LA-U dell'OLIVO
Novembre 23, 2024, 05:19:43 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 2 [3] 4 5 6
  Stampa  
Autore Discussione: Alberto ALESINA -  (Letto 43059 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #30 inserito:: Gennaio 16, 2013, 04:15:45 pm »

RIFORME E UN CAMBIO DI MENTALITÀ

La questione femminile

L'Italia non sta utilizzando al meglio una parte importante del suo capitale umano, le donne. È una perdita colossale per la nostra economia. Quando studiano, le ragazze italiane sono più brave dei ragazzi, in tutte le materie. I dati del programma Pisa ( Programme for international student Assessment , l'indagine promossa dall'Ocse - l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico - allo scopo di misurare le competenze degli studenti in matematica, scienze, lettura e abilità nel risolvere problemi) mostrano che a 15 anni le ragazze italiane raggiungono punteggi di gran lunga superiori ai maschi in «abilità di lettura» (510 contro 464, una differenza enorme) ma anche in «abilità scientifica» (490 contro 488). Solo in matematica le ragazze fanno un po' meno bene dei maschi. Non è da escludere che questo sia un effetto indotto da una cultura che assegna a ragazzi e ragazze ruoli diversi: «La matematica è una cosa da uomini». Lo si vede nella scelta dell'università: il 76% delle matricole delle facoltà umanistiche sono donne; nelle scientifiche solo il 37%. Questa scelta probabilmente riflette anch'essa stereotipi culturali. Perché laurearsi in fisica nucleare per poi fare la casalinga? Meglio studiare poesia. Quando però le donne si iscrivono a una facoltà scientifica, spesso sono più brave: alla Federico II di Napoli, ad esempio, il 37% delle ragazze si laurea con 110 e lode, contro il 24% dei maschi.
La partecipazione alla forza lavoro delle donne in Italia è tra le più basse dei Paesi Ocse e la più bassa in Europa. Nel 2011 solo 52 donne italiane su 100, fra i 15 e i 64 anni, lavoravano o cercavano attivamente un lavoro. In Spagna erano 69, in Francia 66, in Germania 72, in Svezia 77. Solo in Messico e Turchia erano meno che in Italia. È vero che le donne più giovani lavorano di più: ad esempio, nella classe di età 35-44, il tasso di partecipazione è aumentato di 5 punti in un decennio. Ma rimane 15 punti inferiore al corrispondente tasso tedesco.
Il motivo di queste differenze straordinarie è che in Italia la divisione dei compiti tra lavoro domestico e lavoro retribuito sul mercato è più sperequata fra uomo e donna. La donna lavora in casa, il marito o il compagno in fabbrica, o in ufficio, sebbene, come abbiamo visto, il capitale umano delle donne giovani sia in media più alto di quello degli uomini. Insomma, troppe donne con grandi potenzialità non le sfruttano. I dati lo dimostrano chiaramente. All'interno delle mura domestiche le donne italiane fanno molto di più dei loro compagni: 6,7 ore di lavoro casalingo al giorno contro meno di 3 ore. Sommando il lavoro nel mercato e a casa, sono gli uomini ad apparire cicale mentre le donne, come formiche operose, lavorano quasi 80 minuti al giorno in più dei loro compagni. E questo accade indipendentemente dal livello di istruzione: è vero sia per le donne con la licenza elementare che per le laureate.
Perché le donne italiane lavorano così poco fuori casa? Si dice perché non ci sono abbastanza asili nido gratuiti o sussidiati. Magari fosse così semplice! In primo luogo tutte le donne in Italia lavorano meno che in altri Paesi, non solo le giovani madri. Inoltre, in molti casi, i bambini non verrebbero mandati al nido neanche se questo fosse gratuito perché si pensa che sia la mamma a doversi occupare dei figli piccoli.
Ci si aspetterebbe che il nostro fosse un Paese con un alto tasso di natalità. E, invece, tanta attenzione per i figli non si riflette in tassi di fertilità altrettanto elevati: anzi, la fertilità è molto più alta in Svezia, dove quasi tutte le donne lavorano (1,9 figli per donna), che in Italia (1,4).
Insomma, le ragioni della scarsa partecipazione al lavoro sono molto più profonde: hanno a che fare con la nostra cultura, che assegna alla donna il ruolo di «angelo del focolare» e all'uomo quello di produttore di reddito. Ma il risultato è che tanti uomini mediocri fanno un mediocre lavoro in ufficio; un lavoro che le loro mogli casalinghe farebbero molto meglio perché hanno più capitale umano. Inoltre, al momento degli scatti di carriera spesso le imprese preferiscono gli uomini; magari non semplicemente per discriminazione di genere, ma perché sanno che in caso di conflitto fra esigenze familiari e aziendali un uomo sarà più disposto di una donna ad anteporre le esigenze dell'azienda a quelle della famiglia. Il risultato è che il capitale umano del nostro Paese è sottoutilizzato perché quello femminile è usato poco e male.
La famiglia rimane un'istituzione fondamentale della società, nessuno lo nega. Ma il punto è che in Italia, più di ogni altro Paese europeo, il carico della famiglia è troppo sbilanciato sulla donna. Fino a quando non si aggiusta questa equazione non si fanno passi avanti. Sia chiaro: ci stiamo muovendo su un terreno minato, che sfiora il dirigismo culturale. Forse gli italiani (uomini e donne) sono contenti così. Cioè sono contenti di una distribuzione del lavoro domestico e nel mercato tanto sbilanciata. Se così fosse, non c'è alcun motivo per cui il legislatore debba intervenire.
Ma siamo proprio sicuri che le donne italiane siano così felici di assumersi carichi domestici che paiono ben superiori a quelli delle donne di altri Paesi europei? Siamo così sicuri che tutte le donne siano contente di non essere promosse nel lavoro perché devono farsi carico della famiglia (non solo dei figli, anche di genitori e parenti anziani) praticamente da sole?
Forse no, e allora il prossimo governo dovrà mettere la questione del lavoro femminile al centro del suo programma. Proposte ce ne sono. Ad esempio uno di noi (Alesina, insieme ad Andrea Ichino) ha da tempo suggerito vari metodi per detassare il lavoro femminile e favorire la partecipazione al lavoro delle donne. Si deve anche pensare a un uso molto più flessibile del part-time per facilitare la gestione familiare, come nei Paesi nordici, dove il part-time è molto più diffuso che da noi. Attenzione però: part-time sia per uomini che per donne, appunto per riequilibrare i ruoli nella famiglia.
Mario Monti nella sua Agenda ha ricordato il problema del ruolo della donna nella nostra società. Il prossimo governo dovrà partire proprio da lì.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

15 gennaio 2013 | 8:20© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_15/la-questione-femminile-alberto-alesina-e-francesco-giavazzi_05138154-5ed9-11e2-8d79-cb6cdb3edff8.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #31 inserito:: Gennaio 23, 2013, 09:12:12 am »

RIGORE

Le falsità che circolano sulla cura Monti

Dopo l'articolo del «Financial Times» in cui si sostiene che il premier «non è l'uomo giusto per guidare l'Italia»


di  ALBERTO ALESINA E FRANCESCO GIAVAZZI


Si sta diffondendo una sciocchezza, cioè un'opinione che non ha riscontri nell'evidenza empirica. Il rigore nei conti pubblici sarebbe la ragione per cui la recessione si prolunga e la disoccupazione non scende. Lo ripete da alcuni mesi Stefano Fassina, responsabile economico del Pd («I dati sulla disoccupazione sono conseguenza di politiche di austerità autodistruttive. La crescita e, conseguentemente, l'arresto dell'emorragia di lavoro è impossibile nel quadro vigente di finanza pubblica», 1° giugno 2012). Gli fa eco Silvio Berlusconi («Le politiche di austerità del governo tecnico hanno condotto alla recessione», 13 gennaio 2013). Ne fa cenno persino il Fondo monetario internazionale che raccomanda all'Europa cautela nell'aggiustare i conti pubblici. Lo scrive Wolfgang Münchau sul Financial Times (nell'articolo «Why Monti is not the right man to lead Italy», perché Monti non è l'uomo giusto a guidare l'Italia), che lunedì ha paragonato Mario Monti a Heinrich Brüning, l'ultimo cancelliere della Repubblica di Weimar il cui tentativo di riportare in ordine i conti pubblici avrebbe, secondo alcuni, determinato la fine dell'ultimo esperimento democratico prima dell'avvento del nazionalsocialismo.

Cerchiamo di mantenere un minimo di prospettiva. Senza austerità, in Italia come in altri Paesi europei, non vi sarebbe stata più crescita ma spread alle stelle, una probabile ristrutturazione del debito, scricchiolii nei bilanci delle banche: insomma, il rischio di un altro 2008. Detto questo, ci sono modi diversi per realizzare una politica di austerità.

L'evidenza empirica - ammesso che tale metodo interessi ancora a qualcuno in questo dibattito - dimostra che tagli di spesa, accompagnati da liberalizzazioni e riforme nel mercato dei beni e del lavoro comportano costi di gran lunga inferiori (in alcuni casi addirittura nessun costo) rispetto ad aumenti di imposte. Se il governo Monti avesse perseguito l'austerità in questo modo, cioè tagliando la spesa, la recessione sarebbe stata molto meno grave. Ma tra questo e dire che l'Italia non avrebbe dovuto far nulla, magari spendere un po' di più, quando lo spread sfiorava i 600 punti e il debito era diventato sostenibile, è da irresponsabili.

Mario Monti - lo ripetiamo da oltre un anno - avrebbe dovuto correggere i conti pubblici in modo diverso, tagliando la spesa anziché limitarsi ad aumentare le tasse. Ma scrivere che egli non sarebbe adatto a guidare l'Italia perché ha a cuore il rigore fiscale è una stupidaggine tale che stupisce che il Financial Times l'abbia pubblicata.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

22 gennaio 2013 | 11:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_gennaio_22/le-falsita-che-circolano-sulla-cura-monti-alberto-alesina-e-francesco-giavazzi_b23d2e56-647f-11e2-8ba8-1b7b190862db.shtml#
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #32 inserito:: Febbraio 04, 2013, 05:01:26 pm »

PERCHÉ RESISTE IL MITO NEOSTATALISTA

Troppe illusioni sull'innovazione


Le scorciatoie sono pericolose: non solo in montagna, anche nella politica economica. L'ansia di accorciare i tempi che intercorrono fra il momento in cui una riforma è approvata e quando essa si traduce in maggior crescita può far commettere gravi errori. Un esempio: qualche anno fa, per favorire gli investimenti in energie rinnovabili si decise di sussidiare l'installazione di pannelli solari. Per far presto furono concessi incentivi che oggi, a pannelli installati, si traducono in una rendita di circa 11 miliardi di euro l'anno: li pagano tutte le famiglie nella bolletta elettrica e vanno a poche migliaia di fortunati. Non solo si è creata un'enorme rendita che durerà per almeno un ventennio: si è favorita una tecnologia che a distanza di pochi anni è già vecchia. Oggi l'energia solare si può catturare semplicemente usando una pittura sul tetto, con costi e impatto ambientale molto minori. Ma i nostri pannelli rimarranno lì per vent'anni e nessuno si è chiesto quanto costerà e che effetti ambientali produrrà la loro eliminazione.

Un altro esempio di scorciatoie pericolose è la politica industriale dirigista. Scrive il Pd: «La liberalizzazione dei mercati non è sufficiente. Il contrasto alle rendite, le privatizzazioni, gli abbattimenti fiscali possono favorire innovazione e competitività ma ci lasceranno con un lavoro fatto a metà. È necessario ripensare le linee strategiche e gli strumenti della politica industriale. L'illusione che sia il mercato a far crescere l'economia ci sta portando a sbattere. La risposta spontanea delle imprese (alla globalizzazione) è insufficiente». (Partito democratico, Per una politica industriale sostenibile , giugno 2012). Neppure il governo Monti ha saputo resistere alle sirene dell'intervento pubblico. Nel breve arco di un anno ha usato il risparmio postale, che è una grande risorsa, per attuare, attraverso la Cassa depositi e prestiti, una politica industriale discutibile. La Cassa oggi possiede - oltre a un Fondo che dovrebbe selezionare e investire in imprese «strategiche» - le reti elettriche e del gas, sta acquistando la rete a banda larga, controlla Fintecna e Sace, ha partecipazioni importanti in Enel, Eni, Poste, Assicurazioni Generali. Un tempo con il risparmio postale la Cassa concedeva mutui ai Comuni per migliorare gli edifici scolastici.

Nel Dopoguerra, fra il 1945 e la metà degli anni Settanta, la politica industriale fu un elemento essenziale della nostra rinascita economica. L'Istituto per la ricostruzione industriale (Iri), l'attore centrale di quel periodo, fu preso ad esempio da molti Paesi in via di sviluppo, in particolare dal Giappone. Negli anni Sessanta l'Iri, come il Miti (Ministero del Commercio internazionale e dell'Industria) giapponese, erano parte di un sistema finanziario incentrato sulle banche, su relazioni stabili fra banchieri e imprenditori (si pensi al rapporto fra Enrico Cuccia e Giovanni Agnelli), scarso avvicendamento dei manager (Vittorio Valletta guidò la Fiat per un ventennio) e un ampio intervento dello Stato nell'economia.

Ma erano tempi molto diversi. Italia e Giappone erano agli inizi della loro esperienza industriale. Non era necessario inventare cose nuove, bastava importare tecnologia dagli Stati Uniti e riprodurla, possibilmente facendo meglio di chi l'aveva inventata. Fu così in Italia per l'acciaio: l'impianto siderurgico di Taranto fu copiato dalle acciaierie texane di Houston, ma quando fu terminato suscitò l'ammirazione degli americani. Lo stesso accadde alla Toyota e all'elettronica giapponese.

Oggi crescere per imitazione non è più possibile perché siamo troppo vicini alla frontiera tecnologica. Oggi si cresce innovando, non imitando. La crescita oggi richiede innovazione e per innovare la politica industriale che tanto successo ebbe nel Dopoguerra non funziona.

Ovvero non può funzionare l'illusione che lo Stato e la politica siano in grado di individuare i settori e le imprese che avranno successo. L'innovazione è per definizione imprevedibile. Vi immaginate quattro funzionari dell'Iri in un garage che si inventano Apple? O un giovane impiegato dell'Iri che inventa Facebook? Affidereste allo Stato la scelta del tipo di robotica su cui puntare? Quello di cui abbiamo bisogno sono università eccellenti, la capacità di trattenere e attrarre i cervelli migliori, e una dose massiccia di «distruzione creativa», cioè un ambiente dove le vecchie imprese chiudono rapidamente e possono essere sostituite da aziende nuove, perché è in queste che più facilmente nascono le idee e si creano nuovi prodotti. Per questo è necessaria grande flessibilità. Innanzitutto un mercato finanziario e un mercato flessibile del controllo proprietario delle aziende, in cui non si incrostino gruppi di potere inamovibili. Il contrario di ciò che funzionava 50 anni fa. Oggi le imprese italiane dipendono troppo dal credito bancario: non era un problema 50 anni fa, lo è oggi. Molte imprese familiari beneficerebbero dal quotarsi in Borsa affidando il controllo a manager esterni. E serve un welfare che consenta la riallocazione del lavoro, proteggendo i lavoratori, non i posti di lavoro. Il contrario della cassa integrazione.

L'Italia degli anni Cinquanta era un Paese «emergente» lontano dalla frontiera tecnologica. Bastavano grandi imprese pubbliche che copiassero quello che altri facevano. Oggi l'Italia è un Paese alla frontiera della tecnologia. In questo mondo per crescere servono creatività e flessibilità, non una politica industriale che affida le scelte allo Stato.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

3 febbraio 2013 | 8:40© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_03/troppe-illusioni-su-innovazione-alberto-alesina-francesco-giavazzi_0b6216f4-6dd1-11e2-ad59-736471fe2e30.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #33 inserito:: Aprile 04, 2013, 11:56:08 pm »

I VINCOLI ESTERNI DIMENTICATI

A corto di idee e senza capitali


I tempi della democrazia e della politica mal sopportano vincoli esterni, sia quelli che derivano dai nostri impegni europei, sia quelli imposti da chi possiede i titoli del nostro debito pubblico. L'apparente tranquillità dei mesi recenti può indurre nell'errore di farci sentire liberi di decidere, di muoverci nella direzione in cui ci porta la navicella del fragile equilibrio politico. Non è così.

La soluzione adottata per salvare le banche di Cipro potrebbe cambiare il modo in cui d'ora in avanti verranno affrontate le crisi bancarie nell'area euro. Tre anni fa le banche irlandesi furono salvate facendo pagare un conto salatissimo ai contribuenti e proteggendo tutti i depositanti (grandi e piccoli) e chi ne aveva acquistato le obbligazioni. A Cipro invece lo Stato non interverrà: i 10 miliardi di euro che l'isola riceverà dall'Europa non potranno essere usati per salvare le banche. Le loro perdite verranno assorbite da chi vi aveva investito, acquistandone azioni, obbligazioni o aprendo un conto corrente. Verranno salvati solo i depositi di ammontare inferiore ai 100 mila euro.

Questa decisione ha due conseguenze:
1) da oggi rafforzare il patrimonio delle banche (il tallone d'Achille del sistema finanziario europeo) è più difficile, perché chi ne acquista le azioni o le obbligazioni deve affrontare un rischio maggiore;
2) una parte dell'attività bancaria potrebbe emigrare verso i Paesi le cui banche sono più solide.

È vero che i piccoli depositanti sono salvi (a meno di imposte speciali sulla ricchezza), ma le imprese e i grandi investitori fanno e ricevono pagamenti che spesso superano il limite di 100 mila euro. Molti di essi d'ora in poi saranno tentati di effettuarli con banche di Paesi dove non si rischia una parziale confisca dei depositi. Questo potrebbe creare un circolo vizioso e indebolire ancor più le banche.


Per noi sono tutte cattive notizie. Uno degli ostacoli alla crescita, nel breve termine forse il maggiore, è la scarsità di capitale di cui dispongono le banche. Il motivo principale per cui esse lesinano il credito è che hanno troppo poco capitale. Hanno molta liquidità, grazie ai finanziamenti della Bce, ma per fare un prestito e sostenere l'economia la liquidità non basta, serve anche il capitale, cioè la riserva che la banca deve mettere da parte per far fronte a prestiti non rimborsati. E oggi nella recessione ciò accade sempre più spesso. Le banche italiane tradizionalmente hanno sempre avuto relativamente poco capitale: uno dei motivi è che i loro padroni, le fondazioni bancarie, hanno risorse limitate, ma non vogliono perdere il controllo delle banche, quindi scoraggiano gli aumenti di capitale sul mercato.

L'altra conseguenza della crisi di Cipro è che le parole oggi contano di più. Gli investitori saranno ora attentissimi a qualunque proposta di tassare i depositi bancari, o di ristrutturare il debito, come fece Mussolini nel 1926, o di rinegoziare gli impegni presi con l'Europa, o addirittura di considerare un'uscita dall'euro. In questo momento così delicato, non solo le azioni ma anche le parole pesano, e nel mezzo di una crisi politica fra le più difficili del dopoguerra, di parole senza senso se ne ascoltano parecchie.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

3 aprile 2013 | 7:59© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_03/alesina-giavazzi-a-corto-di-idee-senza-capitali_983f84f2-9c1c-11e2-aac9-bc82fb60f3c7.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #34 inserito:: Maggio 04, 2013, 03:45:53 pm »

Due scelte credibili

È finalmente chiaro a tutti che l'imposizione fiscale in Italia deve scendere. Rimangono però due questioni alle quali rispondere. Primo: quali imposte ridurre? Secondo: come finanziare la perdita di gettito? È più facile rispondere alla prima domanda. E da questa iniziamo. Lo scopo degli sgravi deve essere quello di ridare più potere d'acquisto ai cittadini, di incentivare la domanda e l'offerta di lavoro. Quindi le imposte da ridurre sono quelle sui redditi medio bassi e quelle che, a causa del cuneo fiscale, rendono costoso assumere. Non è chiaro perché invece tanto del dibattito verta intorno all'Imu. Eliminando quest'ultima, si dà un po' più di reddito ma non si creano incentivi a creare posti di lavoro. Tanto che la battaglia contro l'Imu sembra aver assunto più toni simbolici e populisti che poco hanno a che vedere con la razionalità economica.
La risposta alla seconda domanda è meno facile. Una riduzione delle imposte di dimensioni adeguate a far ripartire un'economia disastrata come la nostra deve essere notevole: attorno al 4 per cento di Prodotto interno lordo (Pil) in un orizzonte di due-tre anni.

Tali tagli farebbero però aumentare il deficit. Se non si facesse altro, ci ritroveremmo pressati dai mercati e da Bruxelles. E se, come spesso è accaduto in passato e come ha fatto il governo Monti, fossimo costretti ad alzare di nuovo le imposte saremmo di nuovo al punto di prima. Queste politiche affannose di stop and go non servono a nulla, anzi peggiorano la situazione confondendo cittadini, investitori e mercati. L'alternativa è una sola. Cominciare immediatamente con un piano aggressivo di riduzione delle aliquote e di dismissioni del patrimonio pubblico e annunciare tagli di spesa da far partire tra un anno, dopo che, sperabilmente, la riduzione delle imposte abbia contribuito a far riprendere l'economia. Su cosa tagliare, Francesco Giavazzi ha già avanzato suggerimenti su queste colonne il 29 aprile scorso.
È probabile che un piano di questo tipo faccia aumentare il deficit per un anno o due. Di quanto, dipenderà da come l'economia risponderà ai tagli di aliquote e dalle altre misure da avviare comunque per la crescita. L'esperienza recente dimostra che l'effetto espansivo di riduzione delle tasse compensa la diminuzione della domanda dovuta ai tagli alla spesa. Ma ci possiamo permettere i deficit temporanei che si manifestassero nel periodo intercorso tra i tagli di imposte (subito) ed i tagli di spesa (un po' ritardati)? La riposta è sì, a patto che le riduzioni delle spese siano credibili. In questo caso mercati, Banca centrale europea e Bruxelles ci darebbero il respiro necessario; anche loro sono preoccupati della mancanza di crescita in Italia.

I ministri del governo sono personalità di valore. Teoricamente la grande coalizione che sostiene l'esecutivo potrebbe dare la credibilità necessaria a un programma pluriennale di questo tipo. Ma se, dietro le quinte, i partiti saranno impegnati solo a trovare il momento piu appropriato per far cadere l'esecutivo e andare a nuove elezioni, allora la credibilità del piano non esiste. E senza di essa muore la speranza di far ripartire l'economia.

Alberto Alesina

4 maggio 2013 | 10:09© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_04/due-sceltte-credibili-alesina_bfdf2200-b478-11e2-bb5d-f80cf18001da.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #35 inserito:: Maggio 18, 2013, 05:22:29 pm »

CRESCITA, UNA PROPOSTA ALTERNATIVA

Quel tre per cento non sia un tabù


La politica di bilancio in Italia è vincolata da puntuali regole europee. Esse prevedono che un Paese mantenga piena flessibilità nei propri conti pubblici solo se il suo deficit è inferiore al 3% del Prodotto interno lordo. Ad esempio la Germania, che quest'anno prevede di chiudere il bilancio in pareggio, potrebbe, se volesse, varare investimenti pubblici per 80 miliardi di euro (tre punti di Pil) perché rimarrebbe entro la soglia massima. Invece la Francia, che prevede un deficit del 4%, deve ridurlo e non le è consentito scorporare gli investimenti pubblici, né tener conto dell'effetto della recessione sui propri conti.

Il Documento di economia e finanza (Def) che il ministro Saccomanni presenta al Parlamento la prossima settimana, confermerà per quest'anno l'impegno annunciato due mesi fa dal governo Monti, cioè un deficit non superiore al 3%. E ciò nonostante il perdurare della recessione che renderà più difficile rimanere sotto il 3%. Sulla base di questo impegno il 30 maggio la Commissione europea chiuderà la procedura di infrazione in cui attualmente ci troviamo, dandoci via libera per una maggiore flessibilità. Ma sarà un via libera per noi purtroppo inutile. Nella migliore delle ipotesi saremo di un soffio sotto la soglia del 3% e ciò non consentirà di ridurre le imposte. In questa situazione occorre chiedersi se ci convenga impegnarci al 3% quest'anno, visto che, a parte una questione di orgoglio, non ne guadagneremmo sostanzialmente nulla. Non si riduce la disoccupazione con l'orgoglio.

Il governo potrebbe considerare una strategia alternativa che avrebbe anche il vantaggio di farlo dall'angolo in cui pressioni contrapposte lo stanno schiacciando. Proporre all'Ue un piano di riduzione immediata delle imposte: l'Imu, ma soprattutto le imposte sul lavoro. Diciamo per un ammontare dell'ordine di 50 miliardi che abbasserebbe la pressione fiscale di circa tre punti, contribuendo alla ripresa dell'economia. Contemporaneamente adottare un piano di riduzione graduale ma permanente delle spese: un punto di Pil di tagli all'anno per tre anni. Qualunque recupero di evasione dovrebbe essere usato per ridurre le aliquote dei contribuenti onesti. Il deficit rimarrebbe superiore al 3% ancora per due anni e rientrerebbe solo fra tre. Come la Francia. La Commissione non chiuderebbe la procedura di sorveglianza: dovrebbe approvare il piano e verificarne l'effettiva attuazione. Insomma, saremmo noi a scegliere il piano e Bruxelles a fare da «guardiano». È una strada praticabile? Dipende dalla credibilità dei tagli. Ma di questo Saccomanni dovrebbe discutere a Bruxelles, non della seconda cifra decimale del rapporto deficit/Pil.

Il secondo pilastro di questa strategia è il credito. La riduzione delle tasse non basta per uscire dalla recessione. È necessario che le banche ricomincino a prestare denaro a famiglie e imprese. Per far questo, come abbiamo già scritto, bisogna ricapitalizzarle. La premessa è risanarle, togliendo dai loro bilanci i prestiti insolventi (che in un anno sono saliti da 50 a 60 miliardi di euro). Per farlo si può utilizzare il Meccanismo europeo di stabilità (Ems), il cosiddetto «Fondo salva-banche», come ha fatto la Spagna. Il vantaggio è che anche questo prestito ci sarebbe concesso con «condizionalità», cioè sottoporrebbe le nostre banche - e la Banca d'Italia che vigila su di esse - al controllo delle istituzioni europee.
I mercati sono per ora calmi e ci danno respiro. Non sprechiamo questa occasione. Saccomanni deve puntare alto, non perdersi con i decimali. Se lo farà, Bruxelles deve ascoltarlo.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

17 maggio 2013 | 7:27© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_17/quel-tre-per-cento-non-sia-tabu-alesina-giavazzi_7e3514c2-beaf-11e2-be2c-cd1fc1fbfe0c.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #36 inserito:: Maggio 22, 2013, 05:12:36 pm »

LAVORO, LO SCAMBIO ANZIANI-GIOVANI

Una staffetta senza virtù


Un anno e mezzo fa l'ex ministro Elsa Fornero diceva agli italiani che avrebbero dovuto lavorare più a lungo: anche fino a 67 anni. Oggi il ministro Enrico Giovannini spiega loro che debbono lasciare l'impiego prima, per fare spazio ai giovani attraverso quella che viene chiamata «staffetta generazionale». Vale a dire, un dipendente accetta di lavorare meno ore, con meno stipendio o di andare in pensione con una qualche penalizzazione, purché la sua azienda assuma un giovane.

Giustamente credo che gli italiani siano un po' confusi. In un Paese che cresce, i posti di lavoro non sono fissi ma aumentano, quindi ci sarebbe posto per tutti, giovani e anziani. In un Paese come il nostro, poi, nel quale la vita media si sta allungando, sarebbe assolutamente necessario che gli anziani lavorassero più a lungo, altrimenti il carico fiscale per chi ha un impiego si alza molto proprio per sostenere chi un lavoro non ce l'ha più.

Ma se il Paese non cresce? Ovvero non crea posti di lavoro? I giovani troveranno ancora meno occupazione. Per di più, alte tasse e rigidità contrattuali all'ingresso sul mercato del lavoro scoraggiano assunzioni da parte delle imprese. Il carico fiscale inoltre riduce la crescita creando un circolo vizioso: sempre meno lavoro e sempre più persone che non essendo impiegate necessitano del sostegno di chi invece un'occupazione ce l'ha.

Il mancato sviluppo fa sì che le ore lavorate non aumentino, restino fisse. Redistribuirle fra giovani e anziani, come prevederebbe la «staffetta generazionale», non aiuta certo nell'aumentare il reddito degli italiani. Semplicemente lo redistribuisce tra padri e madri, figli e figlie. Posto poi che la «staffetta» funzioni, la disoccupazione giovanile si ridurrebbe sì, ma in modo fittizio: non creando più lavoro quanto redistribuendo quello già esistente tra una generazione e l'altra. Una stessa torta, il Prodotto interno lordo, diviso in parti diverse senza però che questo dia alcun contributo alla crescita.

Ma allora a che serve questa redistribuzione tra generazioni? Qualche effetto indiretto potrebbe averlo. Primo: più a lungo un giovane rimane escluso dalla forza lavoro meno diventa «impiegabile» dalle imprese e quindi scoraggiato. La «staffetta» potrebbe per questo aiutare a ridurre il tempo di attesa per l'impiego. Secondo: si potrebbe rendere figli e figlie meno legati al reddito di padri, madri e alla famiglia, quindi più mobili, facilitando il loro inserimento nel mondo del lavoro anche quando questo richiede un cambio di città o luogo di vita.

Non sono chiarissime le conseguenze sulle imprese e i loro costi. Da un lato un giovane all'inizio della carriera ha un salario più basso, ma ci sarebbero costi legati all'inserimento del giovane al lavoro. Il saldo, positivo o negativo, dipenderebbe comunque da quanto meno si pagano gli anziani che passano al part time.

Insomma: la staffetta in sé e per sé non aiuterà la crescita. Anzi, sembra quasi un triste riconoscimento che l'unico modo per impiegare i giovani è chiedere ai genitori di scansarsi dal loro lavoro, cosa che suona come un'ammissione di incapacità a far crescere le ore di lavoro totali. Quindi la si venda per quello che è: una misura un po' disperata per cercare di aiutare una generazione in grave difficoltà in un modo che però non aiuta ad attaccare alla radice i problemi di un Paese fermo da due decenni.

Alberto Alesina

22 maggio 2013 | 12:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_22/una-staffetta-senza-virtu-alberto-alesina_205e7846-c299-11e2-b767-d844a9f1da92.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #37 inserito:: Giugno 08, 2013, 06:10:07 pm »

Imparare la lezione americana

Crescita, occupazione, deficit pubblico: quante differenze con l'Europa


Gli Stati Uniti stanno crescendo al ritmo di circa il 2 per cento l'anno e in un triennio il tasso di disoccupazione è sceso dal 10 al 7,5 per cento. Il deficit pubblico al netto degli interessi è sceso di 7 punti in percentuale del Prodotto interno lordo (Pil): dall'11,5 per cento circa al culmine della crisi nel 2009, al 4,5 per cento previsto per quest'anno. In tre anni, fra il 2011 e il 2013, hanno ridotto le spese di circa 2 punti di Pil e aumentato le imposte di un punto e mezzo. Anche in Europa i deficit sono scesi, ma la crescita non riparte. In Italia stiamo attraversando la recessione più grave dal dopoguerra. Che cosa spiega queste differenze?

Alcune di queste sono difficili da eliminare nel breve periodo: la maggiore flessibilità dei mercati americani, in particolare quello del lavoro, la mancanza in Europa di una politica fiscale comune, le divergenze fra i Paesi dell'euro che impediscono una maggiore integrazione dell'eurozona e legano le mani alla Bce. Ma una cosa importante la potevamo fare, imparando dagli Stati Uniti: attaccare alla radice e senza indugi il problema delle banche. Le prime misure del governo americano, all'inizio della crisi, quando era ancora presidente George W. Bush, furono rivolte alle banche, le quali furono obbligate a rafforzare il loro patrimonio anche con l'aiuto pubblico. Fatto questo, gli interventi volti a ridurre il deficit (si può poi discutere se siano stati più o meno sufficienti e di buona qualità) sono stati molto meno costosi che in Europa proprio perché non si sono sommati a una contrazione del credito.

Nell'eurozona abbiamo seguito la sequenza sbagliata. Occorreva prima rafforzare le banche affinché la loro debolezza non desse luogo a una contrazione dei prestiti, e dopo, solo dopo, ridurre i deficit tagliando le spese. Invece abbiamo fatto esattamente il contrario. Non abbiamo ricapitalizzato le banche e anziché tagliare le spese abbiamo aumentato le imposte. Alcuni Paesi, fra cui l'Italia, hanno rifiutato i fondi messi a disposizione, sia pure tardivamente, dall'Europa per ricapitalizzare le banche. Non li abbiamo voluti per due motivi. Per lo stupido orgoglio di non accettare che qualcun altro metta il becco nelle nostre banche: «Le nostre autorità sono più che sufficienti» (lo si è visto alla Banca Popolare di Milano!). E perché le Fondazioni bancarie, ovvero i padroni delle banche, non hanno i fondi per ricapitalizzarle, e non vogliono diluire la loro proprietà.

Due giorni fa Standard & Poor's ha pubblicato uno studio che evidenzia (se ancora ve ne fosse bisogno) la gravità della contrazione del credito in Italia, soprattutto per le imprese piccole e medie. Si è creato un circolo vizioso. Private del credito le aziende falliscono; più imprese falliscono, più crescono le sofferenze bancarie, cioè i crediti inesigibili; più aumentano le sofferenze, più diminuisce il capitale delle banche e con esso i prestiti alle imprese e più crescono i fallimenti.

Stiamo ripetendo l'errore che fece il Giappone vent'anni fa quando, dopo un crac immobiliare, lasciò le banche a languire per un ventennio.
Il risultato è purtroppo ben noto: vent'anni di crescita zero e un debito pubblico che ha raggiunto il 200 per cento del Pil. Per favore: impariamo dagli Usa, non dal Giappone.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

7 giugno 2013 | 8:45© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_07/imparare-la-lezione-americana-alesina-giavazzi_74fbfcae-cf30-11e2-b6a8-ee7758ca2279.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #38 inserito:: Luglio 12, 2013, 07:37:02 pm »

PERCHÉ È DIFFICILE TAGLIARE LA SPESA

L'insuperabile tabù italiano


La scorsa settimana Enrico Letta, al termine del vertice europeo, ha comunicato di aver ottenuto un grande successo: maggior flessibilità per i nostri conti pubblici. Poiché il governo Monti - ipotizzando di continuare a far pagare l'Imu a tutti e di aumentare l'Iva a luglio - prevedeva per il 2013 un deficit del 2,9%, maggior flessibilità dovrebbe significare poter oltrepassare, almeno temporaneamente, il limite del 3% imposto dalle regole europee. Altrimenti dove sarebbe la maggior flessibilità? Poche ore dopo il ministro Saccomanni ha spiegato che sarà assai difficile trovare lo spazio per evitare un aumento dell'Iva o per eliminare definitivamente l'Imu sulla prima casa. Non sorprende che tanti cittadini siano confusi e non capiscano che cosa intenda fare il governo.

Proviamo a capire. Se veramente, come sostiene Letta, l'Unione Europea ci avesse concesso più spazio sul deficit, allora potremmo non solo evitare l'aumento dell'Iva e cancellare l'Imu sulla prima casa, ma anche cominciare a ridurre le tasse sul lavoro. Se non lo si può fare significa che quella flessibilità non c'è (come dice Saccomanni), o che il governo pensa di usarla non per ridurre la pressione fiscale, ma per aumentare le spese. Infatti si è subito cominciato a parlare di «investimenti pubblici produttivi». Di tutto l'Italia ha bisogno tranne che di più spesa pubblica. I consumi delle famiglie sono scesi del 6% in due anni (2012-13). Nel medesimo periodo la spesa delle amministrazioni pubbliche al netto degli interessi è salita dal 45% del Prodotto interno lordo al 45,8 (era il 41,4% dieci anni fa). L'Italia ha bisogno di meno tasse sul lavoro per far crescere l'occupazione, e meno tasse sui consumi per far ripartire la domanda. Aumentare la spesa pubblica significa che prima o poi le tasse dovranno crescere ancora di più.

Dall'esperienza dei Paesi europei che negli ultimi tre anni hanno cercato di uscire dalla crisi tagliando il debito e ricominciando a crescere, si impara una lezione molto chiara. L'Irlanda, che ha corretto i conti soprattutto riducendo le spese, ha ricominciato a crescere: la stima per quest'anno è un aumento del prodotto pari all'1,3%. L'Italia invece si è limitata ad aumentare la pressione fiscale senza far nulla per ridurre le spese delle amministrazioni pubbliche, che anzi continuano a crescere. Risultato, non riusciamo ad uscire da una recessione profonda: la stima per quest'anno è un'ulteriore contrazione del reddito pari all'1,9%. Non bisogna quindi sorprendersi se Standard & Poor's giudichi l'Irlanda, che pure ha un debito elevato quasi quanto il nostro (ma in discesa), più affidabile dell'Italia.

Continuiamo a commettere il medesimo errore: lo fece il governo Monti due anni fa e, se non si tagliano le spese, lo ripeterà Letta oggi.
Non siamo capaci di varare un piano credibile di radicale riduzione delle uscite, quindi ci affidiamo all'aumento della pressione fiscale.
Le agenzie di rating, e soprattutto i mercati, capiscono che limitandosi ad aumentare le tasse la crisi non si risolve e ci obbligano a fare di più.
E la sola cosa che finora i governi hanno saputo fare è stato incrementare ancor più la pressione fiscale, peggiorando la situazione. È un circolo vizioso che sta distruggendo l'economia.

12 luglio 2013 | 7:54
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_12/insuperabile-tabu-italiano-alesina-giavazzi_9dd4fa3a-eab1-11e2-aab6-99ce3905fffc.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #39 inserito:: Agosto 08, 2013, 04:39:35 pm »

DUE DECENNI DI SVILUPPO PERDUTO

Agenti occulti della povertà


 
L'Italia è ferma da due decenni. In questo periodo il reddito medio degli italiani (dati Eurostat) si è ridotto del 14 per cento, mentre rimaneva sostanzialmente invariato nel resto dell'area euro e cresceva del 12 per cento negli Stati Uniti. Da che cosa dipende questo risultato drammatico? Il Fondo monetario internazionale ha confrontato i progressi compiuti da alcuni Paesi nel riformare le proprie economie ( Fostering Growth in Europe , aprile 2012). Ha suddiviso le riforme in due gruppi: quelle che possono tradursi più rapidamente in maggior crescita (riforme del mercato del lavoro; privatizzazioni; liberalizzazioni nel campo dei trasporti, della distribuzione dell'energia, delle professioni, della distribuzione commerciale) e quelle che invece richiedono tempi più lunghi per produrre effetti positivi (formazione del capitale umano, cioè scuola e università; pubblica amministrazione; giustizia civile).

Per ogni tipo di riforma (i dati si riferiscono al 2011-12), il Fondo ha assegnato a ciascun Paese un voto: A se le riforme in quel campo sono state completate, B se il Paese è a metà strada, C se il più rimane da fare. Alcuni Paesi nordici (Svezia e Danimarca, ma anche la Gran Bretagna) sono in cima alla classifica, con quasi tutte A. Vanno abbastanza bene anche gli Stati Uniti (tre B e sei A) e non male neppure il Giappone. Fra i Paesi dell'euro l'Olanda ha otto A e una sola B; la Germania quattro B e cinque A. L'Italia ha cinque C e quattro B. Solo la Grecia (nove C) è piu o meno al nostro livello. C'è una sola area dove l'Italia appare ai primi posti: le pensioni. Per questo possiamo ringraziare il governo Dini la cui riforma, nel 1995, fu votata dal Parlamento solo perché sarebbe entrata in vigore 15 anni più tardi. Ma quella legge aprì la strada a provvedimenti successivi, come la riforma Fornero che ne ha accelerato i tempi di attuazione.

L'Italia è dunque uno dei Paesi in cui una spinta sulle riforme produrrebbe maggior crescita. Sempre il Fondo stima che se raggiungessimo un voto A in tutte le voci, nell'arco dei prossimi 50 anni il nostro reddito potrebbe aumentare del 30 per cento circa: se avessimo cominciato due decenni fa....
La Germania cominciò 10 anni fa, quando il cancelliere Schröder varò l'Agenda 2010, un piano di riforme ambiziose che partì dal mercato del lavoro e si estese con Angela Merkel al campo costituzionale, con interventi utili ad accelerare l'iter legislativo. Fra il 2005 e oggi la disoccupazione in Germania è scesa di sei punti e il reddito medio delle famiglie tedesche è salito di dieci.
Se invece di un fortissimo aumento della pressione fiscale, il governo Monti avesse tagliato un po' la spesa, se i governi che lo hanno preceduto avessero fatto solo alcune delle riforme indicate dal Fondo monetario, la recessione che stiamo vivendo non sarebbe tanto grave. Infatti la caduta del reddito, dal 2010 ad oggi, è stata meno accentuata nei Paesi che la crisi ha colto più avanti sulla via delle riforme.

La lezione per la politica è semplice. All'Italia serve con urgenza uno slancio riformatore che trasformi tutti questi voti C in B e A. Il governo Letta ha già sprecato cento giorni. Tranne un passo avanti sull'abolizione delle province e una tardiva e parziale accelerazione dei pagamenti dei debiti alle imprese, ha sostanzialmente fatto melina. Quanti altri giorni devono passare prima che si cominci a fare qualcosa?

8 agosto 2013 | 8:08
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi


da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_08/agenti-occulti-della-poverta-alberto-alesina-francesco-giavazzi_d7a978ca-ffe3-11e2-b484-e2fa3432c794.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #40 inserito:: Settembre 07, 2013, 07:31:38 pm »

QUELLO CHE NON SERVE ALLA CRESCITA

Prigionieri di un'illusione

Il presidente del Consiglio ha usato l'analogia del cacciavite: «Dobbiamo rendere più efficienti le istituzioni. Ci proponiamo di farlo con interventi normativi, non riforme epocali. Useremo il cacciavite, facendo prevalere l'esigenza dell'efficacia sulla bandiera della politica».
Vanno in questo senso provvedimenti come una nuova legge Sabatini per finanziare gli investimenti, l'ampliamento dei criteri per l'accesso al Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, aiuti agli investimenti per ricerca e innovazione, norme sblocca-cantieri.

In un'Italia dove ci si è troppo attardati ad aspettare il Godot delle Grandi Riforme, un governo che vuole usare un cacciavite è benvenuto.
Purché questo non riveli l'impotenza della politica. La piccola manutenzione è decisiva quando la macchina dello Stato funziona e ha solo bisogno di essere messa a punto. Non è il nostro caso. Soffriamo di una combinazione di deficit ben più gravi di quello dei conti pubblici: un apparato burocratico che ostacola, anziché agevolare, le riforme, e una mancanza di prospettiva.

Il governo rischia di rimanere stritolato. La politica è impegnata in un regolamento di conti fra centrosinistra e centrodestra: elaborare un progetto per il Paese che verrà pare l'ultima delle preoccupazioni. L'apparato statale, con la scusa di supplire alle carenze della politica, ha l'unico obiettivo, sin qui pienamente raggiunto, di perpetuare se stesso. Non basta il cacciavite. L'esempio più evidente sono le storture del mercato del lavoro, ancora l'altro ieri sottolineate da Dario Di Vico, che impediscono di creare occupazione persino là dove sarebbe possibile.

Taluni guardano all'Europa come al salvagente al quale aggrapparsi; altri come a un macigno che ci affonda. Entrambi sbagliano: siamo noi la fonte dei nostri problemi e noi soli possiamo risolverli. L'Europa è utile quando sappiamo sfruttarne gli esempi e gli stimoli, dannosa se ci limitiamo a subirla. Sinora il governo ha dato l'impressione di accettare passivamente i vincoli che Bruxelles impone ai conti pubblici, senza chiedersi se davvero essi ci aiutino davvero a uscire dalla crisi. Anziché vincolarci a un deficit inferiore al 3 per cento del Prodotto interno lordo già da quest'anno (senza alcun impegno sulle riforme), avremmo dovuto concordare con l'Europa un programma pluriennale che avesse come obiettivo la crescita. Cominciando dalla riforma del mercato del lavoro, rimettendo mano alla legge Fornero, alla scuola, alla concorrenza, a una burocrazia soffocante.

E soprattutto avviando una riduzione graduale ma certa della spesa, che liberi, entro un triennio, 50 miliardi da destinare al taglio delle tasse sul lavoro: quanto serve per condurre il nostro cuneo fiscale (la differenza fra la busta paga del lavoratore e il costo per l'impresa) al livello tedesco. In questo triennio violeremmo il vincolo del 3%, come la Francia: ritorneremmo a essere sorvegliati da Bruxelles, ma questo può solo aiutare l'attuazione delle riforme e garantire i tagli di spesa. Altrimenti, prima della fine dell'anno sfonderemo il limite del 3%, e a quel punto l'unica strada sarà la solita: aumentare l'Iva accompagnandola con qualche altro balzello fiscale, come già prevede la clausola di salvaguardia che innalzerà l'anticipo delle imposte dovute il prossimo anno.

Ps: un mese fa il Senato ha votato un ordine del giorno che impegna il governo a modificare entro giovedì prossimo, ultimo giorno utile, la norma della legge Severino che prevede la chiusura di 31 tribunali e 31 Procure. Se il governo lo farà ogni impegno a tagliare la spesa apparirà per ciò che probabilmente è: parole al vento.

7 settembre 2013 | 15:55
© RIPRODUZIONE RISERVATA

ALBERTO ALESINA e FRANCESCO GIAVAZZI

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_07/prigionieri-illusione_071c8322-1777-11e3-8a00-11cf802b0067.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #41 inserito:: Settembre 24, 2013, 11:34:14 am »

DEFICIT, TAGLIO DELLE TASSE E CRESCITA

La prigionia dei numeri

L'economia cresce meno di quanto il governo prevedesse solo pochi mesi fa, e i conti pubblici peggiorano. In aprile Monti stimava, per quest'anno, una caduta del reddito dell'1,3%: ora la stima è -1,7%. E così, come era facile intuire, per mantenere il deficit 2013 al di sotto del 3% si dovrà ricorrere a una manovra correttiva.

Il presidente del Consiglio dà la colpa all'instabilità politica. Come se, senza di essa, miracolosamente l'economia si sarebbe ripresa. Magari fosse così semplice! Le ragioni per cui non riusciamo a superare la recessione sono ben più profonde. Non troviamo il coraggio di attuare le riforme di cui discutiamo invano da almeno un paio di decenni: lavoro, burocrazia, concorrenza e soprattutto una minore pressione fiscale. In tre anni essa è salita dal 46,1 al 48,9 per cento, mentre le spese delle amministrazioni pubbliche al netto degli interessi continuano a crescere: un punto in più del Prodotto interno lordo (Pil), in un triennio. Solo nel 2013 il Documento di economia e finanza (Def), pubblicato la scorsa settimana, stima che la spesa al netto degli interessi aumenterà di circa 10 miliardi, da 714 a 724 miliardi.
Enrico Letta reagisce a questi dati proponendo la solita ricetta. Altre tasse e qualche artificio contabile come l'anticipo a novembre di alcune imposte dovute l'anno prossimo. E niente riforme. Quando si convincerà che è una ricetta che non funziona?
Monti non riuscì a fare le riforme, ma almeno ci provò: l'attuale governo pare non provarci neppure.
Spendiamo, al netto di interessi, pensioni, sanità e interventi sociali circa 250 miliardi l'anno: possibile che non se ne possano risparmiare 3 per evitare l'aumento dell'Iva? Che fine ha fatto il progetto, fortemente sostenuto da Confindustria, di tagliare i sussidi alle imprese in cambio di minori tasse sul lavoro? Sono quasi 10 miliardi l'anno, come conferma un'analisi della Ragioneria generale dello Stato.
Il governo dice che la ripresa dell'occupazione richiede una forte riduzione delle tasse sul lavoro. Giusto, ma bisogna capire l'ordine di grandezza. Il ministro del Lavoro Giovannini punta a una riduzione del cuneo fiscale (la differenza tra ciò che paga l'impresa e quanto va in tasca ai dipendenti) di 5 miliardi: ne servono 50 per portarlo al livello tedesco.
Un governo che avesse il coraggio delle proprie convinzioni, anziché rincorrere il 3% con aumenti di tasse, proporrebbe a Bruxelles una riduzione immediata della pressione fiscale di 50 miliardi, accompagnata da tagli corrispondenti, ma graduali della spesa, e riforme coraggiose da attuare nell'arco di un triennio. Il deficit supererebbe per un paio d'anni il 3%, come in Francia. Torneremmo sotto la sorveglianza europea, una ragione in più per garantire che tagli e riforme vengano davvero attuati. E soprattutto, riducendo i sussidi improduttivi, liberalizzazioni, mercato del lavoro e riduzioni della spesa, si darebbe il segnale che la priorità è la crescita.
Ma se la politica e il governo non hanno questo coraggio, allora ha ragione il ministro Saccomanni a mantenersi ancorato al principio del 3%. Instaurare un circolo virtuoso richiede tagli, riforme e alleggerimenti del carico fiscale che farebbero crescere Pil e occupazione, e scendere il deficit. Ma di tagli e riforme non si vede traccia.

24 settembre 2013 | 7:47
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_24/numeri-deficit-taglio-tasse_bef857c4-24d7-11e3-bae9-00d7f9d1dc68.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #42 inserito:: Ottobre 07, 2013, 05:22:22 pm »

CONTI PUBBLICI

E ora Enrico Letta abbia coraggio e non sia democristiano

Rilassarsi è proibito, anche perché il rischio di un nuovo declassamento del nostro debito è tutt’altro che scongiurato

La fiducia al governo Letta ha allontanato dall’Italia alcune nubi di mercato. Lo spread è sceso sotto quota 250. E altre circostanze non sono a noi sfavorevoli. La sfida tra repubblicani e democratici americani su bilancio e debito pubblico (che ha prodotto il cosiddetto shutdown ) ha avuto l’effetto di far affluire capitali verso l’euro (1,36 ai massimi sul dollaro degli ultimi otto mesi). Ne hanno beneficiato anche i nostri Btp, i cui rendimenti sul decennale sono scesi al 4,29 per cento.
Persino il tempo che Angela Merkel impiega in Germania nel costruire una grande coalizione ci appare non così diverso dalle nostre stanche ritualità. Ma rilassarsi è proibito, anche perché il rischio di un nuovo declassamento del nostro debito è tutt’altro che scongiurato. Basterebbe scendere di due gradini (tecnicamente n otc hes) perché gli investitori istituzionali, internazionali e anche italiani, si trovino nell’impossibilità di detenere o di acquistare i nostri titoli pubblici. Con le conseguenze sul costo del debito e sulla spirale fra elevata tassazione e recessione facilmente immaginabili.
Il sollievo è comprensibile dopo una settimana così convulsa, la distrazione colpevole. Nei prossimi giorni il governo dovrà presentare all’Unione Europea prima e al Parlamento poi una legge di Stabilità, la vecchia finanziaria, assai difficile nell’equilibrio precario fra le attese dei partiti e la rigidità dei vincoli di bilancio. Nella discussione preparatoria che ne scaturirà, al di là degli slogan (tanti) e delle buone intenzioni (poche), sarà utile tenere conto di un’economia italiana a due facce. Il quadro complessivo è problematico ma non mancano i segni di fiducia e le aree di forza.
L’Italia ha una bilancia commerciale in attivo: importiamo materie prime e tutta l’energia (gas e petrolio) che consumiamo, ma esportiamo più che a sufficienza per pagare quelle importazioni. Certo, la recessione ha ridotto le importazioni, ma non è solo questo il motivo per cui il saldo commerciale con l’estero è attivo. Le nostre esportazioni crescono (195 miliardi nel primo semestre di quest’anno, dieci in più dell’anno scorso), e non stiamo perdendo quote di mercato, nonostante le difficoltà in cui si muovono le imprese italiane e l’alto costo del lavoro dovuto alle imposte. Nel primo semestre di quest’anno le esportazioni di articoli farmaceutici sono cresciute del 13,6%, la metallurgia +9,1, gli articoli di pelletteria +7,4, prodotti alimentari e articoli di abbigliamento +5,3, gioielleria e strumenti musicali +4,5. In generale, i prodotti delle attività manifatturiere hanno mostrato un incremento dei valori esportati del 4,3%. Le aziende che esportano sono un po’ dappertutto. Rispetto al primo semestre dello scorso anno le esportazioni sono cresciute, ad esempio, del 11,3% in Puglia e del 10,7 in Toscana. Emilia-Romagna e Lombardia sono nella media, ma il Nord-Est è fermo, mentre scendono le esportazioni di Liguria, Friuli e Basilicata.
Quindi ci sono due Italie. Una fatta di imprese produttive, che esportano, e che si sono ben adattate all’euro. Altre che non riescono a farlo, si sono rinchiuse nel mercato domestico, non si rinnovano a sufficienza e sopravvivono solo grazie a mille protezioni. Questa, con luci e ombre, tanti problemi ma anche tanto entusiasmo, è l’Italia fuori dal Parlamento. Possiamo chiedere a deputati e senatori di ricordarsi che questo è il Paese che sono stati eletti a rappresentare? La nostra economia si contrae, anche quest’anno di quasi il 2%. Ma questa contrazione media è il risultato di due situazioni opposte: un’Italia che cresce e un’altra che si restringe, e di molto. Per ricominciare a crescere basterebbe spostare e riorganizzare le risorse in modo da allargare un po’ lo spazio occupato dalla prima. Ma bisogna poterlo fare, e per ciò è essenziale riformare un mercato del lavoro ingessato. La Cassa integrazione, ad esempio, è un ostacolo alla riorganizzazione delle risorse: mantiene i lavoratori legati a un’impresa, anche se questa non riaprirà più, e nel frattempo non li incentiva a cercare lavoro in un’azienda più dinamica. Occorre sostituirla con sussidi alla disoccupazione basati su incentivi a cercare attivamente lavoro. Bisogna ridurre le tasse sul lavoro oggi così alte da rendere difficile per molte imprese fare quel salto di qualità che le renderebbe competitive sul mercato internazionale. Parliamo con chiarezza e credibilità all’Unione Europea chiedendo di permetterci qualche anno di flessibilità sui vincoli fiscali per facilitare queste riforme e le riduzioni graduali di spesa che le devono accompagnare.
Le virtù democristiane di Letta e Alfano hanno evitato al Paese non solo un’incerta campagna elettorale ma anche un’ulteriore deriva delle sue condizioni finanziarie. Nel predisporre la legge di stabilità, l’auspicio è quello che i vecchi vizi della Prima Repubblica non si riproducano nella timidezza a tagliare le spese e nell’arrendevolezza verso lobby e corporazioni. Si è detto che in questi giorni si assiste anche a un’ideale passaggio di testimone fra una generazione e l’altra della politica. Se è vero, ciò dovrebbe avvenire con un deciso cambio di mentalità, una svolta culturale in politica economica che favorisca la competitività e il lavoro dei giovani, la lotta a sprechi e inefficienze, la riduzione sensibile di una tassazione insopportabile. Ci illudiamo? Forse. Il costo di un nuovo fallimento sarebbe molto alto e dimostrerebbe che l’età purtroppo non conta.

06 ottobre 2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Da  – http://www.corriere.it/politica/13_ottobre_06/letta-conti-non-democristiano-3345d0ec-2e57-11e3-9d21-b46496cc2a61.shtmlcorriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #43 inserito:: Novembre 05, 2013, 06:14:04 pm »

L’insostenibile resistenza dello stato

Forza, vendete (e giù le tasse)

Ciò che ci impedisce di ridurre le tasse - aumenteranno di 1,2 miliardi di euro nel 2014 - non è il deficit, ma il debito che continua a crescere. Alla fine dell’anno raggiungerà il 133% del Prodotto interno lordo (Pil), trenta punti in più in un decennio. Nonostante i tassi siano molto bassi, oggi spendiamo 85 miliardi l’anno per gli interessi, il 5,4 per cento del Pil. Ma prima o poi i tassi aumenteranno: sia perché saliranno i tassi americani, sia perché il nostro spread si allargherebbe di nuovo se gli investitori si preoccupassero di un debito troppo elevato. È indispensabile quindi farlo scendere, allontanandoci da una soglia di guardia che preoccupa gli investitori e ci espone al rischio che un giorno i mercati possano rifiutarsi di sottoscrivere i titoli emessi dallo Stato.

Ci sono due modi per ridurre il debito: tassare la ricchezza privata mediante un’imposta patrimoniale (che dovrebbe essere assai elevata per ridurre significativamente il debito), oppure ridurre lo spazio che lo Stato occupa nell’economia privatizzando imprese e vendendo immobili. A noi pare che la seconda sia la strada da seguire dato il vasto spazio che Stato e amministrazioni pubbliche occupano nella nostra economia.

Si era cominciato a farlo negli anni Novanta. Poi, governo dopo governo, sia di centrodestra che di centrosinistra, si è ricaduti in un vecchio errore: illudersi che la «politica industriale», cioè dirigismo e imprese pubbliche, possano produrre crescita. Invece, come si è visto anche recentemente con i casi di Finmeccanica e Alitalia (e come accade ogni giorno in modo meno visibile in migliaia di imprese controllate da Comuni e Regioni) finiscono per generare corruzione e costare miliardi ai contribuenti. Ha ragione quindi il ministro Saccomanni a insistere con le privatizzazioni.

Ma non appena si parla di privatizzare, si levano cori indignati sul «valore strategico» di questa o quell’impresa, su quanto sia essenziale che essa rimanga «italiana». E subito si ricordano i «disastri» delle privatizzazioni del passato. Spesso questi cori servono solo a proteggere una cordata di imprenditori italiani, come quelli che acquistarono Alitalia dopo che lo Stato si era accollato 3 miliardi di debiti e che, trascorsi solo cinque anni, sono falliti una seconda volta. Oppure a non disturbare il connubio tra qualche politico e qualche impresa pubblica.

Guardate invece al Nuovo Pignone: venduto dallo Stato alla General Electric negli anni Novanta, il Pignone è cresciuto diventando un’eccellenza mondiale nel settore delle turbine. Merito di un’azionista intelligente, ma soprattutto di lavoratori e dirigenti di grande valore. Alla General Electric non verrebbe mai in mente di spostare altrove quell’azienda. Sarebbe stato meglio vendere Ansaldo energia alla Doosan, una grande azienda industriale sudcoreana, anziché alla Cassa depositi e prestiti, un ente pubblico che non ha alcuna esperienza nel settore dell’energia. Fra l’altro, questa non è una vera privatizzazione dato che il maggiore azionista della Cassa è lo Stato.

La cessione delle quote che il ministero dell’Economia ancora possiede in Eni, Enel, Terna, Finmeccanica, Fincantieri, Poste Italiane, Sace, ST Microelectronics e Cassa depositi e prestiti produrrebbe circa 60 miliardi di euro. Le Ferrovie da sole, secondo alcune stime, altri 36. A questi si aggiungono le aziende pubbliche locali: Roberto Perotti e Luigi Zingales stimano il loro valore in circa 30 miliardi. Infine vi sono gli immobili, che è però molto difficile valutare e spesso ancor più difficile (ma non impossibile) vendere: secondo alcune stime il loro valore è di circa 300 miliardi. In totale il 6% del Pil dalla cessione di quote azionarie, e fino al 15% dalle cessioni immobiliari.

Si cita spesso Telecom Italia come esempio di una privatizzazione fallita. Ma di chi è stata la colpa? Certamente dei privati, in primis di Roberto Colaninno, che hanno acquistato Telecom a debito e trasferito quei debiti sull’azienda, affossandola. Ma come è potuto accadere? Chi lo consentì?

Il governo di allora, presieduto da Massimo D’Alema, non si chiese quali sarebbero state le conseguenze industriali dell’Opa (Offerta pubblica di acquisto). Avrebbe potuto intervenire, usando il pacchetto di azioni - piccolo ma determinante - ancora possedute dal ministero dell’Economia (perplesso sull’Opa), decise però di non farlo. Fu una scelta non priva di conseguenze (e, a posteriori, di colpe). E comunque per una Telecom finita male c’è un marchio come Pavesi risorto, una Autogrill che, acquistata dalla famiglia Benetton, è diventata il leader mondiale nella ristorazione aeroportuale. La stessa famiglia non ha avuto altrettanto successo con gli Aeroporti di Roma, una società soggetta a forte regolazione pubblica e quindi a influssi politici diretti. Un’esperienza che dimostra come in Italia il rapporto tra privati e una politica regolatrice incapace di svolgere il suo ruolo non funziona.

Se davvero privatizzare è tanto difficile, rimane solo una strada per ridurre il debito: tassare i contribuenti onesti. Intanto i ricchi, preoccupati dalla possibilità che la loro ricchezza venga colpita da una patrimoniale una tantum , l’avranno già nascosta all’estero.

05 novembre 2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_05/forza-vendete-giu-tasse-bbc34dc2-45e1-11e3-9b53-d1d90833aa3d.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #44 inserito:: Dicembre 08, 2013, 10:59:58 pm »

DOMANDE A LETTA, UN presidente timido
Gli impegni vaghi sono colpe reali

Mercoledì Enrico Letta presenterà al Parlamento il programma per la fase 2 del suo governo. Una fase che, con sempre maggior probabilità, durerà almeno un altro anno. A sette mesi dal suo primo discorso alle Camere, impegni vaghi non bastano più. L’intervento del presidente del Consiglio in Parlamento del 29 aprile - con l’importante eccezione della promessa (poi mantenuta) di accelerare il rimborso dei debiti dello Stato verso le imprese private - era di una inaccettabile vaghezza.

Sulle donne Enrico Letta disse: «La maggiore presenza delle donne nella vita economica, sociale e politica dà già straordinari contributi alla crescita del Paese, ma non siamo ancora un Paese delle pari opportunità. Occorre fare molto di più». Cioè? Il governo Monti aveva introdotto una prima differenziazione di genere nell’imposizione fiscale, consentendo alle imprese di dedurre 10.600 euro per ogni donna assunta a tempo indeterminato. Si vuole continuare su questa strada? Se sì come, con quali aliquote, sul reddito delle donne o su quello delle imprese che le assumono? Come verranno tassati i redditi familiari in modo da non scoraggiare il lavoro femminile?

E sulla scuola disse: «Dobbiamo ridare entusiasmo e mezzi idonei agli educatori che in tante classi volgono il disagio in speranza e dobbiamo ridurre il ritardo rispetto all’Europa nelle percentuali di laureati e nella dispersione scolastica» . D’accordo, ma come? Andrea Ichino e Guido Tabellini nell’ebook del Corriere «Liberiamo la scuola» propongono di dare più autonomia ai singoli istituti. Il governo dice di essere d’accordo, ma il ministro Carrozza si muove nella direzione opposta. Ad esempio, pare aver deciso di cambiare strada riguardo alla valutazione delle scuole. Lo ha fatto sfruttando l’opportunità di nominare i cinque esperti del comitato che dovrà selezionare la rosa dei candidati alla presidenza dell’Invalsi, l’Istituto che organizza la valutazione delle scuole. Le persone scelte ritengono che questi test, sebbene normalmente utilizzati in molti altri Paesi, non siano di alcun aiuto nell’individuare eventuali situazioni patologiche nel nostro sistema scolastico, anzi siano dannosi perché figli di una deriva economicistica, quantitativa e irrispettosa delle non misurabili ricchezze spirituali degli individui e della complessità del lavoro di un docente! Sarà un caso, come ha scritto Andrea Ichino sul Corriere del 6 dicembre, ma le idee dei membri che il governo ha scelto per questo comitato sono molto vicine a quelle di quei sindacati che, da un lato, vogliono una scuola pubblica gestita direttamente dallo Stato e, dall’altro, rifiutano il diritto dello stesso Stato di misurare e valutare i risultati della sua gestione.

E, a proposito di scuola, vogliamo riconoscere che, se non si inizia a insegnare ai bambini che copiare è immorale, che farsi fare i compiti da genitori troppo protettivi è altrettanto sbagliato, che seguire le regole deve essere una cosa naturale e automatica, non un optional , non faremo che produrre evasori fiscali? «La società della conoscenza si costruisce sui banchi delle università» . Immaginiamo che il presidente del Consiglio volesse dire «delle buone università». Nel 2013 il Fondo unico per il funzionamento delle università è stato ridotto di 300 milioni, un taglio che verrà probabilmente confermato per il prossimo anno. Da tempo ripetiamo che il problema dei nostri atenei non è la mancanza di fondi pubblici, ma la loro cattiva distribuzione, che differenzia troppo poco fra i dipartimenti eccellenti e quelli mediocri e non meritocratici. Lo strumento per differenziare esiste: è la valutazione effettuata dal ministero lo scorso anno. Ma invece di utilizzarla, il governo si appresta a distribuire il taglio di 300 milioni su tutti, indipendentemente dai risultati. Questo perché si ritiene che anche le università peggiori debbano essere salvate. Pensa il presidente del Consiglio che ce lo possiamo permettere? Che possiamo sacrificare l’università di Padova (la migliore, secondo queste valutazioni) per salvare la peggiore, Messina? Non è forse giunto il momento di dare più autonomia alle università premiando le migliori e costringendo le peggiori a impegnarsi di più, oppure chiudere? Altrimenti, dove sta la meritocrazia tanto sbandierata da Enrico Letta? Se ci vuole più autonomia nelle scuole, a fortiori ci vuole più autonomia nelle università. Finché un professore sessantenne che da vent’anni non fa più ricerca e poco si vede nelle aule è pagato per legge più di un trentenne che potrebbe andarsene nelle migliori università americane, non diventeremo mai una «società della conoscenza». Semmai contribuiremo a costruirla altrove, come sempre più spesso i nostri bravissimi scienziati già fanno.
Expo 2015, la società che dovrà gestire l’Esposizione universale di Milano, grazie a un accordo con i sindacati potrà stipulare 800 contratti di lavoro improntati a una maggiore flessibilità, in deroga alle attuali norme sul lavoro. In un tweet il presidente del Consiglio ha scritto: «Ottima intesa sul lavoro. Expo laboratorio per l’economia» . Si impegna a trasferire quel modello ai contratti nazionali? Che cosa ha in mente di preciso per il mercato del lavoro? Economisti e giuslavoristi come Olivier Blanchard del Fondo monetario internazionale o il nostro Pietro Ichino hanno proposto varie alternative su come coniugare flessibilità e protezione. Quale strada intende adottare?

«Dobbiamo evitare di continuare a mettere la testa sotto la sabbia come struzzi e riconoscere che il divario tra Nord e Sud del Paese è non un accidente storico o una condanna, ma il prodotto di decenni di inadempienze da parte delle classi dirigenti nazionali e locali» . Quali proposte? Vogliamo riconoscere che il problema del Mezzogiorno deriva da decenni di assistenzialismo che ha sostituito l’impiego pubblico all’iniziativa privata? Abbia il coraggio di dire che quello del Sud non è un problema di risorse (anche quelle già stanziate spesso non vengono spese). Per ricostruire il Mezzogiorno, perché di questo si tratta, si deve ripartire dal rispetto delle regole, cominciando dalla classe dirigente. Il controllo del territorio è una delle prime e decisive condizioni per far ripartire investimenti e sviluppo. Lo spiegano con grande coraggio Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella in «Se muore il Sud».

Il governo ha nominato un commissario alla Revisione della spesa pubblica, Carlo Cottarelli, con una pluriennale esperienza al Fondo monetario internazionale, proprio nel campo dei conti pubblici. Ottima scelta. Ma nessuna impresa assumerebbe un dirigente senza assegnargli traguardi precisi. Il documento di indirizzo del governo pone un obiettivo di risparmio pari ad almeno due punti di Pil (circa 32 miliardi) entro il 2016, con tagli significativi anche nel 2014 e 2015. Che significa? Qual è l’ammontare dei tagli che il commissario deve realizzare nel 2014 e nel 2015? E il governo si impegna a sostenere le proposte del commissario? E a impiegare ogni euro risparmiato per ridurre la pressione fiscale? Di che strumenti dispone il commissario per realizzare questi tagli? Altrimenti, il suo sarà un esercizio accademico destinato, come i precedenti, a rimanere lettera morta. Le revisioni della spesa erano iniziate nel 2006 con il ministro Padoa-Schioppa, sono continuate nel governo Monti, ora ne abbiamo un’altra. Ma, appena si parla di tagliare qualcosa, ecco un’alzata di scudi che spesso parte dalla burocrazia, se non da membri dello stesso governo. Ci permettiamo un suggerimento al presidente del Consiglio: cominci a tagliare i costi della politica per dare un segnale di serietà. Il professor Roberto Perotti su www.lavoce.info stima i possibili risparmi in 2 miliardi e mezzo di euro. Se anche fossero meno, si dia un segnale forte. Perché altrimenti qualunque lobby toccata dai tagli alla spesa potrà dire in sua difesa: «Perché non si comincia dalla lobby dei politici»?

E a proposito di dirigenti e manager pubblici o comunque designati dal governo, vogliamo identificarli sulla base delle loro capacità tecniche e della loro imparzialità? Si impegna il presidente del Consiglio a rivolgersi, per ogni nomina, a società internazionali di «cacciatori di teste», rendendo pubbliche le procedure?

Il premier Letta parla spesso di crescita ed equità. Come intende riformare il sistema fiscale per raggiungere questo obiettivo? Ad esempio, confermerà la Tobin tax, un’imposta su alcune transazioni finanziarie e che produce poco reddito con l’unico effetto di dirottare attività finanziarie a Londra, riducendo opportunità di impiego e crescita, come sta accadendo in Francia? Vogliamo chiarire una volta per tutte come verranno tassati gli immobili?

Riguardo all’equità, come vogliamo riformare il nostro sistema di sicurezza sociale in modo che promuova al tempo stesso flessibilità nel mercato del lavoro e protezione per chi lo ha perso? È pronto, il presidente del Consiglio, a sostituire la cassa integrazione - che difende i posti di lavoro, anche se in imprese improduttive - con sussidi di disoccupazione che proteggono i lavoratori, come accade quasi ovunque nel mondo?

Che cosa pensa di fare il governo per la giustizia? Come intende ridurre i suoi tempi? Esistono vari studi, ad esempio di Daniela Marchesi e Andrea Ichino, che illustrano riforme a costo zero che riorganizzando il lavoro dei giudici accelererebbero significativamente i tempi di giudizio.
L’Italia è in prima linea sull’immigrazione. Quest’ultima fa bene se non è clandestina e se si accolgono persone con elevato capitale umano. Molti Paesi, ad esempio Stati Uniti, Canada, Nuova Zelanda, Australia, hanno beneficiato enormemente di un’immigrazione ad alto capitale umano. Noi, invece di importarlo, lo esportiamo.

Mercoledì Enrico Letta ci deve dare numeri, proposte precise, indicazioni concrete su quali norme varerà e come eviterà che esse si arenino nella palude istituzionale di Parlamento e burocrazia. E a proposito di concretezza gli suggeriamo dieci argomenti di riflessione.
- Come intende ridurre i costi della politica, dal primo gennaio, non fra tre anni? (In giugno promise che lo avrebbe fatto entro sei mesi: scadono fra tre settimane).
- Con quali mezzi combatterà l’evasione fiscale? Si impegna a tradurre ogni euro recuperato dall’evasione in riduzioni di aliquote dei contribuenti onesti?
- Continuerà ad usare il fisco per favorire il lavoro femminile?
- Si impegna a riconoscere che quello dell’Invalsi è stato un passo falso e conferma la strada della valutazione, utilizzandola per introdurre premi e penalità per scuole, università e insegnanti?
- Quali sono gli obiettivi numerici per i tagli di spesa da attuare nel 2014 e 2015?
- In che modo intende tassare gli immobili?
- Confermerà la Tobin tax ? A quanto stima il gettito di questa imposta?
- Quali aziende pubbliche, nazionali o locali, intende privatizzare? Con quali procedure?
- Come pensa di riformare il mercato del lavoro?
- Quali politiche intende seguire per l’immigrazione?
Enrico Letta deve assumere impegni precisi, che consentano agli elettori, fra uno o due anni, di poter valutare il suo governo. Nessuno pretende infallibilità. Ma nel momento in cui il presidente del Consiglio chiede agli italiani più meritocrazia, anche lui deve poter essere valutato. Meglio un governo che raggiunge la metà degli obiettivi che si è posto di uno che obiettivi non ne ha e quindi può dichiararsi comunque vincitore.

08 dicembre 2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALBERTO ALESINA e FRANCESCO GIAVAZZI

da corriere.it
Registrato
Pagine: 1 2 [3] 4 5 6
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!