio, del quale nel board sono perfettamente, consapevoli è che riprendendo gli acqujsti, in virtù di questo “privilegio” il resto degli investitori cominci a scaricare i bond, temendo di rimanere col cerino in mano.

I bond aziendali
La Bce, in teoria, ha ancora uno strumento del tutto inedito che può utilizzare: acquistare obbligazioni di società non finanziarie. Anche questa sarebbe una forma, come l’acquisto dei bond statali, di «quantitative easing». Dal 2009 a oggi, per rimanere in ambito europeo, l’ha utilizzato per due volte la Bank of England. Serve, ovviamente, a bypassare il problema delle banche che non prestano soldi alle aziende: in questo modo le società a corto di liquidità possono approvvigionarsi direttamente presso l’Eurotower. Una misura molto efficace nel caso di credit crunch ma che nell’attuale quadro di grave recessione potrebbe non essere sufficiente.

Un altro strumento straordinario che Draghi potrebbe risfoderare, ma che al momento nei corridoi della Bce tendono ad escludere, è una terza operazione di finanziamento alle banche a tre anni, un terzo “ltro” all’1%. Il problema è che al momento le banche tendono ancora a ridepositare questa liquidità presso la Bce, nonostante i tassi a zero sui depositi. E quelle che hanno utilizzato quelle risorse per comprarsi bond spagnoli e italiani per guadagnare dalla differenza degli interessi, ora sono considerate più a rischio.

I tassi di interesse
Anche sugli strumenti convenzionali la Bce ha ancora qualche margine di manovra. Sabato scorso Draghi ha detto che l’inflazione scenderà sotto il 2% prima della fine dell’anno, prima di quanto previsto finora, e sembra aver confermato la possibilità di un abbassamento ulteriore del costo del denaro. Una mossa che farebbe scendere ulteriormente l’euro contro il dollaro dando sollievo all’export - l’unico indicatore che può alleviare la recessione europea. E non è neanche escluso che imiti la Banca centrale danese che ha di recente portato i tassi di interesse sui depositi sotto zero. Al momento sono già stati tagliati a zero per scoraggiare gli istituti di credito che parcheggiano il denaro “overnight”per paura di prestarseli a vicenda. Obbligare le banche a pagare la Bce per parcheggiare denaro potrebbe essere un’ulteriore spinta per dirottarli verso l’economia reale.

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da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/463513/
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« Risposta #8 inserito:: Novembre 23, 2012, 09:35:57 pm »

Economia
23/11/2012

“Senza le riforme l’Europa sarebbe un fallimento politico”

Besley: l’Italia sbaglia a contrapporre Stato e mercato

Tonia Mastrobuoni

Torino

È tra i maggiori studiosi al mondo del rapporto tra Stato e mercato ed è venuto ieri a Torino per la lezione «Luca D’Agliano», organizzata ogni anno con il supporto della Compagnia San Paolo. Sulla discussione, spesso manichea, che si conduce in Italia su questo argomento, Timothy Besley taglia corto: «è sbagliata». Se si può trarre un insegnamento dalla storia, secondo il professore della London School of Economics, è che è sbagliato contrapporli, che «un mercato forte richiede uno Stato altrettanto forte». Quanto all’altro dubbio spesso emerso durante la crisi, sulla sostenibilità del modello sociale europeo con tassi di crescita ormai cronicamente bassi, Besley è convinto che sia un nodo importante, ma risolvibile. 

 

Come giudica la crisi europea? 

«Ha molto a che fare con l’architettura incompleta dell’eurozona e con il fatto che l’entità dello shock finanziario è molto più grande di quanto l’eurozona sia stata in grado di sostenere. Adesso è evidente che ci vuole una maggiore convergenza, politica e fiscale. In questo senso la crisi ha messo a nudo un fallimento politico. Ma ci sono questioni che vanno oltre; penso ad esempio al mio paese, il Regno Unito, dove si è arrivati del tutto impreparati alla crisi. Ha prevalso negli anni passati la presunzione di vivere in un mondo di morbide altalene congiunturali, invece che di possibili disastri».

 

In Italia c’è un dibattito spesso manicheo su Stato e mercato. Lei nei suoi lavori sembra dire al contrario che c’è bisogno di dialettica. Ma questa crisi sembra dimostrare che i governi non hanno più alcuna presa sui mercati. È un bene o un male? 

«È molto diffusa, è vero, una visione manichea dell’economia che contrappone semplicisticamente le due cose. Se guardiamo alla storia del ’900, i più grandi progressi sono stati fatti nei paesi in cui si sono combinati armoniosamente. Dove c’è un mercato forte, è indispensabile uno Stato altrettanto forte, che aiuti a prevenire monopoli, che rafforzi i diritti di proprietà, che garantisca un equilibrio. Per me il dibattito “Stato contro mercato” non esiste. I mercati sono estremamente importanti per creare ricchezza e innovazione, ma la questione è come farli convivere con gli Stati. L’esperienza ci insegna ad esempio che le nazionalizzazioni hanno creato molti guai. Ma l’evidenza empirica ci dice anche, in maniera molto chiara, che lo Stato è il miglior garante possibile di un servizio fondamentale come la sanità». 

 

Per molto tempo si è pensato che dittature non fossero compatibili con i mercati, invece l’Asia e in particolare la Cina ci hanno insegnato in questi ultimi anni che questo è possibile. O no? 

«In Cina è in atto un processo molto interessante, sembra andare nella stessa direzione di quello già osservato in altri paesi come Taiwan. È vero, sono esempi di autocrazie che hanno consentito lo sviluppo del mercato. Ma sappiamo anche che c’è la tendenza in questi Paesi a muoversi a un certo punto verso un ordine più democratico. La Cina sta cambiando, si sta interrogando sulla corruzione, sulle diseguaglianze, sull’impatto ambientale dell’industrializzazione, sull’invecchiamento della popolazione. Penso che la democrazia sia ancora l’ambiente migliore per affrontare determinate sfide economiche». 

 

Un tema molto dibattuto è quello delle diseguaglianze, cresciute enormemente in questi ultimi tre decenni. 

«Non vorrei sembrare troppo ottimista ma facciamo un paragone con gli anni Trenta: oggi la protezione dagli effetti della crisi che l’Europa è riuscita a garantire ai propri cittadini è incomparabilmente migliore. D’altra parte è vero che negli ultimi anni sono cresciute enormemente le diseguaglianze e che c’è una sensazione diffusa è il prezzo della crisi lo stiano pagando i più deboli. E che i ricchi, che hanno beneficiato del boom degli scorsi anni, non stiano pagando un granché. Ma in Europa a mio parere una delle priorità è anche ricreare gli incentivi perché le imprese tornino a funzionare». 

 

Anche lei dell’idea che il welfare europeo sia insostenibile con gli attuali tassi di crescita? 

«Il dibattito sulla sostenibilità del modello attuale è antico. Con la crisi è diventato urgente. È sbagliato fare la politica dello struzzo, ma non sono neanche dell’idea che non possiamo tornare a crescere. Non che il modello sociale europeo sia morto, credo che quello non riformato sia morto». 

da - http://lastampa.it/2012/11/23/economia/senza-le-riforme-l-europa-sarebbe-un-fallimento-politico-XjpXHb8tGrIWnl2iLhnf8N/pagina.html
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 13, 2013, 05:36:51 pm »

Economia
13/03/2013

Il piano che salvò la Germania e che l’Italia ancora aspetta

Dieci anni fa Schroeder sfidò sinistra e sindacati con l’Agenda 2010.

Berlino tagliò la disoccupazione, il peso fiscale sul lavoro e rimodulò la spesa sanitaria

Tonia Mastrobuoni


Dal «malato» al «modello» d’Europa. Dieci anni fa un’impietosa copertina dell’Economist ritrasse una Germania stremata dal primo decennio post-Riunificazione e scivolata in fondo alle classifiche economiche. Nel 2003 la cosiddetta “locomotiva d’Europa” era insabbiata nel terzo anno di stagnazione, il più lungo della storia repubblicana, e veniva dal «decennio perduto» come lo bollarono gli economisti, in cui si era dissanguata per assorbire l’ex Germania comunista, quella che Helmut Schmidt chiamava con un’espressione poco felice il «Mezzogiorno senza mafia». Dieci anni fa, insomma, la Germania mostrava sorprendenti analogie con l’Italia di oggi.

Dal 1991 agli inizi degli anni 2000, nei dieci anni in cui pompò l’equivalente di 1.500 miliardi di euro nelle nuove regioni, la patria di Goethe si era impoverita e i tedeschi erano inesorabilmente scivolati dal 4 all’8 posto nelle classifiche europee della ricchezza pro capite. Nel 2003, anche a causa dell’emorragia a Est, sul territorio tedesco si contavano oltre cinque milioni di senza lavoro. Uno shock per un paese in cui il nazismo si era diffuso come un’epidemia speculando sui picchi di disoccupazione e di inflazione. 

In quell’anno, senza una Thatcher alle spalle come il laburista Tony Blair, il socialdemocratico Gerhard Schroeder prese una decisione che ebbe conseguenze economiche e politiche gigantesche. Devastanti per il suo partito, la Spd, miracolosi per il suo paese, la Germania.

«Anteponendo gli interessi del paese a quelli del partito», come ama ripetere ad oggi, il cancelliere tedesco mise in discussione un pilastro sacro dell’«economia sociale di mercato» di cui i suoi connazionali vanno tuttora tanto fieri: il welfare. Si rimboccò le maniche, sfidò i sindacati e la sinistra del partito e mise in piedi l’ambiziosa “Agenda 2010”, un pacchetto di riforme che incise pesantemente sulla spesa sociale ma anche sul fisco, sulle regole del mercato del lavoro e della formazione, e che rivoluzionò la copertura sanitaria. 

Dieci anni fa, in un Europa sempre più sclerotica, imbrigliata da tassi di crescita cronicamente bassi, la Germania a guida socialdemocratica è stata uno dei primi paesi a fare i conti con la sostenibilità, in prospettiva, del proprio sistema sociale. 

Gli effetti politici di quelle riforme, che tra le altre cose tagliarono il periodo del sussidio di disoccupazione, ammorbidirono le regole sui licenziamenti, resero quasi obbligatoria l’accettazione di un lavoro per i disoccupati, diminuirono il peso fiscale sul lavoro, resero più fluido il passaggio dalla scuola all’occupazione sburocratizzando l’apprendistato e introdussero regole molto più stringenti per la copertura sanitaria, furono devastanti. Schroeder perse tutte le elezioni regionali, e dopo la disfatta in Norreno-Westfalia indisse le elezioni politiche anticipate e perse anche quelle. 

Economicamente quella rivoluzionaria agenda, pur con molti difetti, è tra le ragioni della straordinaria rinascita della prima economia europea. Oggi il paese di Angela Merkel vanta tassi di crescita e di produttività tra i più alti in Europa, i disoccupati sono crollati a 3 milioni e la differenza tra disoccupazione giovanile e media oscilla attorno ai 3-4 punti contro i 25 dell’Italia. Alla vigilia della Grande crisi del 2008 molti parlarono del «secondo miracolo economico tedesco» dopo quello del Dopoguerra. La Bundesbank sentenziò poco dopo che il boom era in buona parte attribuibile all’Agenda 2010.

Dieci anni fa, all’epoca della battaglia al Bundestag, Schroeder tuonava spesso «la Germania è riformabile». Gettando uno sguardo all’Italia, oppressa da una spesa sociale non eccessiva ma strutturata malissimo, sembra evidente che il nostro sistema, invece, non lo è stato, negli ultimi 15 anni. Nel 1997, quando la riforma Treu creò le premesse per l’onda lunga della flessibilità spesso degenerata in precariato, una commissione governativa, la Onofri, giudicò urgente garantire anche un’adeguata tutela ai lavoratori flessibili. Quella legge non è mai arrivata: ad oggi il sussidio di disoccupazione protegge quasi solo chi è già tutelato da contratti solidi. E la Onofri giudicò che i costi per la previdenza anche dopo la Dini assorbivano ancora troppo, oltre il 60%, della spesa sociale. A scapito di investimenti a favore dei giovani, della famiglia che sono rimasti perennemente al di sotto della media europea. Altro settore che è sembrato ad oggi irriformabile se non in senso peggiorativo, la sanità, che sembra diventata ciò che era l’edilizia nella Prima Repubblica: un colossale buco nero di sprechi e corruttele. Altro che riforme. 


twitter@mastrobradipo 

da - http://lastampa.it/2013/03/13/economia/il-piano-che-salvo-la-germania-e-che-il-nostro-paese-ancora-aspetta-LWLnjSOhvVd1XLM7ThCDOL/pagina.html
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« Risposta #10 inserito:: Novembre 28, 2013, 11:55:28 am »

Editoriali
27/11/2013

Vladimir non è più lo zar dell’energia

Tonia Mastrobuoni

Accompagnato dal chiasso mediatico suscitato dai modi ostentati da zar, Vladimir Putin ha goduto di un privilegio enorme, durante la sua visita ufficiale in Italia. È stato descritto come un vincente, un uomo venuto dal freddo per conquistare nuove fette di industria e di finanza italiana a suon di petrorubli. Peccato che nei sette anni di assenza da qui, l’immagine del presidente russo sia invecchiata con lui. E insieme ad essa, quella della Russia come di una superpotenza dotata di un terribile grimaldello geopolitico, soprattutto per l’Europa e il suo sottosuolo arido: la supremazia degli idrocarburi.  

In realtà, quel grimaldello rischia di diventare poco più di un fuscello, se la rivoluzione dello «shale gas» in atto negli Stati Uniti, e che si potrebbe allargare alla Cina, dovesse mantenere le promesse. Non si tratta, ovviamente, di mettere in discussione il potenziale energetico russo, letteralmente sconfinato. Ma di capire che il baricentro delle politiche energetiche si è spostato altrove e che l’offerta si è diversificata, rispetto a qualche anno fa. Soprattutto, che la Russia è il Paese dei Bric che sta rallentando di più, dall’inizio della crisi, e che ha maggiormente bisogno di differenziare, rispetto al settore assolutamente predominante della sua economia, quello dell’energia.

Il presidente non dovrebbe dunque essere percepito, come sette anni fa, come uno zar dell’energia che detta condizioni e cerca sbocchi nel cosiddetto «downstream», bensì come un politico che ha bisogno di conferme, che deve convincere il suo cliente principale, il Vecchio Continente, e uno dei Paesi con cui ha sempre avuto rapporti privilegiati, l’Italia, che è meglio comprare gli idrocarburi da lui, e che bisogna andare avanti con la costruzione del Southstream. Che, insieme al Northstream, è il gasdotto che dovrebbe garantire nei prossimi decenni un raddoppio delle forniture di gas verso l’Europa. E, con esso, cementare la garanzia della capacità di influenza di Mosca nel Vecchio Continente.  

Il 2013 che si sta concludendo è stato invece l’anno del sorpasso, l’anno in cui gli Stati Uniti hanno superato la Russia, sia in produzione di petrolio, sia in gas, secondo i dati del Dipartimento per l’energia. Un primato storico che conferma le previsioni fatte da eserciti di analisti trattati inizialmente come dei pazzi visionari: affinando enormemente le tecnologie di estrazione, in cui loro sono maestri e i russi ultimi della classe, gli Stati Uniti hanno inaugurato quella che l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) ha definito nel 2011 la nuova «età dell’oro del gas».  

Nel Paese di Obama, il cosiddetto «shale boom» ha regalato anzitutto una prospettiva fondamentale alla prima potenza del mondo: quella di essere indipendente dall’estero entro il 2020 – con evidenti riflessi anche sulla politica estera. E intanto l’estrazione di gas scisto ha creato posti di lavoro, ha rivitalizzato una fetta importante di industria e ha raffreddato le bollette. Gli americani, poi, hanno anche talmente migliorato le metodologie di estrazione del petrolio con investimenti massicci in tecnologie all’avanguardia, soprattutto negli ultimi dieci anni, che negli Stati Uniti si parla anche di «oil revival».  

In Europa, in realtà, non solo la Polonia o l’Ucraina nascondono notevoli giacimenti di shale gas, ma anche la Francia e altri Paesi: il problema è che le tecniche estrattive sono anche inquinanti e complesse, e alcuni rinunciano in partenza. Quello che conta, tuttavia, è che le possibilità di attingere a fonti energetiche si stiano moltiplicando, a Est e ad Ovest, grazie a una rivoluzione tecnologica che gli americani stanno sfruttando appieno, e che ha rivitalizzato un settore che sembrava defunto, quello degli idrocarburi. Ma come disse un leggendario ministro del petrolio saudita, Zaki Yamani, negli Anni 80, «l’età della pietra non è finita perché sono finite le pietre». E’ la tecnologia, che fa miracoli.

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/27/cultura/opinioni/editoriali/vladimir-non-pi-lo-zar-dellenergia-4GyPXblLlBvDnj8sQDK6aO/pagina.html
« Ultima modifica: Maggio 01, 2014, 07:31:18 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #11 inserito:: Maggio 01, 2014, 07:29:46 pm »

Editoriali
28/04/2014

Su Alstom da Parigi e Berlino guerra agli Usa
Tonia Mastrobuoni

A gennaio François Hollande aveva rilanciato l’idea di un «Airbus dell’energia»: chissà che la partita senza esclusione di colpi che si sta giocando in queste ore a Parigi sull’affaire Alstom e che vede contrapposti l’americana General Electric e la tedesca Siemens non preluda esattamente a questo. 

Anzi, a giudicare dagli ultimi sviluppi, sembra che il governo francese stia riflettendo su due Airbus, una dell’energia a guida tedesca e su una dei trasporti a guida francese, su modello del felice matrimonio dei cieli tra Germania e Francia. Insomma, sembra che il colosso di Monaco stia avendo la meglio sugli americani, nel match per la conquista di Alstom. E una vicenda che fino a poche ore fa doveva avere tutt’altro esito, si potrebbe dunque trasformare nel primo risultato concreto del rinnovato asse franco-tedesco, rilanciato in pompa magna da Merkel e Hollande all’inizio dell’anno. 

Pensare che ieri mattina i principali quotidiani dei due Paesi davano quasi per scontato il buon esito dell’assalto di General Electric al gigante francese dell’energia e delle ferrovie – tra i suoi gioielli, i treni ad altà velocità Tgv e Italo - per quasi 13 miliardi di dollari di cui si vociferava da giorni. Ma forse gli americani avevano sottovalutato i segnali di nervosismo da parte del governo francese che continuavano a filtrare sui giornali ed echeggiavano anche nelle dichiarazioni del ministro dell’Energia Arnaud Montebourg. Venerdì aveva fatto sapere in un’intervista a Le Monde di considerare anche ad altre ipotesi e aveva sottolineato l’importanza strategica di Alstom: perderemmo «un’importante centro di decisioni» economiche, aveva sottolineato, senza nascondere il suo fastidio per la fretta degli americani. In altre prese di posizioni aveva detto che un’azienda del genere non poteva che essere oggetto di «valutazioni patriottiche» da parte del governo Valls. Ieri il colpo di scena: il previsto incontro a Parigi del ministro con l’amministratore delegato di General Electric, Jeff Immelt, è stato rinviato. Non c’è fretta, si è limitato a dire Montebourg, aggiungendo che il governo si vuole prendere tempo per riflettere. Della vicenda si sta occupando anche Hollande in persona che ieri avrebbe chiesto dettagli ai suoi ministri.

Inoltre, nelle stesse ore, le agenzie hanno battuto la notizia che in una lettera all’amministratore delegato di Alstom, Patrick Kron, il capo di Siemens Joe Kaesar avrebbe espresso la disponibilità a discutere «una futura collaborazione». L’intervento a gamba tesa ha completamente capovolto il quadro, bloccando per ora il takeover americano. Le ipotesi, stando alla lettera, sarebbero due. 

La prima, un’acquisto del 100% dell’azienda francese da parte dei tedeschi, per circa 10-11 miliardi di euro (più dei 13 miliardi di dollari dunque che General Electric potrebbe offrire secondo le indiscrezioni: equivarrebbero ad oltre 15 miliardi di dollari) e garanzie sui posti di lavoro – argomento sensibile per i francesi. Altrimenti Kaesar avrebbe proposto uno scambio: Monaco si prenderebbe gli asset energetici, i francesi quelli dei trasporti. Un’ipotesi che desta il sospetto di un imprimatur politico: l’eventuale accordo darebbe vita ai due colossi europei dell’energia e dei trasporti, rispettivamente con la testa tedesca e francese. Le «due Airbus», appunto. Anzi, secondo voci riportate dall’Handelsblatt, sarebbe stato il governo francese a chiedere l’intervento dei tedeschi.

Per Siemens è fondamentale impedire che General Electric conquisti una fetta così importante di mercato energetico europeo: molti analisti hanno interpretato però la mossa di Immelt come una reazione al fatto che Kaesar si è aggiudicato poco fa una commessa gigantesca da un miliardo di dollari – la più grande di sempre – per un impianto eolico off shore negli Stati Uniti. Inoltre per gli americani la conquista di Alstom significherebbe una buona alternativa rispetto a quella di dover far rientrare in patria 57 miliardi di dollari di liquidità che detiene attualmente fuori dagli Usa e sui quali dovrebbe pagare un’enormità di tasse. L’esito delle trattative, in ogni caso, sarà importante anche per l’Italia: Alstom è presente nel nostro Paese dal 1998, ha raccolto l’eredità di aziende storiche come Ercole Marelli, Fiat Ferroviaria e Passoni&Villa e opera in 12 stabilimenti che impiegano 3500 persone.

Da - http://lastampa.it/2014/04/28/cultura/opinioni/editoriali/su-alstom-da-parigi-e-berlino-guerra-agli-usa-2CL5shZeyvqBwNC9QmGRtK/pagina.html
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« Risposta #12 inserito:: Maggio 08, 2014, 05:08:53 pm »

Editoriali
07/05/2014

Germania, 2 mila miliardi spesi bene
Tonia Mastrobuoni

Duemila miliardi di euro. E’ la montagna di debito pubblico che l’Italia ha accumulato negli ultimi quattro decenni. Ma è anche la cifra spesa dalla Germania nell’ultimo quarto di secolo per assorbire la sua parte comunista in bancarotta, la Ddr. 

Il risultato è un po’ diverso, banale dirlo. Ma l’analogia numerica tra Italia e Germania consente un piccolo bilancio della riunificazione e una riflessione su una apparente follia economica che si è rivelata poi un’operazione di puro genio politico. Anche se le due metà del Paese non sono ancora appaiate, difficile che qualcuno si metta ancora a ridere, pensando alla famosa frase di Helmut Kohl che suscitò tanta ilarità all’epoca. I «paesaggi in fiore», all’Est dell’Elba, finalmente si vedono.

Tra la caduta del Muro di Berlino e i primi anni della riunificazione tedesca, il cancelliere cristiano-democratico prese una serie di decisioni - anche con l’appoggio di un lungimirante ministro degli Interni di nome Wolfgang Schäuble - che fecero inorridire gli economisti di mezzo mondo e causarono le dimissioni del presidente della Bundesbank. Ma Kohl tirò avanti. Sin dallo storico giorno di fine novembre del 1989 in cui propose al Bundenstag un piano che mirava a una Germania unita e federale a pochi giorni dal crollo del Muro, spaventando tutti, da Washington a Mosca, Kohl portò avanti le sue decisioni con una fretta furiosa. Ma limitò enormemente i danni politici che qualsiasi altra decisione avrebbe potuto provocare.

La prima follia, la più famosa, fu la parità tra il marco dell’Ovest - la moneta più stabile del mondo e allo stesso tempo l’unico simbolo di potere che i tedeschi si erano concessi dopo l’Olocausto - e quello dell’Est, all’epoca carta straccia. L’insurrezione contro quella costosissima decisione si scatenò nell’istituzione più sacra per i tedeschi, la banca centrale, e il presidente Karl Otto Pöhl lasciò. Ma come aveva capito Schäuble già nei primi mesi dell’inverno dell’89, quando migliaia di tedeschi continuavano a emigrare a Ovest, i cittadini della Ddr non avrebbero accettato altro. Lo dicevano anche gli slogan gridati in piazza, «uno a uno o non saremo mai uno». La gente stava votando «con i piedi», stava minacciando di dissanguare un Paese già sfinito da mezzo secolo di mala gestione, di svuotarlo. 

Per la stessa ragione fu saggia un’altra apparente follia: aumentare vertiginosamente gli stipendi e le pensioni dei tedeschi dell’Est, che misuravano una produttività che raggiungeva a malapena un terzo di quella dei cugini occidentali. Nel 1990 gli stipendi furono gonfiati del 20%, nei quindici mesi successivi di un altro 50%. Gli economisti si misero le mani nei capelli, la popolarità di Kohl e l’entusiasmo per la riunificazione toccarono vette irraggiungibili. 

Solo una terza, importante decisione si rivelò disastrosa, ma perché condotta invece con un impulso ideologico, ultra liberista: quella di privatizzare tutto. L’anticomunismo accecò evidentemente chi doveva gestire la Treuhand, il contenitore in cui confluirono le 7.894 imprese tedesche che impiegavano quattro milioni di lavoratori, il 40% della forza lavoro della Ddr. Non tutto era da buttare, quasi tutto fu invece spezzettato, liquidato e distrutto, provocando tassi di disoccupazione mostruosi. Quello fu un chiaro disastro politico provocato da un furore economico che provocò nella parte orientale del Paese l’idea di un’«annessione», di un gesto ostile, colonizzatore. 

Infine, dei duemila miliardi investiti da allora nella ex Germania Est secondo i calcoli di Klaus Schröder, economista della Freie Universität di Berlino citato dalla «Welt am Sonntag», il 60-65% sono spese sociali e la parte da leone la fanno le pensioni. Si tratta di finanziamenti europei, federali e dei singoli Länder, di soldi della famosa «tassa di solidarietà» pagata dall’Ovest. Ma in quei mesi straordinari tra il crollo del regime di Honecker e la riunificazione delle due Germanie, Kohl negoziò anche un altro obiettivo storico. In cambio dell’unità, concesse a Mitterrand un’accelerazione sull’integrazione europea e, soprattutto, sulla moneta unica. E compì un altro miracolo: far digerire ai tedeschi la rinuncia al loro amato marco. 

Per fare un paragone triste, raccontato in uno straordinario libro appena uscito in Germania, scritto da Cerstin Gammellin e Raimund Löw, «Europas Strippenzieher» («I burattinai d’Europa», Ullstein) che racconta la Grande crisi attraverso i retroscena minuziosi e in parte inediti dei Consigli europei, quando la Merkel chiese ai suoi se era il caso di salvare la Grecia, si fece elencare le possibili conseguenze. Ovviamente nessun economista poteva risponderle con certezza. Così, lei salvò la Grecia senza un briciolo di visione, soltanto per il suo proverbiale pragmatismo da scienziata: concluse che non avrebbe fatto qualcosa di cui non conosceva le conseguenze. Kohl, in questo, era un autentico campione.

Da - http://lastampa.it/2014/05/07/cultura/opinioni/editoriali/germania-mila-miliardi-spesi-bene-xVuxXzhca7fg8c33ihbQeK/pagina.html
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« Risposta #13 inserito:: Ottobre 09, 2017, 06:31:34 pm »

Ultimo Eurogruppo per Schaeuble: monito del falco tedesco sui rischi di una bolla speculativa
Il ministro uscente delle Finanze tedesche, Wolfgang Schaeuble

Tra pochi giorni lascerà il Ministero delle Finanze per presiedere il Bundestag.
Al Financial Times difende la politica del rigore sui conti pubblici e definisce "sciocca" Brexit, che però ha fatto scattare la molla della maggiore integrazione nell'Unione orfana della Gran Bretagna

Dalla nostra corrispondente TONIA MASTROBUONI
09 Ottobre 2017

BERLINO - Dal 24 ottobre Wolfgang Schaeuble presiederà un Bundestag irrequieto, infestato da 92 deputati della destra populista dell'Alternative fuer Deutschland. Ma oggi il politico cristianodemocratico di lungo corso si riunirà per l'ultima volta con gli omologhi delle Finanze per l'ultimo Eurogruppo (poi sarà il capo della cancelleria Altmaier ad assumere l'interim). Per l'occasione, l'ex delfino di Kohl si è concesso in una lunga intervista al Financial Times in cui mette in guardia dal rischio di una nuova crisi finanziaria dovuta all'enorme liquidità pompata dalle principali banche centrali nei mercati, durante gli anni emergenziali della Grande crisi.

Schaeuble difende anche l'austerity, "un termine anglosassone per definire una politica dei conti pubblici solida che non considera il disavanzo più alto necessariamente come un bene". E, per l'ennesima volta, il surplus commerciale-monstre della Germania, che sarebbe il risultato di un'economia politica che "rispetta le regole" ed "evita i deficit".

Nel colloquio con il più prestigioso quotidiano finanziario del mondo ha messo dunque in guardia da "nuove bolle" finanziarie ma ha anche avvertito dai rischi che potrebbero scaturire dalla presenza ancora forte di sofferenze bancarie nel sistema creditizio per la tenuta dell'Eurozona. Il mese scorso anche la Banca dei regolamenti internazionali (Bri) ha lanciato un allarme sulla possibilità che i mercati, ormai abituati al denaro a basso costo, possano essere scossi dal ritorno a una politica monetaria più restrittiva, già avviata dalla Fed e dalla Bce e annunciata dalla giapponese Boj.

Il ministro uscente delle Finanze ha anche detto quanto sia stato "sciocco" ascoltare i "demagoghi" della Brexit e ha detto che in ogni caso "ha dato un contributo enorme all'integrazione". Dopo il referendum britannico, com'è noto, si è ricominciato a discutere di Difesa comune, di Europa a più velocità e di rilancio franco-tedesco dell'Eurozona. Che Schaeuble, peraltro, ha difeso ancora una volta, elogiando le "vigorose iniziative" di Emmanuel Macron, ma senza entrare nei dettagli. Dopo il boom dell'Afd, il politico conservatore ha detto che "non c'è il rischio di una ricaduta della Germania nel nazionalismo", né il pericolo che lo Stato di diritto o la democrazia siano in bilico, nel Paese di Angela Merkel.

© Riproduzione riservata09 Ottobre 2017

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