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Autore Discussione: Alberto ALESINA -  (Letto 43044 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Novembre 24, 2014, 02:53:02 pm »

C’erano una volta i tagli
Spesa pubblica tentazione irresistibile
Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

I primi dati sull’economia dell’eurozona nell’ultimo trimestre dell’anno non sono positivi: il 2015 potrebbe iniziare con un ulteriore rallentamento. I risultati definitivi per l’anno che si chiude saranno disponibili solo a metà febbraio, e queste previsioni vanno prese con cautela. Tuttavia le intenzioni di acquisto delle aziende dell’eurozona hanno raggiunto in novembre il livello più basso da 16 mesi in qua. Anche l’indicatore degli ordini è sceso, per la prima volta in un anno. L’indice Markit - che traduce questi dati in una previsione del Prodotto interno lordo (Pil) - vede un’eurozona che nel 2014 è rimasta sostanzialmente ferma
(+ 0,1/0,2%) dopo due anni consecutivi di recessione:
- 0,7% nel 2012 e -0,4% nel 2013.

Per l’Italia questo significa che la straordinaria serie di 13 trimestri consecutivi di caduta del Pil potrebbe non interrompersi. Tredici trimestri! Non è mai accaduto in un Paese avanzato dalla crisi degli anni Trenta. I risvolti sociali si vedono. Nelle periferie delle grandi città si è accesa una guerra fra deboli, tra italiani impoveriti dalla recessione e immigrati. C’e poi un’altra guerra, quella fra generazioni: padri e madri protetti dai sindacati, e figli precari ignorati. La famiglia italiana compensa questa «guerra» con trasferimenti infra-familiari, con i figli disoccupati mantenuti da genitori pensionati. Ma la prossima generazione, quella dei nostri nipoti, non godrà di un tale lusso. Solo una cura drastica può interrompere questa spirale di depressione. La strada per uscire da questa recessione che pare non finire mai non sono investimenti pubblici che, se va bene, impiegherebbero un paio d’anni a produrre domanda e nel frattempo rischiano di produrre solo corruzione. Occorre abbassare in modo radicale la pressione fiscale su famiglie e imprese per aiutare i consumi e dare una boccata d’aria a chi produce. Non tranquillizza che il ministro dell’Economia, illustrando la legge di Stabilità alla Camera, abbia detto che «la pressione fiscale passerà dal 43,3% del 2014 al 43,2 nel 2015». Cioè rimarrà invariata.

Contemporaneamente, per evitare che la riduzione delle tasse si traduca in un aumento permanente del debito, essa va accompagnata da un impegno formale a ridurre di altrettanto la spesa. Se questo impegno richiedesse un controllo da parte della Commissione europea, esso sia benvenuto: potrebbe solo aiutarci a resistere alle mille lobby che si oppongono ai tagli di spesa. Occorrono fantasia e determinazione nel tagliare spese non essenziali, salvando quelle che veramente garantiscono la protezione dei più deboli. Ma di tagli veri nella legge di Stabilità non c’è più che qualche miliardo.

Quando critica i «burocrati di Bruxelles» Renzi ha ragione: se non fosse stato per il grido di allarme di Mario Draghi e per il suo richiamo al dramma della disoccupazione, sarebbero rimasti arroccati ai decimali del rapporto deficit-Pil. Ma la partita che Renzi ha aperto con Bruxelles è piena di insidie.

Se, come ha fatto nell’ultimo vertice europeo, egli si avvicinasse troppo a Cameron e lasciasse intendere di essere anche lui pronto a rovesciare il tavolo, i mercati e gli altri Paesi europei comincerebbero a chiedersi quanto sia solido l’impegno dell’Italia a rimanere nell’unione monetaria. A quel punto sarebbe difficile criticare chi sostiene che la Banca centrale europea, qualora decidesse di acquistare titoli pubblici dei Paesi dell’eurozona, dovrebbe escludere da tali acquisti i titoli di Stato italiani.

24 novembre 2014 | 08:23
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_novembre_24/spesa-pubblica-tentazione-irresistibile-58d85be4-73a3-11e4-a443-fc65482eed13.shtml
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« Risposta #61 inserito:: Gennaio 22, 2015, 05:30:04 pm »

Buone notizie (dall’estero)
Ripresa? Siamo ad un punto di svolta, possiamo sprecarla solo noi
Intanto Bruxelles modifica le regole sui conti pubblici e riconosce che le regole devono tener conto della situazione dell’economia e aiutare i governi a fare le riforme

Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Arrivano notizie dall’Europa. Alcune buone, altre meno. Cominciamo dalle seconde. La Commissione europea ha leggermente modificato le regole sui conti pubblici: rimangono sempre astruse, anzi sono più complicate di prima e i cambiamenti riguardano decimali di cui si fa fatica a capire la rilevanza macroeconomica. Ma è comunque un segnale. Bruxelles comincia a riconoscere che le regole devono tener conto della situazione dell’economia e aiutare i governi a fare le riforme. Bene anche che la maggior flessibilità non si applichi agli investimenti: i politici non si devono illudere che costruendo autostrade si faccia ripartire la crescita. La buona notizia è che la Banca centrale europea si appresta ad acquistare titoli pubblici, l’ultimo strumento che le è rimasto per evitare la deflazione. È una novità importante e positiva: fino a poche settimane fa questa ipotesi era considerata anatema da molti europei.

Nel frattempo, ed è la notizia più importante, la nostra economia potrebbe aver raggiunto il punto di svolta: in novembre la produzione industriale ha ricominciato a crescere, con un rialzo dello 0,3% su ottobre, quando ancora si era fermi. Il livello rimane del 10% più basso rispetto al 2008, quindi abbiamo un mare da recuperare, ma non siamo più alla deriva. Gli interventi e gli annunci della Bce hanno già fatto svalutare l’euro rispetto al dollaro del 17% circa, da 1,4 a 1,16. Quando la Banca comincerà i suoi acquisti ci potrebbe essere un ulteriore indebolimento dell’euro. Questo favorirà le imprese esportatrici che grazie al Jobs act cominceranno ad assumere a tempo indeterminato. Ecco la risposta a chi dice che il Jobs act è controproducente. Più domanda con un’offerta bloccata da un mercato del lavoro rigido servirebbe a poco, così come una riforma del lavoro senza domanda non produrrebbe nuovi posti di lavoro. Ma la domanda estera non basta, serve anche quella interna, cioè consumi e investimenti. Ecco perché sarebbe un errore imperdonabile concludere che le nuove regole europee e i prossimi interventi della Bce ci consentano di ricominciare a dormire sonni tranquilli.

Le nuove regole probabilmente ci eviteranno una manovra di correzione dei conti a metà anno, cioè un ulteriore aumento delle tasse. È già qualcosa, ma certo non ci permettono di ridurre (a parità di spesa) il peso del fisco, che non è stato scalfito dalla legge di Stabilità e che continua ad essere incompatibile con una ripresa dell’economia. Il fisco influisce sia sulla domanda, riducendo le buste paga nette, sia sull’offerta, aumentando il costo del lavoro per le imprese. Nel 2015 le tasse, seppur redistribuite per favorire le famiglie, continueranno a pesare sul Prodotto interno lordo per il 48,3%, il medesimo livello dei due anni passati. Il governo prevede che cresceranno di un altro mezzo punto nel 2016. Per ridurre la pressione fiscale vi è un solo modo: avviare seriamente, non a parole, i tagli alla spesa. Ormai non bastano più le dita di una mano per contare le spending review annunciate da vari governi. Ne sta facendo una anche il governo Renzi, ripartendo da zero.

Possiamo sapere a che punto siamo? Tagliare le spese per poter ridurre le tasse sul lavoro è cruciale per due motivi. Per competere con la Germania ad armi pari dobbiamo portare le nostre imposte sul lavoro almeno al livello tedesco, e questo richiede molti miliardi di tasse in meno. Inoltre, i Paesi dell’Europa del Nord sono sempre stati restii ad allentare i vincoli fiscali e a consentire che la Bce intervenga perché temono che in questo modo i Paesi del Sud rilassino i loro programmi di risanamento fiscale e strutturale. Non dobbiamo farlo: innanzitutto perché non conviene a noi, e poi perché, se lo facessimo, potremmo dire addio a qualunque ulteriore aiuto da parte dell’Europa. Insomma, le buone notizie devono essere un trampolino per le riforme, non un poltrona su cui rilassarsi.

22 gennaio 2015 | 09:28
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_22/ripresa-siamo-ad-punto-svolta-possiamo-sprecarla-solo-noi-dcb2d7e4-a1fe-11e4-8580-33f724099eb6.shtml
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« Risposta #62 inserito:: Febbraio 27, 2015, 04:52:30 pm »

La ripresa possibile Lo spiraglio c’è
Che errore continuare a essere timidi

Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

La lunga caduta della produzione industriale si è arrestata in autunno, grazie alle esportazioni, che a fine 2014 erano aumentate del 5,4 per cento rispetto a un anno prima. La crescita dell’export continuerà visto che negli ultimi tre mesi l’euro si è deprezzato rispetto al dollaro di un altro 10 per cento. Ma la domanda interna? È qui che si gioca la partita.
La domanda interna privata è fatta di consumi e investimenti. Negli ultimi tre anni gli investimenti privati in macchine e attrezzature sono scesi del 18 per cento. Senza un rinnovo degli impianti le aziende non saranno in grado di far fronte ai nuovi ordini, interni o esteri che siano. Questi investimenti oggi vanno fatti e contribuiranno a sostenere la domanda interna. Tanto più con il petrolio a prezzi di saldo e il credito bancario che diventa più generoso con il «quantitative easing» della Banca centrale europea.
Oggi, per la prima volta da molti anni, sembrano esserci le condizioni per ripartire. Il rischio è che non appena i dati migliorano, la spinta per le riforme venga meno.
Negli ultimi tempi, per la verità, il governo ha accelerato il passo sulle riforme economiche. Da ieri il Jobs act è legge. Renzi ha giustamente tenuto duro sulla richiesta delle commissioni parlamentari che il reintegro non venisse abolito nel caso di licenziamenti collettivi, ma sarebbe stato meglio se le nuove norme si fossero applicate a tutti, non solo ai nuovi assunti. Sul decreto legge di trasformazione delle banche popolari il governo deve mettere la fiducia, altrimenti quel decreto non passerà mai perché la lobby delle popolari è fortissima in Parlamento. Questa legge renderà possibile il rafforzamento patrimoniale di banche spesso sottocapitalizzate con notevoli benefici per il credito alle imprese, soprattutto le più piccole.
Il disegno di legge sulla concorrenza, presentato venerdì, ha aspetti positivi, ma il presidente del Consiglio è stato troppo timido nei confronti della politica. Per esempio, la liberalizzazione non riguarda le aziende pubbliche locali, un grande feudo dei partiti. Anche l’aver stralciato le norme sui porti, difesi da forti lobby, è un brutto segnale.
Lo stesso dicasi dell’aver mantenuto il monopolio delle farmacie nella vendita dei medicinali di fascia C (quelli utilizzati per patologie di «lieve entità»), una ingiustificata concessione ad un’altra lobby, questa protetta con entusiasmo dal ministro Beatrice Lorenzin.
Ma il vero tema assente nell’agenda del governo sono i tagli alla spesa. Quando allontanò l’ennesimo commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, Renzi disse che se ne sarebbe occupato in prima persona. Giusto, perché i tagli alla spesa sono una scelta politica che non può essere delegata ai tecnici. Ma finora tagli non se ne sono visti. Ridurre le spese consente di abbassare le imposte.
I dati parlano chiaro: abbassare le imposte, soprattutto quelle che gravano sulle famiglie con reddito medio e medio basso e sul lavoro fa crescere i consumi molto più rapidamente che non aumenti di spesa che sono lenti a materializzarsi e nel nostro Paese spesso sono fonte di corruzione.
E la velocità conta. C’è uno spiraglio di luce per il 2015. Non lo si deve perdere. Occorre dare fiducia ad un Paese che la sta perdendo.

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22 febbraio 2015 | 10:39

Da - http://www.corriere.it/economia/15_febbraio_22/spiraglio-c-che-errore-continuare-essere-timidi-e7aa413c-ba6d-11e4-9133-ae48336c4c83.shtml
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« Risposta #63 inserito:: Marzo 03, 2015, 07:56:40 am »

Liberalizzazioni
Lo scarso coraggio di Renzi

Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Le norme sulla concorrenza sono fondamentali per far crescere un’economia. Senza mercati concorrenziali le imprese obsolete sopravvivono a scapito di imprese più efficienti. Uno dei motivi per cui la nostra economia è ferma da anni. Molte aziende pubbliche inefficienti, controllate dalla politica (ad esempio nella gestione dei rifiuti urbani) sopravvivono in mercati protetti. Non è consentito mettere all’asta quei servizi, affidandoli a privati con tariffe più basse. In molte regioni i treni locali sono fatiscenti, ma non si permette che siano imprenditori privati, spinti e motivati dalla concorrenza, a gestirli.

Le barriere alla concorrenza danneggiano soprattutto i giovani, che non riescono a entrare in mercati protetti a favore di chi vi è già dentro. Ma diversamente dal Jobs act, che Matteo Renzi ha portato in porto magistralmente, sulla concorrenza il presidente del Consiglio si sta scontrando con la politica. O forse, speriamo di no, è lui stesso a dubitare dei benefici del mercato, cedendo ai vizi dello statalismo, come sembra voler fare nelle vicende di Rai Way e di Telecom.

Un esempio è il disegno di legge (ddl) sulla concorrenza approvato il 21 febbraio dal Consiglio dei ministri. Il ddl introduce più concorrenza in molti settori, ma «dimentica» i servizi pubblici. Un caso emblematico è quello delle Autorità portuali, enti saldamente nelle mani dei politici locali (ne abbiamo 23, un po’ troppe anche per una penisola). Il ministero per lo Sviluppo economico (Mise) aveva chiesto che venisse vietato a questi enti di essere al tempo stesso regolatori dei servizi offerti al porto e fornitori degli stessi servizi: infatti nessun privato farà concorrenza a un’azienda che è posseduta da chi fissa le regole (a Venezia ad esempio l’Autorità partecipa a una società che gestisce le banchine e altri servizi portuali). Ma questa norma è stata cancellata dal Consiglio dei ministri.

Non è il solo caso in cui Renzi ha ceduto. Nel campo della sanità il testo originario del Mise prevedeva l’obbligo di effettuare round periodici di accreditamento delle strutture sanitarie private (spesso vicine alla politica, come si è visto in Lombardia) in modo tale da evitare il consolidarsi di monopoli di fatto. Anche questa norma è stata stralciata. Lo stesso è accaduto per i medicinali di fascia C la cui vendita veniva liberalizzata dal testo del Mise, e che il ministro Beatrice Lorenzin (Ncd) ha bloccato.

Stessa sorte è accaduta alle proposte che rimuovevano la «territorialità» delle licenze Ncc (noleggio con conducente), una regola che contrasta con la normativa europea e impedisce l’entrata di nuovi soggetti nel settore. Bocciata (dal ministro Maurizio Lupi, Ncd, un partito di centrodestra che in questa occasione per due volte ha bloccato norme favorevoli al mercato) anche la rimozione dell’obbligo per gli autisti Ncc di ritornare in rimessa tra una chiamata e l’altra, una norma, anche questa proposta dal Mise, che avrebbe aperto il mercato a servizi quali Uber.

Ora il ddl concorrenza inizierà il suo percorso parlamentare. Sarebbe l’occasione per recuperare i provvedimenti cancellati all’ultimo momento e inserirne altri che erano stati «dimenticati». In realtà il rischio è che il Parlamento cancelli anche ciò che c’è di buono (e ce ne è molto) nel ddl, come accadde all’analogo provvedimento del governo Monti che partì anche meglio di questo, ma alla fine portò a casa solo l’obbligo per l’Eni di separarsi dalle attività legate al gas.

Un avvertimento è venuto in questi giorni dai notai. Il disegno di legge interviene su di loro con mano leggera, consentendo anche agli avvocati di redigere atti di compravendite di immobili non abitativi di valore inferiore ai 100.000 euro. Prevede anche che sia possibile costituire una srl semplificata attraverso una semplice scrittura privata - e non necessariamente con atto notarile. I notai sono insorti, accusando il governo di spalancare le porte a mafia, camorra, corruzione, e chissà che altro... mancano solo le cavallette.

1 marzo 2015 | 09:13
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_01/editoriale-scarso-coraggio-renzi-alesina-giavazzi-9392d95e-bfe2-11e4-9f09-63afc7c38977.shtml
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« Risposta #64 inserito:: Marzo 23, 2015, 11:22:32 am »

I rincari in agguato
Fate prima la legge di Stabilità

Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Nonostante tagli per circa 10 miliardi di euro nell’anno in corso, la legge di Stabilità non è riuscita a fermare la crescita della spesa pubblica. La spesa delle amministrazioni pubbliche scenderà leggermente nel 2015, da 835 a 829 miliardi di euro, per poi risalire a 850 miliardi nel 2017, una cifra sostanzialmente identica al livello di spesa (854 miliardi) che si sarebbe raggiunto se non fosse stata approvata alcuna legge di Stabilità (dati del ministero dell’Economia rielaborati da Francesco Daveri su lavoce.info). L’incapacità del governo di aggredire la spesa, che continua ad assorbire oltre la metà del reddito nazionale, è particolarmente preoccupante perché la stessa legge di Stabilità include una «clausola di salvaguardia» che si attiverebbe automaticamente qualora venissero mancati gli obiettivi di finanza pubblica. Se nelle prossime due leggi di Stabilità (per il 2016 e 2017) il governo non riuscisse a ridurre il deficit di 17-18 miliardi circa in ciascun anno, scatterebbe automaticamente un aumento dell’Iva. L’aliquota oggi al 10% salirebbe al 12 nel 2016 e al 13 l’anno successivo; l’aliquota del 22% salirebbe in due anni al 25%. Per evitarlo - escludendo il ricorso a un aumento della pressione fiscale - sono necessari tagli di spesa pari a circa 35 miliardi in due anni.

Gli effetti macroeconomici di un aumento dell’Iva potrebbero essere devastanti, uccidendo sul nascere la nostra mini-ripresa. Studi sugli effetti di un aumento delle tasse (ma anche la recente esperienza del Giappone) mostrano che un rialzo delle imposte indirette, cioè dell’Iva, produce i maggiori effetti recessivi, significativamente maggiori di un corrispondente aumento delle imposte dirette, ad esempio sulla ricchezza o sul reddito, che pure sono recessivi. Al contrario, tagli di spesa, soprattutto se aggrediscono voci come i sussidi alle imprese, gli acquisti delle amministrazioni, il monte salari dei dipendenti pubblici, ma anche la spesa per infrastrutture, influiscono solo marginalmente sulla crescita, talvolta persino la accelerano perché convincono famiglie e imprese che il governo ha imboccato l’unica strada che può condurre a una riduzione permanente della pressione fiscale. Insomma, è solo tagliando la spesa che le tasse potranno scendere stimolando la ripresa.

La ricetta è chiara: tagliare le spese, innanzitutto per evitare un aumento dell’Iva e poi per poter ridurre stabilmente le aliquote fiscali. Ma i tempi sono cruciali. È in atto una timida ripresa dell’attività economica, per ora sostenuta soprattutto dalla domanda di esportazioni grazie alla svalutazione dell’euro. Il momento per agire è oggi. Bisogna far sì che la ripresa si consolidi e per farlo non bastano le esportazioni. Dopo il cambiamento epocale intervenuto nel mercato del lavoro grazie al Jobs act occorre convincere famiglie e imprese che la pressione fiscale sul lavoro scenderà, non solo sui nuovi assunti, ma su tutti i lavoratori. E il solo modo per farlo credibilmente è tagliando la spesa (come si illustra ampiamente in queste pagine).

Purtroppo il presidente del Consiglio, che pure ha capito subito l’importanza del Jobs act, pare far fatica a convincersi che tagliare la spesa pubblica è altrettanto importante. Dopo non aver fatto praticamente nulla nella sua prima legge di Stabilità, Matteo Renzi ha recentemente riaperto il capitolo della spending review annunciando la nomina di due nuovi responsabili, il professor Roberto Perotti e l’onorevole Yoram Gutgeld. Ma senza fretta: a due settimane dall’annuncio, la nomina formale non è ancora arrivata. Ma soprattutto i tagli che i due nuovi commissari proporranno saranno inseriti nella prossima legge di Stabilità, cioè entreranno in vigore, se tutto va bene, fra un anno. Perché bisogna aspettare tanto? Perché non si può intervenire subito e cominciare a risparmiare già nella seconda metà di quest’anno? In alcune aree, come i sussidi alle imprese, i capitoli da aggredire e le norme da cancellare sono noti da anni. Basta farlo, 35 miliardi di tagli non sono pochi: più tardi si inizia, meno probabile è ottenerli.

Ridurre gli sprechi ed evitare la corruzione negli appalti pubblici è importante ma non basta se l’obiettivo è una riduzione della pressione fiscale di cui famiglie e imprese si accorgano. Occorre riflettere a fondo sul nostro sistema di welfare, che pur essendo costoso protegge poco e male i più deboli e regala invece servizi gratuiti, ad esempio nella sanità, a chi potrebbe pagarli. Anche qui non si tratta di partire da zero: basterebbe rileggere l’eccellente Rapporto della commissione presieduta da Paolo Onofri durante il primo governo Prodi, rimasta in un cassetto per quasi vent’anni.

22 marzo 2015 | 08:41
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_marzo_22/fate-prima-legge-stabilita-96379086-d064-11e4-a378-5a688298cb88.shtml
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« Risposta #65 inserito:: Aprile 16, 2015, 04:30:33 pm »

Ottimismo e realtà
Lo slancio perduto del premier


Di Alberto Alesina Francesco Giavazzi

Matteo Renzi, dopo il varo dell’ottimo Jobs act, sembra aver perso slancio sulle riforme. Non lo si ripeterà mai abbastanza: il prossimo passo per far ripartire una crescita che non sia di pochi decimali di punto, richiede sgravi fiscali consistenti, in particolare sul lavoro. Il peso del nostro debito pubblico impone che questi tagli alle tasse possano realizzarsi soltanto se accompagnati da corrispondenti e congrue riduzioni della spesa.

Su questo tema il presidente del Consiglio sta inciampando in una delle trappole cui purtroppo è spesso soggetto: l’uso di parole che indulgono al populismo, condite con un ottimismo perenne, ma combinate con pochi fatti concreti. Abbiamo ascoltato frasi come «taglierò la spesa senza ridurre i servizi offerti dallo Stato ai cittadini». Parliamoci chiaro: è impossibile. Per non dire del presunto «tesoretto» che, ancora una volta, significherebbe spesa in deficit.
Ridurre la corruzione e i costi della politica è assolutamente necessario. Ma è inutile illudersi, è solo il primo passo. Certamente essenziale, purtroppo però non basta. I servizi e l’assistenza ai poveri e anche al ceto medio vanno garantiti e, in alcuni casi, ove possibile, migliorati. Ma non possiamo continuare ad offrire servizi gratuiti a chi sarebbe in grado di pagarli.

Continuiamo ad offrire istruzione universitaria pressoché gratuita anche per nuclei familiari dal reddito molto elevato. O gni studente costa allo Stato circa 7 mila euro l’anno, a fronte di rette universitarie che, anche nella fascia di reddito più elevata, si aggirano, nella media nazionale, intorno ai 2 mila euro. Nelle facoltà scientifiche dell’università di Pavia, le più costose d’Italia, le famiglie con reddito più elevato pagano circa 3.500 euro, la metà del costo.

La sanità è chiaramente un diritto di tutti. Ma siamo sicuri che chi dispone di guadagni consistenti debba usufruirne allo stesso costo di chi invece ha redditi bassi? È chiaro che un approccio di questo tipo - i servizi, in casi specifici, devono essere pagati almeno quanto costano - richiederebbe un ripensamento delle aliquote fiscali. Ma questo produrrebbe solo vantaggi, in quanto innescherebbe un percorso virtuoso: i cittadini avrebbero un forte incentivo ad esigere servizi di qualità.

Non possiamo, inoltre, continuare a sussidiare imprenditori improduttivi. Non possiamo nemmeno più permetterci di continuare a usare l’impiego pubblico (permanente e intoccabile) per assorbire lavoratori in regioni in cui l’occupazione privata stenta a decollare. E che talvolta non decolla proprio a causa della concorrenza di impieghi pubblici a vita, pagati molto più della loro produttività.

Quanto ci costa coltivare l’illusione che lo Stato azionista, in questo o quel settore, possa dimostrare «la lungimiranza della politica nell’individuare le imprese di successo» ingenerando per di più l’aspettativa che ci sarà sempre lo Stato a risolvere fallimenti privati? L’ottimismo sull’economia di Matteo Renzi è certamente utile per contrastare un diffuso disfattismo, e si basa su alcuni fatti concreti: la svalutazione dell’euro, la caduta del prezzo del petrolio, gli stimoli economici della Banca centrale europea, tassi di interesse che non sono mai stati tanto bassi. Ma un conto è l’ottimismo, un conto sono leggerezza, faciloneria e populismo.

Un leader politico deve saper trasmettere l’idea di un futuro che sarà migliore, ma deve saper dire la verità ai cittadini anche quando le notizie non sono buone. Promettere che le tasse verranno ridotte, ma che i servizi si continueranno a non pagare, neppure se si è ricchi, è solo demagogia. Matteo Renzi deve fare un salto di qualità nel modo in cui si rivolge ai cittadini che meritano di essere trattati come cittadini appunto e non come perenni elettori da dover convincere.

12 aprile 2015 | 08:48
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_aprile_12/slancio-perduto-premier-56953d30-e0da-11e4-87d6-ad7918e16413.shtml
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« Risposta #66 inserito:: Maggio 10, 2015, 04:25:25 pm »

Tagli alle imposte
Le scelte timide di Berlino

Di Alberto Alesina - Francesco Giavazzi

C he fare per metterci la crisi alle spalle e ricominciare a creare lavoro? Dobbiamo liberarci dal peso (e dai rischi) del debito pubblico o dobbiamo innanzitutto creare più domanda? La risposta non può essere che una: si devono fare entrambe le cose. Non è facile, ma è l’unica via di uscita. E significa incoraggiare consumi e investimenti privati a scapito di quelli pubblici, in modo da far ripartire l’economia senza aumentare il debito.

È un problema europeo, non solo italiano. Nei 12 Paesi storici dell’euro il rapporto debito pubblico-Prodotto interno lordo (Pil) era, in media, il 67% nel 2007, l’anno prima della crisi. Oggi è vicino al 100%, con punte di 120 in Irlanda, 127 in Portogallo, 175 in Grecia e 135 in Italia. In realtà, dal punto di vista fiscale ci sono due gruppi di Paesi in Europa. A parte il caso specifico della Grecia, che già una volta, nel 2011, non ha rimborsato i suoi titoli, ci sono Paesi come Italia, Spagna, Portogallo e Irlanda che solo quattro anni fa hanno rischiato una crisi del debito e devono tagliare urgentemente la spesa pubblica. Innanzitutto per poter ridurre le imposte, e poi perché i bassi tassi di interesse che ci sta regalando la Banca centrale europea non dureranno per sempre. In pochi giorni i tassi sui titoli decennali tedeschi sono saliti di circa mezzo punto e con essi, se pur marginalmente, lo spread sui titoli pubblici italiani, dai 90 punti di metà marzo ai 115 di venerdì scorso. L’ evidenza empirica dimostra che, soprattutto nei Paesi in cui la pressione fiscale è molto elevata, ridurre le tasse sul lavoro più che compensa i tagli di spesa, con conseguenze positive sulla crescita. Infatti, oltre agli effetti diretti sui consumi di un aumento dei salari al netto delle imposte, vanno calcolati anche gli aumenti di competitività grazie alla riduzione del costo del lavoro, e i maggiori profitti delle imprese che significano più investimenti privati.


Vi sono invece Paesi, in particolare la Germania, che data la situazione dei loro conti pubblici possono permettersi politiche espansive. Il debito pubblico tedesco, dopo essere salito dal 65 all’80% del Pil durante la crisi, è oggi ritornato vicino al 70% e dall’anno scorso i conti pubblici sono in attivo. La Germania può quindi permettersi una politica di bilancio più aggressiva, per esempio riducendo le imposte senza tagliare la spesa, se non addirittura aumentando un po’ gli investimenti pubblici. È ciò che ha detto nei giorni scorsi il ministro delle finanze, Wolfgang Schäuble. Ma la dimensione della manovra annunciata da Berlino è minuscola: un miliardo e mezzo di tasse in meno, lo 0,05% del Pil, appena quanto basta per mantenere la pressione fiscale invariata compensando il «drenaggio fiscale», prodotto dalla combinazione fra aumento dei prezzi e progressività delle imposte. Pur avendo il merito di rompere il tabù tedesco che le tasse non si abbassano, questa manovra non avrà alcun effetto sulla domanda aggregata né tedesca né tanto meno europea.


Quando si fa loro notare che la Germania potrebbe permettersi di essere più ambiziosa, i tedeschi rispondono che la disoccupazione è scesa sotto il 5% e non c’è alcun bisogno di ulteriori politiche espansive. Vero. Ma un’espansione della domanda interna tedesca, creando un po’ di pressione sui prezzi (oggi l’inflazione è pressoché zero) ridurrebbe il surplus della bilancia commerciale - che ha raggiunto in maggio 23 miliardi di euro, un attivo pari a circa il 6% del Pil - aiutando le esportazioni degli altri Paesi dell’Unione monetaria. I tedeschi obiettano che questi squilibri non sono un problema loro: derivano dall’andamento insoddisfacente della produttività nei Paesi del Sud Europa e vanno risolti lì, non in Germania. Vero anche questo, ma se una riduzione del carico fiscale che pesa sui lavoratori tedeschi e consenta loro di spendere un po’ di più aiuta anche gli altri Paesi, a noi non pare un grosso sacrificio per la Germania.
Tuttavia non dobbiamo illuderci che i nostri problemi possano essere risolti da qualcun altro, nemmeno dalla potente Germania. L’effetto sul resto dell’area euro di una politica tedesca più espansiva e quindi di una riduzione del loro surplus commerciale andrebbe nella direzione giusta, ma non è il «deus ex machina». Alla fine i problemi di competitività dei Paesi del Sud Europa si risolveranno solo con riforme nazionali.

10 maggio 2015 | 08:34
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_10/scelte-timide-berlino-6e87325a-f6dc-11e4-bdc6-f010dce69e19.shtml
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« Risposta #67 inserito:: Luglio 05, 2015, 10:33:38 am »

L’analisi
Grecia, il danno non visto
La crisi dell’Europa e il venir meno della fiducia reciproca


Di Alberto Alesina

La fiducia reciproca (concessa e meritata) è un fattore di straordinaria importanza per il successo di un’economia e di una nazione. Se non possiamo fidarci gli uni degli altri, contratti che beneficiano entrambe le parti non si scrivono; le istituzioni politiche funzionano male; la giustizia è travolta dai litigi, e s’inceppa; se non ci si fida gli uni degli altri e lo Stato non si fida dei cittadini (e viceversa) si devono scrivere regole complicatissime per prevenire attività deleterie sulla collettività. Spesso queste regole finiscono per creare costi senza migliorare la legalità, anzi ostacolando l’attività economica legittima e produttiva.

La fiducia è la colla che tiene insieme una nazione e l’olio che fa funzionare i suoi ingranaggi. Vi è di che preoccuparsi quando in Italia uno dei motti più famosi recita: «Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio». Sono sicuro che in Svezia un detto simile non esista. Non a caso la fiducia reciproca tra connazionali è molto alta nei Paesi scandinavi, alta nei Paesi anglosassoni e molto più bassa in quelli mediterranei. Non solo, ma la fiducia tra cittadini di Paesi diversi è generalmente più bassa che tra connazionali. Non è particolarmente alta nemmeno fra i Paesi dell’area euro. Infatti, la mancanza di fiducia è, a ben vedere, il motivo fondamentale per cui la costruzione dell’euro è stata imperfetta.

Due esempi tra i tanti. Una moneta unica avrebbe funzionato meglio con una politica fiscale europea più integrata. Negli Usa vari meccanismi fiscali redistribuiscono fondi tra Stati. In Europa questi meccanismi non si sono istituiti proprio perché i Paesi membri dell’euro temevano che ci sarebbero state nazioni che avrebbero approfittato di un budget europeo spendendo fondi comuni a man bassa. Secondo esempio: un’idea che circola da qualche tempo in Europa (e recentemente riproposta dalla Francia) è di istituire un sistema di sussidi alla disoccupazione a livello comunitario, finanziato da fondi europei.

L’idea è economicamente irreprensibile: il secondo esempio di mutua assicurazione, cioè quando un Paese è in recessione riceve aiuti dall’Europa e viceversa, quando va meglio, aiuta gli altri. Ciò renderebbe il ciclo economico meno marcato e meno dannoso in un’area euro in cui la politica monetaria non può distinguere tra Paesi in punti diversi del ciclo. Non sarebbe un flusso di fondi che va sempre in una direzione. La Germania era il malato d’Europa negli Anni 90, quindi non è per niente detto che sempre un gruppo di Paesi vada bene e un altro male. Negli Stati Uniti i sussidi alla disoccupazione sono finanziati dal governo federale e durante l’ ultima crisi i tassi di disoccupazione erano molto diversi fra Stati. Quest’assicurazione reciproca è improponibile oggi in Europa. Nessun Paese si fiderebbe degli altri e del fatto che non ne approfittino. Immaginate poi un tedesco o un finlandese disposto a pagare con le sue tasse per la disoccupazione in Spagna, molta della quale probabilmente nasconde lavoro nero?

Ecco il vero dramma della crisi greca, che, al di là del costo economico, ha dato un altro duro colpo alla fiducia reciproca in Europa. Il contagio greco più grave non è quello economico diretto sugli spread ma sulla caduta di fiducia tra il Nord («mediterranei pigri e inaffidabili») e il Sud («tedeschi rigidi e cattivi»). L’effetto più dannoso della crisi greca, comunque vada a finire, è che ha dato un altro duro colpo alla costruzione d’istituzioni europee basate su un minimo di fiducia che facciano poi funzionare la moneta unica meglio. Di questo dovremo «ringraziare» i greci, sia se rimarranno nell’euro sia se ne usciranno pagando le dure conseguenze che meritano.

3 luglio 2015 | 09:58
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_03/grecia-danno-non-visto-af7ca044-2141-11e5-be97-5cd583b309bb.shtml
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« Risposta #68 inserito:: Agosto 02, 2015, 04:35:48 pm »

Crisi della Grecia, ideologie e numeri
Di Albero Alesina e Francesco Giavazzi

Le discussioni sul caso greco sempre più riflettono ideologia e stereotipi, un approccio che certo non aiuta a capire che cosa sia davvero accaduto. Alcuni numeri forse possono servire. Nel 1995 il reddito pro capite greco era il 66 per cento di quello tedesco. Nel 2007, l’anno prima dell’inizio della crisi finanziaria mondiale, era l’80,5 per cento (Commissione europea, Statistical Annex, primavera 2015). Un risultato straordinario - pochi Paesi riescono ad arricchirsi tanto rapidamente - e che dovrebbe imbarazzarci: nello stesso periodo l’Italia anziché guadagnare posizioni rispetto alla Germania ne ha perse, arretrando (sempre in termini di reddito pro capite) dal 95 al 90 per cento. Nei primi anni, fino al 2005, l’aumento del reddito pro capite greco è stato sostenuto da una crescita della produttività dell’economia, che aumentava di circa il 2 per cento l’anno, oltre il doppio della crescita della produttività tedesca.

Tutto cambia dopo il 2005 quando la produttività inizia a scendere, perdendo mezzo punto l’anno fra il 2005 e il 2010. Maggior reddito senza un corrispondente aumento della produttività si può ottenere solo indebitandosi. E infatti fra il 2000 e il 2010, l’anno del primo salvataggio, la Grecia ha speso ogni anno (a debito) oltre il 10 per cento in più di ciò che produceva. Il risultato è che in quel periodo il debito salì dal 100 al 146 per cento del Pil. Insomma quegli anni sono stati per molti greci una grandiosa festa di consumi e di vacanze (pensionamenti a cinquantenni). Se quei prestiti fossero invece stati impiegati in investimenti produttivi, e ci fosse stata qualche liberalizzazione, oggi la Grecia sarebbe in grado di ripagarli e il reddito pro capite sarebbe ben piu alto di quello che è. Invece sono stati spesi in consumi, privati (grazie ad un’evasione fiscale endemica dei ricchi) e soprattutto pubblici.

Anche le Olimpiadi del 2004 hanno contribuito, ma per una quota minore: 11 miliardi di euro, un quinto del debito contratto negli anni precedenti le Olimpiadi. E chiusi i Giochi, che nessuno obbligò la Grecia ad organizzare, il Paese ha continuato imperterrito a indebitarsi. È vero che la Grecia ha una spesa militare elevata (più dell’Italia e della Germania, ma meno di Francia e Regno Unito in rapporto al Pil), che in parte va in acquisti di materiale militare all’estero. Ma nel 2009, ad esempio, a fronte di un indebitamento complessivo di 36 miliardi di euro le importazioni di materiale militare furono (solo) 2 miliardi: un quarto dalla Germania, un quarto dalla Francia, il resto dagli Stati Uniti.

Dal 2010, il costo della crisi è stato molto elevato. Il reddito pro capite, che come detto aveva raggiunto oltre l’80 per cento di quello tedesco, è oggi arretrato al 60, inferiore persino al livello del 1980, l’anno prima che la Grecia entrasse nell’Unione Europea. Sarebbe stato meglio fare default totale (non parziale come accadde) e uscire dall’euro allora? Forse, ma non lo sapremo mai con certezza. La Grecia è un’economia molto chiusa: esporta non più del 25 per cento di quanto produce contro il 30 per cento dell’Italia e il 45 per cento della Germania.

La svalutazione, anche se non si fosse tradotta tutta in maggiore inflazione, avrebbe aiutato meno che altrove. Le ripercussioni finanziarie sulle banche, sul credito e quindi sull’economia di un default e di un’uscita dall’euro erano imprevedibili. Il pericolo di contagio nel 2010 era altissimo, ricordiamoci i tassi al 6-7 per cento sul debito italiano che pagavamo nel 2011. Quei tassi costrinsero il governo Monti a politiche di austerità urgenti che si tradussero (purtroppo) in un aumento di imposte. Un contagio generalizzato poteva innescare una seconda crisi finanziaria.

Certo dal 2010 ad oggi la Grecia ha pagato caro i suoi errori. Ma un luogo comune (sbagliato) è che la Grecia in questi ultimi anni sia stata soffocata dal peso degli interessi sul debito. Dal 2010 al 2014 la Grecia ha continuato a ricevere dai Paesi europei, dalla Bce e dal Fondo monetario un flusso netto positivo di aiuti, cioè più denaro di quanto dovesse pagarne in interessi sul suo debito estero (Ken Rogoff e Jeremy Bulow, www.vox.eu). Solo quest’anno, dopo che Tsipras ha arrestato il processo di riforme, il flusso netto è diventato negativo. E con esso la crescita. Dopo anni di recessione la Grecia nel 2014 aveva ricominciato a crescere: quest’anno il segno è di nuovo negativo.

Questi sono i numeri. Il resto è ideologia e politica. Se la Grecia geograficamente si trovasse al posto del Portogallo, anziché nel mezzo del Mediterraneo fra Siria e Turchia, sarebbe già fuori dall’euro. Conoscendo bene la geografia politica Tsipras l’ha usata per cercare di ricattare l’Europa. Gli è andata male. Se farà quanto domenica notte si è impegnato a fare è improbabile che il suo governo sopravviva. La Grecia forse sì, se un altro governo ci riuscirà. In quel piano ci sono quasi tutte le riforme che da anni il Paese avrebbe dovuto fare e non ha mai fatto, dalle liberalizzazioni alle privatizzazioni (il cui ricavato verrà destinato ad un fondo speciale sotto il controllo dei creditori, in modo che i greci non possano spenderlo) alla riforma del sistema fiscale e della giustizia civile. C’è anche la promessa implicita, dei creditori, ad allungare la scadenza del debito e ridurne gli interessi, cioè a tagliarlo significativamente.

Funzionerà tutto questo o tra sei mesi saremo al punto di oggi? Il risultato del referendum del 5 luglio non lascia ben sperare, ma stiamo a vedere.

14 luglio 2015 (modifica il 14 luglio 2015 | 07:21)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_14/crisi-grecia-ideologie-numeri-alesina-giavazzi-72a08a60-29e7-11e5-b455-a2526e9b2de2.shtml
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« Risposta #69 inserito:: Agosto 06, 2015, 11:37:35 am »

Ascoltare i cittadini non le lobby
La competitività, il disegno di legge e le resistenze alla svolta

Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

La Legge sulla concorrenza prevede che ogni anno il governo, sulla base delle segnalazioni ricevute dall’Autorità Antitrust, predisponga un disegno di legge per il mercato e la concorrenza. Ad esso il governo deve allegare l’elenco dei provvedimenti segnalati dall’Antitrust, indicando quelli che non ha ritenuto opportuno far suoi. Dal 2009, anno in cui fu introdotta la Legge sulla concorrenza, il governo Renzi è il primo ad adempiervi. Il 20 febbraio scorso ha infatti varato un disegno di legge che da allora è in discussione in Parlamento, nelle commissioni Finanze e Attività produttive della Camera. Come c’era da aspettarsi, cinque mesi di discussione parlamentare hanno consentito a tutti coloro cui il disegno di legge toglieva un po’ di rendita di organizzarsi per evitarlo. In molti ci sono riusciti. Un’audizione dopo l’altra, una pressione di questa o quella lobby dopo l’altra, ben poco è rimasto. Ad una legge già timida è stato tolto quasi tutto.

Si era partiti male. Dal Consiglio dei ministri di febbraio era uscito un testo incompleto, dal quale erano state stralciate alcune liberalizzazioni che invece il ministero per lo sviluppo economico (Mise) aveva incluso nella prima stesura del provvedimento. Per esempio, dalle liberalizzazioni erano state escluse le aziende pubbliche locali, noto feudo dei partiti. Un caso emblematico (come già notavamo in un articolo del 1° marzo) è quello delle Autorità portuali. Il Mise aveva chiesto che venisse loro vietato di essere al tempo stesso regolatori dei servizi offerti al porto e fornitori dei servizi stessi: infatti nessun privato farà concorrenza a un’azienda che è posseduta da chi ne fissa le regole. La norma fu cancellata. Idem per l’obbligo di effettuare accreditamenti periodici delle strutture sanitarie private in modo tale da evitare il consolidarsi di monopoli di fatto. Stralciata anche la liberalizzazione dei medicinali di fascia C (quelli utilizzati per patologie di «lieve entità»): i farmacisti manterranno quindi mantenere il monopolio sulle vendite di medicinali che potrebbero tranquillamente essere acquistati nei supermercati a prezzi inferiori. Stralciata anche la rimozione dell’obbligo per gli autisti Ncc (noleggio con conducente) di ritornare in rimessa tra una chiamata e l’altra, una norma che avrebbe aperto il mercato a servizi quali Uber - un’azienda che rappresenta il futuro del trasporto urbano, migliorando i servizi e riducendone i costi, e che sta crescendo a valanga nel mondo. È sintomatico che in India (non negli Stati Uniti!) sia in atto una battaglia non sulla regolamentazione di questi servizi ma fra due società private che si contendono il nuovo mercato. Di fronte a questa innovazione noi cosa facciamo? Le impediamo di nascere.

Il Parlamento non solo non ha reintrodotto queste norme, ne ha cancellate altre. Su pressione dei carrozzieri ha eliminato alcuni articoli sui risarcimenti dell’Rc auto, scritte per rendere più difficili le frodi. Su pressione dei sindacati ha eliminato la liberalizzazione dei fondi pensione, che prevedeva la piena portabilità non solo dei contributi a carico dei lavoratori ma anche di quelli a carico del datore di lavoro (una norma che elimina Uil monopolio dei sindacati osteggiata nella gestione dei fondi pensione, una delle loto attività più importanti).

La norma che consentiva di non ricorrere ad un notaio per trasferimenti di immobili di valore inferiore ai 100mila euro è stata barattata con un aumento da 7mila a 10mila del numero dei notai. Un compromesso realistico - che probabilmente salva l’affidabilità dei registri catastali, ma che è accettabile solo se il numero dei notai aumenterà davvero. Già il governo Monti aveva deliberato, nel 2012, un aumento di 1.500 unità, ma i concorsi per quei nuovi notai non si sono ancora svolti. Colpa del ministro dell’Interno che non fa i concorsi, di quei notai, che però sono ben contenti se quei concorsi non si fanno.

La concorrenza non è un concetto astratto, che affascina gli economisti per deformazione professionale. Più concorrenza significa prezzi più bassi, meno rendite per i monopolisti e quindi benefici per i consumatori. Ricordate quando c’era il monopolio delle linee aeree nazionali? I voli all’interno dell’Europa (per non parlare di quelli extraeuropei) erano di fatto riservati ai ricchi. Oggi, dopo la liberalizzazione, i nostri figli visitano l’Europa (e il mondo) a prezzi con cui noi da Milano visitavamo al massimo la Lombardia. O i tempi del monopolio sulla telefonia, quando ci volevano sei mesi per installare una linea e le telefonate all’estero andavano centellinate perché costavano moltissimo? Anche con il grande progresso tecnologico avvenuto nel campo della telefonia le cose non sarebbero cambiate di molto se fosse sopravvissuto il monopolio. Oggi invece, grazie alla privatizzazione di Telecom e ai molti operatori nati per effetto della concorrenza, possiamo telefonare a prezzi stracciati ai nostri figli che girano il mondo con le tariffe aeree low cost e usano Uber (all’estero).

Il governo non sembra capire l’importanza della concorrenza. O meglio, forse la capisce ma non sa dire di no alle lobby che di concorrenza non vogliono sentir parlare. Infatti, prima stralcia provvedimenti importanti che un suo ministro aveva proposto, poi lascia che il Parlamento faccia il resto. Matteo Renzi dovrebbe chiudere la discussione con un emendamento che reintroduca le norme stralciate e blocchi ulteriori interventi in Parlamento che altro non fanno se non assecondare i diktat delle lobby. Inoltre, dato che una legge sulla concorrenza va fatta ogni anno, sarebbe opportuno che il governo si impegnasse fin da oggi a presentare la Legge sulla concorrenza del 2016 e, in quell’occasione, a rivedere tutte le manchevolezze di quella oggi in discussione.

Nuove tecnologie, nuove idee, nuovi mercati nascono con sempre maggiore frequenza: è importante che vari monopolisti non se ne approprino in modo indebito. La prossima legge sulla concorrenza dovrebbe introdurre un «diritto a innovare»: imprese che aprono nuovi mercati non possono nascere se debbono soggiacere a norme scritte prima che quei mercati esistessero. Il governo potrebbe prendere esempio dalla California, il luogo in cui c’è più innovazione al mondo. Quando si apre un nuovo mercato, o viene introdotta una nuova tecnologia, le autorità della California ridisegnano la regolamentazione insieme alle nuove imprese, bilanciando i vantaggi dell’innovazione con la tutela dei cittadini.

4 agosto 2015 (modifica il 4 agosto 2015 | 07:30)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_04/ascoltare-cittadini-non-lobby-b5e3d40a-3a66-11e5-8bd9-fe8cdeda281d.shtml
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« Risposta #70 inserito:: Settembre 15, 2015, 05:29:58 pm »

Immigrati, la lezione americana
Con un’economia che cresce è molto più facile sostenere la coesione sociale, che invece si perde quando le risorse non crescono e debbono essere spartite fra più persone

Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Fra vent’anni, guardando le foto dell’arrivo dei profughi siriani a Monaco, accolti dall’Inno alla Gioia, della colonna di automobili austriache che trasportano altri profughi verso la Germania, della nostra Marina che ha salvato migliaia di persone nel Mediterraneo, penseremo che quello fu il momento in cui nacque l’Europa multietnica.
Come gli Stati Uniti sono una società di immigrati (più o meno recenti), così, piaccia o no, diventerà l’Europa. Al di là del problema dei profughi di guerra, l’Europa attira centinaia di milioni di potenziali immigrati che vivono vicinissimi ai suoi confini, per lo più con livelli di reddito infinitamente più bassi del nostro. Costruire, intorno all’Europa una muraglia, figurativa se non reale, è impossibile: non fermerebbe il flusso, avrebbe solo l’effetto di selezionare i più disperati. Controlli e selezione sì, non muri.

Che cosa ci insegnano gli Stati Uniti? Prima lezione: dal punto di vista economico una società multietnica può funzionare assai bene. Diversità di formazione, cultura, punti di vista, abilità, stimolano l’innovazione e la produttività. Questo vale soprattutto per immigrati con un livello di istruzione relativamente alto, ma non solo. In Italia, per esempio, le «badanti» straniere hanno risolto l’assistenza agli anziani, un problema sempre più centrale nelle nostre vite. Inoltre il livello di istruzione di una popolazione può aumentare, anche rapidamente, con adeguati investimenti in capitale umano, cioè nella scuola e nell’università. Investimenti che sono certamente più utili di quelli in ponti o autostrade, come dimostra lo straordinario successo della Corea del Sud. Questo non significa, o non solo, più soldi pubblici: è soprattutto una questione di organizzazione e di merito, come scrivono da tempo Roger Abravanel e Roberto Perotti.

La seconda lezione è che la generosità (quella privata, ma anche il welfare pubblico) funziona molto meglio fra persone della stessa nazionalità e cultura. Cioè, siamo più disposti a pagare tasse anche elevate per un welfare generoso (e talvolta sprecone) verso i nostri concittadini nati qui; molto meno se percepiamo che del welfare beneficiano anche gli immigrati (che peraltro pagano anch’essi le tasse). Ci sono due modi per affrontare questo problema: uno è ridimensionare lo stato sociale, limitandolo alle funzioni di base, cancellando i benefici per chi non ne ha bisogno, eliminando privilegi e sprechi, cose che dovremo fare comunque - fra l’altro in Paesi come Italia e Germania che stanno invecchiando rapidamente, un flusso di immigrati giovani renderebbe il nostro welfare più sostenibile. L’altra risposta, odiosa, è discriminare fra nativi ed immigrati, una strada non percorribile, né moralmente, né praticamente.

Infine, i conflitti etnici diventano possibili, per quanto si faccia per evitarli. In Europa potremmo assistere alla crescita di partiti xenofobi, cui potrebbero opporsi partiti etnici, cioè gruppi politici interessati solo a promuovere gli interessi degli immigrati, di questa o quella nazionalità. Ciò renderebbe ingestibile non solo la politica dell’immigrazione ma anche la politica tout court. Un rischio tanto maggiore quanto più marcate sono le differenze culturali e religiose tra nativi e immigrati.

Come affrontare l’immigrazione, non solo quella con cui ci confrontiamo oggi, prodotta dalla crisi profughi, sarà il problema di gran lunga più difficile che l’Europa e l’Italia dovranno affrontare nei prossimi anni. Non illudiamoci: come insegna l’esperienza americana sarà una strada piena di ostacoli, con passi avanti e fallimenti. Dobbiamo riuscire ad attrarre non solo individui con basso livello di capitale umano, ma anche persone più istruite e produttive. Ma non arriveranno solo immigrati con molti anni di istruzione alle spalle. Dovremo quindi fare uno sforzo per inserire loro e i loro figli nella scuola e nelle università in modo da aumentarne rapidamente il capitale umano. Dagli immigrati dobbiamo esigere il rispetto assoluto delle leggi: Germania, Gran Bretagna e Svezia, i Paesi europei che hanno le più ampie popolazioni immigrate (8% della popolazione in Germania e Gran Bretagna, 10 per cento in Svezia, a fronte del nostro 6 per cento) ci riescono.
Tutto ciò è molto più facile in un Paese che cresce e che ha un bilancio pubblico in attivo, come la Germania. Ecco un altro motivo per cui far ripartire l’economia è fondamentale. Con un’economia che cresce è molto più facile sostenere la coesione sociale, che invece si perde quando le risorse non crescono e debbono essere spartite fra più persone.

13 settembre 2015 (modifica il 13 settembre 2015 | 07:20)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_13/immigrati-lezione-americana-editoriale-dabcf5ac-59d5-11e5-b420-c9ba68e5c126.shtml
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« Risposta #71 inserito:: Settembre 28, 2015, 07:53:17 pm »

Un piano pluriennale
Il segnale che manca sui conti
Legge di Stabilità, serve un piano pluriennale di riduzione della pressione fiscale accompagnato da un programma di tagli alla spesa che riporti al pareggio di bilancio

Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Abbiamo studiato (in alcuni lavori scritti con il nostro collega Carlo Favero) le leggi di bilancio dei maggiori Paesi industriali negli ultimi trent’anni. L’Italia salta all’occhio per la scarsa persistenza delle correzioni attuate ai nostri conti pubblici. Ovvero, le misure avviate con una legge di Stabilità vengono spesso abbandonate, se non addirittura capovolte da quelle successive. Non è così in altri Paesi. All’estremo opposto troviamo il Canada, un Paese in cui le correzioni ai conti pubblici si protraggono a lungo nel tempo. All’inizio degli anni 90, ad esempio, il Canada avviò un percorso di riduzione della spesa pubblica durato ininterrottamente per sette anni, sotto due diversi governi: i conservatori prima - che dopo aver annunciato il programma di tagli, facendone il perno della loro piattaforma elettorale, vinsero le elezioni - e in seguito i liberali che continuarono con le medesime politiche. In quegli anni, nonostante i tagli alla spesa, l’economia continuò a crescere e il rapporto fra debito e Prodotto interno lordo (Pil) scese dal 70 a meno del 50 per cento.

Lo «stile» delle leggi di Stabilità italiane è molto diverso. E ciò non solo per effetto dei numerosi condoni, che sono per loro natura correzioni temporanee dei conti pubblici. Lo stesso è accaduto nella prima parte del decennio scorso, dopo lo sforzo per soddisfare i parametri di Maastricht ed entrare nell’Unione monetaria. Nel 2000 avevamo, al netto degli interessi, un avanzo (entrate meno uscite senza tenere conto degli interessi sul debito) pari al 5,5% del Pil. Nel 2006 quell’avanzo primario era sostanzialmente scomparso (si era ridotto allo 0,3%) soprattutto per effetto dell’aumento della spesa pubblica. Queste politiche di stop and go creano confusione e incertezza, il contrario di ciò che serve per indurre le imprese a investire e le famiglie a consumare (si pensi all’effetto dei successivi cambiamenti di direzione nella tassazione delle case). Non solo. Senza un piano articolato su un orizzonte pluriennale, credibile e poi realizzato puntualmente, si finisce per decidere all’ultimo momento, spesso incalzati da un’elezione alle porte o dall’emergenza economica. Così si prendono le decisioni più facili: si aumentano le tasse invece che tagliare la spesa. Accadde al governo Monti nell’affanno dell’emergenza. Poi, non appena la crisi finisce, si ritorna subito alla normalità, fatta di spesa rilassata e misure populiste, come l’abolizione della tassa sulla prima casa, dettate più da giochi di strategia politica che da sane regole di finanza pubblica.

La legge di Stabilità che il governo si appresta a varare deve dare un segno profondamente diverso. Serve un piano pluriennale di riduzione della pressione fiscale accompagnato da un programma pluriennale e dettagliato di tagli alla spesa che riporti al pareggio di bilancio. Nulla di male se nel frattempo il deficit un po’ cresce, purché la maggior flessibilità venga usata per ridurre le tasse sul lavoro, e quindi aiutare crescita e occupazione, non per abolire le tasse sulla casa i cui effetti su crescita e occupazione sono tutti da dimostrare.

Vi sono due modi per ridurre le imposte alla maggioranza dei cittadini. Il primo, consiste nel tagliare le spese. L’alternativa è l’eliminazione delle agevolazioni fiscali e la loro sostituzione con aliquote più basse per tutti.

Le agevolazioni fiscali sono sgravi di imposte per questo o quel settore, questa o quell’azienda, questa o quella comunità. Si tratta di misure, quasi sempre dovute più a favori politici che a necessità economiche e che favoriscono alcuni a scapito di altri. Ad esempio: il regime privilegiato delle cooperative ci costa, in termini di mancato gettito, 300 milioni l’anno (dati della Ragioneria generale dello Stato); l’accisa ridotta sul gasolio impiegato per l’autotrasporto di merci e passeggeri (inclusi i taxi) un miliardo e mezzo; altrettanto la speciale accisa sul carburante degli aerei; 640 milioni quella sulla navigazione nelle acque interne, e così via. Ma affinché l’eliminazione di queste e tante altre agevolazioni (quattro anni fa il gruppo di lavoro presieduto da Vieri Ceriani ne individuò 720) non si traduca in un aumento della pressione fiscale, un simile provvedimento deve essere accompagnato da un’equivalente taglio alle aliquote per tutti i cittadini. Il governo sembrava avviato su questa strada, ma ancora una volta pare prevalga il rinvio.

26 settembre 2015 (modifica il 26 settembre 2015 | 07:05)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_26/governo-legge-stabilita-segnale-manca-conti-piano-pluriennale-3df74480-640b-11e5-a4ea-e1b331475bf0.shtml
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« Risposta #72 inserito:: Ottobre 24, 2015, 12:19:11 pm »

I numeri e i nodi
Manovra con poca crescita

Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

La legge di Stabilità per il 2016 è espansiva, restrittiva o neutrale? Cioè, quale è il segno del contributo che i conti pubblici daranno alla crescita il prossimo anno? Essendo l’aspetto più importante della legge, ci si aspetterebbe di capirlo già dalle prime righe. Invece è una domanda cui non è facile rispondere.

Se si guarda alle cifre del deficit la risposta sembrerebbe chiara: la legge è espansiva. Così d’altronde ha detto più volte il presidente del Consiglio. In assenza di interventi («a legislazione vigente» come si dice nel gergo dei conti pubblici) il deficit sarebbe sceso dal 3% circa del Prodotto interno lordo (Pil) di quest’anno all’1,8% nel 2016 (nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza pubblicata il 19 settembre): un contributo negativo alla domanda pari a oltre 1,5 punti di Pil. La legge invece alza l’obiettivo per il deficit 2016 dall’1,8 al 2,2%, mantenendolo sostanzialmente al livello del 2015 (2,6%). La legge sembrerebbe quindi neutrale. Se poi si correggono questi numeri per tener conto dello stato dell’economia - che è ancora lontana dalla piena occupazione - la legge risulta leggermente espansiva: il deficit corretto per il ciclo sale dallo 0,4% del Pil quest’anno allo 0,7 nel 2016: una spinta alla domanda pari allo 0,3%. Renzi e Padoan quindi hanno ragione: i numeri sono modesti, ma il segno è quello giusto e probabilmente, dati i vincoli europei, è il massimo che si potesse fare (i numeri si basano su quanto scritto nel Draft budgetary plan che il governo ha inviato a Bruxelles) .

Ma da dove viene questa spinta alla domanda? Apparentemente da una forte riduzione del carico fiscale, che scende di circa 20 miliardi, quasi un punto e mezzo di Pil (questo è il numero inviato a Bruxelles. Non tiene conto di quanto detto dal governo, per ora solo a parole, in merito a una possibile riduzione delle aliquote dell’imposta sulle società).

Quali tasse scendono? L’eliminazione della Tasi vale 3,7 miliardi e tutti gli altri sgravi, dal lavoro all’abolizione dell’Imu agricola, 1,7 miliardi (vedi tabella a lato). Ci sono poi 3 miliardi di tasse in più (sui giochi e sui capitali rimpatriati). Siamo lontani da quei 20 miliardi di minori tasse. La realtà è che la parte maggiore, 16,8 miliardi, proviene dalla cancellazione degli aumenti Iva che precedenti governi avevano previsto, rimandandoli agli anni futuri. Qui sta il punto. Se i cittadini si ricordavano di quei vecchi impegni e si aspettavano un aumento dell’Iva nella prossima primavera, il governo ha ragione. Le tasse sono state ridotte rispetto a quanto ci si aspettava di dover pagare.

In realtà è più probabile che pochi cittadini ricordassero (molti non lo sapevano neppure) che a legislazione invariata l’Iva sarebbe aumentata. Pochi hanno anticipato gli acquisti prevedendo un aumento dell’Iva in primavera. Proviamo allora a riscrivere la legge di Stabilità dal punto di vista di questi cittadini poco lungimiranti. Ciò che rimane sono tagli netti di tasse per 2,4 miliardi e tagli netti di spesa per 4,6 miliardi: un contributo negativo alla domanda (senza tener conto delle correzioni cicliche) pari a 2,2 miliardi, lo 0,1% del Pil. Cioè una Finanziaria leggermente restrittiva.

Insomma, la domanda se la Stabilità aiuterà l’economia dovete quindi porla ai cittadini. Se vi rispondono che del rischio che l’Iva aumentasse proprio non sapevano, questa Stabilità alla crescita contribuisce poco.

22 ottobre 2015 (modifica il 22 ottobre 2015 | 11:41)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_ottobre_22/manovra-poca-crescita-0ea4487e-787c-11e5-95d8-a1e2a86e0e17.shtml
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« Risposta #73 inserito:: Dicembre 02, 2015, 07:36:44 pm »

Tagli e ripresa
La lezione inglese sulla spesa

Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Negli ultimi anni abbiamo avuto quattro commissari per la spending review: o si sono ritirati in silenzio, come Enrico Bondi e Piero Giarda, oppure si sono dimessi, come Carlo Cottarelli e Roberto Perotti. Tutto questo lavoro ha prodotto pressoché nulla, non per colpa dei commissari ma per la scarsa collaborazione che essi hanno ottenuto dagli stessi politici che li avevano nominati. Il caso più recente sono i tagli che il ministero per lo Sviluppo economico aveva proposto, superando mille resistenze interne, e che il ministero dell’Economia ha ignorato, escludendoli dalla legge di Stabilità.

In Gran Bretagna il cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, ha presentato una settimana fa la sua spending review, la seconda dopo quella annunciata nel 2010, con i conservatori di nuovo al governo. La lettura del discorso di Osborne in Parlamento consente un confronto illuminante con l’Italia. Prima di tutto, che si sia d’accordo o meno con Osborne, la sua spending review è chiarissima, piena di numeri, sintetica, comprensibile e disegna un piano pluriennale che si estende fino al 2020 cosicché gli inglesi sappiano che cosa aspettarsi nei prossimi anni. Secondo: Osborne non si siede sugli allori di una economia che ha ricominciato a crescere (+2,5% quest’anno, secondo le previsioni dell’Economist Intelligence Unit, più degli stessi Usa), ma propone di «riparare il tetto» della finanza pubblica finché c’è il sole non aspettando quando potrebbe ricominciare a piovere.

Noi invece, non appena la crescita sale di mezzo punto sopra lo zero, cantiamo vittoria e di tagli nessuno più parla (tranne lamentarsi poi per qualche decimale di crescita in meno). Terzo: Osborne riduce il peso dello Stato sull’economia britannica. Il suo piano arresta, anzi inverte la crescita della spesa: nel 2020 quella complessiva, valutata a prezzi costanti, sarà dell’1% più bassa di dieci anni prima. E poiché, grazie ai tagli e alla minore pressione fiscale, nel frattempo l’economia è cresciuta, il peso della spesa pubblica sul Pil scende in un decennio di nove punti (dal 45 al 36 per cento), e anche il rapporto debito/Pil comincia a scendere.
Osborne i suoi «commissari», diversamente da noi, li ha usati bene. Per esempio, per ridurre gli sprechi negli acquisti del ministero della Difesa, Osborne nel 2010 assunse un manager dal settore privato, Bernard Gray. In cinque anni Gray ha rivoluzionato gli approvvigionamenti della Difesa, partendo dalla trasparenza negli appalti. La sua nomina ha fatto infuriare generali e ammiragli perché Gray ha l’abitudine di fare domande che i militari non vogliono sentirsi porre. Ma l’appoggio incondizionato di Osborne li ha zittiti. Il risultato sono stati risparmi di quasi 4 miliardi di sterline in cinque anni.

Alcune misure di Osborne sono state fortemente criticate. Certo che viste dall’Italia risolverebbero molti problemi. Ad esempio i tagli ai tribunali compensati con il trasferimento di una parte del costo del «servizio» sugli imputati. Chissà che questo non sia un modo per ridurre la litigiosità degli italiani e far funzionare meglio la giustizia?

La cura Osborne, meno spesa e meno tasse, funziona aiutata solo in parte dalla svalutazione della sterlina nei due anni precedenti all’arrivo al governo dei conservatori. L’economia cresce e così aumentano anche le entrate dello Stato, a pari aliquote e in qualche caso con aliquote ridotte . Ciò ha consentito di aumentare dal prossimo anno le pensioni (del 3%) e di prevedere un aumento di 10 miliardi di sterline (da qui al 2020) nel bilancio della sanità pubblica. Non della scuola, e questo è il punto più debole di un programma che fa di più per gli anziani (sanità e pensioni appunto) che per i giovani.

La chiarezza e la trasparenza del progetto di Osborne consentirà agli inglesi, fra cinque anni, quando torneranno a votare, di decidere se ha mantenuto le sue promesse. Un altro mondo rispetto all’Italia dove spending review parziali vanno e vengono e sono subito dimenticate, dove tagli minimi alla spesa paiono manovre erculee e sono bollati dalla gran parte dei politici come un attacco allo Stato sociale; dove la burocrazia è spesso un ostacolo insormontabile ai tagli per la semplice ragione che il potere dei burocrati deriva dall’amministrare la spesa pubblica, anche quella inutile; dove i cittadini fanno fatica a capire se fra un anno le aliquote dell’Iva aumenteranno (e quindi converrebbe anticipare alcuni acquisti), o se quell’aumento, oggi previsto dalla legge di Stabilità come clausola di garanzia, verrà rimandato. L’incertezza non facilita i consumi e tantomeno gli investimenti.

2 dicembre 2015 (modifica il 2 dicembre 2015 | 07:12)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_02/lezione-inglese-spesa-349a8106-98bb-11e5-85fc-901829b3a7ed.shtml
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« Risposta #74 inserito:: Dicembre 26, 2015, 11:36:20 pm »

Editoriale
Banche, scorciatoie e illusioni
Il caso delle quattro banche salvate dal governo e l’efficacia dei controlli

Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

L a leggerezza (o forse peggio) con cui alcune banche, seppure poche e piccole, hanno venduto titoli rischiosi a clienti ignari, naturalmente suscita dubbi sull’efficacia delle Autorità preposte ai controlli: la Consob per quanto riguarda il controllo sull’informazione agli investitori, la Banca d’Italia per ciò che concerne il controllo sulla governance degli istituti di credito. La Consob, per esempio, si limita a richiedere che le banche inviino ai loro clienti informazioni dettagliate, non importa se illeggibili, soprattutto dai piccoli investitori. Diceva il grande economista Rudiger Dornbusch: «Scrivere non basta: bisogna entrare nelle banche ad “annusarle”». Quanti ispettori della Consob si sono presentati come innocui e sprovveduti investitori per vedere quali titoli venivano loro proposti? La Banca d’Italia ha commissariato Banca Marche il 30 agosto del 2013 perché il patrimonio era sceso sotto il limite legale e nessun socio era disposto a sottoscrivere il capitale necessario per rimettere in piedi la banca (circa 400 milioni di euro). Fra quel giorno e il decreto di scioglimento, lo scorso 22 novembre, sono trascorsi 27 mesi, durante i quali il commissariamento è stato via via prorogato e la Banca d’Italia non ha né trovato un acquirente, né ha chiuso la banca. Nel novembre del 2008 la Federal Reserve e il governo di Washington salvarono Citibank impiegando 45 miliardi di dollari.

Solo dodici mesi dopo Citibank era tornata in attivo e restituì allo Stato 20 miliardi. Nei due anni successivi tutto il credito fu ripagato con un utile, per i contribuenti americani, pari a 12,3 miliardi. Salvare Citi si rivelò ex post un ottimo investimento: un rendimento del 27 per cento in tre anni. Insomma la Fed e l’amministrazione Usa in due anni hanno risolto il problema Citibank. Noi in due anni non siamo stati capaci di risolvere il problema Banca Marche. Se il governo non si fida della Banca d’Italia e della Consob la cosa è assai grave. Ma se così stanno le cose, il problema va affrontato direttamente, non aggirato incaricando qualcun altro di occuparsene. Raffaele Cantone è uno straordinario presidente dell’Autorità anticorruzione, come ha dimostrato quando si è occupato degli scandali di Expo, Mose e Roma Capitale. L’Italia gli deve essere riconoscente. Ma è arduo sostenere che uffici dedicati a sorvegliare gli appalti pubblici siano i più adatti a valutare la correttezza di operazioni finanziarie. Questo compito andava e va affidato alla Banca d’Italia e alla Consob.

Il controllo della finanza e la vigilanza sulle banche sono problemi complessi e delicati, che non vanno affrontati con soluzioni ad hoc. Ci vuole molta prudenza. Mettere «una pezza» (una nuova regola, una nuova procedura) per risolvere un problema contingente può creare domani più problemi di quanti ne sembri risolvere oggi. Nel caso di operazioni finanziarie, ad esempio, distinguere fra il reato, cioè la violazione della legge, e l’inadeguatezza delle leggi stesse è spesso più facile a dirsi che a farsi. Non dobbiamo poi scordare che la Banca d’Italia è parte del Sistema europeo delle Banche centrali: una legge che ne modificasse i compiti può essere adottata solo previa autorizzazione del Consiglio della Bce. Il primo atto di Tony Blair, quando vinse le elezioni nel 1997, fu la riforma della Banca d’Inghilterra. La vigilanza sulle banche fu trasferita a un’altra agenzia. Dieci anni più tardi la Gran Bretagna fu costretta a fare marcia indietro, dopo che lo scarso coordinamento fra Banca centrale a agenzia preposta alla vigilanza fu uno dei motivi della corsa agli sportelli di Northern Rock, un’importante banca scozzese. Se il governo pensa che la vigilanza su banche e finanza sia inadeguata, si avvii una discussione istituzionale, pacata, e un eventuale processo di riforma, studiando con cura successi e fallimenti di altri Paesi. Per citare ancora Dornbusch: «Tutti i problemi difficili hanno una soluzione facile: peccato sia quasi sempre sbagliata».

20 dicembre 2015 (modifica il 20 dicembre 2015 | 08:07)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_dicembre_20/banche-scorciatoie-illusioni-59993ea4-a6e7-11e5-9876-dad24a906df5.shtml
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