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Autore Discussione: Alberto ALESINA -  (Letto 43170 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Gennaio 14, 2014, 05:16:21 pm »

LIMITI EUROPEI, IMPEGNI ITALIANI
La soluzione 3 per cento
Regno Unito 13

Nel triennio 2011-2013 il Regno Unito ha ridotto la spesa pubblica di 13,8 miliardi di sterline (16,6 miliardi di euro) e aumentato le imposte di solo un miliardo (1,2 in euro). Con quali risultati? La disoccupazione ha cominciato a scendere: 7,6% nel novembre 2013, il valore più basso da tre anni in qua. E non perché lavoratori scoraggiati abbiano smesso di cercare lavoro, come succede in parte anche negli Stati Uniti: è cresciuto sia il numero di coloro che partecipano al mercato del lavoro (dal 70 al 72% nel periodo) sia il numero degli occupati: un milione in più. E ciò nonostante il numero dei dipendenti pubblici sia sceso, sempre in un triennio, di circa 400.000 unità, dimostrazione che se il mercato del lavoro funziona non necessariamente una riduzione del numero di dipendenti pubblici fa crescere la disoccupazione. E la spiegazione non può essere che il Regno Unito è fuori dall’euro e quindi ha potuto svalutare (del 15% circa): l’Irlanda è parte dell’euro e non ha potuto farlo, e ciò nonostante - grazie ad un aggiustamento attuato per lo più (76%) tagliando le spese - oggi cresce a una velocità doppia della media dell’Unione monetaria.

Negli stessi anni i governi di Parigi, in particolare quello di Hollande, hanno cercato di correggere i conti pubblici operando per lo più tramite aumenti della pressione fiscale: il 70% dell’aggiustamento francese nel triennio 2011-13 è stato dovuto ad aumenti di imposte. Il risultato? La disoccupazione continua a salire: dal 9,6% nel 2011 all’11% oggi. E mentre nel resto dell’area euro (persino in Grecia) l’industria manifatturiera dà segni di riprendersi, in dicembre l’indice Pmi francese (che riflette le attese dei responsabili acquisti delle imprese nel settore manifatturiero) ha raggiunto il livello più basso da sette anni a questa parte.

È con una comprensibile soddisfazione che il primo ministro inglese, David Cameron, ha scritto il 2 gennaio sul Times: «Abbiamo ripreso a crescere grazie ad una politica economica che ha voltato le spalle a chi voleva più spesa pubblica e più debito. Per convincersi di quanto avessero torto basta confrontare ciò che sta succedendo nel Regno Unito con quanto accade nei Paesi i cui governi hanno ceduto all’illusione della spesa e del debito». E in quelli, aggiungeremmo noi, che hanno aggiustato i conti solo aumentando le imposte, come Italia e Francia.

Lo stesso giorno, il 2 gennaio, Matteo Renzi diceva, in un’intervista al Fatto Quotidiano: «Se all’Europa proponi un deciso cambio delle regole del gioco, a partire dalle riforme costituzionali, con un risparmio sui costi della politica da un miliardo di euro che non è solo simbolico, un Jobs Act capace di creare interesse negli investitori internazionali, fai vedere che riparti da scuola, cultura e sociale, allora in Europa ti applaudono anche se sfori il 3 per cento». Bisogna essere molto più precisi, altrimenti anche questa rischia di rivelarsi una pericolosa illusione a cui nessuno a Bruxelles crederà. Siamo stati (crediamo) i primi a proporre, il 17 maggio su questo giornale, una strategia di politica economica che contempli un nuovo negoziato con Bruxelles e un temporaneo superamento del vincolo del 3% sul deficit dei conti pubblici. Scrivevamo che anziché rincorrere il 3% con aumenti di tasse (come avviene da un ventennio, e continua tuttora con la legge di Stabilità di due settimane fa) il governo avrebbe dovuto proporre a Bruxelles una riduzione immediata delle imposte sul lavoro di almeno 23 miliardi (quanto necessario per portare i contributi a carico delle imprese al livello tedesco), accompagnata da tagli corrispondenti, ma graduali, della spesa, e riforme coraggiose, soprattutto del mercato del lavoro, da attuare nell’arco di un triennio. Il deficit supererebbe per un paio d’anni il 3%. Torneremmo sotto la sorveglianza europea, una ragione in più per garantire che tagli e riforme vengano davvero attuati. Riducendo i sussidi improduttivi (che valgono, fra incentivi diretti e agevolazioni fiscali qualche decina di miliardi) e avviando un piano di liberalizzazioni, si darebbe il segnale che la priorità è la crescita. E, parallelamente, le dismissioni di immobili e le privatizzazioni di cui tanto si parla, ma solo se ne parla.

Per farci approvare dall’Europa un piano simile dobbiamo però presentarci a Bruxelles dopo aver approvato i tagli di spesa e con obiettivi numerici, scadenze temporali e meccanismi istituzionali che ci obblighino a farle davvero queste riforme di cui tutti parlano ma sempre attenti a non scontentare nessuno. Il problema è che finora questo non lo abbiamo saputo fare. L’irritante vaghezza e i continui rinvii di Letta e Saccomanni lo confermano. La discesa dello spread al di sotto dei 200 punti è magra soddisfazione per un Paese che dal 2007 ha perso quasi il 10 per cento di reddito. Forse la stangata fiscale del governo Monti e, soprattutto, le rassicurazioni della Bce, sono servite a calmare temporaneamente i mercati riguardo a un eventuale ripudio del debito. Ma il 133 per cento di rapporto debito su Pil, anche con tassi relativamente bassi (per ora), rimane un fardello che uccide la crescita. Dichiarare vittoria perché lo spread e sceso è un altro pessimo esempio della nostra tendenza ad adagiarci non appena ci si allontana di qualche passo dal baratro.

La cattiva abitudine a rinviare sempre tutto, a parte le maggiori imposte, è la ragione della nostra scarsa credibilità in Europa. Ad esempio, dopo l’ingresso nell’euro i tassi di interesse sul nostro debito sono crollati: il debito ci costava l’11,5% del prodotto interno lordo nel 1996, questo costo è sceso sotto il 6% dopo l’ingresso nella moneta unica. Avremmo dovuto approfittarne per ridurre il peso del debito, tagliando la spesa. Non lo abbiamo fatto e abbiamo sprecato un’occasione d’oro. Invece di ridursi, la spesa pubblica al netto degli interessi è salita di più di tre punti di Pil (dal 39,6% nel 2000 al 43% nel 2003). Questi erano anni in cui l’economia (cioè il denominatore del rapporto spesa/Pil) cresceva: ma il numeratore saliva ancor più rapidamente. Quando la crescita si è fermata, il rapporto spesa su Pil è continuato ad aumentare raggiungendo il 46 per cento di oggi. Abbiamo così dimostrato che non appena ci ritorna un po’ di respiro e di tempo subito ci adagiamo: è questo che l’Europa teme. L’unico successo, e non da poco, va detto, è stata la riforma pensionistica.

05 gennaio 2014
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Alberto Alesina Francesco Giavazzi

Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_gennaio_05/soluzione-3-cento-00fc8ed2-75d8-11e3-b130-d13220de9ace.shtml
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« Risposta #46 inserito:: Febbraio 22, 2014, 05:55:16 pm »

L’agenda economica del governo
Purché si dica tutta la verità

Il nuovo governo dovrà dimostrare (e in tempi brevissimi) di aver chiare quali sono le priorità e di essere determinato nell’affrontarle. Se saprà farlo tranquillizzerà i mercati e potrà rinegoziare i vincoli europei. Perché una rinegoziazione è inevitabile se si vuol far ripartire la crescita.

Quali siano i problemi dell’Italia lo sappiamo da tempo: un debito pubblico enorme, una recessione che sembra non finire mai, banche che prestano col contagocce, una disoccupazione soprattutto giovanile elevatissima, una tassazione asfissiante, una burocrazia che impone oneri immensi alle imprese, e infine i costi della politica. La difficoltà non è dunque individuare le cose da fare, ma metterle in fila e poi affrontarle con determinazione.

La prima è annunciare stime di crescita credibili. Le previsioni del governo uscente sono più ottimiste di quelle delle organizzazioni internazionali, inclusa la Commissione europea. Il governo prevede un aumento del prodotto interno lordo (Pil) dell’1% nel 2014 e dell’1,7% nel 2015. Il consenso internazionale è 0,5% nel 2014 e poco sopra l’1% nel 2015.

Da che numeri parte il nuovo governo? Le previsioni di crescita sono cruciali perché costituiscono il punto di partenza per un piano credibile di riduzione del rapporto debito-Pil. Per avviare tale riduzione è necessario compiere tre passi: ridurre la spesa pubblica e le imposte, far ripartire la crescita e vendere aziende e immobili oggi posseduti da Stato, Comuni e Regioni.
Per rilanciare la crescita, servono due interventi immediati. Primo: provvedimenti per allentare la stretta creditizia. È difficile tornare a crescere se non riparte l’offerta di credito all’economia. Lo si può fare anche con l’aiuto della Bce, come spiegavamo il 9 febbraio (nell’editoriale E ora le banche non hanno scuse ). A ciò deve aggiungersi un’accelerazione del pagamento dei debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese. Il governo uscente ne ha saldati 22 miliardi su circa 100: troppo pochi.

Seconda cosa da fare: provvedimenti per ridare competitività alle imprese. La leva principale è una riduzione immediata e consistente del cuneo fiscale, finanziata con una combinazione di tagli di spese (immediate e future) e, se necessario, con imposte meno dannose delle tasse sul lavoro.

Per portare gli oneri sociali a carico delle imprese al livello tedesco bisogna ridurli di 23 miliardi. 9-10 miliardi si possono reperire tagliando i sussidi alle imprese: 4 miliardi il primo anno, altri 5-6 nei due successivi. Un altro miliardo, o due, tagliando i costi della politica, come suggerito in uno studio di Roberto Perotti pubblicato su www.lavoce.info. I rimanenti 8 miliardi vanno reperiti dalla spending review : il commissario Cottarelli ritiene che sia un obiettivo raggiungibile già quest’anno. Altre risorse possono arrivare dalla revisione del costo di alcuni servizi (come l’università) che lo Stato offre quasi gratuitamente a tutti, indipendentemente dal reddito.

Ridurre le imposte sul lavoro non basta. Bisogna anche riformare i contratti abolendo il muro invalicabile che separa chi ha un lavoro a tempo determinato da chi ne ha uno a tempo indeterminato. Qui il diavolo sta nei dettagli. La proposta giusta è quella di Pietro Ichino, che riprende un’idea degli economisti Olivier Blanchard (capo-economista del Fondo monetario internazionale) e Jean Tirole. Un contratto uguale per tutti, senza muri e con protezioni che crescono in funzione dell’anzianità sul posto di lavoro. Ad esempio: entro tre anni dall’assunzione un’impresa può licenziare liberamente, dal quarto anno in poi il licenziamento costa all’impresa una indennità (crescente con l’anzianità del contratto) e che finanzia (in parte) i contributi di disoccupazione.

Va abolito il principio del reintegro obbligatorio, tranne nei casi di discriminazione. In questo modo verrebbe di fatto cancellato, per i neoassunti, l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Occorre anche ridurre il peso dei contratti collettivi, e legare maggiormente il salario alla contrattazione a livello aziendale. Il segreto del successo della Germania sta principalmente nell’avere fatto questo.

La riforma del mercato del lavoro è impossibile senza una revisione degli ammortizzatori sociali. Una maggiore libertà alle imprese nella gestione della forza lavoro si deve accompagnare a tutele per chi rimane temporaneamente disoccupato.

La Cassa integrazione (Cig) va abolita. Per tutti coloro che perdono il posto - e con le risorse ora destinate alla Cig e ai corsi di formazione gestiti dal sindacato - va introdotto un sussidio di disoccupazione decrescente nel tempo che li costringa a cercare lavoro (con la possibilità, al massimo, di due rifiuti). Il sussidio deve essere esteso anche alle categorie oggi non coperte dalla Cassa.

Infine bisogna cedere aziende pubbliche e semipubbliche. Qui le priorità sono: riscrivere da zero il progetto di apertura del capitale delle Poste e impedire che la Cassa depositi e prestiti continui ad essere usata come un salvadanaio dello Stato per false privatizzazioni (vedi Ansaldo Energia) e sprechi risorse pubbliche facendo, senza saperlo fare, il mestiere del finanziatore di startup , e cioè di nuove aziende.

Ma il nuovo governo non farà nessuna di queste cose se non sostituirà radicalmente i burocrati che gestiscono i ministeri (riformando i contratti della dirigenza pubblica e allineandoli a quelli del settore privato) cominciando dalla casta dei capi di gabinetto. Per farlo ci vuole coraggio perché questi signori sono depositari di «dossier» che tengono segreti per proteggere il loro potere. Bisogna aver il coraggio di mandarli tutti in pensione. All’inizio i nuovi ministri faranno molta fatica, ma l’alternativa è non riuscire a fare nulla.

21 febbraio 2014
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Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_21/purche-si-dica-tutta-verita-2fdac98a-9ac2-11e3-8ea8-da6384aa5c66.shtml
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« Risposta #47 inserito:: Marzo 12, 2014, 12:00:10 pm »

Svantaggi e rischi di una tentazione
Patrimoniale? Lasciate stare



di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Matteo Renzi, parlando di imposte sul patrimonio, due settimane fa ha detto: «C’è spazio per aumentare la tassazione delle rendite finanziarie, non sui Bot ma sulle rendite pure. Abbiamo una tassazione sulle rendite finanziarie fra le più basse in Europa, ma io dico di attendere la riforma complessiva del sistema fiscale». Il primo dubbio riguarda le «rendite pure», espressione poco chiara e vagamente populista. Il nostro sistema impositivo è un meccanismo eccessivamente complesso, ma che non si può correggere modificandone una parte come se fosse indipendente dal resto. Come d’altronde pensa anche Renzi. Una riforma complessiva della tassazione sui patrimoni andrebbe affidata ad un comitato di esperti, al quale chiedere di scrivere i decreti che due settimane fa la commissione Finanze della Camera ha delegato il governo a varare entro un anno.

In tema di tassazione delle rendite finanziarie si dovrebbe adottare un sistema simile a quello in vigore in Gran Bretagna e negli Stati Uniti dove questi redditi (cedole, interessi bancari, ecc.) si sommano a quelli da lavoro formando così il totale imponibile. Questo verrà poi tassato con una progressività che riflette le scelte politiche del governo. Invece, con aliquote (ad esempio sui depositi bancari) uguali per tutti, indipendentemente dal reddito, la progressività è violata. Ma una commissione tecnica può solo suggerire la configurazione di imposte più efficiente, non quale sia il livello di pressione fiscale desiderabile, né quale sia il livello di progressività, due decisioni che spettano ovviamente alla politica.

Quanto tassare dipende dal livello di spesa che il governo ritiene preferibile. E qui sta il punto. Renzi sbaglierebbe se chiedesse a ministri di spesa e funzionari dei ministeri a quanto ammontino i tagli di spesa realizzabili e poi, sulla base di questa informazione, decidesse la misura del taglio alla pressione fiscale. Così non va da nessuna parte. Funzionari e ministri gli diranno che ormai non rimane quasi più nulla da tagliare, nonostante la spesa al netto di interessi e prestazioni sociali sia pari (dati 2012, gli ultimi disponibili a consuntivo) a 351 miliardi di euro: 165 per stipendi dei dipendenti pubblici, 89 per l’acquisto di beni e servizi, 33 di trasferimenti a vario titolo alle imprese, 35 per altre attività, in cui rientra il costo delle assemblee elettive e solo 29 per investimenti pubblici. Renzi deve capovolgere il problema. Decidere di quanto vuole ridurre la pressione fiscale (ad esempio di 20 miliardi) e poi ordinare che fra quei 351 se ne trovino 20 da tagliare.

Si ricomincia invece a parlare di patrimoniale. Ma se non riparte la crescita su un percorso che preveda meno e non più tasse, e se prima non si taglia la spesa, una patrimoniale straordinaria (che dovrebbe essere peraltro di notevole entità) ridurrebbe solo momentaneamente il rapporto debito-Pil (Prodotto interno lordo) per qualche anno, per ritrovarsi poi al punto di prima. Bisogna distinguere quindi tra la giusta revisione (e semplificazione) complessiva della tassazione che comporti anche una diversa imposizione sulle rendite finanziarie, e una patrimoniale una tantum . La revisione va fatta evitando per di più errori tecnici che si rischia di pagare cari. La patrimoniale invece avrebbe l’effetto di un’aspirina che fa dimenticare la vera malattia: il livello del debito e la mancanza di crescita. Nascondendone i sintomi, se va bene, per qualche anno. Purtroppo spesso le due cose (patrimoniale una tantum e revisione della tassazione sulle rendite finanziarie) più o meno intenzionalmente si confondono. Un equivoco e un errore che il governo non deve alimentare.

12 marzo 2014 | 08:27
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/14_marzo_12/patrimoniale-lasciate-stare-a7ac5620-a9b0-11e3-9476-764b3ca84ea2.shtml
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« Risposta #48 inserito:: Marzo 18, 2014, 12:05:31 pm »

LAVORO E TASSE da tagliare
Scorciatoie ingannevoli

di ALBERTO ALESINA e FRANCESCO GIAVAZZI

Se Matteo Renzi fosse un ciclista giudicheremmo il suo inizio in questo modo. È partito, si impegna, pedala con entusiasmo, ma per ora è in pianura. Le salite devono ancora arrivare.
Non è chiaro che cosa riuscirà a fare, perché con le montagne il ciclista Renzi non si è ancora cimentato. E in questa corsa ci saranno tante salite e avversari difficili.

La prima è la riforma del mercato del lavoro. Renzi ha proposto varie semplificazioni dei contratti a tempo determinato e dell’apprendistato: bene, ma era relativamente facile. La salita arriverà quando si dovrà decidere se abolire l’articolo 18 per i nuovi assunti. Ovvero, se si vorrà adottare il modello proposto da Pietro Ichino: un contratto uguale per tutti, senza differenziazione fra lavoratori a tempo determinato e indeterminato, e che consenta alle aziende di licenziare con costi crescenti, ad esempio facendo pagare loro una quota del sussidio di disoccupazione tanto più elevata quanto maggiore era l’anzianità del lavoratore licenziato. Come osservava Maurizio Ferrera (Corriere, 14 marzo), il sussidio dovrà essere esteso a tutti, sostituire la cassa integrazione e prevedere regole chiare che costringano i disoccupati a cercare ed accettare nuovi lavori. Con più del 40 per cento di disoccupazione giovanile, e imprese che non assumono perché attanagliate dall’incertezza, questa maggior flessibilità non può che far bene all’occupazione. Limitarsi a spostare l’applicazione dell’articolo 18 al terzo anno successivo all’assunzione significa solo rinviare il problema, come notava Franco Debenedetti (Corriere, 15 marzo).

La Cgil si opporrà a una vera riforma del mercato del lavoro, che pure consentirebbe a tanti giovani di uscire dall’incubo dei contratti a tempo determinato. Evidentemente i giovani interessano poco alla Cgil, i cui iscritti sono per circa una metà pensionati. Ma riuscirà Renzi a superare in questa salita la Cgil, o rimarrà indietro?

Seconda salita: come finanziare la riduzione delle imposte sul lavoro e sui redditi più bassi e il sussidio di disoccupazione universale. Riuscirà Renzi a imporre tagli di spesa adeguati? Per ora non è chiaro. Il suo silenzio può voler dire due cose. Che ha ben chiaro che fare, ma non lo vuole rivelare troppo presto per non dare un vantaggio a chi si opporrebbe a qualunque taglio, in primis gli alti funzionari pubblici e i membri del suo stesso partito. Lo farà, ma senza dirlo prima, e quindi senza compromessi. L’altra ipotesi e che non sappia da che parte cominciare. Insomma, o il ciclista Renzi ha una strategia per la salita della montagna «spesa pubblica», ma strategicamente la tiene nascosta ai suoi avversari, oppure sta arrancando ed è già senza fiato.

Terza salita: la tassazione delle rendite finanziarie. Renzi ha preso una scorciatoia: l’aumento dell’imposta su alcuni titoli, continuando a privilegiare i debiti dello Stato rispetto a quelli di famiglie e imprese. Ma le scorciatoie sono spesso poco lungimiranti. Come suggerivamo in un editoriale del 21 febbraio, la delega fiscale che il Parlamento ha appena approvato offre un’occasione unica per rivedere in modo complessivo il nostro sistema impositivo. Prendendo spunto dai migliori esempi esteri come Gran Bretagna e Stati Uniti. Tassare il reddito da lavoro in modo progressivo e quello da capitale in modo proporzionale (indipendentemente dall’aliquota) è ingiusto. Le montagne si scalano con metodo e determinazione. Scorciatoie e accelerate improvvise mettono solo a rischio il risultato finale.

18 marzo 2014 | 08:15
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_marzo_18/scorciatoie-ingannevoli-0526ee3a-ae63-11e3-a415-108350ae7b5e.shtml
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« Risposta #49 inserito:: Aprile 06, 2014, 05:43:45 pm »

SFORARE IL 3% SI Può. MA A PATTI CHIARI
Tre scelte dure, avete coraggio?

di ALBERTO ALESINA e FRANCESCO GIAVAZZI

È evidente che la regola europea che impedisce di superare il 3% nel rapporto fra disavanzo dei conti pubblici e prodotto interno lordo (Pil) ha scarsa giustificazione economica. Come disse una volta Romano Prodi, è indubbiamente «una regola stupida». Ma questo non è un motivo sufficiente per chiedere di esserne esentati, come ha fatto nei giorni scorsi il nuovo governo francese.

Nel 1998, quando l’Italia chiese di partecipare all’Unione monetaria, il nostro debito pubblico era il 113% del Pil. Fummo ammessi solo a fronte dell’impegno a dimezzarlo in tempi sufficientemente rapidi. Nel 2007, dieci anni dopo, il nostro debito era ancora superiore al 100%. Le privatizzazioni degli anni Novanta e soprattutto tassi di interesse più bassi, il maggior beneficio dell’euro, aiutarono, e non poco. Tuttavia, la spesa pubblica al netto degli interessi - il cui calo è condizione imprescindibile per ridurre stabilmente il debito - si mosse nella direzione opposta. Fra il 1999 e il 2007 aumentò di una quantità pari a due punti di Pil: dal 40,6% al 42,7%. (Ci fermiamo al 2007, l’anno precedente l’inizio della crisi, per sottolineare che quell’aumento delle spese non può essere attribuito alla crisi). Il 3% sarà anche una regola stupida, ma è l’unica forza che si oppone all’aumento delle spese, vista la nostra incapacità a contenerle.

Fra il 2001 e il 2005 la Germania superò per alcuni anni la soglia del 3%. Furono gli anni delle riforme Hartz che trasformando il mercato del lavoro tedesco interruppero il lungo declino dell’economia e posero le basi per la crescita della Germania nel decennio successivo. E furono anche gli anni in cui Berlino pose le basi per una riduzione strutturale della spesa pubblica, che poi infatti scese, al netto degli interessi, di quattro punti, dal 44,5 al 40,7% del Pil.

Come abbiamo più volte scritto, solo l’adozione di provvedimenti molto aggressivi per far ripartire l’economia giustificherebbe la richiesta di un’esenzione da quella regola. Quali? Tre, secondo noi. Un taglio immediato delle imposte che avvicinasse la pressione fiscale italiana al livello della Germania. Subito 50 miliardi di tasse in meno e non i 10 miliardi che il governo a fatica sta cercando di recuperare. Secondo, la contemporanea adozione di norme che, nell’arco di un triennio, riducano strutturalmente la spesa di un simile ammontare. Sappiamo bene che non è facile, ma l’Italia non si riprende senza uno choc. Infine, una riforma coraggiosa del mercato del lavoro. Supereremmo temporaneamente la soglia del 3%, ma ne varrebbe la pena e i nostri partner europei lo capirebbero.

Chiedere un’esenzione dalla regola del 3% senza contropartite (come sta facendo Parigi) non solo è inutile: è controproducente, perché aumenterebbe la percezione, a Berlino e nei mercati, che ancora una volta non sappiamo mantenere gli impegni assunti. Anche una politica di piccoli passi per non sforare il 3% sarebbe miope perché così la crescita non riparte. I provvedimenti che abbiamo citato sono tutte cose che Matteo Renzi condivide. Si tratta di adottarli e dopo, solo dopo, chiedere una temporanea eccezione alle regole.

6 aprile 2014 | 09:16
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_06/tre-scelte-dure-avete-coraggio-af81c7aa-bd50-11e3-b2d0-9e36fa632dc6.shtml
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« Risposta #50 inserito:: Aprile 28, 2014, 06:05:09 pm »

Una lezione allo sportello

di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

La ragione, forse la più importante, che spiega perché i Paesi dell’euro stanno impiegando tanto più tempo degli Stati Uniti ad uscire dalla crisi riguarda le banche e, in particolare, la mancanza di credito. Questo è accaduto perché, negli interventi di politica economica successivi alla crisi, abbiamo fatto le cose nell’ordine sbagliato. Abbiamo cercato di ridurre i debiti e i deficit dei conti pubblici, dimenticandoci o quasi delle banche. Ma senza credito un’economia non funziona e quindi non cresce, e senza crescita rimettere in ordine i conti è molto difficile.

Una banca può fare nuovi prestiti se ha sufficiente capitale. Se lo ha perso, come è accaduto durante la crisi finanziaria e la lunga recessione che l’ha seguita, e non lo ricostituisce, non solo non farà nuovi prestiti, ridurrà anche le linee di credito concesse in passato. Il governo federale degli Stati Uniti ha prima obbligato gli istituti di credito a ricostituire il capitale perduto durante la crisi, solo dopo si è occupato della finanza pubblica. In Europa le banche sono ancora piu importanti. Negli Stati Uniti solo metà del credito alle imprese viene dalle banche (il resto direttamente dai mercati tramite azioni e obbligazioni) mentre in Europa è oltre l’80%. L’Europa quindi si sarebbe dovuta preoccupare ancor di più e ancor prima delle proprie banche. Ma non l’ha fatto e ora ne paga le conseguenze.

Ricapitalizzare le banche è difficile perché il nuovo capitale riduce il valore delle azioni possedute dai vecchi azionisti, e questi, comprensibilmente, si oppongono. Il governo di Washington già nel 2009 intervenne in modo deciso: o le banche trovavano nuovo capitale oppure il governo federale sarebbe intervenuto acquistando esso stesso le loro azioni. La paura di trovarsi un funzionario del Tesoro americano nel consiglio di amministrazione (alla Goldman Sachs è successo per qualche mese) ha messo a tacere le resistenze dei vecchi azionisti.

In Europa invece non è accaduto: per due motivi. Innanzitutto i vecchi azionisti delle banche, ciascuno nel proprio Paese, erano molto potenti: per esempio le fondazioni bancarie in Spagna e in Italia, i governi dei Länder in Germania. Quando hanno sottoscritto aumenti di capitale lo hanno fatto con il contagocce. Nelle scorse settimane la Federal Reserve di Washington ha imposto agli otto maggiori istituti americani un capitale pari ad almeno il 5% del totale dei loro investimenti, senza entrare nel dettaglio di quanto essi fossero rischiosi. In Europa siamo intorno al 3%. Il secondo motivo è che l’Europa non ha un governo federale come quello di Washington, capace di prevalere sugli interessi «locali». In Italia qualche segnale di cambiamento si intravede con il ritorno di interesse da parte degli investitori internazionali, americani in particolare. E qualcosa, soprattutto dopo gli interventi della Bce, si è mosso anche sul fronte della maggiore disponibilità di credito per le imprese. In qualche modo anche i recenti aumenti di capitale vanno nella giusta direzione. Ma ancora non basta.

Per ricapitalizzare le banche è necessario spostare le decisioni lontano dalle capitali europee, e quindi dagli interessi che ne frenano i governi. Per questo la legge sull’Unione bancaria europea è la decisione più importante che l’Ue ha preso da quando fu introdotto l’euro. L’aspetto centrale della nuova legge - approvata una settimana fa dal Parlamento europeo, forse la prima volta che l’assemblea di Strasburgo discute e vara una legge davvero rilevante - è lo spostamento delle decisioni dai governi e dalle banche centrali dei singoli Paesi alla Bce - che diviene responsabile della vigilanza sulle 130 maggiori banche europee - e ad una nuova istituzione, il Fondo per la risoluzione delle crisi bancarie, che verrà progressivamente alimentato da contributi delle banche.

La nuova legge sposta le decisioni al livello sovranazionale stabilendo che spetti alla Banca centrale europea decidere se un istituto si trovi nelle condizioni critiche previste per l’avvio delle procedure di risoluzione. La possibilità che interessi nazionali blocchino, attraverso il Consiglio europeo, le decisioni della Bce è limitata in quanto il Consiglio può intervenire solo se richiesto dalla Commissione europea - che per farlo dovrebbe opporsi a una decisione della Bce, evento assai improbabile. È quindi Francoforte che deciderà di quanto nuovo capitale una banca ha bisogno, e in che misura vecchi azionisti e creditori (esclusi i clienti i cui depositi sono garantiti fino a 100 mila euro) debbano partecipare accettando delle perdite. Non era mai accaduto che gli azionisti e i creditori di una banca potessero essere chiamati a subire le conseguenze di una cattiva gestione. Finora grazie ai loro appoggi politici si erano sempre salvati.

La crisi finanziaria del 2008-2009 aveva reso palesi le tante manchevolezze insite in un’imperfetta costruzione della moneta unica, e più in generale dell’Unione Europea. Finalmente si sta riparando a uno dei guasti iniziali, anche se con notevole ritardo.

Un’unione monetaria è fragile senza un’unione bancaria cosi come un mercato unico è impossibile senza un controllo europeo sulla concorrenza, una funzione che l’Europa assolve bene. Anche per quanto riguarda la finanza pubblica l’Europa e il suo Parlamento diventeranno sempre piu centrali. Ecco perché le prossime elezioni europee sono importanti e gli elettori dovranno scegliere persone oneste e preparate. Fino ad ora il Parlamento europeo ha fatto ben poco. Ora le cose potrebbero cambiare.

23 aprile 2014 | 07:31
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_23/lezione-sportello-9dc6620a-caa7-11e3-9708-d10118a39c2a.shtml
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« Risposta #51 inserito:: Maggio 22, 2014, 05:18:05 pm »

RENZI E LA DELUSIONE DEI FATTI
Non si cresce di sole promesse

Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

È bastato un piccolo numero negativo sull’andamento del Prodotto interno lordo nel primo trimestre dell’anno (meno 0,1%) per riportare indietro di due mesi le lancette dello spread. Dimostrazione di quanto sia ancora fragile la nostra economia.

I problemi in realtà vengono da lontano. Gli spread, le differenze di rendimento fra i titoli di Stato della periferia europea e quelli tedeschi sono scesi, negli ultimi cinque mesi, in buona parte per effetto dello spostamento dei flussi finanziari internazionali dai Paesi emergenti verso l’Europa. Abbiamo cioè tratto beneficio dalle preoccupazioni sulla stabilità macroeconomica, in particolare di Cina, Brasile e Turchia. Ma l’esperienza insegna che gli investimenti verso quei Paesi sono spesso volatili, fatti di «stop and go », con flussi massicci, seguiti da uscite improvvise. La fuga degli investitori dai Paesi emergenti, che è stata impetuosa all’inizio dell’anno, si è ora arrestata. Anzi, vi sono segni di un ritorno di fiducia, almeno verso alcuni Paesi, come il Brasile. Non solo, ma si mormora che la fiducia concessa ai Paesi europei ad alto debito fosse eccessiva. Il ministro dell’Economia Padoan ha quindi ragione quando si dice preoccupato che la finestra di spread contenuti si possa chiudere. I segnali non mancano. Giovedì scorso eravamo a quota 178, trenta punti in più della settimana prima.

Per evitare una nuova caduta nella fiducia dei mercati è quindi essenziale che dal giorno dopo le elezioni europee il governo acceleri sulle riforme promesse per cercare di aiutare l’Italia a uscire da una recessione che sembra non finire mai e che in sette anni ci ha fatto perdere il 10 per cento del reddito e un milione e centomila posti di lavoro.

Finora il rapporto fra promesse e realizzazioni non è stato soddisfacente. L’Italia ha molte imprese assai produttive che esportano con successo, altre che sopravvivono boccheggiando. Abbiamo bisogno di un mercato del lavoro flessibile che permetta di riallocare la mano d’opera da un tipo di impresa all’altro. Ciò significa sostituire la cassa integrazione, che oggi lega il lavoratore all’impresa mantenendo in vita anche quelle inefficienti, con un sussidio universale che protegga i lavoratori, non i posti di lavoro, e consenta al mercato di aggiustarsi. La riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali, arrivata in Senato a inizio aprile, apre alla possibilità di un contratto unico con tutele crescenti - e questa è una svolta importante -, ma non elimina la cassa integrazione e non spiega come verrà finanziato il sussidio universale per i disoccupati, un intervento che Tito Boeri e Pietro Garibaldi su www.lavoce.info stimano costerebbe oggi fra i 10 e 15 miliardi netti l’anno. Inoltre, la liberalizzazione dei contratti a tempo determinato, varata la scorsa settimana, aiuterà nel breve periodo, ma potrebbe rendere più difficile il passaggio al contratto unico.

Vi è ancora troppa incertezza su che cosa il governo intenda fare dal lato della spesa per permettere una riduzione significativa del cuneo fiscale. Il commissario alla spending review Carlo Cottarelli sta lavorando bene: è disposto il governo ad ascoltarlo? E, soprattutto, sono disposti il governo e la sua burocrazia non solo ad approvare una lista di tagli, ma poi a farli davvero, senza compensare con la mano destra quello che taglia la sinistra? Se l’obiettivo è ridurre le imposte sul lavoro di 20-25 miliardi nei prossimi 5 anni, certo non basta tagliare qualche auto blu e le Province (la cui abolizione è benvenuta, ma nell’immediato produrrà scarsi risparmi). Non vi è nemmeno chiarezza su che cosa il governo intenda chiedere all’Europa. Più flessibilità sul deficit per permettere una riduzione aggressiva delle imposte sul lavoro? E con quali assicurazioni su tagli di spesa graduali, ma incisivi? Senza questi ultimi l’Europa ci dirà giustamente di no. Matteo Renzi ha parlato con grande entusiasmo di riforme della Pubblica amministrazione per far risparmiare tempo e denaro a cittadini e imprese. Parole sante, ma i fatti si fanno attendere. Quali provvedimenti per ridurre i costi di «fare impresa»?

E a proposito di imprese e concorrenza, anche in questo caso qualche atto simbolico, ma finora scarsi risultati. Intendiamoci, anche i simboli sono importanti. Renzi è stato coerente nel suo impegno ad abbandonare la concertazione in modo che la politica economica non sia più condizionata da sindacati e Confindustria. Pur essendo il segretario del Pd, non ha partecipato al congresso della Cgil. Poi, però, venerdì scorso il Consiglio dei ministri ha varato una privatizzazione delle Poste che pare essere fatta a pennello per i sindacati, e infatti riscuote l’applauso di Raffaele Bonanni, segretario della Cisl, l’organizzazione più importante fra i lavoratori delle Poste. Una privatizzazione che sembra un regalo ai dipendenti dell’azienda, a scapito della concorrenza nel settore bancario e assicurativo. Quindi a scapito dei cittadini.

Matteo Renzi sta perdendo di vista gli obiettivi più importanti. Nelle prime settimane, decine di slides e raffiche di promesse servivano per dare al governo il necessario slancio iniziale. Ma ora quella strategia rischia di dare l’impressione che il governo non sappia identificare le priorità. Occorre concentrarsi, scegliendo pochi provvedimenti chiave e portandoli in porto con una determinazione che invece si sta affievolendo.

19 maggio 2014 | 07:36
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_19/non-si-cresce-sole-promesse-dc7be4c2-df13-11e3-b0f4-619ff8c67c6b.shtml
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« Risposta #52 inserito:: Giugno 05, 2014, 09:20:02 am »

Favorire la domanda privata
Sgravi fiscali più coraggio

Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

È opinione comune, fra imprenditori, politici e alcuni economisti, che per far uscire l’Europa, e in particolare l’Italia, dalla recessione debbano ripartire gli investimenti pubblici escludendoli dal calcolo dei parametri europei sui deficit eccessivi. Riforme dal lato dell’offerta invece, come le liberalizzazioni dei mercati del lavoro e dei servizi, pur necessarie, sarebbero meno urgenti in quanto non avrebbero effetti immediati sulla crescita.

È indubbio che per ricominciare a crescere debbano aumentare consumi e investimenti. Ma perché quelli pubblici? A noi pare che il modo più efficace - e anche il meno pericoloso perché non soggetto ai rischi dell’intermediazione politica e quindi della corruzione - sia cominciare dalla domanda privata tramite aggressivi sgravi fiscali per le famiglie con redditi medi e bassi.

I consumi delle famiglie italiane sono ancora inferiori di circa l’8 per cento ai livelli pre crisi, mentre la spesa delle pubbliche amministrazioni, al netto degli interessi sul debito e degli investimenti, è salita rispetto al 2007 di oltre 4 punti, dal 44,1 al 48,5% del Prodotto interno lordo (Pil). Come ha evidenziato la settimana scorsa il governatore Visco, nel 2013 i consumi delle famiglie sono scesi ancor più del loro reddito al netto delle imposte, segno evidente di una crescente preoccupazione per il futuro.

Più soldi permanentemente in tasca alle famiglie farebbero aumentare da subito i loro consumi. La parola «permanentemente» è però cruciale: sgravi fiscali temporanei non bastano perché verrebbero in parte risparmiati in previsione di una futura riduzione del reddito netto. Gli 80 euro di maggio sono un piccolo passo nella giusta direzione, ma il governo deve garantire che non saranno gli ultimi, e che questa riduzione di imposte sarà permanente, il che richiede che la spesa pubblica venga ridotta in modo graduale ma altrettanto continuo. Sgravi fiscali immediati, accompagnati da riduzioni progressive di spesa aiuterebbero i consumi, ma aumenterebbero temporaneamente il deficit. Poco male: questi deficit, andrebbero tollerati; non quelli generati per finanziare opere pubbliche, molte delle quali di dubbia utilità e con scarsi controlli anti corruzione, come si è visto nei casi di Expo 2015 e del Mose di Venezia.

Matteo Renzi auspica invece una ripresa delle opere pubbliche per far ripartire la domanda. Bisogna distinguere. Vi sono opere già finanziate e bloccate da lentezze burocratiche. Queste devono essere accelerate, ma non sono molte. In realtà tante opere che non si realizzano sono ferme perché i finanziamenti o non ci sono o comunque non bastano. In Veneto, ad esempio, per completare le 78 opere rimaste incompiute servirebbe oltre mezzo miliardo di euro. Certo, vi sono infrastrutture che potrebbero essere finanziate dalla Banca europea per gli investimenti, alcune certamente utili, come il potenziamento della banda larga, o la creazione di una rete energetica europea.

Opere davvero produttive ben vengano, soprattutto se i finanziamenti dell’Unione le mettono al riparo dall’intermediazione politica nazionale. Ma non illudiamoci che questi investimenti da soli bastino a far recuperare all’Italia altro che una piccola frazione dei milioni di posti di lavoro persi dal 2008 ad oggi. È inutile che Renzi venda le infrastrutture della sua «nuova Europa» come la risposta indolore ad una crisi così grave. Promettere soluzioni a costo zero è politicamente pericoloso perché crea brevi illusioni, seguite poi da delusioni profonde che si ritorcono contro chi ha promesso troppo e fatto poco. Certamente più domanda quindi, aiutata anche da una politica della Banca centrale europea che eviti un euro eccessivamente forte, come pure un’unione bancaria che riduca le distorsioni nel mercato del credito. Ma senza dimenticare le riforme dal lato dell’offerta. Più domanda non basta se le imprese sono preoccupate da un mercato del lavoro che non funziona, se vessate da costi burocratici elevati, se le imprese più efficienti soffrono per la protezione concessa a quelle che dovrebbero chiudere, se sono incerte sul quadro legislativo e fiscale. La produzione risponde alla domanda se c’è sufficiente flessibilità dei mercati, se le risorse si possono muovere da un settore all’altro seguendo la direzione della domanda interna ed internazionale.

5 giugno 2014 | 07:49
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_05/sgravi-fiscali-piu-coraggio-d8bc10a8-ec71-11e3-9d13-7cdece27bf31.shtml
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« Risposta #53 inserito:: Luglio 07, 2014, 12:25:35 am »

I moltiplicatori della spesa

Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Nei giorni scorsi i senatori hanno modificato la legge costituzionale che definisce i poteri del «nuovo Senato», ampliando le sue competenze sul bilancio dello Stato. Il nuovo testo rischia di aprire un perenne contenzioso fra Camera e Senato rendendo molto più difficile il controllo dei conti pubblici. L'emendamento alla legge, proposto dai due relatori, Finocchiaro (Pd) e Calderoli (Lega Nord), modifica l’articolo 81 della Costituzione là ove esso attribuisce il potere di approvare «le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni», in altre parole le leggi di bilancio. L'emendamento prevede che tali leggi «siano esaminate dal Senato della Repubblica che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione (dalla Camera). Per tali disegni di legge il Senato della Repubblica delibera a maggioranza assoluta dei suoi componenti». Se il Senato propone modifiche, «la Camera, entro i successivi venti giorni, si pronuncia in via definitiva».

Apparentemente vi sono quindi due protezioni: il Senato può modificare le leggi di bilancio solo votando a maggioranza assoluta, e la Camera può vararle anche se il Senato le ha bocciate. Ma si tratta di protezioni molto deboli. Il nuovo Senato dovrebbe essere composto in maggioranza da rappresentanti designati dalle Regioni. È facile prevedere che i nuovi senatori faranno gli interessi delle assemblee che li hanno designati, in modo largamente indipendente dal partito in cui militano. Nel nuovo Senato, così, ogniqualvolta vi sarà da proteggere le spese delle Regioni la maggioranza assoluta sarà pressoché automatica. Non appena il governo propone una legge di bilancio, le Regioni subito protestano sostenendo che non ricevono fondi sufficienti, in particolare per la sanità. Ciò che accadrà è che il Senato boccerà le leggi di bilancio sostenendo che esse non assegnano fondi sufficienti alle Regioni. E la Camera finirà per modificarle. Il nuovo testo della legge è quindi un significativo peggioramento della situazione attuale, in cui i senatori rappresentano i cittadini che li hanno eletti e non sono solo dei portavoce delle Regioni.

Il problema è questo. La spesa delle Regioni è per lo più finanziata da tasse nazionali, pagate allo Stato. Le Regioni quindi non internalizzano i costi delle loro spese (talvolta faraoniche) appunto perché non sono responsabili delle tasse che le finanziano. È un federalismo costruito male e creatore di deficit. Il nuovo Senato formalizza e rafforza questo modello sbagliato. Certo, rimane la salvaguardia della Camera la quale, essa pure a maggioranza assoluta, può varare una legge di bilancio anche se bocciata dal Senato. Ma comunque l’emendamento Calderoli-Finocchiaro aumenterà il potere contrattuale delle Regioni e quindi la capacità di spesa di enti che sono diventati la maggior fonte di squilibrio dei conti pubblici. È infatti impensabile che anno dopo anno la Camera approvi leggi di bilancio regolarmente bocciate dal Senato. L'emendamento ha quindi creato una legge distorta, che favorisce chi deriva benefici dalla spesa senza sopportarne i costi.

6 luglio 2014 | 09:57
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_06/i-moltiplicatori-spesa-5f0dc59a-04d5-11e4-915b-77c91b2dfa50.shtml
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« Risposta #54 inserito:: Agosto 04, 2014, 08:50:28 am »

I tempi delle riforme, l’esempio di Madrid
Se parlassimo un po’ spagnolo


Di Alberto Alesina

Nei primi mesi del suo governo, Matteo Renzi si è impegnato su due fronti. Il primo, le riforme istituzionali; l’altro, una discussione con l’Europa sulle regole di bilancio. Evidentemente queste erano, nella sua strategia, le condizioni necessarie per iniziare l’annunciata «mini rivoluzione» economica basata su meno tasse, più flessibilità, più concorrenza, meno spesa pubblica.

Le due fondamenta della sua strategia stanno però franando. Nonostante i primi risultati sul Senato, in tema di riforme l’atmosfera resta tesa e la strada ancora lunga. E sull’Europa? Da queste colonne si è ripetuto spesso che quel che l’Italia avrebbe dovuto fare da tempo era presentarsi a Bruxelles con un piano preciso di riforme economiche che includessero tagli di imposte sul lavoro con una riforma strutturale del mercato sempre del lavoro, accompagnato da riduzioni di spesa. L’Europa avrebbe potuto concedere un po’ più di flessibilità sui vincoli. Invece di far questo, Renzi ha cercato con la sua simpatia di «ingraziarsi» i partner del Nord Europa promettendo di rispettare i vincoli. Ma ancora non ha ottenuto quanto voleva.

Purtroppo l’economia non aspetta. Il Prodotto interno lordo (Pil) crescerà di qualche decimale dopo aver perso quasi il 10 per cento negli ultimi anni e la disoccupazione giovanile sale.

Renzi ha sbagliato la sequenza delle sue mosse. Doveva partire approfittando della luna di miele della vittoria elettorale alle Europee per presentare un coraggioso piano economico, farlo approvare a colpi di voti di fiducia e poi approdare a Bruxelles forte di questo e, dati alla mano, discutere di vincoli. Con qualche concessione dall’Europa e qualche risultato sull’economia, avrebbe poi potuto affrontare le riforme istituzionali da una posizione di forza.

In ottobre dovremo presentare i conti all’Unione europea. Sarà difficile rimanere sotto il 3 per cento nel rapporto deficit/Pil, con la crescita che è di poco sopra lo zero. Si mormora quindi di un’ulteriore manovra in autunno. Dato che chi doveva occuparsi di tagli alla spesa (Carlo Cottarelli) pare stia per dimettersi perché nessuno lo ascolta, questa manovra, se sarà necessaria, dovrà basarsi su nuove imposte, con effetti negativi per la crescita.

Renzi può quindi presentarsi a Bruxelles in queste condizioni e discutere di cifre decimali del rapporto deficit/Pil (si salveranno i famosi 80 euro?); oppure sfondare il tetto aprendo le procedure del caso e ottenere uno «sconto» dall’Europa. Ma per riuscirci senza spaventare i mercati e i partner Ue, il premier deve far partire qualche riforma. Per esempio quella del lavoro, dando a tutti il segnale che la politica economica italiana sta cambiando marcia. Certo, tutto ciò è facile a dirsi ma difficile a farsi; anche se, per esempio, la Spagna si è comportata meglio di noi sulla strada e sui tempi delle riforme.

Insomma, l’economia procede a ritmi molto più veloci delle riforme costituzionali e quando un Paese naviga sull’orlo di una crisi da debito, con mercati nervosi, la velocità degli eventi si impone all’economia. Bisogna accelerare. Il tempo non è scaduto ma Renzi deve rivedere l’ordine delle sue priorità.

2 agosto 2014 | 08:39
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_02/se-parlassimo-po-spagnolo-ea40316a-1a07-11e4-8091-75f99d804c44.shtml
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« Risposta #55 inserito:: Agosto 21, 2014, 06:32:10 pm »

TASSE SUBITO più BASSE E RIFORME CREDIBILI
Una terapia coraggiosa

di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Il rallentamento della crescita in molti Paesi dell’euro (con importanti eccezioni come Spagna e Portogallo) è stato accolto con sollievo dal presidente del Consiglio, la prova che non esiste un caso Italia. Purtroppo non è così. Fatto 100 il livello del Pil (prodotto interno lordo) nel secondo trimestre del 2008, quando iniziò la crisi, il livello in Italia oggi è 91, cioè in sei anni abbiamo perso il 9 per cento del reddito nazionale, un fatto straordinario; 93 in Spagna, nonostante l’esplosione di una grande bolla immobiliare e comunque dopo anni, prima del 2008, in cui la Spagna era cresciuta a tassi del 3-4% l’anno; 101 in Francia e 104 in Germania, cioè l’economia tedesca non solo ha annullato gli effetti della crisi ma si è espansa del 4% rispetto agli anni pre-crisi. L’economia italiana invece da tre anni si contrae. Il lievissimo miglioramento registrato alla fine dell’anno scorso (+0,1 nell’ultimo trimestre) è stato subito annullato da due trimestri negativi quest’anno. Il tasso di disoccupazione è fermo sopra il 12% (e sopra il 40% quello giovanile). In Germania è il 5,1%.

Che fare? Per contrastare un rallentamento generalizzato dell’economia dell’euro la soluzione migliore (come spiegato da Guido Tabellini sul Sole-24Ore del 25 luglio e come propone un numero crescente di voci) sarebbe un taglio simultaneo delle tasse in tutti i Paesi, finanziato dalla Bce, e accompagnato da corrispondenti, graduali, riduzioni di spesa. Senza l’aiuto della politica fiscale, infatti, la Banca centrale europea da sola non riuscirebbe a invertire la rotta. È possibile che Matteo Renzi, sfruttando la sua abilità politica e l’occasione della presidenza italiana dell’Ue, riesca a convincere gli altri Paesi e in primis la Germania. Ma non sarà facile. Occorre quindi predisporre una strategia alternativa. Cioè chiedersi che cosa potrebbe fare l’Italia se dovesse agire da sola.

Vi sono due strategie alternative. La prima è coraggiosa: tagliare subito, e in modo permanente, le tasse sul lavoro di almeno due punti di Pil (cioè circa 33 miliardi l’anno, l’ipotesi in questo momento più ragionevole anche se si potrebbe pretendere di più) e al tempo stesso approvare tagli di spesa della medesima entità. Questo dovrebbe essere accompagnato da una liberalizzazione del mercato del lavoro (attuando il progetto del senatore Pietro Ichino) affinché la maggior domanda che si creerebbe possa produrre posti di lavoro «veri» e non solo precari perché l’articolo 18 spaventa gli imprenditori.

Le idee su dove reperire risparmi di questa entità ormai abbondano. Dal lavoro del commissario Carlo Cottarelli, alle proposte di Roberto Perotti su www.lavoce.info , al rapporto consegnato due anni fa da uno di noi (F. G.) al governo Monti. Questi tagli, tuttavia, anche se venissero approvati oggi, impiegherebbero un po’ di tempo per andare a regime, un paio d’anni almeno. Ad esempio, molti sussidi alle imprese possono essere eliminati, ma non si possono cancellare contratti in atto. (Certo, se avessimo varato questi tagli due anni fa...). Con questa strategia quindi il deficit per qualche anno aumenterebbe, con la conseguenza che violeremmo le regole europee.

Come farlo senza apparire i soliti italiani che non rispettano mai gli impegni? Soprattutto dopo avere annunciato con grande enfasi, solo un anno fa, quando uscimmo dalla «procedura di infrazione», che eravamo ritornati virtuosi. Dobbiamo convincere che qualcosa di importante è cambiato. C’è un solo modo: varare finalmente quelle riforme di cui da anni si parla senza mai attuarle. La prima, cui abbiamo già accennato, è la sostituzione dello Statuto dei lavoratori (norme scritte 40 anni fa per il mondo di 40 anni fa) con regole adatte ad un mercato del lavoro moderno. E poi una riforma dalla giustizia civile che dia fiducia agli investitori esteri atterriti dal fatto che in Italia ci vogliono almeno 10 anni per chiudere una causa.

Certo, violare le regole significa che l’Italia tornerebbe ad essere «sorvegliata» dalla Commissione europea, come d’altronde lo è la Francia. Poco male se questo aiuterà ad accelerare le riforme. E comunque più riforme variamo prima di violare le regole, più tenue, o addirittura irrilevante, sarà la sorveglianza. Si tratta di riforme che fanno tutte parte del programma di questo governo. Renzi deve solo spendere un po’ della sua credibilità e del suo capitale politico per vararle rapidamente, così come ha fatto, sinora con successo, per la riforma della Costituzione.

La strategia alternativa è cercare di rimanere all’interno del 3% nel rapporto deficit-Pil, con tagli marginali e qualche aumento nascosto della pressione fiscale, ad esempio facendo crescere le accise, e sperare che l’economia si riprenda da sola. È molto probabile che questa strategia ci regalerebbe un altro anno di crescita negativa - sarebbe il quarto consecutivo - ed è forse questo il motivo per cui le previsioni di molti osservatori peggiorano di settimana in settimana.
La scelta tra queste due strategie dipende molto da come reagirebbero i mercati e dall’effetto che esse produrrebbero sullo spread e quindi sulle nostre tasse e sul costo del denaro per le imprese. Una violazione delle regole europee, senza alcun piano credibile di rientro e di riforme, spaventerebbe i mercati e farebbe alzare lo spread. D’altro canto, un altro anno di crescita negativa porterebbe il rapporto debito pubblico-Pil verso il 150%, sollevando dubbi sulla sostenibilità del nostro debito (del quale un terzo, circa 700 miliardi di euro, è posseduto da investitori internazionali).

Quale strada quindi? A noi pare che la situazione sia ormai così seria che i rischi della seconda strategia, cioè non contrastare con efficacia la recessione, siano maggiori della prima. Far ripartire la crescita abbassando con coraggio le tasse è oggi la nostra priorità. Ma Renzi deve usare tutta la sua abilità politica e la sua credibilità internazionale per far sì che nessuno possa mettere in dubbio la determinazione del suo governo a riformare l’economia.

17 agosto 2014 | 09:25
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_17/terapia-coraggiosa-b52dfb04-25d5-11e4-9b50-a2d822bcfb19.shtml
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« Risposta #56 inserito:: Agosto 30, 2014, 09:19:34 am »

Editoriale
Italia e Ue: un incrocio favorevole
Due giorni importanti: venerdì il Consiglio dei ministri italiano, sabato il vertice dell’Unione Europea. Il governo di Renzi potrebbe avere un ruolo fondamentale

Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Grazie ad un incrocio fortunato di eventi i Paesi dell’euro hanno oggi la possibilità di attuare quella svolta che è necessaria per uscire dal lungo periodo di stagnazione economica in cui viviamo da quasi sette anni. Il governo italiano potrebbe avere un ruolo fondamentale nel renderlo possibile.

Venerdì scorso Mario Draghi ha detto chiaramente che per ricominciare a crescere sono necessarie riforme strutturali dal lato dell’offerta, accompagnate però da una ripresa della domanda, in particolare dei consumi delle famiglie e degli investimenti delle imprese. E che questo la Bce non può farlo, almeno non da sola. La prima mossa spetta ai governi che, oltre a fare le riforme, soprattutto del mercato del lavoro, devono abbassare le tasse riducendo al tempo stesso la spesa pubblica. E se le due cose non possono procedere alla medesima velocità, perché le tasse si abbassano in un giorno mentre per tagliare le spese serve un po’ più tempo, non bisogna strapparsi le vesti se il deficit temporaneamente cresce. Forse anche la Germania se ne sta convincendo. Infatti (anche se questa non è una buona notizia) i dati recenti lasciano intravvedere un rallentamento dell’economia tedesca che potrebbe rendere Angela Merkel meno ostile a provvedimenti concordati volti ad aumentare la domanda interna nell’eurozona.

Domenica a Parigi il presidente Hollande ha chiesto al suo primo ministro, Manuel Valls, di sostituire i membri del governo che si opponevano alle riforme e ai tagli di spesa. Il cambiamento più significativo è avvenuto al ministero dell’Economia e dell’Industria dove Emmanuel Macron (36 anni), il più liberista dei consiglieri di Hollande, ha sostituito Arnaud Montebourg (56 anni), un socialista del secolo scorso, alfiere dell’intervento dello Stato nell’economia, strenuo oppositore della globalizzazione e apertamente ostile alla Bce. Una svolta che ricorda il marzo del 1983 quando Mitterrand, dopo due anni di illusioni, cambiò radicalmente politica, si affidò a Jacques Delors e salvò la sua presidenza. Anche a Parigi si comincia ad accettare che «il liberismo è di sinistra».

A Roma Matteo Renzi si è impegnato a varare oggi, il giorno prima del vertice europeo di domani, la riforma della giustizia e il decreto cosiddetto sblocca Italia. Ma la riforma più importante riguarda il mercato del lavoro. Renzi ha promesso che si adopererà affinché entro il mese di settembre il Parlamento vari il disegno di legge delega proposto dal suo governo, che riprende le idee del senatore Pietro Ichino riscrivendo da zero lo Statuto dei lavoratori. E quindi modificando anche il famoso articolo 18.

Come non sprecare questo incrocio fortunato? L’Italia ha una responsabilità particolare, e non solo perché il vertice europeo di domani sarà presieduto da Matteo Renzi. Siamo (con l’eccezione della Grecia) il Paese dell’euro con il debito più elevato e quindi quello che più di ogni altro deve convincere che la qualità delle riforme attuate giustifica un allentamento temporaneo dei vincoli sul deficit, condizione necessaria per poter abbassare subito le tasse sul lavoro. Le parole «qualità» e «attuate» qui sono cruciali. Le riforme non devono essere annunci ma leggi approvate. E a queste leggi devono seguire in tempi rapidi i decreti che le rendono operative, la qualità appunto. Ad esempio a 5 mesi dalla legge che ha abolito le Province (Legge 56 del 7 aprile) i decreti che ne ripartiscono le funzioni fra Stato, Comuni e Regioni non sono ancora stati varati, cosicché quella riforma per ora rimane una norma senza effetti. Anche se va riconosciuto al premier di aver abolito il livello elettivo dei Consigli provinciali.

Uscire dalla riunione Ue di domani senza un accordo sulla necessità di sostenere la domanda interna significherebbe rimandare almeno di un altro anno la ripresa dell’eurozona. Raggiungere quell’obiettivo dipende anche dalle decisioni che prenderà oggi il Consiglio dei ministri, dalla determinazione con cui Renzi ripeterà l’impegno a varare il Jobs Act entro settembre e dall’esempio che egli saprà offrire al nuovo governo di Parigi, che si trova ad affrontare problemi analoghi.

Essere convincenti sulle riforme e sul percorso che vogliamo seguire per uscire dalla recessione deve essere l’obiettivo di Renzi nel vertice europeo. Se egli invece lascerà che la riunione si perda in una trattativa defatigante sui nuovi commissari e sul ruolo che avrà Federica Mogherini a Bruxelles, avrà perso un’occasione che potrebbe non ripresentarsi più. È improbabile che domani vengano già varati provvedimenti a livello europeo per far crescere la domanda. Ma sarebbe importante che una prima discussione cominciasse.

29 agosto 2014 | 07:26
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_29/italia-ue-incrocio-favorevole-78b0efec-2f3a-11e4-ba33-320a35bea038.shtml
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« Risposta #57 inserito:: Settembre 13, 2014, 06:30:15 pm »

Il premier

Renzi alla prova della verità: promesse finite il tempo scade
Che cosa può fare il governo italiano per farci uscire da una recessione che sembra non finire mai?
Renzi non ha né mille, né cento giorni: servono interventi concreti

di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Matteo Renzi ha avuto una buona intuizione convocando un Consiglio europeo dedicato alla crescita nella prima settimana di ottobre, alla vigilia della presentazione delle leggi di Stabilità da parte dei Paesi della Ue. In questo modo quelle leggi verranno valutate dalla Commissione europea - che deve esprimere un giudizio su ciascuna di esse - alla luce delle indicazioni che emergeranno in quella riunione. Il bollettino mensile della Banca centrale europea (Bce), diffuso ieri, sottolinea che in Italia la mancata crescita potrebbe essere, quest’anno, peggiore del previsto. Abbiamo più volte suggerito - non solo noi in realtà, ad esempio anche Guido Tabellini su Il Sole 24Ore - che per far riprendere lo sviluppo nei Paesi dell’euro sarebbe necessario un taglio delle imposte coordinato fra tutte le nazioni e finanziato tramite acquisti di titoli di Stato da parte della Bce. Programmi di investimenti pubblici - come i 300 miliardi di spese in infrastrutture proposti dal nuovo presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker - possono aiutare nel medio periodo ma, dati i tempi necessari per avviare questi progetti, servono a poco nell’immediato. Per far ripartire in tempi brevi la domanda c’è un solo modo: ridurre permanentemente la pressione fiscale.

È però difficile che nel Consiglio di ottobre si trovi un accordo per una politica coordinata di riduzione delle imposte. La Bce, dal canto suo, nelle scorse settimane ha fatto tutto ciò che poteva senza violare il suo statuto e senza perdere la fiducia dei Paesi del Nord. Il risultato di quelle misure è stato un significativo deprezzamento dell’euro sul dollaro (da oltre 1,39 in primavera a meno di 1,29 oggi) che aiuterà le esportazioni. È difficile aspettarsi di più dalla politica monetaria. Ora tocca ai governi agire. Con il medesimo senso di urgenza che ha guidato le decisioni della Bce. Ma se non si troverà un accordo per un’azione coordinata, ciascun Paese dovrà agire da solo.

Che cosa può fare il governo italiano per farci uscire da una recessione che sembra non finire mai? Il presidente del Consiglio ha spiegato che le riforme vanno fatte bene, senza fretta. Ha detto che saranno necessari mille giorni per rilanciare l’Italia. Ha ragione, ma solo in parte. È vero che alcune riforme, come quella del sistema fiscale, della giustizia e della pubblica amministrazione, richiedono tempo. Ma su altre scelte che il governo è chiamato a fare, Renzi non ha né mille, né cento giorni: ha tre settimane, da oggi al Consiglio di ottobre. Non ci si può illudere che senza interventi concreti miracolosamente si riavvii la crescita.

Al Consiglio europeo - a maggior ragione avendolo convocato lui - Renzi deve arrivare avendo fatto tre cose.

Primo, una riduzione aggressiva delle imposte: da un lato aumentando e rendendo permanenti gli 80 euro di maggio, ed estendendo la platea di cittadini che ne beneficiano; dall’altro, riducendo le tasse sul lavoro. Un complessivo taglio della pressione fiscale pari a circa 30 miliardi. Secondo, tagli di spesa per la medesima cifra, alcuni da attuare contestualmente alla riduzione delle tasse (10 miliardi), il resto nei 2-3 anni a seguire. Nell’arco di un triennio la riduzione del carico fiscale sarà così interamente finanziata. Ridurre da subito le spese di 10 miliardi non è impossibile: si può iniziare dalle proposte del commissario Carlo Cottarelli. È un piano che porterebbe il nostro deficit oltre la soglia del 3% per un triennio. Non saremmo soli. Francia e Spagna sono già oltre quel limite: sopra il 4 la Francia, 5 la Spagna.

Ma se facessimo solo questo, sfondando il limite del 3% senza fare altro, non solo saremmo soggetti alle sanzioni di Bruxelles, rischieremmo di allarmare i mercati e far ripartire lo spread. È necessario un terzo passo che dimostri come la flessibilità che chiediamo non è un modo, l’ennesimo, per evitare di fare riforme da troppo tempo già rinviate.

Il capitolo da affrontare è il mercato del lavoro, perché è una delle riforme più importanti, ma anche perché è sostanzialmente pronta e serve solo la volontà politica di andare avanti. Il via libera del Parlamento alla legge-delega sul lavoro (verrà votata in commissione al Senato la settimana prossima) deve però accompagnarsi, entro l’inizio di ottobre, al varo di alcuni decreti che, disegnando le nuove norme, in primis quelle che introdurranno il «contratto unico a tutele crescenti», spieghino in che modo il governo intenda attuare la delega.

Una simile strategia - riforme accompagnate da un temporaneo periodo di maggior flessibilità - ha un precedente illustre. Nel 2003, quando era la Germania «il malato d’Europa», il cancelliere tedesco Gerhard Schröder introdusse importanti riforme nel mercato del lavoro (le celebri norme Hartz) e allo stesso tempo chiese di poter superare per qualche anno il limite del 3% nel rapporto deficit-Pil. Fu l’inizio della riscossa tedesca. Il presidente del Consiglio e il governo devono avere ben chiaro che a preoccupare cittadini, imprese e investitori è oggi soprattutto la mancata crescita, che è il motivo per cui il nostro rapporto debito-Pil continua a salire. Gli operatori internazionali detengono circa un terzo del nostro debito pubblico. Per continuare a farlo si aspettano un segnale forte sullo sviluppo. E loro, come il Paese, se lo aspettano subito.

12 settembre 2014 | 08:36
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_12/renzi-prova-verita-promesse-finite-tempo-scade-1247da4c-3a3c-11e4-8035-a6258e36319b.shtml
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« Risposta #58 inserito:: Ottobre 05, 2014, 07:26:42 pm »

La maledizione dei decimali
Piccole misure senza ambizioni

Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

I l governo sta compiendo un errore che potrebbe costarci un altro anno (sarebbe il quarto consecutivo) di crescita negativa con conseguente, ulteriore aumento della disoccupazione. Nessun Paese industriale, almeno negli ultimi 70 anni, ha avuto una recessione tanto lunga. Se non cresciamo, il debito ( giàal 131,6% del Pil ) rischia di diventare insostenibile, almeno nella percezione degli investitori internazionali, che ne detengono oltre 600 miliardi. Se non ricominciamo rapidamente a crescere rischiamo una crisi finanziaria.

La Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza pubblicata dal governo la scorsa settimana assume che la crescita miracolosamente aumenti di quasi un punto: dal -0,3 previsto per il 2014 a +0,6 nel 2015. L’Ocse invece prevede un misero +0,1. Da dove verrà quel mezzo punto di crescita in più? Previsioni ottimistiche sono un vecchio trucco per fare apparire più roseo il bilancio. Se la crescita non dovesse raggiungere il livello previsto dal governo anche l’obiettivo di un deficit inferiore al 3% verrebbe mancato, salvo una correzione dei conti in corso d’anno che in parole semplici vuol dire un aumento di imposte. E comunque il ministro Padoan ha detto che già nella legge di Stabilità gli ammortizzatori sociali «saranno coperti dalla spending review e da alcune misure di efficientamento delle entrate». Ecco come si sta sotto il 3%: con un aumento della pressione fiscale!

Deve essere chiaro che c’è un solo modo per sperare di poter riprendere a crescere: ridurre la pressione fiscale. Abbassare le tasse sul lavoro pagate dalle imprese italiane al livello di quelle tedesche significa tagliarle di 40 miliardi. Tagliare immediatamente le spese di una cifra corrispondente non è possibile perché per ridurre la spesa serve tempo. Se solo si fosse cominciato prima! Nei prossimi due, tre anni quindi supereremmo la soglia del 3%.

Se sforiamo, entreremmo nella procedura prevista per chi viola le regole europee, ma senza effetti significativi se già avessimo approvato un programma vincolante di tagli alla spesa e varato per decreto una riforma seria del mercato del lavoro. È ciò che fece la Germania nel 2003 quando Schröder varò la sua riforma del lavoro. La Francia ha annunciato per il 2015 un deficit del 4,3%, ma finora Hollande non ha fatto alcuna riforma significativa.

Certo, è più facile per il ministro dell’Economia fare poco o nulla cercando di resistere sotto il 3%, magari con un aumento mascherato della pressione fiscale, e farsi applaudire nei consigli europei. Un piano complesso e innovativo di tagli di tasse, riduzioni di spesa e riforme richiederebbe un massiccio investimento di credibilità politica. Ma è l’unica via per salvare il governo di Matteo Renzi e, ciò che è più importante, l’Italia.

5 ottobre 2014 | 08:56
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_05/piccole-misure-senza-ambizioni-2fd87aae-4c56-11e4-8c5c-557ef01adf3d.shtml
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« Risposta #59 inserito:: Novembre 16, 2014, 05:42:11 pm »

Legge di Stabilità non incisiva
Tante misure per così poco

Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Quando presentò la legge di Stabilità, Matteo Renzi disse: «È una grande, grande, grande novità: una manovra anticiclica in un momento di difficoltà». A un mese di distanza facciamo fatica a vedere in che modo questa legge possa aiutare la crescita. Il deficit dei conti pubblici (stime della Commissione europea) sarà quest’anno il 3% del prodotto interno lordo, e scenderebbe al 2,7% l’anno prossimo. Il deficit «strutturale» (cioè depurato dal ciclo economico) rimarrebbe sostanzialmente invariato: 0,9% quest’anno, 0,8 il prossimo.

La manovra quindi è a deficit costante. Ma una manovra può essere espansiva anche se, a parità di deficit, riduce le tasse sul lavoro, compensandole con tagli di spesa, soprattutto in un Paese in cui la tassazione sul lavoro è una delle cause della scarsa competitività. Nemmeno questo pare essere il caso. Nell’audizione del 4 novembre alla Camera, il ministro Padoan ha detto: «Con la legge di Stabilità, la pressione fiscale passa dal 43,3% del 2014 al 43,2%, nel 2015». Cioè rimane invariata. E temiamo che questo calcolo parta dall’ipotesi ottimista che le Regioni non traducano i 4 miliardi di tagli loro imposti dallo Stato in maggiori tasse locali, come alcune già stanno facendo. Che cosa c’è di «grande» e di «anticiclico» in questa manovra? Ben poco. La legge di Stabilità elimina dalla base imponibile dell’Irap il costo del lavoro per dipendenti con contratti a tempo indeterminato. Ma cancella anche la riduzione delle aliquote Irap che era stata decisa a maggio. Dal prossimo anno l’effetto netto sarà comunque una riduzione della tassa. Ma il taglio delle aliquote oggi cancellato era stato finanziato aumentando dal 20 al 26% l’imposta sostitutiva sui redditi da capitale diversi dai titoli di Stato. Conclusione: l’aumento di imposte è confermato, il taglio cancellato, almeno per il 2014, quando varrà ancora la vecchia base imponibile Irap.

Insomma, una legge partita con buone intenzioni si è trasformata in una manovra irrilevante per la crescita. Perché? Il problema è che l’impegno di Renzi è durato lo spazio di un mattino. Approvata la legge, e difesala a Bruxelles, il premier, anziché seguirla passo passo, se ne è disinteressato e si è occupato d’altro: di legge elettorale e di riforme istituzionali. Riformare lo Stato non è tempo perso: serve a governare meglio, anche l’economia. Ma nell’emergenza in cui ci troviamo non possiamo permettercelo: il tempo stringe, tutte le forze vanno destinate a far riprendere la crescita, altrimenti avremo un Paese magari con istituzioni migliori, ma dissanguato.

15 novembre 2014 | 07:22
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_novembre_15/tante-misure-cosi-poco-fb909348-6c8b-11e4-b935-2ae4967d333c.shtml
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