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Autore Discussione: Alberto ALESINA -  (Letto 39943 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Aprile 11, 2012, 06:59:07 pm »

BASSA CRESCITA E ALTA TASSAZIONE

Ora date un taglio alle troppe spese


Il quarto trimestre del 2011 è stato molto negativo per l'economia italiana: il reddito si è contratto dello 0,7% rispetto al trimestre precedente. In un anno la spesa delle famiglie è scesa di oltre un punto, gli investimenti delle aziende di oltre 3. È assai probabile che il primo trimestre del 2012 sia andato ancor peggio. Lo sapremo fra circa un mese, ma non è il caso di farsi illusioni. E bisogna agire d'anticipo anche perché, dopo qualche mese di calma, il costo del debito ha ricominciato a salire: dal 4,8 di un mese fa al 5,6 di ieri per i Btp decennali.

Se la crescita continuasse a essere in rosso è quasi certo che mancheremo l'obiettivo di ridurre il rapporto tra deficit e Prodotto interno lordo (Pil), dato che il denominatore, il Pil appunto, scenderà. Come è successo con la Spagna, l'Unione Europea ci chiederà di fare qualcosa per riavvicinarci agli obiettivi di bilancio per il 2012 e 2013.

A quel punto, come reagirà il governo Monti? La risposta più semplice è anche quella sbagliata: non far nulla. Dal primo ottobre aumenteranno le due aliquote principali dell'Iva, rispettivamente dal 10 al 12 per cento e dal 21 al 23. Gli aumenti avverranno in modo automatico, per effetto di un provvedimento varato a suo tempo dal ministro Tremonti, che questo governo non ha cancellato.

Questa soluzione colpirebbe ulteriormente famiglie e imprese che già soffrono, non solo per il peso fiscale, ma anche per l'incertezza sul futuro delle aliquote. Quanto dovremo pagare per l'Imu? Ancora non si sa, e anche questo non aiuta a pianificare consumi e investimenti, sia italiani sia esteri.

Un'alternativa sarebbe stata dare un impulso alla crescita, cosa non facile, ce ne rendiamo conto, ma che purtroppo non è accaduta. La riforma del mercato del lavoro, così come concepita originariamente, andava nella direzione giusta. Ma ha perso efficacia prima ancora di approdare in Parlamento (ad esempio, non si applica ai lavoratori pubblici) e probabilmente ne uscirà (se uscirà) ulteriormente annacquata, come è accaduto ai provvedimenti sulle liberalizzazioni. Immaginatevi cosa sceglierà di fare un imprenditore estero che stesse valutando l'apertura di un'azienda in Italia sapendo che potrebbe essere non lui, ma un giudice a decidere in che modo gestire i suoi dipendenti.

L'unica carta che rimane da giocare è quella della « spending review », l'analisi, una per una, delle spese delle amministrazioni pubbliche per decidere dove si può tagliare. È un lavoro che il governo Monti ha giustamente iniziato dal primo giorno, ma del quale non si vede ancora il risultato. Non c'è dubbio che la spending review sia un'idea migliore dei tagli lineari tentati dall'ex ministro Tremonti. Tagli uguali per tutti evitano di dover concertare con questo o quel ministro, con questa o quella categoria, con questa o quella lobby. Ma è un modo inefficiente e ottuso di ridurre la spesa, perché non distingue fra uscite inutili e spese necessarie.

Il rischio, però, è che la spending review , addentrandosi nei meandri del bilancio, finisca per concludere che ogni spesa è necessaria perché c'è una lobby che la difende, come ad esempio i circa 30 miliardi di euro che ogni anno lo Stato paga a imprese pubbliche e private per i motivi più svariati. Se l'alternativa è non far nulla, meglio allora tagli lineari.

Il tempo stringe. L'essenziale è che nelle prossime (poche) settimane il governo spieghi che cosa e come intende ridurre il peso dello Stato sull'economia. Non ci sono scappatoie. Pensare che sia con la spesa pubblica (come suggeriva ieri il Financial Times ) che si riprende a crescere è un errore grave. Il governo deve fare l'esatto contrario. Dare a consumatori e imprenditori un messaggio chiaro: le tasse non aumenteranno perché le spese scendono. Senza queste certezze, consumi e investimenti continueranno a rallentare. E il mondo a guardarci con rinnovata preoccupazione.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

11 aprile 2012 | 8:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_11/ora-date-un-taglio-alle-troppe-spese-alberto-alesina-e-francesco-giavazzi_72cc6014-8395-11e1-8bd9-25a08dbe0046.shtml
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« Risposta #16 inserito:: Maggio 03, 2012, 07:24:14 pm »

LA DIFFICILE RIDUZIONE DELLE SPESE

Buone intenzioni e acqua fresca

La spending review , e cioè l'analisi e revisione della spesa pubblica, ha partorito un timido topolino, un risultato quasi imbarazzante per il governo.

La spesa (escludendo interessi sul debito, pensioni e sussidi ai meno abbienti) ammontava lo scorso anno al 23,5 per cento del reddito nazionale (Pil). Con sussidi e pensioni la spesa sale al 45,6 per cento; con gli interessi raggiunge la metà dell'intero reddito nazionale. Meno che in Francia e Danimarca, ma solo un punto e mezzo meno che in Svezia, dove i servizi offerti dallo Stato alle famiglie sono di qualità un po' diversa dalla nostra.

In poche settimane dopo il suo insediamento, il governo Monti ha alzato la pressione fiscale di tre punti, dal 42,5 al 45,4% del Pil (era il 40% sette anni fa). Sulla spesa invece non ha fatto quasi nulla, tranne gli interventi sulle pensioni, certo importanti, ma i cui effetti si verificheranno in modo graduale nei prossimi anni. I tetti agli stipendi più elevati dei dirigenti pubblici, la cancellazione della maggior parte dei voli di Stato, i limiti all'uso delle auto di servizio, la rinuncia al compenso per alcuni membri del governo, hanno un significato etico assai importante, ma nessun effetto macroeconomico.

La spending review parte dall'ipotesi che sia «rivedibile» solo la spesa che non riguarda i trasferimenti sociali: ma se non si rimette mano in qualche modo anche al nostro stato sociale, rendendolo più efficace nel contrastare la povertà, anziché disperdersi in sussidi alle classi medie (si pensi all'università) non si fanno passi avanti. Su questa materia sarebbe utile rileggere il rapporto della Commissione Onofri scritto oltre un decennio fa.

In realtà è ancor peggio. Secondo la spending review annunciata lunedì dal governo, non solo la spesa previdenziale non è rivedibile, ma in tempi ravvicinati non lo sono neppure i tre quarti di quella non previdenziale: e all'interno di questa non più di 80 miliardi, ossia il 5% del Pil. A fronte di una spesa che raggiunge il 50% del Pil ed è in gran parte evidentemente inefficiente, l'obiettivo è di «rivederne» (si evita accuratamente di usare il verbo «ridurre») non più di un decimo, e questo in un Paese in cui i contribuenti onesti sono soffocati dalla pressione fiscale. E ciò senza indicare nulla di concreto. In quel 5% ad esempio non pare rientri l'abolizione delle Province: si pensa di «concentrare in alcune Province poche funzioni operative di larga scala»: un modo sicuro per finire con non abolirne nessuna. Nemmeno la loro eliminazione produrrebbe effetti macroeconomici forti, ma è deludente che perfino su questa decisione il governo sembri aver fatto un passo indietro («Il riordino delle competenze delle Province può essere disposto con legge ordinaria..., consentendone la completa eliminazione, così come prevedono gli impegni presi con l'Europa», aveva detto il presidente del Consiglio presentando il suo programma in Parlamento).

Il governo sembra non rendersi conto che l'Italia rischia di avvitarsi in una spirale di tasse, recessione, deficit e ancor più tasse. Purtroppo i dati sulla crescita del primo trimestre potrebbero essere una brutta sorpresa per i mercati.

Ma soprattutto il governo non sembra aver riflettuto con sufficiente attenzione all'evidenza storica, dalla quale si possono trarre due lezioni: 1) le correzioni dei conti pubblici che funzionano sono quelle che riducono le spese, aprendo così la strada a riduzioni del carico fiscale; 2) tanto meglio funzionano quanto più sono accompagnate da riforme che stimolino la crescita. Invece il presidente del Consiglio ripete che non può escludere un aumento dell'Iva. Non ci siamo proprio.


Ps: ad uno di noi (Giavazzi) il presidente del Consiglio ha chiesto di scrivere un rapporto su un aspetto emblematico della spesa: i trasferimenti dello Stato alle imprese. Poiché non abbiamo risparmiato critiche al suo governo, questo dimostra che Mario Monti è una persona pronta ad ascoltare anche chi lo critica, tratto non comune in Italia.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

3 maggio 2012 | 7:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_03/giavazzi-buone-intenzioni-acqua-fresca-alesina_42d9e1ca-94dd-11e1-ad93-f55072257a20.shtml
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« Risposta #17 inserito:: Maggio 24, 2012, 10:41:40 am »

UNA VIGILANZA BANCARIA EUROPEA

Il salvagente del risparmio


La riunione di questa sera dei capi di Stato e di governo europei potrebbe segnare la svolta nella lunga crisi dell’euro. Non siamo mai stati tanto vicini al rischio concreto di una disintegrazione dell’unione monetaria. Il meccanismo che oggi potrebbe farla implodere è una «corsa alle banche», cioè la perdita di fiducia da parte dei cittadini, con il conseguente ritiro dei loro depositi. Sta accadendo in Grecia; potrebbe accadere in Spagna. Se il panico si estendesse sarebbe la fine dell’euro. Per evitarlo sono necessarie due cose. Nell’immediato bisogna evitare il rischio di una corsa agli sportelli. Serve una garanzia europea sui depositi bancari che dia ai depositanti la certezza che i loro risparmi (almeno fino a un certo limite, diciamo 100 mila euro) sono al sicuro. Un’assicurazione di questo tipo già esiste, come in Italia dove la copertura è appunto di 100 mila euro. Ma si tratta, finora, di garanzie nazionali, il cui valore dipende dalla condizione dei conti pubblici di ciascun Paese.

Se il debito è elevato, la garanzia potrebbe non valere molto ed essere insufficiente ad evitare una corsa agli sportelli. È quindi necessario aggiungere, alle garanzie nazionali, un’assicurazione europea. «Europea» in questo caso significa tedesca, l’unico grande Paese dell’unione che ha mantenuto intatta la fiducia dei risparmiatori e dei mercati. Ma per convincere la Germania a correre questo rischio è necessario che la vigilanza sulle banche divenga essa pure europea. Il fiasco della Spagna, che troppo a lungo ha negato che molte sue banche fossero sostanzialmente fallite, rende il trasferimento della vigilanza alla Bce non più procrastinabile. Ma l’opposizione alla vigilanza europea è forte perché riduce il controllo che i governi oggi esercitano (nel bene e nel male) sul sistema finanziario. Queste gelosie nazionali non sono più accettabili. Evitare una corsa alle banche allontana il rischio di una disgregazione immediata, ma non è certo sufficiente.
L’euro non si salva se l’Europa non riprende a crescere. Per farlo, dobbiamo cominciare con l’ammettere che il nostro modello sociale non è più sostenibile. Non si può crescere con livelli di spesa pubblica (e quindi di tassazione) che superano la metà del reddito nazionale.
Non possiamo più permetterci (come invece potevamo negli anni Sessanta, quando questo modello fu disegnato) di fornire sevizi gratuiti o quasi a tutti i cittadini, praticamente senza distinzione di reddito.

Non possiamo più permetterci di lavorare in pochi per sostenere i tanti che non partecipano alla forza lavoro (ad esempio c’è un divario di oltre 10 punti fra il tasso di partecipazione negli Usa e in Italia). Di fronte a questa realtà di portata epocale, l’idea che per far crescere l’Europa servano più infrastrutture fisiche è sinceramente risibile. La scarsità di strade, treni e aeroporti non è il primo problema
dell’Europa. I nostri politici parlano di infrastrutture perché è un modo per non parlare dei veri problemi: il peso dello Stato sull’economia, le difficili riforme del mercato del lavoro e dei servizi. È venuto il momento che i leader europei si chiedano se davvero vogliono salvare
l’euro. Se lo vogliono, è giunta l’ora che facciano qualcosa, ma, per favore, non ferrovie e autostrade.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

23 maggio 2012 | 8:00© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_23/editoriale-salvagente-risparmio-alesina-giavazzi_2f80933e-a49c-11e1-80d8-8b8b2210c662.shtml
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« Risposta #18 inserito:: Giugno 06, 2012, 04:44:25 pm »

LE FALSE PRIORITÀ DEL PAESE

La direzione è sbagliata

Sono giorni cruciali per l’euro e per l’Europa. Mario Monti è al centro delle discussioni in cui sono impegnati i leader europei e questo ruolo contribuisce a ridare prestigio al nostro Paese. Ma la riguadagnata reputazione internazionale non sopravvivrebbe alla percezione che lo sforzo riformatore del suo governo rischi il fallimento. Già molti osservatori sono rimasti perplessi per i passi indietro compiuti sulle liberalizzazioni e sulla riforma del mercato del lavoro. Ora si chiedono in che direzione si muoverà il governo Monti. A noi pare si vada in quella sbagliata.

Il provvedimento più importante che il governo si appresta a varare riguarda le infrastrutture fisiche. Lo abbiamo detto più volte, ma è bene ripeterlo: non è questa la priorità dell’Italia. Che beneficio arreca a un’impresa risparmiare mezz’ora fra Civitavecchia e Grosseto se poi deve attendere dieci anni per la risoluzione di una causa civile, due per sapere da un giudice se dovrà reintegrare sul posto di lavoro un dipendente che aveva licenziato, oltre un anno per essere pagata da un’amministrazione pubblica?

A un Paese post industriale come l’Italia non servono più infrastrutture fisiche. Servono infrastrutture di altro tipo: una giustizia veloce, certezza del diritto, regolamenti snelli, un’amministrazione pubblica che faccia il suo dovere e non imponga costi enormi a cittadini e imprese, un’università che produca buon capitale umano e buona ricerca, e una lotta efficace alla criminalità organizzata. Certo, più strade non impediscono di riformare la giustizia, l’amministrazione pubblica o il mercato del lavoro. Ma in realtà quando i politici progettano infrastrutture lo fanno perché non sanno che cosa altro fare, bloccati dai mille vincoli che impediscono le vere riforme. Più facile costruire strade e ferrovie aumentando le tasse, che fare quelle riforme a costo zero che però toccano lobby potenti. Purtroppo non è ubriacandoci di asfalto e traverse ferroviarie che il Paese ricomincerà a crescere. Senza contare che con tassi sul debito pubblico al 6 per cento non è certo un buon momento per indebitarsi.

Il governo pare si appresti a varare un provvedimento per favorire il merito. Si concederanno benefici fiscali alle imprese che assumono i «primi della classe». Perché mai? Vogliamo premiare gli imprenditori solo perché fanno il loro interesse, assumendo i migliori? Si dice che questo permetta più informazione sul merito dei laureandi: ma basterebbe obbligare tutte le università a pubblicare sui loro siti i voti degli studenti e la valutazione dei professori che hanno dato loro quei voti.

Pare poi che il ministro dell’Università, Francesco Profumo, voglia mettere mano con vari ritocchi alla riforma Gelmini.
Si rischia, fra l’altro, di smontare gli incentivi introdotti da quella legge, ponendo un limite a quanti fondi pubblici un ateneo può perdere se risulta fra i peggiori: l’opposto di ciò che si dovrebbe fare. Finché le università non pagheranno di persona per le scelte non meritocratiche che effettuano, ma saranno sempre e comunque salvate dal contribuente, non c’è ritocco che quadri il cerchio.

Ciò che il governo oggi sta discutendo ci pare, purtroppo, molto più simile alla vecchia politica che alla ventata innovatrice che respirammo per qualche settimana lo scorso novembre.

Alberto Alesina
Francesco Giavazzi

6 giugno 2012 | 7:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_06/false-priorita-del-paese-alberto-alesina-francesco-giavazzi_329c7306-af98-11e1-8359-3661d1b45fc6.shtml
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« Risposta #19 inserito:: Luglio 08, 2012, 10:37:57 pm »

I COSTI DELLO STATO SOCIALE

Scomode verità, residue illusioni

Alla fine degli anni Novanta, dopo lo sforzo fatto per entrare nell'unione monetaria, la spesa delle nostre amministrazioni pubbliche (senza contare gli interessi sul debito) era scesa sotto il 40 per cento del reddito nazionale: 39,8%. Negli anni successivi, fra il 2001 e il 2006 (secondo governo Berlusconi), risalì al 44%, due punti sopra il livello degli anni Ottanta, durante i governi di coalizione fra democristiani e socialisti, quando il nostro debito pubblico cominciò a crescere rapidamente. Lo scorso anno aveva superato il 45%.

In passato i tentativi di ridurre la spesa non duravano nel tempo perché attuati con misure una tantum , oppure con tagli «lineari», cioè uguali per tutti, che tagliando nella stessa misura spese inefficienti ed efficienti si rivelavano nel tempo insostenibili. Il merito del governo Monti è di essere entrato nel dettaglio, aver avuto il coraggio di decidere quali spese tagliare, indicandole «con nome e cognome», ad esempio la chiusura di 37 tribunali e 220 sedi distaccate. La proliferazione delle sedi giudiziarie era stata da tempo indicata come una delle ragioni per la lentezza e i costi, soprattutto della giustizia civile, ma finora nessuno aveva avuto il coraggio di opporsi alle lobby che difendono i loro piccoli monopoli locali. Questo è stato possibile anche perché il governo ha informato, ma non ha «concertato», le sue decisioni. La scelta di Mario Monti di affidare queste proposte a Enrico Bondi, un manager lontano dalla politica ed esperto di ristrutturazioni aziendali, si è rivelata vincente. I tagli alla spesa sono un passo che si è fatto attendere un po' a lungo, ma che ora si aggiunge ai risparmi sulle pensioni decisi a Natale.

Vanno però dette alcune verità scomode. Primo: non è pensabile che si possa ridurre in modo significativo la spesa solo riducendo gli sprechi. È ovvio, ad esempio, che il governo deve tagliare i costi della politica in modo drastico, come indicano le misure sulle Province, non solo per un senso di equità e di etica, ma perché altrimenti fra poco vi sarà la rivolta dei cittadini. Ma purtroppo non basta. La dimensione dei tagli necessari affinché si possa poi abbassare la pressione fiscale significherà meno servizi ad alcuni cittadini. Negli anni lo Stato sociale italiano si è disperso in mille direzioni. Fornisce servizi senza distinzione di reddito a classi medie e medio alte, il più delle volte non riuscendo a proteggere i veri deboli. Bisogna riformarlo, rendendolo più snello e più efficiente. Si può fare, e nel lontano 1997 la commissione Onofri (primo governo Prodi) aveva spiegato come. Se solo si fosse incominciato allora!

Secondo: bisogna resistere alla tentazione di usare i risparmi ottenuti riducendo una spesa per finanziarne un'altra, anche se qualcuno pensa che così si aiuterebbe la crescita. Ad esempio tagliare i tribunali per costruire nuove infrastrutture. Innanzitutto non è detto che così si aiuterebbe la crescita: e comunque l'unica strada per uscire dalla stagnazione in cui ci siamo avvitati è abbassare la pressione fiscale, incominciando dalle tasse che gravano sul lavoro. Evitare aumenti dell'Iva è meritorio ma non basta. La dimensione dei tagli deve essere sufficiente per consentire di abbassare la pressione fiscale (e bene ha fatto Mario Monti a dire che questo è solo un primo passo). Terzo: il governo deve prepararsi a una dura battaglia parlamentare. Non deve ripetersi ciò che è accaduto con il decreto legge sulle liberalizzazioni, quando un ottimo testo del governo è stato snaturato dal Parlamento. La cartina di tornasole sarà la tenuta dell'elenco delle Province e dei tribunali cancellati. Le dichiarazioni di politici e sindacalisti in queste ore mostrano che non sarà un compito facile.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

8 luglio 2012 | 9:19© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #20 inserito:: Luglio 23, 2012, 04:34:14 pm »

CINQUE ANNI DI FOLLIE FINANZIARIE

A che punto è la notte

Il fondo salva-Stati non risolverà i problemi

Serve un’unione politica irreversibile

Era il luglio di cinque anni fa quando si avvertirono i primi scricchiolii in alcune banche americane, francesi e tedesche. Da allora abbiamo vissuto la più forte recessione dagli anni Trenta, la crescita è rallentata, e trovare un lavoro è diventato difficile dovunque. Questa crisi ci ha insegnato alcune verità.

Primo: le crisi finanziarie, soprattutto quelle scatenate da aumenti ingiustificati nei prezzi delle abitazioni producono, quando la bolla poi scoppia, recessioni molto lunghe. Le banche, dopo aver concesso mutui con grande leggerezza, senza chiedersi se il cliente debitore sarebbe stato in grado di sostenere le rate, subiscono perdite ingenti e devono ricapitalizzarsi. Ma a quel punto trovare capitali privati non è facile, e se interviene lo Stato, il debito pubblico esplode, come è accaduto in Stati Uniti, Irlanda e Spagna. Così il credito non riprende e l’economia ristagna a lungo. Lo abbiamo imparato dal libro di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, Questa volta è diverso. Otto secoli di follia finanziaria (Il Saggiatore, 2010) lettura consigliata per l’estate. Il titolo è volutamente ironico: questa volta «non» è diverso, la storia è piena di crisi finanziarie seguite da lunghe recessioni. Il Giappone è solo l’esempio più recente: non si è mai davvero ripreso dagli effetti della bolla immobiliare scoppiata nel 1989, e il debito pubblico ha raggiunto il 200 per cento del reddito nazionale. I due grafici visibiliqui illustrano in modo chiaro la durata di queste crisi e il ciclo del credito prima e dopo la crisi.

Secondo: occorre abbandonare l’illusione che per riprendere a crescere basti un po’ di spesa pubblica. Per vent’anni il Giappone le ha provate tutte: porti, metropolitane, alta velocità: il debito pubblico si è triplicato, ma la crescita non è mai arrivata. E anche il programma fiscale di Obama, se forse ha attenuato la recessione americana, certo non è riuscito a ridurre la disoccupazione e a far ripartire velocemente l’economia. E nel frattempo anche gli Stati Uniti hanno accumulato livelli di debito molto onerosi. Sono ancora Reinhart e Rogoff a mostrare che quando il debito pubblico sale oltre certi livelli diventa un macigno che rallenta a lungo la crescita.

Terzo: per risanare il sistema finanziario bisogna separare le banche dalla politica. In entrambe le direzioni: riducendo il potere dei politici sul sistema finanziario e l’influenza dei banchieri sui governi. Non è un caso che la prima banca che cinque anni fa entrò in difficoltà, fosse una cassa di risparmio pubblica tedesca: la IKB Deutsche Industriebank di Düsseldorf. Fallì perché concedeva prestiti a condizioni non di mercato alle imprese amiche dei politici suoi azionisti e per far tornare i conti acquistava mutui immobiliari, apparentemente molto redditizi, in Florida e Nevada, i due Stati in cui la bolla immobiliare americana fu più acuta. Una vicenda analoga a quella delle Caixas spagnole: se il governo di Madrid non le avesse protette fino all’ultimo, negando che fossero tutte fallite, forse oggi la Spagna sarebbe in una situazione meno drammatica. Oggi le banche pubbliche tedesche si oppongono con forza al trasferimento dei poteri di vigilanza alla Banca centrale europea: temono occhi indipendenti con cui sarebbe difficile venire a patti. Se l’avessero vinta, l’unione bancaria non vedrebbe la luce e l’euro avrebbe i giorni contati. Ma l’indipendenza deve essere anche nel senso contrario. Nella vicenda del Libor, il tasso interbancario londinese, i rapporti fra la Banca d’Inghilterra e i dirigenti di Barclays sono parsi a volte eccessivamente confidenziali. Esercitare moral suasion è il mestiere più difficile di un banchiere centrale, un’arte che richiede discrezione, ma che non deve mai lasciar dubbi sull’indipendenza dell’autorità preposta a vigilare sulle banche. Negli Stati Uniti le riforme proposte dall’ex presidente della Federal Reserve, Paul Volcker, che vietano alle banche commerciali di intraprendere attività speculative, rimangono in gran parte inapplicate, per l’influenza che Wall Street continua a esercitare su Washington. La riforma Dodd-Frank è un complicatissimo pasticcio entro i cui meandri certe pratiche oscure potrebbero continuare.

Quarto: la crisi ha dimostrato la fragilità del progetto europeo. Finché tutto andava bene le fondamenta tenevano. Da quando è scoppiata la crisi, la costruzione traballa pericolosamente. Ma invece di trovare una soluzione, i politici europei non fanno che accusarsi tra loro ritardando gli interventi necessari. È ormai chiaro che l’euro non si salverà con scorciatoie e tappabuchi come gli eurobonds o i fondi salva-Stato. Affidare il salvataggio dell’euro alla speranza che le «formiche del Nord» salvino «le cicale del Sud» socializzando i loro debiti è ingiusto, politicamente impossibile, ma soprattutto non servirebbe a nulla. Un salvataggio senza una maggiore integrazione politico- economica dell’eurozona avrebbe solo l’effetto di dare alle cicale la possibilità di rimandare riforme già troppo a lungo procrastinate. Dopo di che le tensioni tra Sud e Nord riesploderebbero con più forza. L’euro si salva (se si vuol farlo) con un piano coerente di medio termine di integrazione bancaria, fiscale e politica dell’eurozona. Ciò non significa gli Stati Uniti d’Europa, ma un’architettura coerente che permetta all’unione monetaria di funzionare. Una prima decisione, dopo aver affidato la vigilanza bancaria alla Bce, potrebbe essere un primo passo nel trasferimento della sovranità sui propri conti pubblici. Ad esempio si potrebbe decidere (seguendo una proposta che è stata avanzata in Germania) che se un Paese non rispetta gli obiettivi sui conti pubblici, la nuova legge finanziaria che si renderà necessaria (incluse le riforme indispensabili per renderla credibile) non sarà scritta dal governo di quel Paese, ma dalla Commissione di Bruxelles, e non sarà votata dal suo Parlamento, ma dal Parlamento europeo (una proposta che dovrebbe però essere accompagnata da un rafforzamento della credibilità dell’istituzione di Strasburgo). A fronte di una simile decisione la Germania e gli altri Paesi del Nord potrebbero decidere che si è fatto un passo sufficientemente irreversibile verso l’unione politica da giustificare interventi atti a garantire che il sistema non esploda prima di raggiungere il traguardo finale. Per esempio concedere una licenza bancaria allo European stability mechanism (Esm), cioè consentire che la nuova istituzione europea abbia accesso alla liquidità della Bce, condizione necessaria affinché la quantità di eventuali acquisti di titoli pubblici sia sufficiente a renderli credibili. Oppure creare, sempre attraverso l’Esm, una garanzia europea sui depositi bancari (analogamente a quanto avvenne negli Stati Uniti durante la Grande depressione) cioè l’impegno, qualunque cosa accada, a rimborsarli in euro. È ciò che Angela Merkel ripete da tempo: siamo pronti a correre dei rischi, ma solo a fronte di progressi concreti nel trasferimento di sovranità.

Quinto: i compiti a casa dobbiamo continuare a farli, non solo quando lo spread sale. Accusare i tedeschi per le mancanze della nostra storia recente è puerile. Gli italiani non si sono ancora ben resi conto di quanto complessi debbano essere questi compiti. Ci si illude se si pensa che basti «ridurre gli sprechi». Serve ben altro: occorre ripensare a quello che il nostro Stato può e non può fare. Bisogna evitare che di servizi pubblici di fatto gratuiti beneficino anche i ricchi, e non solo le famiglie indigenti. Occorre ridurre le tasse che gravano su chi lavora e produce. È molto difficile crescere con un debito pubblico che supera il 100% del Pil e un peso fiscale che per i contribuenti onesti è tra i più alti al mondo. Serve una «rivoluzione » del nostro Stato sociale, non solo ritocchi. La Germania ha iniziato a farlo dieci anni fa, e ora ne trae i benefici.

Sesto: la giustizia sociale va garantita creando il più possibile pari opportunità per tutti. Una delle ragioni dell’incremento della disuguaglianza che ha preceduto la crisi è stata la crescita del premio retributivo per chi ha accumulato capitale umano, cioè ha studiato. L’investimento in formazione ha reso di più e favorito chi poteva permetterselo. Non demonizzare la ricchezza quindi, ma offrire a tutti la possibilità di acquisire gli strumenti necessari. Premiare il merito, punire le rendite di posizione, scardinare i privilegi, rendere il mercato più equo, colpire l’evasione. Seconda lettura per l’estate: Luigi Zingales, A capitalism for the people, New York, Basic Books 2012.

Il tempo sta per scadere. Come scrisse Rudi Dornbusch, uno degli economisti più lucidi del Novecento: «Le crisi spesso durano molto più a lungo di quanto si pensi. Ma poi svoltano e si avvitano in un baleno. Ci vogliono dei mesi, ma poi basta una notte».

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

22 luglio 2012 | 9:23© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_22/a%20che-punto-e-la-notte-alesina-giavazzi_1e25e5ea-d3c6-11e1-83bd-0877fdcd1621.shtml
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« Risposta #21 inserito:: Agosto 01, 2012, 07:49:13 pm »

FARCELA DA SOLI SI PUÒ

Il paracadute di Francoforte

La crescita sta di nuovo rallentando un po' dovunque. Negli Stati Uniti dal 3,8% del 2010, al 2,3 del 2011, all'1,5 nel secondo trimestre di quest'anno. Anche Cina e Brasile frenano, seppur continuino a crescere a tassi elevati. I dati europei saranno pubblicati la prossima settimana: nonostante le grandi differenze fra il Nord e il Sud dell'Europa, temiamo saranno deludenti. Le ultime previsioni per l'Italia indicano che quest'anno perderemo oltre due punti di reddito. Compito delle banche centrali è attenuare queste fluttuazioni. Lo possono fare riducendo i tassi di interesse ai quali prestano denaro alle banche. Quando i tassi, come accade oggi, sono vicini a zero, possono cercare altri modi per far affluire credito alle imprese: ad esempio finanziandole direttamente senza l'intermediazione del sistema bancario, oppure facendo pagare un costo alle banche se esse decidono di depositare la loro liquidità presso la banca centrale anziché usarla per dare credito a famiglie e imprese.

La Federal Reserve annuncerà qualcosa di simile oggi e probabilmente l'istituzione di Francoforte la seguirà. Ma il compito delle banche centrali si ferma qui. Sarebbe un errore se esse si sostituissero ai governi acquistando titoli pubblici per motivi di bilancio. Politica di bilancio e politica monetaria devono restare separate. I nostri spread sono tanto elevati perché gli investitori internazionali che acquistano titoli pubblici italiani sono preoccupati. Pensano che il nostro modello sociale non sia più sostenibile perché richiede una pressione fiscale che è diventata incompatibile con la crescita. Se questo è il dubbio, qualche acquisto da parte della Bce non basta a risolverlo.
Una via d'uscita vi sarebbe: riacquistarci tutto il debito. In teoria l'Italia potrebbe farlo perché ha ricchezza privata in abbondanza, la Spagna no. In parte sta già accadendo: in pochi mesi la quota di debito italiano detenuta da investitori internazionali è scesa dal 60 a meno del 37%. Potremmo addirittura obbligare famiglie e banche a vendere titoli esteri e acquistare Btp a tassi regolamentati, come accadeva negli anni Settanta. A quel punto diventeremmo come il Giappone: un Paese con un debito quasi il doppio del nostro, tutto detenuto all'interno e a tassi molto bassi. Ma anche un Paese che da vent'anni ha smesso di crescere. Non certo un esempio da seguire.

Il presidente della Bce non ha certo scordato la lezione dell'agosto scorso, quando l'Istituto iniziò ad acquistare Btp: lo spread crollò e i buoni propositi che Berlusconi aveva annunciato l'8 agosto, dopo la lettera di Draghi e Trichet, svanirono al sole. Purtroppo accadde qualcosa di simile anche la scorsa primavera, quando la Bce inondò le banche di liquidità e queste la usarono per acquistare titoli pubblici. Come raccontava in modo efficace Sergio Rizzo domenica su queste colonne, spread e riforme sono come la fatica di Sisifo: non appena lo spread flette, le riforme rallentano.

È probabile che ormai l'unico modo per salvare l'euro sia consentire alla Bce di acquistare. Ma la lezione dell'agosto scorso è che questi acquisti non potranno essere senza condizioni, o basati su semplici dichiarazioni di intenti. Per ottenere l'aiuto della Bce si rischia di dover accettare, e sarebbe una sconfitta, una limitazione della propria autonomia di bilancio. L'alternativa è riuscirci da soli: non è impossibile. Possiamo ancora farcela. Ma richiede una determinazione che, anche in questi ultimi mesi di legislatura, il Parlamento e le forze politiche devono dimostrare di possedere.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

1 agosto 2012 | 8:02© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_01/editoriale-crisi-economica-francoforte_f93d7ccc-db98-11e1-83b0-3101995e52cb.shtml
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« Risposta #22 inserito:: Agosto 12, 2012, 04:23:49 pm »

RIDUZIONE DEL DEBITO E CRESCITA

I compromessi che non servono

di  ALBERTO ALESINA e FRANCESCO GIAVAZZI


Aver cominciato a discutere di come ridurre il debito pubblico è un passo avanti importante. Se questo tema divenisse il fulcro della campagna elettorale, finalmente ci staremmo chiedendo chi meglio difenderà gli interessi dei nostri figli. Ma le discussioni su come ridurre il debito sono anche piene di tranelli insidiosi.

Innanzitutto ciò che conta non è il debito in sé, ma il rapporto fra il debito e il reddito nazionale (il Pil). Se l'economia non ricomincia a crescere quel rapporto non scenderà mai abbastanza. Diffidate quindi di chi propone fantasiose ricette finanziarie per ridurre il debito sostenendo che tutto il resto è secondario. E fra costoro diffidate di chi invoca imposte patrimoniali: i contribuenti onesti di imposte ne pagano già troppe. Se non si ricomincia a crescere, una patrimoniale ridurrebbe il rapporto debito-Pil per qualche anno, ma poi saremmo al punto di prima, con le stesse persone a invocare una nuova patrimoniale. Le privatizzazioni attuate nella seconda parte degli anni Novanta ridussero il rapporto debito-Pil di circa dieci punti, ma poi la crescita si fermò e quel beneficio in pochi anni svanì (anche perché all'inizio del decennio scorso la spesa pubblica aumentò di oltre 15 miliardi in euro di oggi). Chi poi parla di consolidare il debito (un eufemismo per ripudiarlo) è un irresponsabile che altro non fa che aumentare il costo del debito stesso e quindi le imposte.

Per ridurre il rapporto debito-Pil deve quindi ripartire il denominatore, cioè la crescita. Ma questo non accadrà finché non si riduce la spesa pubblica, altrimenti la pressione fiscale rimarrà elevatissima. Meno spesa e più crescita. Diversamente da quanto vorrebbero farci credere alcuni economisti che interpretano Keynes in modo schematico, si può crescere pur tagliando le spese. Non bisogna dimenticare che ai tempi di Keynes lo Stato spendeva e tassava meno del 20% del Pil: oggi quasi il 50%.

In nove mesi il governo Monti ha fatto per la crescita più di quanto aveva fatto il precedente in nove anni. Ma ha appena incominciato, c'è ancora molto da fare per creare un mercato del lavoro che superi la segmentazione fra giovani precari e anziani protetti, per smantellare le rendite che ingessano i mercati dei beni e soprattutto dei servizi e per ridurre la spesa così da poter poi ridurre le tasse, soprattutto quelle che gravano su chi lavora.

Diffidate di chi usa le discussioni su come ridurre il debito per dribblare l'esigenza di tagliare la spesa. Non si scappa: per ridurre stabilmente il debito (con una pressione fiscale che non ammazzi la crescita) dovremmo prima ridurre le spese. Di quanto? Consideriamo ad esempio la Germania. Questo Paese, pur spendendo 2 punti di Pil (circa 30 miliardi) meno di noi, ha uno Stato sociale che funziona molto meglio del nostro. Se poi volessimo anche avere la medesima pressione fiscale e il medesimo deficit pubblico della Germania, sarebbe necessario tagliare altri 25 miliardi, quindi un totale di 55 miliardi (per questi confronti, che sono relativi al 2010, si legga Aldo Lanfranconi su noisefromamerika.org ).

Ciò non significa che mentre si fa tutto questo (ma non invece di fare tutto questo) lo Stato non debba cominciare a ridurre il debito vendendo. Ma vendere davvero, non offrire agli investitori quote di improbabili polpettoni (qualche azione dell'Eni, un po' di Enel, qualche caserma, qualche azione di Finmeccanica) il tutto costruito in modo che la politica non perda il controllo di queste aziende. Vendere simili quote a investitori veri sarebbe praticamente impossibile; a meno che non si voglia obbligare banche, assicurazioni e risparmiatori italiani a comprarle, che sarebbe una forma nascosta (ma non poi tanto) di imposta patrimoniale.

Vendere vuol dire, ad esempio, collocare in Borsa tutta Terna (l'azienda che possiede la rete di trasmissione elettrica), tutta Snam Rete Gas, le Poste. L'argomento che sono aziende strategiche è risibile: davvero temiamo che qualcuno smonti i pali dell'alta tensione, i tubi del gas o gli sportelli postali, e li porti in Cina?

Insomma, siamo ad un bivio. I compromessi gradualisti non bastano più. Per farcela da soli ci vuole un po' di coraggio. Ma i partiti tradizionali sono disposti a farlo?

Alberto Alesina Francesco Giavazzi

12 agosto 2012 | 9:12© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_12/i-compromessi-che-non-servono-alberto-alesina-francesco-giavazzi_78595748-e444-11e1-aec0-5580338e796b.shtml
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« Risposta #23 inserito:: Settembre 23, 2012, 04:59:05 pm »

LA DEMOGRAFIA E LA CRESCITA

C'era una volta lo Stato sociale

In quarant'anni, dall'inizio degli anni Settanta ad oggi, l'aspettativa di vita alla nascita si è fortunatamente allungata, in Italia, di dieci anni: da 69 a 79 per gli uomini, da 75 a 85 per le donne. L'allungamento della vita si è anche riflesso in un aumento dell'aspettativa di vita a 65-67 anni, cioè al limite dell'età pensionabile: nel 1970 un sessantacinquenne maschio viveva in media altri 13 anni, oggi la media è diciotto; per le donne è salita da 16 a 22 anni. Ci sono voluti decenni prima che ci accorgessimo che occorreva adeguare l'età di pensionamento all'allungarsi della vita media: nel frattempo la spesa per pensioni è cresciuta dall'8 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) nel 1970 a quasi il 17 per cento oggi.

L'allungamento della vita ha anche prodotto un aumento delle spese per la salute. Un anziano oltre i 75 anni costa al sistema sanitario ordini di grandezza superiori rispetto a persone di mezza età. Risultato, la nostra spesa sanitaria oggi sfiora il 10 per cento del Pil. Insieme, sanità e pensioni costano il 27 per cento, 10 punti più di quanto costavano quando il nostro Stato sociale italiano fu concepito.

A questo aumento straordinario non abbiamo fatto fronte riducendo altre spese (ad esempio quella per dipendenti pubblici, che era il 10 per cento del Pil 30 anni fa ed è rimasta il 10 oggi), bensì solo con un aumento della pressione fiscale: dal 33 per cento quarant'anni fa al 48 oggi.

È questo uno dei motivi per cui abbiamo smesso di crescere. Avevamo uno Stato calibrato per una popolazione relativamente giovane; poi la vita si è allungata, le spese sono salite, ma lo Stato è rimasto sostanzialmente lo stesso, richiedendo una pressione fiscale di 15 punti più elevata.

Il problema dell'invecchiamento della popolazione non è solo italiano. Anche negli Stati Uniti, ad esempio, il Medicare (l'assistenza sanitaria gratuita per tutti gli anziani, che sta facendo esplodere il deficit americano) è uno dei temi al centro della campagna elettorale. Ma in Italia, con una popolazione che invecchia a tassi più elevati rispetto ad ogni altro Paese occidentale (il tasso di fertilità è inferiore al nostro solo in alcuni Stati del Centro-Est Europa) il tema è di particolare attualità. In più la partecipazione alla forza lavoro in Italia è relativamente bassa in tutte le categorie tranne gli uomini adulti. Donne, giovani e anziani lavorano meno in Italia che in altri Paesi occidentali, quindi relativamente pochi «lavoratori» devono farsi carico di tutti quelli che non lavorano.

Le riforme delle pensioni, ultima quella Fornero (in particolare l'indicizzazione dell'età pensionistica alla vita media), hanno fermato la crescita della spesa. In questi mesi la spending review del governo Monti si è occupata di come risparmiare qualche miliardo di euro, ma purtroppo tutto ciò non basta.

Dobbiamo ripensare più profondamente alla struttura del nostro Stato sociale. Per esempio, non è possibile fornire servizi sanitari gratuiti a tutti senza distinzione di reddito. Che senso ha tassare metà del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Meglio che li paghino e contemporaneamente che le loro aliquote vengano ridotte. Aliquote alte scoraggiano il lavoro e l'investimento. Invece, se anziché essere tassato con un'aliquota del 50% dovessi pagare un premio assicurativo a una compagnia privata, lavorerei di più per non rischiare di mancare le rate.

Lo stesso vale per altri servizi offerti dallo Stato. Uno studente universitario costa circa 4.500 euro l'anno. Le famiglie ne pagano solo una parte; il resto lo paga il contribuente. Perché non dare borse di studio ai meritevoli meno abbienti e far pagare chi se lo può permettere il vero costo degli studi? Così facendo si aumenterebbe anche la domanda di qualità da parte degli studenti e delle loro famiglie. E si sarebbe meno disposti ad accettare professori che non fanno il loro dovere. Un passo nella direzione giusta è stato fatto alzando le tasse universitarie dei fuori corso, ma anche qui non basta.

Insomma, il nostro Stato sociale si è trasformato in una macchina che tassa le classi medio-alte e fornisce servizi non solo ai meno abbienti (com'è giusto che sia) ma anche alle stesse classi a reddito medio-alto. Questo giro di conto, con aliquote alte, scoraggia il lavoro e la produzione. Non solo, ma gli evasori ne traggono vantaggio; infatti beneficiano dei servizi pubblici gratuiti o quasi senza pagare le imposte.

Così come la campagna elettorale americana si sta focalizzando proprio sul ruolo dello Stato, così anche i nostri politici dovrebbero spiegarci che cosa pensano del futuro del nostro welfare . Per esempio se ritengono che quello che ci ritroviamo sia compatibile con la crescita.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

23 settembre 2012 | 8:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_23/stato-sociale-alesina-giavazzi_0834cb6e-054b-11e2-b23b-e7550ace117d.shtml
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« Risposta #24 inserito:: Ottobre 01, 2012, 02:57:37 pm »

LA DEMOGRAFIA E LA CRESCITA

C'era una volta lo Stato sociale

In quarant'anni, dall'inizio degli anni Settanta ad oggi, l'aspettativa di vita alla nascita si è fortunatamente allungata, in Italia, di dieci anni: da 69 a 79 per gli uomini, da 75 a 85 per le donne. L'allungamento della vita si è anche riflesso in un aumento dell'aspettativa di vita a 65-67 anni, cioè al limite dell'età pensionabile: nel 1970 un sessantacinquenne maschio viveva in media altri 13 anni, oggi la media è diciotto; per le donne è salita da 16 a 22 anni. Ci sono voluti decenni prima che ci accorgessimo che occorreva adeguare l'età di pensionamento all'allungarsi della vita media: nel frattempo la spesa per pensioni è cresciuta dall'8 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) nel 1970 a quasi il 17 per cento oggi.

L'allungamento della vita ha anche prodotto un aumento delle spese per la salute. Un anziano oltre i 75 anni costa al sistema sanitario ordini di grandezza superiori rispetto a persone di mezza età. Risultato, la nostra spesa sanitaria oggi sfiora il 10 per cento del Pil. Insieme, sanità e pensioni costano il 27 per cento, 10 punti più di quanto costavano quando il nostro Stato sociale italiano fu concepito.

A questo aumento straordinario non abbiamo fatto fronte riducendo altre spese (ad esempio quella per dipendenti pubblici, che era il 10 per cento del Pil 30 anni fa ed è rimasta il 10 oggi), bensì solo con un aumento della pressione fiscale: dal 33 per cento quarant'anni fa al 48 oggi.

È questo uno dei motivi per cui abbiamo smesso di crescere. Avevamo uno Stato calibrato per una popolazione relativamente giovane; poi la vita si è allungata, le spese sono salite, ma lo Stato è rimasto sostanzialmente lo stesso, richiedendo una pressione fiscale di 15 punti più elevata.

Il problema dell'invecchiamento della popolazione non è solo italiano. Anche negli Stati Uniti, ad esempio, il Medicare (l'assistenza sanitaria gratuita per tutti gli anziani, che sta facendo esplodere il deficit americano) è uno dei temi al centro della campagna elettorale. Ma in Italia, con una popolazione che invecchia a tassi più elevati rispetto ad ogni altro Paese occidentale (il tasso di fertilità è inferiore al nostro solo in alcuni Stati del Centro-Est Europa) il tema è di particolare attualità. In più la partecipazione alla forza lavoro in Italia è relativamente bassa in tutte le categorie tranne gli uomini adulti. Donne, giovani e anziani lavorano meno in Italia che in altri Paesi occidentali, quindi relativamente pochi «lavoratori» devono farsi carico di tutti quelli che non lavorano.

Le riforme delle pensioni, ultima quella Fornero (in particolare l'indicizzazione dell'età pensionistica alla vita media), hanno fermato la crescita della spesa. In questi mesi la spending review del governo Monti si è occupata di come risparmiare qualche miliardo di euro, ma purtroppo tutto ciò non basta.

Dobbiamo ripensare più profondamente alla struttura del nostro Stato sociale. Per esempio, non è possibile fornire servizi sanitari gratuiti a tutti senza distinzione di reddito. Che senso ha tassare metà del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Meglio che li paghino e contemporaneamente che le loro aliquote vengano ridotte. Aliquote alte scoraggiano il lavoro e l'investimento. Invece, se anziché essere tassato con un'aliquota del 50% dovessi pagare un premio assicurativo a una compagnia privata, lavorerei di più per non rischiare di mancare le rate.

Lo stesso vale per altri servizi offerti dallo Stato. Uno studente universitario costa circa 4.500 euro l'anno. Le famiglie ne pagano solo una parte; il resto lo paga il contribuente. Perché non dare borse di studio ai meritevoli meno abbienti e far pagare chi se lo può permettere il vero costo degli studi? Così facendo si aumenterebbe anche la domanda di qualità da parte degli studenti e delle loro famiglie. E si sarebbe meno disposti ad accettare professori che non fanno il loro dovere. Un passo nella direzione giusta è stato fatto alzando le tasse universitarie dei fuori corso, ma anche qui non basta.

Insomma, il nostro Stato sociale si è trasformato in una macchina che tassa le classi medio-alte e fornisce servizi non solo ai meno abbienti (com'è giusto che sia) ma anche alle stesse classi a reddito medio-alto. Questo giro di conto, con aliquote alte, scoraggia il lavoro e la produzione. Non solo, ma gli evasori ne traggono vantaggio; infatti beneficiano dei servizi pubblici gratuiti o quasi senza pagare le imposte.

Così come la campagna elettorale americana si sta focalizzando proprio sul ruolo dello Stato, così anche i nostri politici dovrebbero spiegarci che cosa pensano del futuro del nostro welfare . Per esempio se ritengono che quello che ci ritroviamo sia compatibile con la crescita.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

23 settembre 2012 | 8:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_23/stato-sociale-alesina-giavazzi_0834cb6e-054b-11e2-b23b-e7550ace117d.shtml
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« Risposta #25 inserito:: Ottobre 02, 2012, 11:25:26 am »

FURBI, SPRECHI E VERIFICHE SCARSE

Le mele marce gli occhi chiusi

Per favore, piantiamola con le mele marce. Cominciò Craxi con Mario Chiesa e da venti anni è sempre così. Piergianni Prosperini? Una mela marcia. Luigi Lusi? Una mela marcia. Francesco Belsito? Una mela marcia. Franco Fiorito? Una mela marcia. E potremmo andare avanti all'infinito e solo a metterli tutti in fila, questi frutti avariati, danno la nausea. Non sarà colpa anche della cesta?

Questo è il tema. Il ripetersi di casi di malcostume se non di malavita non può più essere liquidato come episodico. Sono troppi, come ha detto ieri anche un furente Napolitano, i casi di bullismo politico e affaristico. Vuol dire che è il contenitore di regole e controlli che non funziona e a volte è perfino criminogeno. Va cambiato. Subito. Prima che un'ondata di disprezzo travolga tutti insieme, Dio non voglia, i figuri da operetta, gli uomini indegni e le persone perbene che non meritano di essere messe nel mucchio.

Non riguarda solo Fiorito, non solo il centrodestra, non solo il Lazio. Il Gazzettino scrive che da aprile, mentre scoppiava lo scandalo dei diamanti leghisti, una delibera di presidenza del consiglio regionale veneto toglieva soldi dal «Fondo di riserva per le spese impreviste» (sic...) e li dirottava ai «gruppi» che da allora li girano in una specie di fuoribusta mensile di 2.150 euro come «rimborso forfettario» a ciascun consigliere che in cambio non deve presentare una ricevuta, uno scontrino, una bolletta.
Ora, noi vogliamo credere che tutti ma proprio tutti quei deputati regionali spendano la somma nel modo più scrupoloso: ma se uno poi ci comprerà un diadema per la morosa saremo condannati a sentire ancora la solfa della mela marcia? Lo spiegava già il presidente americano James Madison un paio di secoli fa: «Se le persone fossero angeli, nessun governo sarebbe necessario». Un Paese si regge e prospera solo in una cornice di buone leggi fatte rispettare. Aiutando tutti a essere virtuosi.
Evviva la fiducia, ma in un Paese di eccessi come il nostro, dove anni fa un barista fu multato per aver dato senza scontrino un bicchier d'acqua a un barbone, che le regioni distribuiscano decine di milioni di euro l'anno ai propri gruppi consiliari o direttamente ai consiglieri senza chieder loro una cedola è inaccettabile. «Comincino a tagliare gli altri», dicono punti sul vivo alcuni deputati veneti. E l'identica risposta potreste averla in Molise e in Val d'Aosta, in Friuli e in Sicilia. Dove da mesi funziona come a Venezia: 2.089 euro al mese sono dati a ogni deputato dell'Ars cui viene chiesto solo di dichiarare genericamente di averli spesi bene.

Non è questa, l'autonomia che avevano in mente i padri costituenti. Un conto è dare alle Regioni la possibilità di amministrare il territorio con un'attenzione, una cura, un amore impossibili in uno Stato centralista, un altro è dare a vassalli e valvassori la facoltà di decidere in totale autarchia come spartirsi fette importanti del pubblico denaro. Per questo, a partire da qui, il governo dovrebbe sfidare il permaloso rifiuto di ogni repubblichina di rispondere allo Stato. Non va bene che ognuno fissi la propria indennità, i propri contributi ai partiti, le proprie diarie... Si fissino delle regole e valgano per tutti. E se poi si levassero lamenti sulle sovranità violate, appenderemo il cartello che c'è nei bar: per colpa di qualcuno non si fa credito a nessuno.

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

26 settembre 2012 | 7:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_26/mele-marce-sprechi-stella-rizzo_c0dea564-0798-11e2-9bec-802f4a925381.shtml
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« Risposta #26 inserito:: Ottobre 19, 2012, 05:18:36 pm »

EFFETTI INDESIDERATI DELLA TASSAZIONE

L'indigestione delle imposte

Le manovre varate negli ultimi 12 mesi, prima dal governo Berlusconi e poi dal governo Monti, si possono così riassumere (prendiamo questi numeri dall'Audizione parlamentare del vicedirettore generale della Banca d'Italia, Salvatore Rossi): nell'arco di due anni, 2012 e 2013, le entrate delle amministrazioni pubbliche dovrebbero crescere di 82 miliardi, le spese scendere di 43. Di questi tagli, tuttavia, circa 23 miliardi sono minori trasferimenti a Comuni, Province e Regioni. Se questi enti, come sta accadendo, compenseranno la riduzione dei fondi che ricevono dallo Stato aumentando le tasse locali, il risultato complessivo di queste manovre sarà 105 miliardi di maggiori tasse e 20 di minori spese.
L'esperienza delle correzioni dei conti pubblici attuate negli ultimi 30 anni nei Paesi industriali ci insegna che questa composizione è recessiva. L'aumento della pressione fiscale sposterà ancor più in là la ripresa dell'economia e limiterà il miglioramento dei conti pubblici. Invece le manovre che hanno avuto minori effetti recessivi, e che quindi hanno ridotto più rapidamente il debito, sono state quelle con una composizione opposta rispetto alla nostra: tagli di spesa e minori aggravi fiscali.

Se ci limitiamo al caso italiano, l'esperienza degli ultimi 30 anni insegna che le manovre per lo più costruite su tagli di spesa (le poche che sono state fatte) hanno inciso sull'economia in misura trascurabile. Invece quelle attuate per lo più aumentando le imposte hanno avuto un «moltiplicatore» pari a circa 1,5: cioè per ogni punto di Pil (Prodotto interno lordo) di correzione dei conti l'economia si è contratta, nel giro di un paio d'anni, di un punto e mezzo.
Ci rendiamo conto che sotto la pressione dello spread il governo Monti doveva agire in fretta e che (purtroppo) è sempre più facile e rapido alzare le tasse. Ed è anche vero che le nuove imposte introdotte lo scorso inverno (l'Imu sulle case, la tassazione delle rendite finanziarie, gli aggravi fiscali che hanno colpito società finanziarie ed energetiche) sono fra le meno dannose per l'economia. E che circa 7 di quei 105 miliardi verranno da un'azione più risoluta contro gli evasori, che per la prima volta sembra funzionare. Ma alla fase uno doveva seguire una fase due: tagli di spesa in misura sufficiente a consentire una riduzione delle aliquote. E invece, a un anno di distanza, non si è neppure riusciti ad evitare un aumento dell'Iva che annullerà, soprattutto per le famiglie con reddito più basso, i benefici del timido taglio delle aliquote Irpef (vedi i calcoli riportati in www.paolomanasse.blogspot.it ).

Stato e amministrazioni locali spendono ogni anno (dati del 2010 e senza contare gli interessi sul debito) circa 720 miliardi. Togliamo i 310 miliardi che vanno in pensioni e spesa sociale: ne restano 410. Una riduzione del 20 per cento di queste spese, senza alcun taglio alla spesa sociale, consentirebbe di risparmiare 80 miliardi e di ridurre la pressione fiscale di 10 punti.

Non si tratta di reperire qualche milione di euro qua e là (sebbene un taglio alle spese delle Regioni, dalle ostriche ai palazzi faraonici, aiuterebbe e non poco), ma di ripensare senza pregiudizi a come lo Stato spende il denaro dei contribuenti. Si è detto tante volte che il nostro Stato sociale, invece di proteggere i più deboli, disperde risorse sulle classi medie e medio-alte. Un modello diverso offrirebbe a queste classi aliquote più basse, ma eliminerebbe anche i sussidi di cui esse ora godono - dai trasporti, all'università, alla sanità - lasciando al mercato la produzione di alcuni servizi. Perché, ad esempio, la raccolta dei rifiuti o la distribuzione del gas devono essere gestiti da aziende di proprietà del sindaco? Insomma, userebbe la progressività del sistema fiscale per ridistribuire i redditi, detassando i meno abbienti anche con tasse negative (cioè sussidi) ma lasciando al mercato la produzione di beni e servizi a prezzi che coprano i costi. In questo modo si favorirebbe la concorrenza e quindi la qualità.
Lo Stato eroga ogni anno circa 30 miliardi di sussidi diretti alle imprese e altri 30 nella forma di detrazioni fiscali. Le Ferrovie ad esempio ricevono (senza contare i fondi spesi per l'alta velocità) oltre 4 miliardi l'anno. Una parte di questo denaro è un sussidio alle classi a reddito medio-alto: ad esempio gli sconti agli anziani (per le Ferrovie si diventa anziani a 60 anni, 5 prima dell'età di pensionamento) concessi a tutti, anche a chi guadagna un milione di euro l'anno. Non sarebbe meglio far pagare il costo del servizio e, di nuovo, compensare i poveri con imposte negative sul reddito? Lo stesso vale per i 350 milioni concessi ogni anno a scuole e università private, per lo più frequentate dai figli di famiglie relativamente abbienti. Alle imprese in senso stretto (sia pubbliche che private, ma senza contare servizi come le Ferrovie) vanno circa 10 miliardi l'anno, metà pagati dalle Regioni, metà dallo Stato. Da mesi Confindustria si dice favorevole all'eliminazione di questi sussidi in cambio di un taglio del cuneo fiscale, cioè delle imposte che gravano sul lavoro. Da quattro mesi (dal 23 giugno) il governo ha sul tavolo un progetto per eliminare quei 10 miliardi, di cui una metà potrebbero essere tagliati già dal prossimo anno. Davvero ci vuole tanto tempo per varare un provvedimento che la stessa Confindustria sollecita?

Si dice che non c'è più tempo. Intanto si poteva cominciare prima, e comunque quattro-cinque mesi non sono pochi, soprattutto perché non si parte da zero. Non solo: impostare alcuni interventi potrebbe servire a condizionare almeno in parte il governo futuro, qualunque esso sia. Questo vale per la spesa pubblica così come per provvedimenti volti a eliminare le rendite e aprire i mercati alla concorrenza.

Il governo Monti può passare alla storia in due modi. Uno, importante certo, ma più modesto, come un esecutivo che ha continuato sulla via del rigore tradizionale evitandoci il baratro finanziario. Ma potrebbe passare alla storia come il governo che ha avviato una rivoluzione liberale, iniziando a riformare il nostro Stato sociale per renderlo al tempo stesso meno costoso e più efficiente nel sostenere i redditi dei meno abbienti. Chissà se Mario Monti sceglierà la strada relativamente più facile (la prima) o quella più difficile, ma rivoluzionaria?

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

15 ottobre 2012 | 10:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_15/alesina-giavazzi-indigestione-imposte_e2b53c72-1687-11e2-be27-71fc27f55c26.shtml
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« Risposta #27 inserito:: Dicembre 05, 2012, 10:01:53 pm »

I distruttori delle riforme

Si dice spesso che le riforme non si fanno perché lo slancio riformatore di molti governi (compreso quello attuale) è bloccato dai partiti, i quali in Parlamento difendono gli interessi di chi, per effetto di quelle riforme, perderebbe i propri privilegi. Vero, ma non è l’unico scoglio. Un altro ostacolo, altrettanto importante, è frapposto dalla burocrazia e dai suoi alti dirigenti. Un esempio: da oltre sei mesi si discute di come eliminare i sussidi e le agevolazioni di cui godono talune imprese (senza vi sia alcuna evidenza che questi aiuti favoriscano la crescita), in cambio di una riduzione del cuneo fiscale, cioè restringendo la forbice che separa il costo del lavoro per l’impresa dal salario percepito dal lavoratore. È una scelta con la quale concordano sia Confindustria sia i sindacati.

Ma la proposta, pur auspicata dal presidente del Consiglio, non è neppure arrivata in Parlamento: da mesi la burocrazia la blocca. Perché? Semplice: eliminare questo o quel sussidio significa chiudere l’ufficio ministeriale che lo amministra e assegnare il dirigente che lo guida a un diverso incarico. Ciò per lui significa perdere il potere che deriva dall’amministrare ingenti risorse pubbliche. È così che i dirigenti si oppongono sempre e comunque a riduzioni della spesa che amministrano, indipendentemente dal fatto che serva, o meno, a qualcosa. Ma basta questo per bloccare una riforma che anche i partiti in Parlamento auspicano? Perché la burocrazia ha questo potere? Fino a qualche anno fa i funzionari erano di fatto inamovibili: i ministri andavano e venivano, ma i dirigenti dei ministeri rimanevano. Non è più così. Oggi gli alti funzionari si possono sostituire, e tuttavia nulla è cambiato.

Il motivo del loro potere è più sottile e ha a che fare con il monopolio delle informazioni. La gestione di un ministero è una questione complessa, che richiede dimestichezza con il bilancio dello Stato e il diritto amministrativo, e soprattutto buoni rapporti con la burocrazia degli altri ministeri. I dirigenti hanno il monopolio di questa informazione e di questi rapporti, e hanno tutto l’interesse a mantenerlo. Hanno anche l’interesse a rendere il funzionamento dei loro uffici il più opaco e complicato possibile, in modo da essere i soli a poterli far funzionare. E così quando arriva un nuovo ministro, animato dalle migliori intenzioni (soprattutto se estraneo alla politica e per questo più propenso al cambiamento), a ogni sua proposta la burocrazia oppone ostacoli che appaiono incomprensibili, ma che i dirigenti affermano essere insormontabili.

E comunque gli ricordano che prima di pensare alle novità ci sono decine di scadenze e adempimenti di cui occuparsi: non farlo produrrebbe effetti gravissimi. Spaventato, il ministro finisce per affidarsi a chi nel ministero c’è da tempo. È l’inizio della fine delle riforme. E se per caso il governo ne vara qualcuna senza ascoltare la burocrazia, questa mette in campo uno strumento potente: solo i dirigenti, infatti, sono in grado di redigere i decreti attuativi, senza i quali la nuova legge è inefficace. Basta ritardarli o scriverli prevedendo norme inapplicabili per vanificare la riforma

di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

5 dicembre 2012 | 7:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_05/distruttori-riforme_1657a312-3ea6-11e2-b5b1-5f0211149faf.shtml
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« Risposta #28 inserito:: Dicembre 28, 2012, 04:11:31 pm »

L'INTERVENTO PUBBLICO DA RIDURRE

Troppo stato in quell'agenda


Per diminuire in modo significativo la spesa pubblica, e quindi consentire una flessione altrettanto rilevante della pressione fiscale, è necessario ridurre lo spazio che lo Stato occupa nella società, cioè spostare il confine fra attività svolte dallo Stato e dai privati. Limitarsi a razionalizzare la spesa all'interno dei confini oggi tracciati (la cosiddetta spending review) non basta. Nel 2012 il governo ha tagliato 12 miliardi di euro; altri 12 miliardi di risparmi sono previsti dalla legge di Stabilità per il 2013. Troppo poco per ridurre la pressione fiscale. Abbassare la spesa al livello della Germania (di quattro punti inferiore alla nostra) richiederebbe tagli per 65 miliardi. Per riportarla al livello degli anni Settanta (quando la nostra pressione fiscale era al 33 per cento), si dovrebbero eliminare spese per 244 miliardi.

Di ridurre lo spazio che occupa lo Stato non si parla abbastanza nel programma che Mario Monti ha proposto agli italiani. Anzi, finora il governo Monti si è mosso nella direzione opposta. Ad esempio ha trasferito Snam rete gas, l'azienda che gestisce la distribuzione del gas, dall'Eni, di cui lo Stato possiede il 30%, alla Cassa depositi e prestiti, di cui possiede il 70%, cioè l'ha in sostanza nazionalizzata. Non c'è bisogno di ripercorrere la storia dell'Iri (l'Istituto per la ricostruzione industriale) per ricordarci quanto sia costato ai contribuenti l'intervento pubblico nell'economia. Basta fare i conti di Alitalia. Cinque anni fa il governo Berlusconi si rifiutò di vendere l'azienda ad Air France. Invece ne scaricò i 3,2 miliardi di debiti lordi sui contribuenti e indusse alcuni imprenditori ad acquistarla, con l'impegno «implicito» a intervenire se le cose fossero andate male. Come era facile prevedere, Alitalia oggi è sostanzialmente fallita. Il governo deve ora fare fronte al suo impegno verso i nuovi azionisti. Peraltro in un'operazione della quale a suo tempo fu regista l'attuale ministro Passera. Circolano persino ipotesi di un ingresso delle Ferrovie dello Stato, cioè una ri-nazionalizzazione. Invece bisognerebbe andare nella direzione opposta: privatizzare la Cassa depositi e prestiti, come i governi degli anni Novanta seppero fare con l'Iri.

Spostare il confine fra Stato e privati, restringendo lo spazio occupato dallo Stato, richiede alcune decisioni importanti. Cominciamo dalla sanità. Con l'invecchiamento della popolazione la spesa sanitaria è diventata un bomba a orologeria per le finanze pubbliche, un problema non solo nostro ma di tanti Paesi avanzati. L'offerta di servizi sanitari in Italia è per lo più gestita dallo Stato: l'area occupata dai privati è limitata, spesso di qualità inferiore ai servizi offerti dagli ospedali pubblici, con rapporti poco trasparenti (spesso vera e propria corruzione) con l'amministrazione. Esistono tuttavia centri privati eccellenti, sia per efficienza che per qualità e trasparenza. La prima cosa che il prossimo governo potrebbe fare è convocare gli imprenditori che gestiscono queste strutture e capire come riprodurle in altre regioni.

C'è poi un problema di finanziamento della spesa sanitaria. Come abbiamo ripetuto più volte, non possiamo più permetterci di fornire servizi sanitari gratuiti a tutti senza distinzione di reddito. Che senso ha tassare metà del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Meglio che li paghino, e contemporaneamente che le loro aliquote vengano ridotte. Con ciò che risparmiano, i «ricchi» potrebbero acquistare polizze assicurative, decidendo liberamente quanto assicurarsi. È un sistema che incoraggerebbe anche il lavoro: se anziché essere tassato con un'aliquota del 50% dovessi pagare un premio assicurativo a una compagnia privata, lavorerei di più per non rischiare di mancare le rate.

Lo stesso può accadere per l'università. Oggi l'università è pubblica e funziona male. È finanziata da tutti i contribuenti, ma frequentata soprattutto dai più ricchi. È un sistema che trasferisce (con grandi sprechi) reddito dai poveri ai ricchi. Perché non far pagare le rette universitarie in modo meno regressivo? Ci spiace parlare della nostra università, ma la Bocconi non riceve sussidi pubblici, si finanzia con rette scolastiche che sono modulate in funzione del reddito, ed è uno dei pochi atenei italiani che non fa brutta figura nelle classifiche internazionali. Riprodurre questo modello altrove non è impossibile.

Il programma di Monti si occupa esplicitamente di famiglia e di occupazione femminile, ma anche qui proponendo di allargare lo spazio occupato dallo Stato: «Va incoraggiata la più ampia creazione di asili nido». La soluzione non è questa, bensì, come lo stesso programma indica in un altro punto, detassare il lavoro femminile e lasciare che le famiglie decidano come meglio credono la cura dei figli.

Insomma, a noi pare che il programma di Monti sia troppo Stato-centrico e non punti abbastanza al ridimensionamento dell'intervento pubblico. Con un debito al 126 per cento del reddito nazionale e una pressione fiscale tra le più alte al mondo non si può sfuggire al problema di ridisegnare i confini fra Stato e privati. Illudersi che sia sufficiente «riqualificare la spesa» con la spending review rischia di nascondere agli italiani la gravità del problema.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

27 dicembre 2012 | 7:51© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #29 inserito:: Gennaio 01, 2013, 11:55:30 am »

MEGLIO PARLARE DI COME RIDURRE LA SPESA

La patrimoniale nelle urne


Vi è molta confusione, e preoccupazione, sull’ipotesi che il prossimo governo possa introdurre un’imposta patrimoniale. Sarebbe importante che chi si appresta a chiedere il voto ai cittadini spieghi con precisione se, come, e in quale misura intende tassare la ricchezza delle famiglie. L’agenda Monti fa genericamente riferimento all’opportunità di «trasferire il carico fiscale sui grandi patrimoni ».

Il Pd pare invece orientato verso un’imposta ordinaria (cioè che si applichi ogni anno, come accade in Francia) e che colpisca tutto il patrimonio oltre una data soglia. Innanzitutto occorre distinguere fra una patrimoniale una tantum—evocata da chi, come Giuliano Amato, vorrebbe abbattere una volta per tutte il debito — e un’imposta ordinaria. Una patrimoniale una tantum sarebbe nella migliore delle ipotesi inutile, nella peggiore fatale. Per ridurre il rapporto fra debito e prodotto interno (Pil) sono necessari crescita, conti pubblici in attivo e tassi di interesse moderati. Nulla che possa essere influenzato da un’una tantum.

Una simile imposta abbasserebbe il livello del debito, ma non ne muterebbe la dinamica. Dopo qualche anno torneremmo da capo. Con l’aggravante che la riduzione del debito potrebbe diffondere l’illusione che i problemi sono stati risolti e che quindi si può ricominciare a spendere. È già successo all’inizio del decennio scorso, quando i benefici delle privatizzazioni svanirono nell’arco di una legislatura. Se invece si pensa a una patrimoniale ordinaria (ricordando che una in Italia c’è già, l’Imu) questa andrebbe valutata all’interno di una revisione generale delle imposte: sui redditi da lavoro, sui consumi, sulla casa, sulle attività finanziarie. È possibile che il peso relativo di alcune di queste imposte sia sproporzionato. Per porvi rimedio il prossimo governo potrebbe nominare una Commissione—come quella che, nel 1972, su impulso di Bruno Visentini, propose il testo unico delle imposte dirette — con il compito di rimodulare le aliquote. Affermazioni generiche su questa o quella patrimoniale, una tantum o perenne, hanno il solo effetto di aumentare l’incertezza di cittadini e investitori.

Il sistema impositivo è un meccanismo complesso (che andrebbe tra l’altro semplificato), che non si può correggere modificandone una parte, come se fosse indipendente dal resto. Ma una Commissione tecnica potrebbe solo suggerire la configurazione di imposte più efficiente, cioè quella che consentirebbe allo Stato di raccogliere un determinato gettito con i minori costi per famiglie e imprese, e con la desiderata progressività del sistema nel suo complesso. Ma una Commissione tecnica non potrà dire quale sia il livello di pressione fiscale ottimale. Questa è una scelta politica, che dipende dal livello di spesa che il governo ritiene desiderabile. E qui sta il punto. La campagna elettorale sembra concentrarsi su quale sia il modo migliore per tassare gli italiani. Invece si dovrebbe discutere di come riformare lo Stato, in modo che esso non pesi per la metà del Pil, con effetti fra l’altro molto deludenti sulla redistribuzione del reddito a favore dei meno abbienti. L’onorevole Bersani dovrebbe dire in modo chiaro quale è il livello di spesa pubblica che ritiene compatibile con una ripresa della crescita. Analogamente, l’agenda che Mario Monti propone agli italiani avrebbe dovuto indicare un obiettivo per la riduzione del rapporto fra spesa pubblica e Pil da attuarsi nell’arco della prossima legislatura.

di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

31 dicembre 2012 | 9:11© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_31/patrimoniale-nelle-urne_c5ad12cc-531c-11e2-9db6-5f0af8902a56.shtml
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