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Autore Discussione: Alberto ALESINA -  (Letto 40145 volte)
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« inserito:: Agosto 08, 2011, 11:37:58 am »

Giovedì 15 Gennaio 2009, 14:32

Interviste di Eleonora Bianchini


"La crisi" nel 2009, arriva il buio: intervista ad Alberto Alesina


Le banche e i mutui subprime hanno contribuito ad affossare i consumatori, la globalizzazione e lo sviluppo di paesi emergenti come India e Cina hanno risvegliato il panico nei mercati europei.
E ora è crisi.

Ma le responsabilità sono da addossare solo agli istituti di credito e a un capitalismo sregolato o dovremmo piuttosto passare al setaccio le scelte della politica?

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi hanno pubblicato "La crisi" (Il Saggiatore) per rispondere a queste domande.



Noi abbiamo incontrato Alesina, economista italiano, professore all'Università di Harvard a Cambridge, per sapere cosa ci riserva l'economia italiana nei prossimi mesi.

Nel crack di fine 2008, gli stati salvano le banche e ammettono le proprie colpe sul mancato controllo del sistema finanziario, che si unisce al silenzio delle agenzie di rating e alla schizofrenia dei mutui subprime. Quali provvedimenti si aspetta dal governo italiano?

Non so proprio cosa aspettarmi. Sarebbe una bella domanda, ma da rivolgere al governo.

Il Sole 24 Ore ha scritto che la cassa integrazione ordinaria nell'industria italiana a dicembre è cresciuta del 526% rispetto al 2007: crede sia un periodo negativo destinato a perdurare?

Si, sicuramente per tutto il 2009 e con tutta probabilità per buona parte del 2010. Il problema della congiuntura economica italiana è che questa grave recessione si somma ad un decennio di crescita molto bassa, quasi pari a zero.

Quale sarà il momento più buio?

Difficile dirlo, forse ci stiamo entrando ora. Possiamo supporre che il periodo di maggiore crisi si avrà nei primi sei mesi del 2009 e le brutte notizie continueranno per tutto l'anno. L'importante e non farsi prendere dal panico.

Dos and don'ts: qualche consiglio ai risparmiatori.

Difficile entrare nei dettagli. Ai risparmiatori direi di tenere i nervi saldi e non farsi prendere dal panico.

In pratica?

Meglio non investire in attività complesse che non si comprendono fino in fondo. Consiglio di diversificare le proprie scelte, che significa non investire troppo del portafoglio nello stesso prodotto e di tenere ben presente che i rendimenti più alti implicano anche maggiori rischi.

BOL.IT -Alberto Alesina

http://economiaefinanza.blogosfere.it/2009/01/la-crisi-nel-2009-ora-arriva-il-buio-intervista-ad-alberto-alesina.html

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« Risposta #1 inserito:: Agosto 08, 2011, 11:39:09 am »

Alberto Alesina

Alberto Alesina ha ottenuto il PhD. in Economics alla Harvard University, dove è attualmente Professore di Economia. E’ Senior Associate per il Center for European Studies (CES), Research Associate per il National Bureau of Economic Research (NBER), il Center for Economic Development della Harvard University, e Research Fellow del Center for Economic Policy Research (CEPR). E’ Fellow della Econometric Society. Oltre ad aver pubblicato 4 libri e numerosi articoli presso le maggiori riviste scientifiche internazionali, è Co-editor del Quarterly Journal of Economics e sarà il nuovo direttore del dipartimento di Economia della Universita di Harvard. I suoi interessi scientifici riguardano i la Political Economics (l'economia della politica), la Politica economica, la Politica monetaria e fiscale e la Macroeconomia.
 
da - http://www.lavoce.info/lavocepuntoinfo/autori/pagina70.html
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 08, 2011, 11:41:42 am »

RICETTE SBAGLIATE: PIÙ SPESA IN GERMANIA

di Alberto Alesina e Roberto Perotti
18.06.2010


Sono in molti ad accusare la Germania per la sua politica fiscale prudente, che finirebbe per aggravare la crisi. La cui soluzione sarebbe invece in un'espansione della spesa pubblica tedesca. Ma si tratta di una ricetta sbagliata, frutto di un keynesianismo datato. E' un'illusione credere che un 5 per cento sul Pil di deficit di bilancio in Germania basti per risolvere i problemi di crescita dell'Europa. Che dipendono piuttosto dalle rigidità sul lato dell'offerta, soprattutto nei paesi oggi più in difficoltà.
I leader dell'Unione europea. Da internet

 

In Europa trova molti consensi la seguente spiegazione dei mali europei. Dopo lo shock della riunificazione, la Germania ha cercato di rafforzare la sua competitività in vari modi. La ricetta si è rivelata di grande successo, trasformando il “malato d’Europa” in una economia fortemente competitiva. Ma da questa politica sarebbe  conseguito uno squilibrio con il resto d’Europa perché il surplus di parte corrente della Germania trova il suo rovescio, tra l’altro, nei deficit di parte corrente dei paesi dell’Europa meridionale e in particolare di Spagna, Portogallo e Grecia.
La situazione non ha suscitato particolari preoccupazioni (o almeno non erano in molti a lamentarsene) fino alla crisi finanziaria. Ora però la recessione e i pacchetti di stimolo hanno fatto crescere disavanzi e debiti pubblici in tutta Europa, e in particolare nella parte più vulnerabile dell’Eurozona, l’Europa del Sud.  Di conseguenza praticamente tutti concordano sul fatto che i paesi del Sud Europa (e l’Irlanda) non abbiano altra alternativa che l’adozione di una forte austerità fiscale, qualunque ne sia il costo.
Ma ciò significa che nella situazione attuale questi stessi paesi sono colpiti da due shock negativi sulla domanda
-         la politica deflazionistica della Germania
-         e la loro stessa austerità fiscale.
Secondo l’opinione in voga, questo impone alla Germania una doppia responsabilità: dovrebbe ridurre il suo vantaggio competitivo e stimolare i consumi in quanto è l’unica possibile fonte di domanda in Europa.
Nel brevissimo periodo, entrambi gli obiettivi possono (e debbono) essere raggiunti, secondo l’opinione comune, attraverso l’unico strumento che i politici tedeschi hanno a disposizione: una politica fiscale espansiva, forse accompagnata da una dose di inflazione.

UN PUNTO DI VISTA SBAGLIATO

Si tratta di un punto di vista sostenuto da molti economisti e commentatori in Europa. È anche il punto di vista ufficioso dell’amministrazione americana espresso nella lettera privata inviata dal segretario al Tesoro ai colleghi del G20 nell’ultimo vertice.
Noi invece riteniamo che diagnosi e cura proposta siano sbagliate. Ovviamente, la bilancia dei pagamenti correnti a livello mondiale è sempre in pareggio, quindi il surplus tedesco deve apparire altrove come deficit. Ma è colpa della Germania se è diventata più competitiva? Ed è ragionevole chiedere alla Germania di sopportare il peso di un paese come la Spagna che ha fondato la sua crescita economica degli ultimi quindici anni sull’edilizia, il settore per definizione non-competitivo? Oppure quello di un paese come la Grecia, che fissa l’età della pensione a 53 anni, falsifica i bilanci e così via? Inoltre, la politica fiscale tedesca non è stata particolarmente restrittiva, i suoi miglioramenti di competitività derivano da altri fattori, come le riforme del mercato del lavoro, certo limitate e timide, ma pur sempre riforme.

ANCHE LA CURA È SBAGLIATA E INATTUABILE

A livello normativo, se in questo momento i mercati temono soprattutto il debito pubblico, non si capisce perché quegli stessi mercati dovrebbero accogliere con favore un incremento nell’offerta di debito da parte del paese che vedono come l’ultimo baluardo della disciplina fiscale e monetaria, quando in questo momento quello che più temono è proprio il debito pubblico. Il pericolo maggiore e più immediato oggi sono i timori dei mercati legati all’eccesso di debito in Europa: come un aumento del debito tedesco possa aiutare a mitigare queste paure, non ci è chiaro.
Tanto più che l’effetto immediato di un aumento dell’offerta di debito sarebbe solo indirettamente e parzialmente compensato dalla crescita di altri paesi: una espansione fiscale di dimensioni realistiche in Germania non potrebbe comunque risollevare l’Europa dalla sua crisi e stimolare significativamente la crescita. Affermare una simile ipotesi significa credere in moltiplicatori della spesa pubblica di dimensioni irragionevolmente ampie.
La teoria, e in parte l’evidenza empirica, confermano invece l’idea che il moltiplicatore sia piccolo se non addirittura negativo, anche se ammettiamo che su questo punto c’è molta incertezza. Ma moltiplicatori fiscali keynesiani di ampie dimensioni, come quelli così popolari negli anni Sessanta, oggi sono difficili da difendere sia sul piano teorico che su quello empirico. E se questo è vero per i moltiplicatori interni, quelli internazionali sono ancora più piccoli.

LA CURA È POLITICAMENTE IMPROPONIBIBILE

L’idea che la Germania debba farsi carico dell’Europa e internalizzare tutte le esternalità positive che ne possono derivare (assumendo che ne esistano) è una sfida al realismo politico. Chiedere a un governo di far propri gli interessi di un piccolo e lontano paese significa cacciarsi in un vicolo cieco politico, specialmente in tempi di crisi finanziaria.
Chi sostiene questa sorta di altruismo ammanta spesso i suoi argomenti nel velo del “così facendo, la Germania rafforzerebbe il suo interesse di lungo periodo”. Forse, ma non è per niente chiaro perché l’interesse di lungo periodo della Germania debba comprendere il salvataggio della Grecia o della Spagna. E anche se così fosse, ciò richiederebbe una lungimiranza che nessun governo eletto in genere ha, che sia tedesco o di un altro paese. Sentire i leader dell’ Europa meridionale che accusano i leader tedeschi di miopia è un po’ paradossale!
Il vincolo alla crescita dell’Europa non è la politica fiscale della Germania. Sono le rigidità sul lato dell’offerta che imbrigliano le economie nazionali europee, e in particolare quelle dei paesi dell’Europa del Sud. Fossilizzarsi sul lato della domanda è semplicemente sbagliato – una sorta di keynesianismo datato ed eccessivamente semplificato. Forse, le riforme sul lato dell’offerta sono impossibili, ma non prendiamoci in giro illudendoci che un deficit di bilancio tedesco del 5 per cento invece che del 3 per cento sul Pil sia sufficiente per portare l’Europa fuori da una situazione difficile.
 
da - http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001782.html
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 08, 2011, 11:46:25 am »

LA CRISI ECONOMICA E POLITICA

In cerca di leader


Dopo la Grande Recessione del 2008-2009 due cose ci si doveva aspettare dai leader dell'Occidente.
Primo: il riconoscimento della gravità della situazione e la dimostrazione di voler e saper affrontare i problemi con urgenza e non rimandarli, ovvero un atteggiamento di lungimiranza al di là delle scadenze elettorali.
Secondo: la capacità di ricucire contrasti e interessi di parte per favorire il bene comune.
La classe politica dell'Occidente, al di qua e al di là dell'Atlantico, ha fallito su entrambi i punti e passerà alla storia come, collettivamente, una delle peggiori del secondo dopoguerra.

La lungimiranza è un bene che è mancato alle classi politiche in Italia, Europa e Stati Uniti.
Nel nostro Paese si parla da anni della necessità di dare una sferzata all'economia. Si diceva da tempo che l'approccio ragionieristico ai conti pubblici con un aumento di quel balzello o di quel taglio alle spese che entri in vigore non prima delle prossime elezioni non basta e che ci vogliono riforme per la crescita. Si è dovuti arrivare proprio fino sull'orlo del baratro perché il governo desse un segno di vita venerdì scorso con la conferenza stampa del premier e del ministro dell'Economia. La proposta più «rivoluzionaria» è l'introduzione nella Costituzione di un vincolo di bilancio in pareggio, le idee per la crescita vanno nella direzione giusta anche se i dettagli sono da definire. Vedremo oggi se i mercati si calmeranno, ma è chiaro che queste decisioni andavano prese molto prima.

In Europa un anno e mezzo fa si sarebbe dovuta risolvere in un modo o nell'altro, ma radicalmente, la crisi greca con un ripudio o con un « bailout » (salvataggio) totale. E invece i leader (si fa per dire) europei si sono dilaniati in discussioni che nulla hanno fatto se non trascinare i mercati nel caos. Il Presidente e il Congresso americano hanno perso gran parte della loro credibilità con un pessimo spettacolo di tira e molla fino all'ultima ora sotto la spada di Damocle di un ripudio del debito. Tutti sapevano che alla fine si sarebbe trovato un mediocre escamotage , come infatti è avvenuto. Il risultato è stato che Wall Street è crollata e Standard & Poor's per la prima volta nella storia ha declassato il debito americano. I cinesi, che ne detengono una montagna, sono nervosi e furiosi. Ma c'è di più. La vera crisi fiscale è lo tsunami causato dall'invecchiamento della popolazione. Ne parla qualche politico? Certo che no: è troppo costoso, gli anziani (attuali e quelli che lo saranno a breve) sono una fonte di voti critica, mentre le generazioni future non votano, quindi non contano per questa mediocre leadership che la storia condannerà come non all'altezza dei problemi, gravi e complessi che abbiamo di fronte.

Ma i grandi leader si vedono appunto nei momenti difficili, non quando è tutto facile per cui un'ordinaria amministrazione è sufficiente! Infatti, una delle doti di un grande politico è quella di saper smussare i contrasti e dirigere un Paese in una direzione precisa, mettendo il bene comune al di sopra degli interessi di parte in un momento di crisi. Se qualche leader odierno ci è riuscito, batta un colpo. Io non ne vedo, compreso Silvio Berlusconi. La mancanza di leadership e di idee anche nell'opposizione è scoraggiante. In Europa i leader dei Paesi a rischio non hanno trovato di meglio che accusare i tedeschi per nascondere le loro manchevolezze. I francesi hanno cavalcato questi sentimenti visto che il deficit pubblico francese fa paura e prima o poi i mercati se ne accorgeranno. La Merkel ha dimostrato di capire poco di mercati finanziari e le sue prese di posizione erratiche non hanno aiutato. Negli Stati Uniti l'atteggiamento anti-business e populista del presidente e di Nancy Pelosi e l'estremismo del Tea Party hanno indebolito quell'ala moderata dei «new democrats» di Bill Clinton e dei repubblicani del Nord Est, laici e liberisti. Insomma, ridateci Einaudi, De Gasperi, Thatcher, Reagan, Clinton, Blair e Kohl prima che sia troppo tardi.

Alberto Alesina

08 agosto 2011 08:29© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_08/in-cerca-di-leader-alberto-alesina_a462c188-c183-11e0-9d6c-129de315fa51.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 24, 2011, 11:29:19 pm »

LA BCE E IL DEBITO SOVRANO

C'è una sola via d'uscita


Ieri i titoli di Stato austriaci a dieci anni rendevano oltre 1,6 punti percentuali più degli analoghi titoli tedeschi. L'Austria ha un debito inferiore di dieci punti a quello della Germania: nessuno quindi pensa che i suoi titoli siano più a rischio di quelli tedeschi. Quel differenziale riflette il timore che l'euro si spacchi e l'incertezza su che cosa accadrebbe all'Austria: adotterebbe il Deutsche Mark o ritornerebbe allo scellino? L'euro è sull'orlo dell'abisso.

L'incertezza sul futuro della moneta unica aumenta la volatilità dei mercati europei e induce i grandi investitori americani ad abbandonare investimenti in euro, fuggendo ora anche dai titoli tedeschi. Ieri l'asta dei Bund è stata sottoscritta solo grazie alla Bundesbank che ha acquistato il 40% dei titoli offerti da Berlino. Nel prossimo anno, nei Paesi dell'euro, scadono circa 500 miliardi di obbligazioni bancarie: se le banche non riuscissero a rifinanziarsi l'euro potrebbe non sopravvivere. I mercati temono che si finisca proprio lì.

A questo punto c'è un solo modo per salvare l'euro: un intervento forte della Bce. È una soluzione molto problematica, cui si è giunti a causa dell'irresponsabilità di governo dopo governo in parecchi Paesi europei, compreso il nostro. Ma a questo punto non vi è altra soluzione. Intervenire sui flussi, ad esempio cominciando a emettere eurobond, cioè titoli garantiti dall'Ue, anche se fosse possibile agirebbe troppo lentamente.

Bisogna intervenire sugli stock: agire sui flussi non basta più. La Bce può acquistare quantità illimitate di titoli riducendo la volatilità e riportando i rendimenti ai livelli pre-crisi. Non di tutti i Paesi, solo di quelli, come Italia e Spagna, che non sono insolventi. In realtà basterebbe che la Bce annunciasse l'intenzione di stabilizzare i rendimenti a un determinato livello: di acquisti veri e propri ne dovrebbe fare pochi.

Molti dicono che questo è il peccato originale dell'euro: non avere una banca centrale che si comporta come la Federal Reserve americana. Ma la differenza è che la Fed non compra i titoli emessi dagli Stati (dal Texas, o dalla California), solo quelli del governo federale. Non solo, ma la grande maggioranza degli Stati americani ha un vincolo di bilancio in pareggio. Titoli federali in Europa non esistono perché non esiste un ministro del Tesoro dell'Eurozona e i Paesi europei possono emettere debito a piacimento, senza tener conto dei costi per l'Unione nel suo complesso.

L'Ue, attraverso la Commissione, ha poteri esecutivi in due sole aree: la politica della concorrenza e quella monetaria. In ogni altra area le decisioni richiedono l'accordo dei governi. Per salvare l'euro occorre estendere i poteri esecutivi dell'Ue alla politica di bilancio, non alle singole misure o al mix fra spesa e imposte, che deve rimanere prerogativa dei parlamenti nazionali, ma ai conti pubblici aggregati: evoluzione del debito e saldi di bilancio. Certo, è una rivoluzione, e ci rendiamo conto che è necessario cambiare i trattati europei, ma a questo punto è la sola via per salvare l'euro e i 60 anni che abbiamo dedicato a costruire l'Europa.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

24 novembre 2011 | 8:15© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_24/c-e-una-sola-via-d-uscita-alberto-alesina-e-francesco-giavazzi_223e4daa-1663-11e1-a1c0-69f6106d85c1.shtml
« Ultima modifica: Dicembre 10, 2011, 11:24:11 am da Admin » Registrato
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« Risposta #5 inserito:: Dicembre 03, 2011, 05:39:45 pm »

L'EDITORIALE

Ciò che conta è la qualità

Interventi efficaci ed esempi utili

Gli interventi di politica economica che il governo annuncerà lunedì sono cruciali per l'Italia e per il futuro dell'euro. Non è un'esagerazione dire che il mondo intero ci sta guardando con apprensione. Queste misure, tuttavia, produrranno effetti molto diversi fra loro a seconda di come saranno congegnate. Potrebbero essere deflattive, cioè accelerare la caduta dei consumi e degli investimenti, e spingere l'Italia in recessione. Se così fosse gli spread , anziché ridursi, aumenterebbero, creando un circolo vizioso.

Oppure potrebbero segnare una svolta, comunicare agli investitori e al mondo intero che l'Italia ha capito l'origine dei suoi mali, che è disposta a lavorare di più, a pagare le imposte con più equità, a evitare l'assistenzialismo riducendo la spesa pubblica. È vero che le politiche per la crescita hanno bisogno di tempo per produrre effetti concreti, ma gli investitori guardano lontano: l'annuncio credibile di riforme incisive potrebbe avere effetti immediati sugli spread e quindi sul costo del debito pubblico e sulla disponibilità di credito per le aziende. È accaduto in molti Paesi.

Ma come fare? Innanzitutto bisogna smetterla di pensare solo alla cifra finale: una manovra di 20 miliardi sì, di 15 o 25 no! La composizione della manovra sarà molto più importante del saldo finale. Misure per 25 miliardi, ma che potrebbero accelerare la recessione, finirebbero per ridurre di molto le entrate facendo saltare il saldo previsto. Una manovra più leggera, ma che aiutasse la crescita, potrebbe invece valere molto di più.

Gli interventi più efficaci sono quelli che inducono a lavorare di più, perché più a lungo si lavora, meno lo Stato spende, e più aumenta il reddito e quindi la capacità di spesa delle famiglie. Quindi è giusto innalzare l'età della pensione e riformare con equità le pensioni di anzianità. Ed è meglio prevedere un anno di lavoro in più che cancellare l'adeguamento per l'inflazione di chi già è in pensione, una misura che invece ridurrebbe i consumi. Bene anche una tassazione preferenziale per le donne (annunciata dal presidente del Consiglio nel suo discorso alle Camere) che incentiverebbe sia le donne a partecipare al mercato del lavoro, sia le imprese ad assumerle, sia le coppie a riequilibrare i compiti all'interno della famiglia, liberando risorse femminili oggi sprecate. E meglio tassare di più gli immobili (in modo progressivo) e meno il lavoro.

Va nella medesima direzione la modifica dei contratti di lavoro e l'introduzione di un contratto unico che riduca la precarietà dei giovani. L'incertezza in cui essi oggi vivono non consente di «prendere in mano la vita», formare una famiglia, accendere un mutuo: anche questo limita i consumi per non parlare della qualità della loro vita.

Ma l'aspetto più importante perché la manovra non ci faccia cadere nella spirale della deflazione è trasmettere il senso che si è voltata pagina. Per questo gli interventi sui costi della politica e sulla trasparenza delle nomine pubbliche (Finmeccanica) è tanto importante. I cittadini devono esser convinti che si è voltata pagina anche per i politici e per chi gode di privilegi ingiusti. E lo si faccia senza esitazione. Gli spread sono influenzati molto da aspetti psicologici, dalle aspettative sul futuro, dalla fiducia nel Paese. La fiducia non la si riconquista con un saldo di 25 invece che 20 miliardi, ma con un pacchetto di riforme che segnali una svolta vera.


Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

1 dicembre 2011 | 7:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_01/cio-che-conta-e-la-qualita-alberto-alesina-e-francesco-giavazzi_8d74d51a-1be2-11e1-8ed7-30f7808a816f.shtml
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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 10, 2011, 11:24:55 am »

TROPPE TASSE E POCHI TAGLI


Caro presidente no, così non va

Caro presidente, Lei conosce perfettamente l'importanza storica per il nostro Paese e per l'Europa (oseremmo dire per il mondo intero) delle decisioni che il suo governo oggi assumerà. Dobbiamo confessarle, con tutto il rispetto per il compito difficilissimo che Lei sta svolgendo, che le indiscrezioni che leggiamo sui giornali ci preoccupano e speriamo davvero che Lei e il Suo governo le smentiscano con i fatti.

Quattro erano i punti che a noi parevano essenziali. Primo, per quanto riguarda i conti, ridurre le spese, più che aumentare le tasse. Secondo, preoccuparsi non tanto del saldo della manovra, ma della sua qualità, soprattutto guardando agli effetti sulla crescita. Terzo, dal punto di vista del metodo e del significato politico (anche questo importante) abbandonare la concertazione, perché comunque a quel tavolo non hanno accesso i giovani e chiunque non ha rappresentanza. Infine attaccare senza esitazioni i costi della politica e chiudere i mille canali che consentono di evadere le tasse. Insomma, dare un segnale netto.

Leggiamo invece che dopo i passi iniziali, che sembravano assai incoraggianti, la manovra si sta delineando secondo le solite modalità: aumenti di imposte, pochissimi tagli, incontri con le cosiddette parti sociali (cioè concertazione), nessuna riduzione dei costi della politica.

Punto primo. Tutti gli studi (sia accademici che del Fondo monetario internazionale che della Commissione europea) concordano sul fatto che gli aggiustamenti fiscali fatti aumentando le aliquote hanno creato recessioni più forti di quelli che hanno operato riducendo le spese. Non solo: la spirale di aumenti di aliquote, recessione, riduzione di gettito, tende a creare un circolo vizioso in cui l'economia si avvita in una recessione sempre più grave. Quella di cui leggiamo è una manovra fatta per tre quarti di maggiori tasse e solo per un quarto di minori spese.

Il peso delle imposte in Italia è sopra la media europea (già elevata). Se poi vogliamo considerare l'equità, gli aumenti delle aliquote Irpef colpirebbero anche le classi medie e si sommerebbero alla reintroduzione dell'Ici sulla prima casa. Non sono solo i super ricchi quelli colpiti dagli aumenti dell'Irpef che, a quanto leggiamo, Lei proporrebbe. 75mila euro lordi l'anno (la soglia oltre la quale inizierebbe l'aumento dell'aliquota) corrispondono a poco più di 3.800 euro netti al mese. Per ridurre il deficit, invece di alzare le aliquote, perché non tagliare un po' di sussidi alle imprese? La Tabella A1 della Relazione trimestrale di cassa al 30.6.2010 riporta 15,5 miliardi di trasferimenti a imprese pubbliche e private, cioè oltre 30 miliardi di euro l'anno. Sono tutti davvero necessari? Quanti premiano imprenditori più abili a muoversi nei corridoi dei ministeri che ad innovare?

E perché non agire coraggiosamente contro il peso di un impiego pubblico esorbitante e talvolta inutile? Fino a pochi giorni fa si pensava che l'intervento sulla previdenza avrebbe prodotto risparmi per oltre 10 miliardi. Ora siamo a 6, di cui metà provenienti dall'eliminazione dell'adeguamento all'inflazione, una misura che ridurrà i consumi.

Punto secondo: la crescita. Molto più di un saldo di 25 o 15 miliardi, ciò che conta è un segnale di svolta sulle riforme strutturali. Come Lei ben sa, il nostro problema non è il deficit, ma il rapporto fra debito e prodotto interno. Per ridurlo non basta mantenere un saldo positivo al numeratore: occorre che aumenti il denominatore, cioè la crescita. La riforma dei contratti di lavoro sembra scomparsa ed è invece condizione sine qua non per la crescita. E poi riforma della giustizia, cominciando da una riduzione drastica delle sedi giudiziarie, e liberalizzazione delle professioni. È fondamentale che domani Lei offra delle proposte concrete e credibili su questi temi e si impegni ad andare avanti anche a costo di affrontare le proteste virulenti di chi difende solo interessi di parte.

Punto terzo: il metodo. Con infinti e tediosi incontri con questa o quella rappresentanza si ritorna al solito problema italiano: viene colpito chi lavora e non evade le tasse, mentre nulla si fa per tagliare la spesa pubblica. Quante volte Lei stesso lo ha scritto su questo giornale? Infine non si dimentichi che i segni sono importanti. Sappiamo che non può eliminare i vitalizi, ma può tagliare in modo drastico i trasferimenti agli organi istituzionali: ad esempio Camera e Senato. Avrà contro mille parlamentari, ma avrà dalla sua parte 50 milioni di cittadini.

Le Sue immagini insieme alla signora Merkel e al presidente Sarkozy ci hanno riempito di orgoglio, come italiani, dopo tante umiliazioni. Il mondo ci sta guardando: non è più tempo di passi felpati. Ci vuole una risposta nuova, oseremmo dire «rivoluzionaria».

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

4 dicembre 2011 | 9:46© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #7 inserito:: Dicembre 11, 2011, 11:25:48 am »

SE LA RECESSIONE VANIFICA LA MANOVRA

Le scelte da fare e i pericoli reali

Nel decreto varato domenica scorsa dal governo, e che ora deve essere approvato in Parlamento, vi sono alcuni aspetti positivi, altri meno. Mancano misure la cui assenza ci ha sorpreso. E vi è un errore di metodo che si ritrova anche nelle raccomandazioni della Commissione europea all'Italia. Cominciamo da quest'ultimo.

La correzione dei conti pubblici è costruita prendendo, come punto di partenza, le previsioni della Commissione. Per l'Italia queste indicano, nel 2012, una caduta del reddito di mezzo punto percentuale, cioè un inizio di recessione. È proprio questo il motivo per cui il decreto di domenica scorsa si è reso necessario: se le ipotesi fossero rimaste quelle di alcuni mesi fa, prima delle manovre estive del governo Berlusconi, quando ancora si prevedeva una crescita modesta, ma positiva, questo decreto non sarebbe stato necessario. Alla luce delle nuove previsioni, la Commissione ha calcolato l'entità della manovra per non mancare l'obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013.

L'errore è proprio qui, nel ritenere che la crescita dell'economia sia indipendente dalle manovre sui conti pubblici e soprattutto dalla loro composizione (aumenti di tasse o tagli alle spese). Se, prima di domenica, la crescita per il 2012 era prevista a -0,5 per cento, ora sarà necessariamente diversa: data la composizione del decreto (quasi solo tasse) temiamo che la caduta del reddito sarà più accentuata. Di quanto? Difficile prevederlo. Venerdì il Governatore della Banca d'Italia, nella sua audizione in Parlamento, l'ha stimata in mezzo punto di crescita in meno. Ciò che accadde negli anni Novanta, quando l'aggiustamento dei conti pubblici fu simile sia per entità, sia per composizione (anche allora quasi solo tasse), suggerisce che nel prossimo anno il prodotto interno (Pil) potrebbe cadere di una cifra superiore all'1 per cento. Se ciò si verificasse, saremmo da capo: si renderebbe necessaria una nuova manovra.

Gli effetti recessivi della manovra potrebbero essere più contenuti se essa generasse un «effetto fiducia» tra gli investitori, con conseguente riduzione dei tassi di interesse. Ma affinché questo accada non è solo il saldo della manovra ciò che conta: la sua composizione è forse ancor più importante. Come scrivevamo domenica scorsa, su una cosa concordano tutti gli studi: misure costruite prevalentemente aumentando le tasse sono molto più recessive di quelle costruite riducendo le spese. Queste ultime, soprattutto se accompagnate da riforme strutturali e liberalizzazioni, hanno effetti recessivi molto contenuti, se non addirittura di segno contrario, proprio perché generano un «effetto fiducia». Ridurre le spese significa che in futuro le tasse saranno meno gravose, mentre senza tagli le imposte continueranno a inseguire la spesa, come è accaduto negli ultimi dieci anni. Dal 2001 a oggi, le spese correnti al netto degli interessi sono cresciute di 5,6 punti in percentuale del Pil, dal 37,4 al 43%, trascinandosi appresso un aumento di 2 punti della pressione fiscale.

Il presidente del Consiglio queste cose le conosce: ecco perché ci stupisce la composizione della manovra, fatta per lo più di maggiori tasse. Davvero i circa 30 miliardi di sussidi pubblici alle imprese sono intoccabili? Non si poteva agire con maggior determinazione sui costi della politica riducendo i trasferimenti a Camera e Senato, e abolendo davvero le Province? Perché il capitolo privatizzazioni non è stato neppure aperto? Il nostro primo problema non è ridurre il debito? È vero che la Borsa è depressa, ma lo sono anche i prezzi dei Btp: quando mai si ripresenterà l'occasione di ritirare a 70 centesimi titoli che a scadenza dovremmo ripagare 100? Se l'argomento è che Enel, Eni, Finmeccanica o le mille municipalizzate - Iren, Acea, Hera, A2A - sono aziende strategiche, ci spiace ma sono ambizioni che oggi non possiamo permetterci.

Quasi solo tasse quindi, ma almeno tasse migliori e questo è un primo aspetto positivo. L'assenza di un'imposta sulla prima casa era un'anomalia italiana: è stato giusto rimuoverla. Bene anche non aver toccato l'Irpef: ci siamo andati vicini, e comunque aumenterà l'addizionale Irpef imposta dalle Regioni. Ottima la deducibilità dell'Irap nel caso un'azienda assuma un giovane o una donna, un provvedimento simile alle «aliquote rosa» che avevamo proposto. (Ma perché detassare le imprese va sempre bene, mentre detassare le persone no?).

Bene anche le regole più severe per le pensioni di anzianità (ora chiamate «pensioni anticipate») e la nuova disciplina delle pensioni di vecchiaia: con il ministro Fornero si è davvero cambiato registro. Necessaria, però, una maggiore attenzione alla perequazione degli assegni più bassi. Sulle pensioni si è avviata una riforma strutturale che va completata e che, oltre a migliorare i conti, aumenterà l'offerta di lavoro.

Ora però arriva la parte più difficile. Poiché, come dicevamo all'inizio, questa manovra sarà recessiva, è urgente compensarla subito con riforme strutturali, prima che la recessione si faccia sentire in pieno: dal contratto unico nel mercato del lavoro, alla riforma della giustizia civile e delle professioni, magari applicando il «metodo greco» (abolire per legge tutte le restrizioni, lasciando alle professioni l'onere di mostrare che alcune sono essenziali e devono quindi essere reintrodotte), che il presidente del Consiglio ha spesso additato a esempio. Se non lo si fa in fretta, gli investitori penseranno che ci stiamo avvitando in una spirale recessiva e saremo fritti.

Sono riforme di cui si parla da anni: non si parte da zero, studi e proposte abbondano, si tratta solo di cominciare. Bisogna iniziare già nel tradizionale decreto di fine anno: non c'è tempo per concertare questi provvedimenti con le «parti sociali». Se questo governo si ferma, anche solo qualche settimana, anziché passare alla storia come il salvatore dell'Italia - e potrebbe davvero esserlo - sarà travolto dalla corrente dei mercati.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

11 dicembre 2011 | 9:26© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_11/le-scelte-da-fare-e-i-pericoli-reali-alberto-alesina-e-francesco-giavazzi_eaa14188-23d0-11e1-9648-0971f64f00f8.shtml
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« Risposta #8 inserito:: Dicembre 15, 2011, 06:17:48 pm »

SE LA RECESSIONE VANIFICA LA MANOVRA

Le scelte da fare e i pericoli reali

Nel decreto varato domenica scorsa dal governo, e che ora deve essere approvato in Parlamento, vi sono alcuni aspetti positivi, altri meno. Mancano misure la cui assenza ci ha sorpreso. E vi è un errore di metodo che si ritrova anche nelle raccomandazioni della Commissione europea all'Italia. Cominciamo da quest'ultimo.

La correzione dei conti pubblici è costruita prendendo, come punto di partenza, le previsioni della Commissione. Per l'Italia queste indicano, nel 2012, una caduta del reddito di mezzo punto percentuale, cioè un inizio di recessione. È proprio questo il motivo per cui il decreto di domenica scorsa si è reso necessario: se le ipotesi fossero rimaste quelle di alcuni mesi fa, prima delle manovre estive del governo Berlusconi, quando ancora si prevedeva una crescita modesta, ma positiva, questo decreto non sarebbe stato necessario. Alla luce delle nuove previsioni, la Commissione ha calcolato l'entità della manovra per non mancare l'obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013.

L'errore è proprio qui, nel ritenere che la crescita dell'economia sia indipendente dalle manovre sui conti pubblici e soprattutto dalla loro composizione (aumenti di tasse o tagli alle spese). Se, prima di domenica, la crescita per il 2012 era prevista a -0,5 per cento, ora sarà necessariamente diversa: data la composizione del decreto (quasi solo tasse) temiamo che la caduta del reddito sarà più accentuata. Di quanto? Difficile prevederlo. Venerdì il Governatore della Banca d'Italia, nella sua audizione in Parlamento, l'ha stimata in mezzo punto di crescita in meno. Ciò che accadde negli anni Novanta, quando l'aggiustamento dei conti pubblici fu simile sia per entità, sia per composizione (anche allora quasi solo tasse), suggerisce che nel prossimo anno il prodotto interno (Pil) potrebbe cadere di una cifra superiore all'1 per cento. Se ciò si verificasse, saremmo da capo: si renderebbe necessaria una nuova manovra.

Gli effetti recessivi della manovra potrebbero essere più contenuti se essa generasse un «effetto fiducia» tra gli investitori, con conseguente riduzione dei tassi di interesse. Ma affinché questo accada non è solo il saldo della manovra ciò che conta: la sua composizione è forse ancor più importante. Come scrivevamo domenica scorsa, su una cosa concordano tutti gli studi: misure costruite prevalentemente aumentando le tasse sono molto più recessive di quelle costruite riducendo le spese. Queste ultime, soprattutto se accompagnate da riforme strutturali e liberalizzazioni, hanno effetti recessivi molto contenuti, se non addirittura di segno contrario, proprio perché generano un «effetto fiducia». Ridurre le spese significa che in futuro le tasse saranno meno gravose, mentre senza tagli le imposte continueranno a inseguire la spesa, come è accaduto negli ultimi dieci anni. Dal 2001 a oggi, le spese correnti al netto degli interessi sono cresciute di 5,6 punti in percentuale del Pil, dal 37,4 al 43%, trascinandosi appresso un aumento di 2 punti della pressione fiscale.

Il presidente del Consiglio queste cose le conosce: ecco perché ci stupisce la composizione della manovra, fatta per lo più di maggiori tasse. Davvero i circa 30 miliardi di sussidi pubblici alle imprese sono intoccabili? Non si poteva agire con maggior determinazione sui costi della politica riducendo i trasferimenti a Camera e Senato, e abolendo davvero le Province? Perché il capitolo privatizzazioni non è stato neppure aperto? Il nostro primo problema non è ridurre il debito? È vero che la Borsa è depressa, ma lo sono anche i prezzi dei Btp: quando mai si ripresenterà l'occasione di ritirare a 70 centesimi titoli che a scadenza dovremmo ripagare 100? Se l'argomento è che Enel, Eni, Finmeccanica o le mille municipalizzate - Iren, Acea, Hera, A2A - sono aziende strategiche, ci spiace ma sono ambizioni che oggi non possiamo permetterci.

Quasi solo tasse quindi, ma almeno tasse migliori e questo è un primo aspetto positivo. L'assenza di un'imposta sulla prima casa era un'anomalia italiana: è stato giusto rimuoverla. Bene anche non aver toccato l'Irpef: ci siamo andati vicini, e comunque aumenterà l'addizionale Irpef imposta dalle Regioni. Ottima la deducibilità dell'Irap nel caso un'azienda assuma un giovane o una donna, un provvedimento simile alle «aliquote rosa» che avevamo proposto. (Ma perché detassare le imprese va sempre bene, mentre detassare le persone no?).

Bene anche le regole più severe per le pensioni di anzianità (ora chiamate «pensioni anticipate») e la nuova disciplina delle pensioni di vecchiaia: con il ministro Fornero si è davvero cambiato registro. Necessaria, però, una maggiore attenzione alla perequazione degli assegni più bassi. Sulle pensioni si è avviata una riforma strutturale che va completata e che, oltre a migliorare i conti, aumenterà l'offerta di lavoro.

Ora però arriva la parte più difficile. Poiché, come dicevamo all'inizio, questa manovra sarà recessiva, è urgente compensarla subito con riforme strutturali, prima che la recessione si faccia sentire in pieno: dal contratto unico nel mercato del lavoro, alla riforma della giustizia civile e delle professioni, magari applicando il «metodo greco» (abolire per legge tutte le restrizioni, lasciando alle professioni l'onere di mostrare che alcune sono essenziali e devono quindi essere reintrodotte), che il presidente del Consiglio ha spesso additato a esempio. Se non lo si fa in fretta, gli investitori penseranno che ci stiamo avvitando in una spirale recessiva e saremo fritti.

Sono riforme di cui si parla da anni: non si parte da zero, studi e proposte abbondano, si tratta solo di cominciare. Bisogna iniziare già nel tradizionale decreto di fine anno: non c'è tempo per concertare questi provvedimenti con le «parti sociali». Se questo governo si ferma, anche solo qualche settimana, anziché passare alla storia come il salvatore dell'Italia - e potrebbe davvero esserlo - sarà travolto dalla corrente dei mercati.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

11 dicembre 2011 | 9:26© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_11/le-scelte-da-fare-e-i-pericoli-reali-alberto-alesina-e-francesco-giavazzi_eaa14188-23d0-11e1-9648-0971f64f00f8.shtml
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« Risposta #9 inserito:: Gennaio 02, 2012, 03:17:52 pm »

AGENDA PER UN ANNO DECISIVO

Ricchezza, equità. Troppi gli equivoci

Dal governo Monti gli italiani si aspettano - nel 2012 - crescita, un po' di fiducia ed equità. Le prime due sono state merci scarse nel fine anno 2011. Su cosa sia l'equità, c'è molta confusione. La crescita non c'è, anzi siamo entrati in recessione. A inizio dicembre, Confindustria prevedeva per il 2012 una caduta del reddito dell'1,6%. Il decreto «salva Italia» ha portato la pressione fiscale a un massimo storico: il 45%. Non sorprendentemente ne è seguito un calo nella fiducia degli italiani. L'indicatore elaborato dalla Commissione europea per misurare la fiducia delle famiglie (la domanda posta è «Come vedete la condizione economica della vostra famiglia nei prossimi 12 mesi?»), che era migliorato dopo la formazione del nuovo governo, è peggiorato in dicembre del 4,7%, ritornando al livello minimo toccato nell'inverno 2008. Nel resto dell'area euro, nel medesimo periodo, è rimasto pressoché stabile; negli Stati Uniti l'analogo indice è migliorato, sempre in dicembre, del 15%. Dati che si riferiscono a singole aziende italiane indicano che nello stesso mese le loro vendite al dettaglio sono state inferiori a un anno prima di una cifra oscillante fra il 7 e il 10%. La conclusione è che nel 2012 rischiamo una caduta del reddito del 2%. Se si fossero tagliate un po' di spese inutili, anziché limitarsi ad alzare le tasse, l'effetto sarebbe stato molto meno grave. Ma ormai è tardi.

Per arginare la recessione ora occorre ridare fiducia a famiglie e imprese: ci vogliono riforme profonde, coraggiose e immediate. Ma non appena si parla di riforme viene sollevata la questione dell'equità, non sempre però in modo corretto. Che cosa significa equità? Nelle discussioni di queste settimane sta prendendo piede una visione pericolosa: che la ricchezza, comunque ottenuta, vada perseguita e «punita». La demonizzazione della ricchezza. Non si deve fare di ogni erba un fascio: c'è chi è relativamente ricco perché ha investito nella propria istruzione, spesso con anni di sacrifici; chi ha corso rischi imprenditoriali, ha creato posti di lavoro, è stato premiato dal mercato e paga metà del proprio reddito in tasse. C'è invece la ricchezza creata con l'evasione fiscale, le connessioni politiche, i favori più o meno leciti ottenuti nei corridoi dei ministeri. La ricchezza ottenuta con i premi concessi a manager pubblici che hanno male amministrato o addirittura corrotto le aziende loro affidate; con distorsioni della governance di istituzioni finanziarie per cui amministratori, anche incapaci, quando smettono di far danni, si ritirano con decine di milioni di euro di buonuscita. La prima cosa che il governo deve fare è segnalare agli italiani di essere conscio di questa distinzione. Altrimenti imprenditori e capitali andranno altrove, e con essi i posti di lavoro, e addio crescita.

Si dice che l'Italia con il nuovo governo abbia alzato la testa. Forse, ma il giorno di Natale la lettura di un articolo del New York Times sull'evasione fiscale nel nostro Paese ce l'avrebbe fatta riabbassare. Ecco un'idea quasi banale per combattere l'evasione: consentire ai cittadini di detrarre dal reddito soggetto a tassazione una quota delle loro spese. Poter detrarre il 30% sarebbe sufficiente per indurli a chiedere una ricevuta, anche se ciò comporta un prezzo maggiorato dell'Iva. L'effetto netto sul gettito sarebbe certamente positivo.

L'Italia è divisa in due: c'è una parte del Paese che funziona e una no. Bisogna permettere alle risorse di spostarsi verso la parte che funziona. Anche questa è equità: non proteggere chi, non produttivo, pesa su chi lo è. Una ricerca di alcuni economisti (Matteo Brugamelli e Roberta Zizza della Banca d'Italia e Fabiano Schivardi dell'università di Sassari) mostra che, dopo l'introduzione dell'euro, le piccole e medie imprese italiane si sono divise, a grandi linee, in due gruppi. Alcune hanno investito, inventando nuovi prodotti e cercando nuovi mercati: la loro produttività è cresciuta e così i salari dei loro dipendenti. Altre aziende invece non hanno investito: la loro produttività è rimasta invariata e oggi i loro prodotti non sopravvivono alla concorrenza. Queste ultime dovrebbero chiudere, lasciando spazio alle imprese più efficienti per crescere e così aumentare la produttività media del Paese. Ma ciò non accade se lo Stato protegge le imprese improduttive, ad esempio utilizzando la cassa integrazione (che spesso mantiene lavoratori legati a imprese che non hanno futuro), anziché promuovere un moderno sistema di sussidi di disoccupazione che aiutino i lavoratori a spostarsi da un'azienda all'altra. Anche questo frena la crescita: sia perché la presenza di aziende vecchie e protette rende più difficile crearne di nuove, sia perché le protezioni costano, e a pagarle sono le imprese che guadagnano.

C'è poi l'equità fra padri e figli, fra anziani e giovani. Il ministro Elsa Fornero è arrivata al governo con due idee chiare, una sulle pensioni: un'altra sul lavoro. Pensava, giustamente, che il nostro sistema previdenziale fosse stato reso sostenibile dalla riforma Dini: bisognava solo accelerarla. In pochi giorni lo ha fatto e oggi le pensioni italiane, pur non perfette, sono più sostenibili che in molti Paesi europei.

Anche sul mercato del lavoro Fornero ha (o almeno aveva) idee chiare: è necessario un contratto unico che accolga un giovane al primo impiego e poi lo accompagni nella sua vita lavorativa. Un contratto che si differenzi solo per quanto un'impresa deve pagare se decide di licenziare un dipendente: nulla i primi mesi e un ammontare via via crescente col trascorrere del tempo e del rapporto di lavoro. Vi sono diversi modi per disegnare un simile contratto, alcuni proposti da Olivier Blanchard, il capo economista del Fondo monetario internazionale, altri dal senatore Pietro Ichino. In entrambe le proposte si tratta di contratti a tempo indeterminato per tutti, ma rescindibili, se necessario, per motivi economici dell'impresa. Si può prevedere un periodo di apprendistato alla tedesca, ma il punto cruciale è eliminare il precariato e far sì che i giovani non si sentano più dei paria, cui viene negato un mutuo per acquistare una casa e così il sogno di formare una famiglia. All'interno di un'azienda i lavoratori possono distinguersi per la loro anzianità, ma non fra chi è fortunato e ha un contratto a tempo indeterminato e chi quella fortuna non ha avuto. Insomma, ai giovani il governo deve offrire un futuro più certo e ridare loro un po' di fiducia. Ma i giovani non si devono aspettare il posto fisso nel senso dell'illicenziabilità, del lavoro a vita nella stessa impresa.

La sostituzione della cassa integrazione con un moderno sistema di sussidi temporanei è il complemento necessario del contratto unico e permetterebbe di usare il periodo di disoccupazione per investire nella propria formazione. Il rifiuto da parte dei sindacati di dialogare su questi argomenti dimostra, ancora una volta, che a queste organizzazioni i giovani e l'equità intergenerazionale non interessano. L'ottima Elsa Fornero non deve arrendersi ai sindacati. Il Paese le deve già molto, le chiediamo ancora più coraggio e Mario Monti le deve tutto il suo appoggio.

Si parla poi di equità con riferimento al fatto che i salari in Italia sono più bassi che altrove. Secondo dati dell'Eurostat, a parità di caratteristiche individuali, le retribuzioni mensili nette italiane nel settore privato risultano in media inferiori di circa il 10 per cento a quelle tedesche, del 20 a quelle britanniche e del 25 a quelle francesi. Non c'è da sorprendersi: i salari non sono «una variabile indipendente» per citare una frase storica (in seguito per la verità rinnegata) di Luciano Lama, leader della Cgil negli anni 70. I salari dipendono dalla produttività, che in Italia è cresciuta molto meno che negli altri Paesi europei: non solo per colpa dei sindacati, ma anche di quegli imprenditori che si sono illusi che si potesse vivere di rendita.

Il primo grafico (guarda) mostra come la produttività del lavoro in Italia sia stagnante almeno dal 2000, mentre nella la media dei Paesi dell'Euro cresceva, specialmente in Germania. Non solo la produttività in Italia cresce poco, ma i salari poi non la seguono correttamente, premiando troppo l'anzianità. Come si vede nel secondo grafico (guarda), i salari medi italiani crescono con l'età mentre, ad esempio, in Gran Bretagna, raggiungono un apice in corrispondenza delle età più produttive e calano negli anni successivi. Insomma, in Italia conta soprattutto (troppo) l'anzianità, in tutti i campi. Per correggere questa situazione ci vuole un accordo costruito su tre punti: le imprese offrono un contratto unico e rinunciano ai sussidi pubblici; lo Stato riduce le tasse sul lavoro, finanziando gli sgravi con i tagli ai sussidi alle imprese; i sindacati accettano una gestione più flessibile del lavoro. Il presidente di Confindustria dice che i sussidi non bastano perché sono solo 2,7 miliardi l'anno. Se ha ragione, a chi vanno i rimanenti 27,3 miliardi di «sussidi alle imprese» che appaiono nel bilancio dello Stato? Probabilmente a imprese che li meritano ancor meno degli associati a Confindustria. Se si avesse il coraggio di tagliarli vi sarebbe lo spazio per finanziare sia una riduzione molto significativa del cuneo fiscale sia il passaggio dalla cassa integrazione a un moderno sistema di sussidi.

Equità e crescita si combinerebbero anche privatizzando imprese pubbliche, dove talvolta - come nel caso di Finmeccanica, un tempo additata quale gioiello del sistema pubblico - abbiamo appreso che dilagava la corruzione. Spiegavamo in un precedente articolo che se la Borsa è depressa, lo sono anche i prezzi dei Btp: quando mai si ripresenterà l'occasione di ritirare a 70 centesimi titoli che a scadenza dovremmo ripagare 100? Privatizzare è il modo corretto per ridurre il debito, come fece il governo Ciampi negli anni 90. Ci preoccupa invece leggere che tornano di moda proposte di ridurre il debito in modo più o meno forzoso, inducendo le banche ad acquistare titoli pubblici garantiti dal patrimonio dello Stato. Innanzitutto perché se il patrimonio garantisce solo alcuni titoli, il prezzo degli altri, quelli non garantiti, evidentemente cadrebbe, quindi non si vede che beneficio ne venga allo Stato. Ma soprattutto queste proposte sembrano ignorare che le nostre banche hanno bisogno urgente di capitale fresco. Altrimenti, come è accaduto il mese scorso, la liquidità che ricevono dalla Banca centrale europea, o la impiegano per acquistare Bot semestrali o la ridepositano a Francoforte. Comunque, non prestano denaro alle imprese perché non hanno il capitale necessario per farlo. Le fondazioni, che sono i loro maggiori azionisti, non hanno più risorse per ricapitalizzare le banche: quindi la condizione per far riprendere il credito alle imprese è attirare nuovi azionisti privati. Pensate che ci sarebbero se le banche venissero usate per acquisti forzosi di titoli pubblici? L'ora delle alchimie finanziarie è finita. L'Italia si salva solo se l'economia reale riparte.

Infine l'università. Caro presidente del Consiglio, rilegga un libro a lei caro, Prediche Inutili di Luigi Einaudi, e inserisca nella legge sulle liberalizzazioni cui sta lavorando l'abolizione del valore legale della laurea: un provvedimento, come spiegava Einaudi, che aumenterebbe competizione e merito nei nostri atenei.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

2 gennaio 2012 | 8:36© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #10 inserito:: Gennaio 22, 2012, 10:03:47 pm »

CONTRATTO UNICO E ARTICOLO 18
 
Giovani e articolo 18, le verita’ scomode
 

Con il pacchetto di liberalizzazioni approvato venerdì scorso, il governo Monti ha fatto in due mesi ciò che i precedenti governi non avevano fatto dall’introduzione dell’euro. Al di là dei singoli provvedimenti, che vanno tutti nella giusta direzione, la cosa forse più importante è il messaggio politico che ne esce. Non è vero che «in Italia non si può fare»; non è vero che l’Italia è bloccata dalle corporazioni. In queste ore il governo viene attaccato da ogni parte: nelle strade, nelle telefonate dei capi delle categorie, che in piazza non vanno ma usano canali più occulti, e da domani anche in Parlamento. Non deve cedere, anche se venerdì qualche pezzo per strada si è perduto.
 
Ora però arriva un passo forse ancor più difficile: la riforma del mercato del lavoro. Al centro c’è una questione di equità fra padri e figli. E di equità tra cittadini protetti dai sindacati e cittadini coinvolti nelle liberalizzazioni. Una questione che il ministro Fornero—ricordando una frase di Luciano Lama, il leader della Cgil negli anni 70 — ha colto perfettamente. Riflettendo sul ruolo del sindacato in quel periodo, e quindi sui criteri che ispirarono la legislazione sul lavoro tuttora in vigore, Lama disse: «Noi, purtroppo, in un certo senso, abbiamo vinto contro i nostri figli». E non vale l’argomento che oggi i padri aiutano i figli all’interno della famiglia. Questo è vero, ma la famiglia non deve diventare un’istituzione che, lo voglia o no, è costretta a sostituirsi a ciò che dovrebbero fare lo Stato e il mercato. La riforma dei contratti di lavoro deve liberare i giovani da una dipendenza forzata dai loro padri e dalle loro madri.
 
Nei quindici anni passati il mercato del lavoro italiano è diventato molto più flessibile: il risultato, con buona pace di chi pensa che più flessibilità significhi più disoccupazione, è che (almeno fino all’inizio della crisi, che comunque passerà) molte più persone lavorano. Il guaio è che la maggior flessibilità è stata ottenuta imponendo un costo elevato ai giovani, mentre i lavoratori più anziani continuavano ad essere protetti da contratti a tempo indeterminato. E, se occupati in imprese con più di quindici dipendenti (ecco un altro fattore di iniquità), protetti anche dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che ne sancisce l’illicenziabilità per motivi economici. E se poi la loro azienda è in difficoltà li soccorre la cassa integrazione, un istituto sconosciuto alla gran maggioranza dei giovani.
 
Come mostrano Emiliano Mandrone e Nicola Massarelli sul sito www.lavoce.info, la precarietà involontaria (cioè i lavoratori a termine involontari, i finti collaboratori e gli individui non più occupati perché hanno concluso un contratto temporaneo e ne cercano un altro) coinvolgeva, prima della crisi, poco meno di quattro milioni di lavoratori, quasi tutti giovani.
 
Per loro il precariato non è una breve parentesi nel percorso verso un lavoro stabile, è una «trappola»: nemmeno uno su tre riesce a passare a un contratto a tempo indeterminato. Il motivo è che, per un’impresa, passare un lavoratore dalla precarietà ad un contratto a tempo indeterminato significa renderlo illicenziabile, a causa appunto dell’articolo 18, e questo comporta un rischio troppo elevato per l’impresa stessa. Quindi i giovani rimangono precari troppo a lungo, talvolta a vita. E quando arriveranno alla pensione i pochi contributi saltuariamente versati non saranno sufficienti. Non solo, ma un’impresa non investe nella formazione di un lavoratore che dopo pochi mesi perderà: quindi la produttività dei giovani precari rimane bassa, non imparano nulla e più l’età avanza meno diventano impiegabili. È un dramma non solo per i giovani ma per la produttività del Paese. Per abbattere questo muro c’è una sola via: eliminare l’articolo 18. Sbaglia chi ripete che non è una battaglia che valga la pena di combattere. È una battaglia fondamentale.
 
Il ministro Fornero ha perfettamente chiari i termini e la soluzione del problema: «Penso», ha detto nell’intervista al Corriere del 18 dicembre, «che un ciclo di vita che funzioni è quello che permette ai giovani di entrare nel mercato del lavoro con un contratto vero, non precario. Un contratto che riconosca che sei all’inizio della vita lavorativa e quindi hai bisogno di formazione, e dove parti con una retribuzione bassa, ma che poi salirà in relazione alla produttività. Insomma, io vedrei bene un contratto unico, che includa le persone oggi escluse e che però forse non tuteli più al 100% il solito segmento iperprotetto». Questo significa abolire l’articolo 18. Si obietta che oggi, nel mezzo di una recessione, eliminare l’articolo 18 significherebbe consentire alle imprese licenziamenti indiscriminati. È vero il contrario. In un momento di grande incertezza, come quello che stiamo attraversando, gli imprenditori sono restii ad assumere con l’inflessibilità dell’articolo 18 proprio perché sono insicuri sul futuro della loro azienda. Quindi è proprio in un momento difficile che l’articolo 18 preoccupa gli imprenditori. Quando tutto va bene e si è ottimisti, assumere per la vita è facile per tutti.
 
Ma anche alle imprese dev’essere chiesto un contributo. A fronte dell’abolizione dell’articolo 18 devono essere disposte a pagare una quota dei sussidi di disoccupazione. E questo non tanto per alleggerire l’onere a carico dell’Inps, quanto soprattutto perché in questo modo un’impresa ci penserà bene prima di licenziare un lavoratore, e lo farà solo se davvero è convinta che la domanda per i suoi prodotti rimarrà bassa a lungo. Una possibilità è quanto prevede la proposta di legge presentata dal senatore Pietro Ichino. Il sussidio del primo anno potrebbe rimanere, come già previsto, quasi interamente a carico dell’Inps. Questo sussidio, che oggi raggiunge l’80% della retribuzione di base, potrebbe essere integrato ponendo un ulteriore 10% a carico dell’impresa. Il secondo anno, quando viene meno il sussidio pubblico, potrebbe essere interamente a carico dell’impresa, con una copertura, ad esempio, del 70%. Questa scenderebbe il terzo anno con un onere suddiviso fra Inps e impresa. Ovviamente questo richiederebbe che la cassa integrazione fosse riservata ai soli casi di caduta temporanea degli ordini, cinque o sei mesi, non di più. Oltre questo periodo deve intervenire un moderno sistema di sussidi temporanei, decrescenti nel tempo e accompagnati da attività di riqualificazione dei lavoratori. Non stiamo inventando nulla di originale: piu o meno così funziona il welfare in quasi tutti i Paesi industriali tranne l’Italia e pochi altri.
 
Le imprese non dovrebbero esser obbligate ad aderire al nuovo sistema: quelle che accettano di contribuire al finanziamento dei sussidi avrebbero accesso ai nuovi contratti non protetti dall’articolo 18. Le altre possono rimanere nel vecchio regime. Ma al di là degli aspetti tecnici, un punto è cruciale. Deve esserci un unico contratto per tutti e l’articolo 18 va abolito. Solo così si abbatte il muro che ha trasformato i giovani nei paria del mercato del lavoro. Accettare compromessi su questi due punti significa varare una riforma inutile. Fare una riforma parziale è peggio che non far nulla perché si darebbe l’impressione di aver risolto un problema senza averlo fatto, perdendo così un’occasione forse irripetibile.
 
ALBERTO ALESINA, FRANCESCO GIAVAZZI

22 gennaio 2012 | 12:13© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_22/giavazzi-alesina-giovani-articolo-18_5afec01c-44cf-11e1-b12c-223272f476c4.shtml
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« Risposta #11 inserito:: Gennaio 30, 2012, 04:08:55 pm »

CONTI PUBBLICI, DEBITO E CRESCITA

Spendere meno non è impossibile


Molti investitori (ma anche il Fondo monetario e l'Ocse) temono che l'Europa e l'Italia possano avvitarsi in una spirale pericolosa. Debiti elevati (in rapporto al Pil) richiedono politiche di bilancio restrittive; queste generano recessione e abbassano una crescita che già langue, col risultato che il rapporto debito-Pil, anziché ridursi, cresce. A questo punto si rendono necessari aggiustamenti fiscali ancora più forti, e così via. Da anni ci dibattiamo in questo dilemma. Come uscirne?
L'esperienza di grandi correzioni dei conti pubblici attuate in alcuni Paesi industriali insegna due cose fondamentali. Primo: correzioni dei conti ottenute riducendo la spesa pubblica sono state meno recessive di quelle attuate aumentando le tasse, e quindi sono state più efficaci nel comprimere il rapporto debito-Pil. Secondo: le correzioni che hanno avuto successo (perché non hanno causato recessioni) sono state accompagnate da liberalizzazioni. Il motivo è che l'apertura dei mercati ha compensato i potenziali effetti recessivi del taglio del deficit.

Come si spiegano questi risultati? Immaginiamo una riduzione del deficit ottenuta alzando le tasse. L'effetto sarà una riduzione del potere d'acquisto dei cittadini. Non solo: i lavoratori (specialmente quando sindacalizzati) chiederanno e otterranno un aumento dei loro salari per compensare (almeno in parte) l'aumento delle tasse. Questo fa salire il costo del lavoro per le imprese. Il risultato: più costi e meno consumi.

Inoltre, se lo Stato non riduce la spesa, i cittadini si aspetteranno che prima o poi le tasse aumentino di nuovo: un altro motivo per cui i consumi languono. Immaginiamo invece tagli di spesa che permettano di ridurre almeno di un po' la pressione fiscale. Il meccanismo che s'instaura è opposto. Il costo del lavoro tende a scendere (perché si riduce il cuneo fiscale) e la riduzione di consumi dovuta ai tagli di spesa (che comunque sarebbe modesta se si tagliasse spesa improduttiva) è compensata dalla riduzione del costo del lavoro. Questo consente alle imprese di abbassare i prezzi soprattutto se le liberalizzazioni sono accompagnate da un rafforzamento dell'Antitrust. Inoltre, le liberalizzazioni fanno crescere la produttività: un altro motivo per cui i prezzi potrebbero scendere.

Quindi: bene le liberalizzazioni del governo Monti e le riforme (per ora solo annunciate) del mercato del lavoro. Bene la riforma delle pensioni. Male invece la decisione di ridurre il deficit aumentando le tasse, senza tagliare la spesa.
Il governo ha davanti ancora un anno: abbastanza per correggere la parte insoddisfacente del suo programma. Anche gli investitori conoscono gli studi che mostrano che solo riduzioni di spesa sono in grado di allentare la morsa del debito. Una correzione di rotta farebbe scendere i tassi di interesse aiutando la crescita.

Resta molto lavoro da fare, ma siamo certamente avanti rispetto alla Francia dove François Hollande, candidato socialista che potrebbe vincere le presidenziali di maggio, promette aumenti (non tagli!) di spesa per 20 miliardi di euro, accompagnati da maggiori imposte per 26 miliardi e una riduzione (proprio così) dell'età pensionabile a sessanta anni. Basterebbe il suo programma per far togliere tutte le «A» al debito francese.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

30 gennaio 2012 | 9:21© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_30/spendere-meno-non-e-impossibile-giavazzi-alesina_144a6e9c-4b09-11e1-8fad-efe86d39926f.shtml
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« Risposta #12 inserito:: Febbraio 21, 2012, 12:15:51 pm »

LAVORO, LA RIFORMA TRA ITALIA E SPAGNA

Essere prudenti è poco saggio

A meno di due mesi dal suo insediamento, il nuovo governo spagnolo ha varato una riforma del mercato del lavoro che affronta alcune delle questioni che sono sul tavolo anche in Italia, a cominciare dalla situazione dei giovani. In Spagna la disoccupazione totale è molto più alta che in Italia (23% rispetto a 9%), ma il rapporto tra la disoccupazione dei giovani (28% in Italia e 48% in Spagna) e quella degli anziani è più grave nel nostro Paese. In Spagna il tasso di disoccupazione dei giovani è il doppio di quello dei lavoratori più anziani.
In Italia il triplo.

La nuova legge spagnola accorcia la distanza fra contratti a tempo determinato e indeterminato modificando questi ultimi: il costo, per un'impresa, di licenziare un lavoratore a tempo indeterminato scende da un compenso corrispondente a 45 giorni lavorativi per ogni anno di servizio, a 33 giorni. Quindi, chi aveva un contratto a tempo indeterminato e lavorava da solo 6 mesi riceverà un ammontare equivalente a 16,5 giorni di lavoro. Se lavorava da dieci anni, un ammontare equivalente a 330 giorni (il compenso massimo è di due anni).
Se poi l'impresa dimostra che il licenziamento non avviene per ragioni disciplinari, ma economiche (ad esempio se l'impresa non riesce più a vendere i suoi prodotti), il compenso si riduce a 20 giorni per anno di servizio con un massimo corrispondente a 12 mesi di retribuzione netta.

La strada spagnola è quella giusta: far pagare alle imprese una parte dei sussidi di disoccupazione fa sì che esse ci pensino bene prima di licenziare un dipendente, tanto più quanto più a lungo è durato il rapporto di lavoro. Agevolarle se il licenziamento dipende da motivi economici evita che si tengano artificialmente in vita imprese decotte, come invece avviene in Italia quando si prolunga oltre misura la cassa integrazione.

Vincoli simili a quelli imposti dall'articolo 18 del nostro Statuto dei lavoratori erano stati eliminati in Spagna già nel 1997.
Nei dieci anni successivi la disoccupazione scese di circa dieci punti: dal 17,8% all'8,3. Ciò che il governo di Mariano Rajoy non ha invece avuto il coraggio di fare è introdurre un contratto unico. Come in Italia, anche a Madrid l'opposizione al contratto unico è venuta dai sindacati e dall'associazione delle imprese. I primi (come mostrano Juan Dolado e Samuel Bentolila, Economic Policy 1994), perché la presenza di lavoratori precari segmenta il mercato del lavoro e consente di mantenere più elevato il salario di chi ha un contratto a tempo indeterminato; le imprese perché i contratti a tempo indeterminato offrono flessibilità a costo zero.

Fino ad oggi una riforma del mercato del lavoro che elimini le disparità fra giovani e anziani è stata un tabù in Italia. Ora, fortunatamente, pare non lo sia più. Il presidente del Consiglio Monti e il ministro del Lavoro Fornero sembrano pronti ad affrontare sia il tema dei contratti che quello dei sussidi, due riforme che vanno fatte insieme perché (come abbiamo spiegato in un articolo del 22 gennaio) non si può riformare il mercato del lavoro senza rivedere il sistema di sussidi alla disoccupazione. E non si tratta solo di riformare il sistema di protezione per chi perde il lavoro.

I dati dell'Ocse mostrano che l'Italia detiene (insieme a Messico e Turchia) il record nella percentuale di giovani che né lavorano né partecipano ad attività formative, in una scuola, un'università, o all'interno di un'azienda. Una situazione molto diversa da quella tedesca, dove non c'è praticamente alcuna differenza fra il tasso di disoccupazione dei giovani e quello dei lavoratori più anziani (7% contro l'8% dei giovani). Ciò che fa la differenza in Germania (e modalità analoghe esistono in Austria, Svizzera e Olanda) è un sistema che consente ai giovani di inserirsi molto presto nel mondo del lavoro. Terminata la scuola elementare, le famiglie tedesche devono scegliere, per i loro figli, fra tre strade distinte: una scuola simile al nostro liceo, che non prevede formazione professionale; la Realschule in cui si alternano periodi di formazione generale e periodi di esperienza in azienda; e la Hauptschule che prevede un graduale inserimento in azienda già a partire dai 15-16 anni. Non sono scelte irreversibili: previa verifica del suo rendimento scolastico, uno studente può passare da una scuola all'altra.

Un'impresa tedesca su tre offre esperienze di apprendistato e metà dei ragazzi che fanno questa esperienza vengono poi assunti dalla stessa impresa con un contratto a tempo indeterminato. In Italia le imprese usano l'apprendistato come un modo per assumere lavoratori precari e le attività di formazione sono spesso fasulle. Il risultato è che i giovani apprendisti il più delle volte non imparano nulla e alla fine del contratto vengono lasciati a casa (si leggano Pietro Garibaldi e Tito Boeri «Un nuovo apprendistato contro lo spreco di capitale umano» sul sito lavoce.info ). E così ci si continua a illudere che la laurea sia l'unica strada per trovare lavoro: il risultato è che a un anno dalla laurea triennale tre giovani su dieci non hanno ancora trovato un lavoro, e uno su due a un anno dalla laurea specialistica (dati di AlmaLaurea). Anche perché, durante gli anni dell'università, in Italia, diversamente da quanto avviene in altri Paesi, le imprese non fanno alcuno sforzo per avvicinare i giovani al mondo del lavoro, anche solo con stage estivi, e le università sono fabbriche di esami organizzate in modo tale che gli studenti non hanno mai due mesi liberi.

Monti e Fornero possono seguire due strade: procedere con cautela, cambiare pochissimo, cercare il consenso della Confindustria e dei sindacati, e così evitare scontri. Oppure attuare una riforma vera, che parta dal contratto unico a tempo indeterminato per tutti, con la possibilità di terminare il rapporto di lavoro (per tutti, anche i dipendenti pubblici) con i dovuti costi per le imprese o per lo Stato.

Noi pensiamo che vada abbandonata ogni cautela e che si debba avere il coraggio di chiamare «riforma» solo una modifica sostanziale dei contratti, dei sussidi e delle modalità di inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Limitarsi a qualche aggiustamento marginale è peggio che non far nulla: si creerebbe l'illusione che un problema è stato risolto, quando invece non è vero. Lo scoprirà anche la Spagna che si è fermata a metà strada. Oggi la prudenza non è segno né di saggezza né di lungimiranza.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

20 febbraio 2012 | 7:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_20/alesina-giavazzi-essere-prudenti-poco-saggio_70ea5d24-5b8a-11e1-9554-12046180c4ab.shtml
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« Risposta #13 inserito:: Marzo 03, 2012, 03:38:29 pm »

Le riforme da blindare

L'esperienza di Mario Monti si concluderà fra poco più di un anno. Dopo le elezioni tornerà un esecutivo normale, composto da politici, che per ora stanno a guardare. Nel frattempo il governo sta attuando alcune riforme sacrosante. Ha dovuto accettare molti compromessi (sulle liberalizzazioni), alcuni rinvii (sulla riforma del mercato del lavoro). Ma comunque procede. Sta anche contenendo il deficit: sarebbe stato meglio se lo avesse fatto tagliando le spese, anziché aumentando le imposte, ma comunque il risultato è stato raggiunto.

Che cosa impedirà a un prossimo governo di cancellare queste riforme e tornare al punto di prima? Se lo facesse perché questo è il mandato che ha ricevuto dalla maggioranza degli elettori, nulla da eccepire: è la democrazia. Ma il rischio è che il prossimo governo, come tanti in passato, risponda più alle pressioni di interessi potenti che alla volontà dei cittadini. Se questo è il rischio, c'è qualcosa che Monti può fare per «blindare» le sue riforme?

Per alcune non è facile. Un settore deregolato può essere semplicemente ri-regolato. L'età pensionabile può essere di nuovo abbassata: lo fece nel 2007 il governo Prodi quando cancellò la riforma Maroni. Subiremmo gli strali dell'Unione europea, ma potrebbero non bastare a difendere le riforme. Sulla spesa pubblica però qualcosa si può fare per blindare una politica rigorosa ed evitare il ritorno al «mercato dei favori» e alla crescita delle spese. Anche qui i precedenti non sono incoraggianti. Negli anni Novanta, sotto la pressione dei parametri europei, la spesa pubblica al netto degli interessi scese di quattro punti, in percentuale del prodotto interno lordo: dal 44 al 40%. In soli cinque anni, fra il 2001 e il 2006, il governo Berlusconi la riportò al 44%.

La strada indicata dai trattati europei per garantire che il rigore non venga abbandonato è l'introduzione di un vincolo di bilancio in pareggio nella Costituzione. Il Parlamento italiano ha iniziato a farlo votando in dicembre una legge costituzionale, prima alla Camera, poi al Senato. Si tratta di un primo passo perché le leggi costituzionali richiedono due votazioni successive in ciascuna Camera.

Il pareggio di bilancio è una regola molto rigida che permette poca flessibilità. Per un Paese come il nostro che soffre di un'endemica incapacità di controllare la spesa, la perdita di flessibilità sul deficit sarebbe un costo che converrebbe pagare. Ma il nostro Parlamento ha scelto una strada diversa approvando una legge che pur recando il titolo «Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Costituzione», di fatto non impone alcun vincolo, limitandosi a richiedere che il governo rispetti «l'equilibrio del bilancio», un principio vago e pericoloso. Infatti (come ha osservato il senatore Nicola Rossi) fu proprio sull'equivoco fra «equilibrio» e «pareggio» di bilancio che fece leva una sentenza della Corte costituzionale del 1966 che, interpretando l'articolo 81 della Costituzione, aprì la strada all'approvazione di leggi di spesa prive di copertura (un'eventualità che Luigi Einaudi aveva intravisto già nel 1948 quando aveva messo in guardia contro la vaghezza dell'articolo 81).

Così come fece Einaudi, Mario Monti dovrebbe chiedere che il Parlamento, nella seconda lettura della legge sul pareggio di bilancio, ne modifichi il testo, rendendolo più specifico. Considerati i tempi delle leggi costituzionali è però improbabile che il governo possa blindare il rigore fiscale seguendo questa strada. Una via alternativa, suggerita dall'esperienza alcuni Paesi (Olanda, Belgio, Svezia, Cile, Gran Bretagna e altri) è l'istituzione di «Commissioni fiscali indipendenti». L'Olanda offre un esempio interessante. Il Cpb (Netherlands Bureau for Economic Analysis) ha due funzioni. Innanzitutto produce le stime sulla crescita che il governo poi usa per preparare la legge di bilancio. Questo evita ciò che spesso accade: governi che per non tagliare la spesa costruiscono il bilancio sulla base di stime di crescita eccessivamente ottimiste. Se poi la crescita è diversa da quanto stimato dallo stesso Cpb, è sempre questo organismo che stabilisce quale è il peggioramento dei conti pubblici giustificabile con la minor crescita. Ma la caratteristica forse più interessante del Cpb è il compito che gli è stato affidato di valutare e rendere noti ai cittadini prima delle elezioni gli effetti sul debito pubblico dei programmi economici dei diversi partiti (i partiti non sono obbligati a farsi valutare ma raramente usano questa possibilità).

Istituzioni come il Cpb sono meglio delle regole numeriche e dello stesso vincolo costituzionale del pareggio di bilancio: infatti possono essere flessibili pur non potendo essere manipolabili. L'autorevolezza del Cpb è garantita dalla sua indipendenza, che deriva da uno statuto molto simile a quello della Banca d'Italia: un'istituzione pubblica, il cui direttore è nominato dal governo, come il Governatore, ma che gode della più completa indipendenza.

I conti pubblici sono una questione eminentemente politica e una Commissione fiscale non può, né deve entrare, nel merito strettamente «politico». È con tasse e spese che si costruiscono le alleanze, si vendono favori, si premiano certi gruppi di reddito o altri, insomma si fa politica. Ma vi sono anche aspetti tecnici, di contabilità, stime macroeconomiche degli effetti di politiche alternative, dei loro effetti di lungo periodo sulle generazioni future. Su tutti questi aspetti un comitato tecnico indipendente potrebbe esprimere valutazioni che rendano più difficile per un governo in carica seguire politiche insostenibili.

Il 12 febbraio 1981, trentuno anni fa, il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta scrisse al Governatore della Banca d'Italia, Carlo Azeglio Ciampi, la lettera che avviò il cosiddetto «divorzio» tra le due istituzioni. Da quel giorno la politica monetaria in Italia cambiò corso. È improbabile che senza quell'atto lungimirante saremmo stati ammessi nell'unione monetaria. È con un atto analogo che oggi Mario Monti potrebbe blindare la sua eredità.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

3 marzo 2012 | 7:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_03/riforme-da-blindare-alesina-giavazzi_d6dd8c94-64f6-11e1-8a59-8bc3a463cee3.shtml
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« Risposta #14 inserito:: Marzo 31, 2012, 10:10:06 pm »

TAGLIARE LE SPESE SI PUO' (E SI DEVE)

La trappola delle tasse

L'Europa e l'Italia si trovano fra Scilla (la recessione) e Cariddi (debito e deficit). Sono acque molto difficili ed errori di navigazione possono essere fatali. I mercati li temono e le loro preoccupazioni si riflettono negli spread che si stanno di nuovo allargando. Quelli italiani sono saliti di 50 punti in meno di due settimane. Lo sbaglio da evitare, e che invece in Europa è sempre più frequente, è dare eccessiva importanza alla dimensione dell'aggiustamento dei conti pubblici, trascurandone la qualità. In Paesi come l'Italia, dove la pressione fiscale è vicina al 50% del reddito nazionale (Pil), ostinarsi a ridurre deficit e debito aumentando le imposte è inutile, o addirittura controproducente perché ogni beneficio rischia di essere annullato dall'effetto recessivo di un ulteriore aumento della pressione fiscale.

Negli ultimi otto mesi, in quattro successive manovre volte a correggere i nostri conti pubblici, la pressione fiscale è cresciuta di quasi 2 punti: dal 44,7% del Pil nel 2010 al 46,5% fra due anni. Quelle quattro manovre hanno anche ridotto le spese al netto degli interessi: apparentemente di 3 punti, dal 49,5 al 46,5% del Pil. Ma un'analisi più attenta mostra che una parte significativa di questa riduzione di spesa è avvenuta mediante tagli nei trasferimenti dello Stato a Comuni, Province e Regioni. Questi ultimi non hanno compensato i minori trasferimenti riducendo a loro volta la spesa, ma hanno aumentato alcune imposte locali, come le addizionali Irpef che sono entrate in vigore in questi giorni. Rifacendo i conti si scopre che dei circa 5 punti di correzione dei conti pubblici attuati nei mesi scorsi, quattro si otterranno tramite aumenti di imposte e uno soltanto per effetto di minori spese. Il risultato è che fra due anni la pressione fiscale complessiva (cioè sommando imposte pagate allo Stato e ad enti locali) supererà il 50%. Non è una peculiarità italiana: sta accadendo un po' ovunque in Europa.

E, tuttavia, studiando le correzioni dei conti pubblici attuate negli ultimi 40 anni nei maggiori Paesi industriali si apprendono tre lezioni. 1) Gli aggiustamenti fiscali che funzionano sono quelli che riducono le spese, aprendo così la strada a riduzioni del carico fiscale;
2) tanto meglio funzionano quanto più sono accompagnati da riforme che stimolino la crescita;
3) la discesa del debito è un processo che richiede tempi molto lunghi. Per essere credibile, servono quindi istituzioni che garantiscano la continuità delle politiche necessarie per ridurre il debito.

Le regole europee, anche le modifiche ai trattati decise tre mesi fa, continuano invece a porre l'accento esclusivamente sul pareggio di bilancio, senza dir nulla sulla composizione delle manovre per raggiungerlo, né sull'assetto istituzionale necessario per garantire continuità, ad esempio creando Commissioni fiscali indipendenti, la cui creazione avevamo proposto in un articolo del 3 marzo scorso. Dovendo scegliere tra un aggiustamento più severo, ma attuato solo elevando la pressione fiscale, e uno più moderato, ma attuato riducendo in via strutturale, e quindi permanente, la spesa, va preferito il secondo.

Nelle scorse settimane si è parlato di spostare il peso fiscale dalle imposte dirette (sul reddito) a quelle indirette (sui consumi). Le seconde sono meno distorsive delle prime e scoraggiano meno il lavoro, ma sempre imposte sono e riducono il potere d'acquisto dei salari. Facciamo pure una riforma fiscale di questo tipo, ma in un quadro di riduzione non di aumento del carico fiscale complessivo!

Riforma del mercato del lavoro ed equilibrio dei conti pubblici hanno un ovvio collegamento: l'impiego pubblico, che è una delle fonti principali di rigidità della spesa. Tant'è vero che le amministrazioni pubbliche, per acquisire un po' di flessibilità, fanno esse pure ricorso a contratti a tempo determinato, contribuendo a creare anche qui un mercato del lavoro «duale».
Per molti aspetti, quindi, i problemi del mercato del lavoro del settore pubblico sono simili a quelli del settore privato. Non solo. Soprattutto nel Sud l'impiego pubblico è una forma di sussidio permanente, un modo molto inefficiente per trasferire reddito alle regioni del Mezzogiorno, che non le aiuta a diventare più produttive, anzi ostacola lo sviluppo dell'occupazione nel settore privato. Per giusti motivi di equità questo governo ha eliminato ogni differenza nel trattamento pensionistico tra dipendenti pubblici e privati. Non applicare le medesime regole al mercato del lavoro significa reintrodurre differenze inique nella natura dei contratti.

Sono queste le sfide che attendono il governo Monti, un esecutivo nato per avviare riforme che la politica non ha avuto il coraggio di fare. Entrambi dovrebbero ricordarlo, governo e politica, prima che la luna di miele finisca.

Alberto Alesina Francesco Giavazzi

31 marzo 2012 | 8:14© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_31/la-trappola-delle-tasse-alberto-alesina-francesco-giavazzi_aea8a71c-7af0-11e1-b4e4-2936cade5253.shtml
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