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Autore Discussione: Alfredo REICHLIN.  (Letto 18811 volte)
Admin
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« Risposta #15 inserito:: Giugno 10, 2009, 03:27:10 pm »

Una nuova democrazia in un'Italia diversa

di Alfredo Reichlin


Dalla morte di Enrico Berlinguer è passato un quarto di secolo, e da allora tutto è cambiato: il mondo. Del comunismo si è sbiadito perfino il ricordo e l’ethos del paese è dominato da idee, culture, modi di vivere rispetto ai quali quell’uomo schivo che invocava l’austerità e che chiedeva ai giovani del suo partito di sottomettersi alla dura disciplina «dell’arido studio», sembrerebbe un alieno. Perché allora torniamo a parlarne? La verità è che – come sempre per certi anniversari - sono i problemi di oggi che ci interrogano.(...)

Berlinguer è stato l’emblema di un nodo fondamentale della storia italiana, affrontato consapevolmente (i suoi amici possono testimoniarlo) ma non risolto: quel peculiare sistema italiano quale era stato edificato dopo la Resistenza e la Costituzione e via via si era sviluppato durante la guerra fredda in un complesso gioco di equilibri interni e internazionali. Una democrazia incompiuta la quale però aveva garantito il progresso del paese. Il Berlinguer che oggi torna ad occupare i nostri pensieri assume la responsabilità della segreteria comunista come un duro dovere e in nome del rifiuto di ogni mito (iniziò citando il Machiavelli che esorta a non almanaccare su «repubbliche che non esistono»).

Ma egli era animato da una profonda convinzione: tornare a pensare la politica in funzione del fatto che le fondamenta dello Stato non si erano consolidate e che quindi ciò che era necessario non erano riforme dall’alto ma una seconda tappa di quella autentica rivoluzione democratica che tra il ’43 e il ’46 aveva trasformato l’Italietta sabauda e fascista nell’Italia repubblicana. A me sembra che stia qui il punto su cui bisognerebbe tornare a riflettere. Perché questo non era il segno del suo anacronismo ma di un problema italiano tuttora cruciale: parlo del bisogno di una politica concepita come strumento di un nuovo protagonismo delle masse sub-alterne.

Non sto parlando di movimenti di protesta ma di un vasto disegno politico basato su una diversa combinazione delle forze storiche, della formazione di un blocco culturale, dell’idea di porre la difesa e lo sviluppo della democrazia su una base più solida, su un nuovo rapporto tra dirigenti e diretti. Questo era il suo tema. Ma se di questo si trattava, era del tutto evidente che egli non poteva sfuggire alla necessità di fare i conti con le ambiguità e il modo di essere del PCI quale la generazione di Togliatti ci aveva consegnato. Bisognava uscire dalla condizione di una opposizione ambiguamente collocata tra una vecchia cultura comunista alternativa al sistema e una visione nazionale (non solo di classe) dei problemi del paese volta a rendere possibile una funzione di governo.

Lo sblocco del sistema politico creato dalla guerra fredda e la fine della democrazia dimezzata non erano più separabili dall’uscire dal campo sovietico. Di qui lo strappo. E, in coerenza, la dichiarazione sulla NATO come strumento anche di garanzia per la gestione stessa della lotta democratica.(...) Io penso che Berlinguer vada giudicato in rapporto al suo disegno politico, ovvero al modo come si misurò con il problema della democrazia italiana quale in quegli anni 70 tornò a riproporsi.

Anni drammatici segnati dal fallimento del centrosinistra, dall’inflazione a due cifre, da grandi sommovimenti sociali che investivano le scuole e le fabbriche; dall’avvento su scala mondiale di una svolta conservatrice che poneva fine al compromesso tra capitalismo e democrazia, dal terrorismo che cominciava a sparare e a uccidere. Riemergeva il grande tema della «democrazia difficile» (come la chiamò Moro) cioè delle basi fragili dello Stato italiano.(...)

Un problema cruciale e per certi aspetti analogo a quello che ancora ci assilla, era davanti a noi. Parlo del venir meno delle condizioni fondamentali che avevano reso possibile quello straordinario balzo dell’economia italiana che fu «il miracolo economico» e cioè il regime tipicamente italiano dei bassi salari, milioni di contadini che abbandonavano i loro paesi e si offrivano ai cancelli delle fabbriche, cambi fissi, una domanda mondiale crescente di beni di consumo durevoli (l’auto, i frigoriferi). È tutto questo equilibrio che saltava, con l’internazionalizzazione dei mercati e il sistema politico ne fu scosso dalle fondamenta.

Si tentò la strada del centro sinistra, il ’68 e l’autunno caldo gonfiavano le nostre vele. Si creava così – è vero - una situazione nuova favorevole al PCI ma anche altamente pericolosa perché se da un lato grandi forze spingevano verso il superamento del sistema politico bloccato dall’altro riemergevano tutte le fratture della società italiana: dalle cieche resistenze delle forze reazionarie, alla mobilitazione del sovversivismo cosiddetto di sinistra. Di tutto ciò Enrico Berlinguer fu acutamente consapevole.

La sua ossessione (posso testimoniarlo) era che essendosi rotto qualcosa di molto profondo nei vecchi equilibri italiani la situazione era arrivata a quel passaggio cruciale in cui se le spinte del paese verso il cambiamento non trovavano uno sbocco politico «avremmo subito una feroce reazione del sistema». Qui sta la ragione originaria di ciò che prese il nome di compromesso storico. L’idea di fondo era che per uscire da quel dilemma occorreva una sorta di patto costituente, il quale facendo leva sull’intesa tra i grandi partiti popolari consentisse al tempo stesso una mobilitazione di vecchie e nuove potenze sociali.

Ciò che egli chiamò una seconda tappa della rivoluzione democratica. Era un progetto forte. Ma i fatti, i duri fatti, dicono che non andò a buon fine. Tuttavia la prova tragica che quella ipotesi non era campata in aria l’ha dato il fatto che Moro è stato assassinato. E la contro prova che la posta in gioco era molto più seria di un «inciucio» tra comunisti e democristiani l’ha data il fatto che, subito dopo finisce la repubblica dei partiti. La DC viene decapitata, il PSI subisce quella metamorfosi che sappiamo e il PCI viene chiuso nell’angolo senza più una capacità di incidere nei grandi processi di ristrutturazione ormai in atto (la mondializzazione, il neo-liberismo, la rivoluzione conservatrice).

Il vuoto politico che si venne a creare era grande e molto pericoloso. Si aprì la fase della lunga transizione italiana che non so se si è chiusa ancora: il lungo travaglio volto a porre su nuove basi lo sviluppo di un paese che si europeizzava. Sono passati 25 anni da allora. È finito il 900. L’URSS non c’è più. La storia del comunismo italiano è davvero storia conclusa. Perché allora parliamo ancora di Enrico Berlinguer? Sostanzialmente, io credo, perché nella sua opera c’è ancora qualcosa di politicamente operante.

Questo qualcosa – per dirla in breve e per usare il suo lessico - io credo sia il bisogno oggettivo di un pensiero più lungo che non si affidi a una nuova filosofia della storia ma sia però capace di leggere la nuova struttura del mondo che resta in gran parte sconosciuta alle mappe di cui disponiamo. In ciò sta il senso del mio ricordo: nel bisogno di un pensiero che produca senso e che ci dica dove andiamo.


10 giugno 2009
da unita.it
« Ultima modifica: Giugno 11, 2009, 05:37:37 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #16 inserito:: Gennaio 19, 2010, 05:02:31 pm »

Pd, il senso della politica e la cultura della rissa

di Alfredo Reichlin

Non si può assistere inerti al degrado del dibattito pubblico. Non è libertà di critica insinuare che Tizio sceglie un certo candidato perché il suo vero scopo è svendere un bene pubblico a un socio di affari. È degradante. E così per Caio: non gli si riconosce la dignità di dissentire. No. Si dice che sta tramando il sabotaggio del suo partito. E così tutto il resto. È diventato difficile lo sforzo di ripensare Craxi a 10 anni dalla morte non come un cinico ladro ma pacatamente, rispettosamente, come quel notevole uomo politico che egli fu (senza dimenticare naturalmente errori e colpe che non si possono cancellare). Si sono perse le misure. Qualcuno si fa il segno della croce davanti alla Bonino come se l’avversaria, la Polverini, fosse una suora. E come se la Regione Lazio dovesse decidere sul dogma della verginità della Madonna. Non parliamo di Tv e di giornali sempre più gridati.
Io temo che dietro questa rissa continua non ci sia solo la crisi della politica, ma anche la frantumazione della società civile e il riflesso di una più generale crisi della morale pubblica. Dopotutto, anche il ritorno alla grande, e in forme ridicole e abnormi del personalismo italiano (l’uomo di Guicciardini) che cosa è se non la spia del fatto che la classe dirigente non riesce a pensare l’interesse generale?

Si dirà che non è così, che sono in campo idee diverse. In parte è vero. Ma vengo così al punto. Anch’io ho idee diverse da altri. Il problema non è quello di tacerle. È di chiedersi se, al netto delle contrapposizioni personali, queste idee possono convivere nel Partito democratico. Sono inconciliabili? E lo sono al punto da mettere in crisi il prestigio e la forza elettorale del partito? Se è così, non illudiamoci, il Pd si sgretola. E se si sgretola, la situazione sfuggirà di mano e si andrà verso una nuova crisi di regime. Mi scuso, ma qualcuno deve pur porre una questione come questa. Non voglio fare prediche per le quali non ho alcun titolo. Credo però che la risposta alla cruciale domanda su come questo partito possa parlare con più forza e più prestigio al Paese (pur salvaguardando il pluralismo) dipende interamente dall’idea che abbiamo della situazione e del compito che sta davanti a noi. Chiedo: che cos’era se non una certa idea della situazione che consentiva al partigiano comunista di combattere al fianco dell’ufficiale monarchico? Eppure le loro idee erano molto diverse. Se non abbiamo perso la testa è in rapporto alla realtà del paese che si misurano le posizioni politiche.

E allora la vera domanda è questa: che idea abbiamo della crisi della democrazia italiana? Questa è la questione delle questioni che condiziona tutto il nostro dibattito e l’avvenire del partito democratico. È chiaro che siamo di fronte alla paralisi del sistema politico costruito negli ultimi 15 anni dopo il collasso della prima Repubblica. Anche il “sultanato” di Berlusconi è al tramonto. Ma la crisi è tanto più grave e difficile perché si accompagna a un vero e proprio problema di “rifondazione” della politica e della sua capacità di garantire la libertà degli uomini di decidere del loro destino.

Io penso che bisognerebbe parlare così alla gente. Di che cosa abbiamo paura? Di apparire troppo radicali? Ma la radicalità non sta in noi bensì nei problemi reali. È lo Stato unitario che si sta disarticolando, sono intere regioni del Mezzogiorno che si stanno consegnando ai poteri delle mafie. È quindi su cose come queste che si ridefiniscono le ragioni di un grande partito democratico. Sinistra, centrosinistra, centrismo sono parole vuote se le scelte non corrispondono alle grandi cose. E cosa contano gli uomini se il partito non prende posto nel cuore del conflitto moderno? Mi stupisco che persone tanto moderne non capiscano che quello delle alleanze non è un vecchio discorso che ci riporta indietro al passato. Si dimentica che l’evoluzione delle cose intensifica le interdipendenze, la complessità, moltiplica le informazioni, e quindi crea un mondo che non può sopravvivere se non alla condizione che gli uomini convivono tra loro e si facciano carico di nuove responsabilità collettive: ecco perché non possiamo più andare avanti da soli in nome di non so quale vocazione al comando.

Cerco di essere più chiaro. Ha assolutamente ragione chi dice che il tempo di quello che si è chiamato lo Stato dei partiti è finito. Non si può più governare solo in nome di un blocco sociale. E, in più, governare significa dettare regole e arbitrare una crescente complessità e varietà di poteri (non solo economici): il che comporta l’uso di agenzie e di strumenti di conoscenza che i partiti non hanno. Ma fallimentare si è rivelata l’idea che bastava mettere al posto dei vecchi partiti un “uomo solo al comando” riducendo a ben poco il ruolo dei parlamentari e la sovranità del Parlamento. È giusto non tornare indietro al pollaio delle mediazioni tra partiti e partitini. Condivido l’idea di un partito a “vocazione maggioritaria”. Ma basta il consenso elettorale raccolto attraverso i “media” da un capo più o meno carismatico? La società si disgrega se non c’è una forza che garantisce il “governo lungo” delle relazioni sociali, un organismo capace di mettere in campo un’agenda politica più vasta.

La lotta politica comporta duri scontri, anche personali. Lo so, li ho vissuti e non mi scandalizzo. Ma il loro limite sta nel fatto che un fattore guida della comunità italiana è più che mai necessario. Il Pd esiste se esprime anche un ideale e se, al tempo stesso, si presenta come uno strumento radicato nella società capace di mobilitare forze, intelligenze, passioni.

18 gennaio 2010
da unita.it
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« Risposta #17 inserito:: Marzo 07, 2010, 06:52:37 pm »

Il nuovo 8 settembre

di Alfredo Reichlin



La grottesca vicenda delle liste elettorali è la spia del tramonto di un’era politica. Ma che cosa si lascia dietro questa sorta di cesarismo e di populismo? Dopo anni di confusione tra pubblico e privato e di disprezzo per la certezza e l’uguaglianza della legge è la «casa comune», lo Stato, che si sta sgretolando e rischia di caderci addosso. Io credo che si tratta della crisi più grave di questo paese dopo l’8 settembre. Adesso tutti lo dicono e quelli che più strillano sono proprio quelli che hanno partecipato, arricchendosi, a questo banchetto del bene pubblico, oppure l’hanno coperto e giustificato con l’eterno cinico argomento che «i politici sono tutti uguali». Invece non sono tutti uguali, anzi c’è perfino qualcuno che non si limita a esprimere il suo schifo ma si chiede che cosa a questo punto bisognerebbe fare.

Mi scuso, ma essendo tra questi, parto non da loro (il mondo della corruzione) ma da noi. Fino a che punto noi siamo consapevoli che l’Italia è arrivata a un appuntamento con la sua storia? Sì, nel senso che l’armatura materiale e culturale, etica addirittura, del paese, ridotta com’è al degrado e quindi all’impotenza sembra non più in grado di fronteggiare la sfida più grande: quella del mondo. La domanda è molto semplice. Come ci collochiamo rispetto a un cambiamento così radicale della geo-politica e della geo-economia? Come si ridefinisce l’identità e il ruolo di questo Stato, come sappiamo, si è formato e poi sviluppato in un contesto storico del tutto diverso, nell’epoca della potenza soverchiante della vecchia Europa, a quel tempo «officina del mondo»? E, quindi, cosa fa e cosa pensa la sinistra? È alla luce di interrogativi come questi che il Pd dovrebbe a mio parere ridefinire il suo profilo ideale e la sua presenza nella società italiana a un livello più alto. Più a destra, più a sinistra? È un vano quesito. Si tratta di fissare l’asticella dell’alternativa a livello di quello che è il problema cruciale di oggi: difendere il futuro degli italiani (o dobbiamo mandare i nostri figli a vivere e studiare all’estero?); il nostro contare nel mondo. Stiamo attenti perché il tempo non lavora per noi.

È così? Se le cose stanno così, affrontare il problema della crisi dell’unità nazionale diventa la stessa ragion d’essere del Pd, ciò che ridefinisce la sua presenza e il suo ruolo storico. Cioè quella ragion d’essere che non consiste affatto come si continua a dire nella scelta tra non si sa quale neo-partito socialdemocratico che minaccerebbe la «presenza cattolica» o non si sa quale partito del presidente. Chiacchiere politologiche sulla base delle quali non formerà mai il collante di un partito nuovo, né si rendono credibili le sue politiche. Noi possiamo cantare l’inno di Mameli quante volte vogliamo ma se restiamo ai margini dei nuovi processi mondiali la «Padania» e il «Regno del Sud» non troveranno più le ragioni del loro stare insieme. Perché non parliamo al Paese con questa chiarezza?

La semplice verità è che non siamo di fronte solo a un problema di modello economico, ma alla necessità di mettere in campo una nuova cultura politica perché solo forti identità potranno affrontare con successo la fase sempre più aspra di competizione che si è aperta. Questo è il problema della sinistra, non quello di storcere il naso di fronte alle forze che cercano di rompere il blocco di potere berlusconiano. Ci confronteremo. L’importante è che sia chiara in noi un’idea forte dell’Italia. Quale Italia dunque? Certamente un paese sempre più integrato in un disegno europeo ma non come un’appendice passiva. Ricordiamoci che il solo terreno possibile di identità della nazione è il suo rapporto con la storia repubblicana, cioè con quella rivoluzione democratica, la sola che abbiamo conosciuta e che può restituire al Paese il senso del suo cammino e quindi un’idea del suo futuro. Altrimenti come usciamo da questa crisi? Con una nuova avventura cesarista? Con un ritorno al neo-guelfismo sotto il protettorato del cardinal Ruini?

Non so se la legislatura arriverà alla fine. So che diventa sempre più attuale una nuova alleanza tra le forze più vitali del lavoro, dell’impresa e dell’intelligenza creatrice disposte a battersi contro il grumo di tentazioni sovversive che attraversano la società italiana. Si è ben visto che in Italia non si difende la democrazia se si indebolisce il regime parlamentare. Se non tornano in campo, quindi, partiti veri, organizzati. Non uffici stampa del capo. E tuttavia partiti nuovi, meno assillati dalla gestione dell’esistente e più sociali, cioè più «culturali». È ciò anche perché meno di prima i soggetti si definiscono in base al reddito e più che mai contano la coscienza di sé, i valori, la consapevolezza che i propri interessi immediati non sono difendibili se non teniamo conto di quella fondamentale osservazioni di Amartya Sen, il quale ci ricorda che è tempo di concepire lo stesso sviluppo economico «come un processo di espansione delle libertà reali godute dagli esseri umani». Non si tratta di sottovalutare l’importanza dei fattori economici in senso stretto, ma di prestare più attenzione alla necessità di «rimuovere tutte quelle situazioni di esclusione, di non libertà, che condizionano la creatività umana e che concernano la miseria come la tirannia, l’ingiustizia come la mancanza di beni pubblici».

Bisogna puntare su un nuovo rapporto tra gli individui e la comunità, e quindi sulla rinascita della società civile, per ricostituire quei legami sociali e quei poteri democratici che la lunga ondata della destra ha distrutto.

06 marzo 2010
da unita.it
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« Risposta #18 inserito:: Aprile 07, 2010, 10:57:31 pm »

Altro che papa straniero: al Pd serve una vera idea

di Alfredo Reichlin


Che cosa deve succedere perché la sinistra invece di partire da questo continuo e insopportabile parlare di sé e dei suoi organigrammi si decida a tentare una nuova analisi della realtà? Dico realtà. Cioè non il chiacchiericcio riformista e politologico di questi anni, e nemmeno solo voti, modi di pensare, giustissime considerazioni sulla nostra debole presenza in molti territori. Dico mutazione dell’identità nazionale, crisi dello stato di fatto, cioè dell’essere sociale e culturale degli italiani. Calma e gesso. Evitiamo di drammatizzare.

La nostra sconfitta consiste in questo stare solo sulla cronaca politica, quasi ignari di processi più di fondo. Ma nemmeno la destra vince. Il «sultano» che non risponde ai giudici e alle regole perché sarebbe l’eletto del popolo ha preso solo il 32% dei voti espressi. E se calcoliamo l’astensione, scopriamo che solo 17 italiani su 100 hanno votato per lui. La Lega avanza in una delle regioni più ricche del mondo (il Nord d’Italia: 20 milioni di abitanti) mentre la Campania e la Calabria ritornano sotto il pieno controllo di forze senza volto.

Sono cose che dovrebbero spingere a pensare la politica, non come la «tabula rasa» di ogni ideologia, ma come invece è: un problema di idee di visione del futuro di impegno morale. Le solite chiacchiere di un vecchio comunista? Forse. In realtà stiamo assistendo a qualcosa che era in atto da tempo (vedi gli inutili articoli di Alfredo Reichlin) ma che configura ormai una sorta di cambiamento in diretta della fisionomia storica e culturale del Paese che abitiamo. Quindi la domanda che le cose rivolgono alla politica e ai partiti compreso il nostro, è chiara: dove pensiamo di riposizionare l’Italia, non come singole regioni (i famosi «territori») ma come organismo vivente capace di tenere insieme veneti e calabresi?

Esattamente la domanda che Galli Della Loggia ha posto alla Lega: riuscirà questo partito di Bossi a trasformarsi in una forza in grado di elaborare una prospettiva non solo «padana» ma nazionale? Forse se questa domanda, alla quale la Lega non è assolutamente in grado di rispondere, ce la ponessimo noi, potremmo - dico forse - assistere al miracolo: i capi di questo partito che smettono di piangersi addosso e che cominciano a tirarsi su i pantaloni per discutere tra loro, non sul chi comanda, ma sul fatto che una grande prateria si è aperta davanti a noi: la necessità di elaborare una nuova «idea nazionale». Non è poco ma questo bisogna fare. E farlo con la serietà e l’umiltà di chi sa che nessuno ha già le risposte e che queste vanno ricercate insieme, formando cioè un «gruppo dirigente», plurale ma coeso perché consapevole della missione che gli è capitata addosso. Vogliamo davvero ritornare alla politica come impegno morale? Questa è la strada.

Non bastano le poesie di Niki Vendola. Ci vogliono idee. Ecco ciò che voglio dire in sostanza ai giovani. Fatevi avanti, ma tirate fuori qualche idea forte oltre al certificato di nascita. La storia non ci dice che età avesse Giolitti al suo avvento, ma ricorda che idee mise in campo: riconobbe i diritti del mondo del lavoro, concesse il suffragio universale maschile, riformò il vecchio Stato sabaudo e reazionario. Del resto anche Berlusconi vinse dieci anni fa sulla base di idee nuove, sia pure perverse, sulla società degli individui e sulla sostanza del potere. Il paradosso attuale è che tutti invocano svolte, rinnovamento, addirittura «papi stranieri» (i quali sotto la regia di Ezio Mauro dovrebbero prendere in mano il Pd) ma non dicono dove stia il banco di prova di questo famoso rinnovamento.

Sta qui, cari amici. Sta nello scenario storico italiano davvero nuovo e denso di interrogativi inediti che il voto ha spalancato davanti ai nostri occhi. Dunque è qui dove si fissa finalmente in modo chiarissimo l’asticella dell’alternativa. Molta chiacchiera «riformista» di questi anni è alle nostre spalle. L’alternativa si fissa qui, dove è tornato in gioco l’assetto dello Stato repubblicano definito dalla mia generazione a prezzo di molto sangue e molti sacrifici. Non è affatto inevitabile la rottura dello Stato. Ma le ragioni dell’unità nazionale devono essere rielaborate, e ciò in un più stretto rapporto con l’Europa e col mondo. Forse un assetto federalistico è ormai inevitabile. Ma se si slabbra il tessuto della nazione saranno i diritti democratici e quelli dei più deboli a pagare.

07 aprile 2010
da unita.it
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« Risposta #19 inserito:: Aprile 21, 2010, 06:50:38 pm »

Più militanti, meno notabili

di Alfredo Reichlin


Se dovessi riassumere in poche parole il passo avanti che l’ultima direzione ha fatto fare al Partito democratico direi che stiamo “entrando in partita”. Finalmente. Si è aperto un dibattito serio nel quale la minaccia che Berlusconi rappresenta per la democrazia repubblicana è ben chiara ma viene collocata dentro una analisi che non si nasconde le ragioni per cui l’Italia da 15 anni declina. Adesso comincia a impoverirsi. Ma la cosa più drammatica è che non garantisce più lavori che non siano solo precari alla sua gioventù. Di fatto nega loro un futuro. E tutto ciò anche per colpa di un sistema politico che non funziona: non produce alternative ma “uomini soli al comando”, tanto pericolosi quanto impotenti.

Questa situazione è arrivata ormai a un punto di svolta. Stiamo assistendo a qualcosa che non riguarda solo il sistema politico ma il modo di essere e di pensare degli italiani: il loro “stare insieme”. In sostanza, è la figura storico-culturale dell’Italia disegnata più di mezzo secolo fa dalla Costituzione che è venuta in discussione. In questo senso si può parlare di un cambio di regime. Ed è questo che chiama in causa identità, ruolo e funzione nazionale dei partiti, essendo questi (forse l’avevamo dimenticato) non chiacchiere ma il riflesso di una determinata storia del Paese. Una forza rischia di parlare a vuoto se non si rende conto che è cambiato il terreno sul quale si ridefiniscono le sue funzioni, le sue lotte, i suoi progetti.

Questo problema (la funzione, il ruolo nazionale) riguarda noi come la destra. Io non so che esito avrà l’iniziativa di Fini. Mi sembra, però, che un fatto grosso sia già avvenuto ed è la fine di quello che è stato il capolavoro politico di Berlusconi, cioè l’avere unito sotto la sua guida, per un decennio, i “moderati” e i “reazionari”: cosa che non era mai avvenuto nella storia della Repubblica. Certo, resta l’alleanza di Berlusconi con la Lega, che non è poco. Ma rappresenta essa una nuova possibile proposta per l’Italia? Oppure è solo la cinica scommessa di chi non ha nulla da offrire agli italiani tranne che un plebiscito su se stesso?

Ecco allora il problema della sinistra. Siamo in grado di scendere sul nuovo terreno e di occupare lo spazio grande che si è aperto, quello di affermare il Pd come il partito dell’unità nazionale, la forza che si pone come garante del futuro della gioventù italiana? So che non è facile. Richiede una forza organizzata e coesa capace di parlare alla gente di Milano e di Palermo e di combattere non solo nei Palazzi ma sul terreno della mobilitazione dell’opinione pubblica e del sentimento nazionale ponendo chiaramente in luce quella che è diventata la sostanza del dibattito delle riforme costituzionali: una sfida mortale sul destino della democrazia italiana.

L’ho già scritto. È qui, nello scenario storico italiano nuovo e denso di interrogativi inediti, che si colloca il rilancio e il rinnovamento del Pd. È in questo cimento. Molta chiacchiera “riformista” di questi anni è alle nostre spalle. L’alternativa si fissa dove è tornato in gioco l’assetto dello Stato repubblicano definito dalla mia generazione a prezzo di molto sangue e molti sacrifici. Adesso largo ai giovani. Scendano però in questo agone. Spetta a loro rielaborare le ragioni dell’unità nazionale. È evidente che i problemi moderni sono anche altri. Ma tutti devono sapere che se si lacera il tessuto della nazione saranno i diritti democratici e quelli dei più deboli a pagare, anche al Nord. Sarà molto più difficile contrastare il “precariato” e difendere il lavoro.

Il «partito del Nord» è una sciocchezza
Chi lo sostiene non ha capito che la Lega non è riducibile ad un fenomeno “territoriale”. È un grande e devastante fenomeno politico costituito dal fatto che è esplosa una contraddizione fondamentale tra i bisogni di “modernità” acuiti dalle sfide concorrenziali del mondo e l’arretratezza e la corruzione dell’apparato statale italiano, a cui si aggiunge il peso del parassitismo meridionale. La Lega è cresciuta, non perché noi non l’abbiamo imitata abbastanza, ma perché non siamo stati capaci di ridefinire un compromesso positivo tra Nord e Sud che guardasse avanti, e cioè nel quadro del mondo europeo e mediterraneo. Questo è il nostro problema. Non è organizzativo (l’eterna discussione sul chi comanda) ma è l’esigenza di un nuovo modello di sviluppo dell’Italia. Io ricavo da tutto ciò il contrario di un radicalismo disperato che si affida solo alla protesta e contrappone gli italiani tra loro come nemici. Un Paese (Nord compreso) non va da nessuna parte se non ha un collante e una base comune.
Come mettere in campo un movimento di forze reali: questo è l’assillo che, dopotutto, spinse tanti di noi a sostenere Bersani. Perciò mi ha fatto piacere leggere su Repubblica, dopo tante esaltazioni delle “facce nuove” e dei partiti leggeri, l’elogio dei dirigenti popolari comunisti di una volta. È una vita che discuto col mio amico Scalfari.

Questa volta mi limiterei ad aggiungere che se prevalesse la tendenza a trasformare il Partito Democratico in un assemblaggio di cordate - le quali rappresentano alleanze essenzialmente elettorali volte quasi esclusivamente a conquistare cariche elettive (di per sé aspirazione giusta) - la conseguenza sarebbe che verrebbe meno l’ipotesi stessa di costruire una grande forza a “vocazione maggioritaria”.

Quale vocazione maggioritaria può esistere se non c’è spazio per la rappresentanza politica (non solo il voto) delle classi subalterne, degli umili, di coloro che subiscono ingiustizia? Un esito che diventa inevitabile in un partito non più di militanti proprio perché al suo interno, di fatto, i ceti subalterni non contano niente. Contano solo i notabili, dati anche i costi crescenti della politica. E allora te lo saluto il rinnovamento.

21 aprile 2010
da unita.it
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« Risposta #20 inserito:: Maggio 12, 2010, 11:24:26 pm »

«Dobbiamo ricostruire il Paese. Bersani alzi il tiro»

Sono passate soltanto poche ore dalla presentazione del movimento "Democratica" di Walter Veltroni.

Oggi Alfredo Reichlin commenta l'iniziativa e ne approfitta per mandare il suo messaggio, critico ça va sans dire, ai dirigenti del Pd

«Non mi disturba la discussione, il dibattito. Ciò che mi colpisce è il divario enorme e impressionante tra la gravità dei problemi e ciò di cui discutiamo. Discutiamo del nulla: il giorno in cui stava crollando l’Europa, un pezzo del nostro partito era riunito a Cortona per discutere su chi doveva diventare vice segretario del nostro partito…Non posso concepire un partito che non stia sull’argomento! I partiti non nascono per i suoi dirigenti, nascono per dare una risposta ai problemi del paese, e ora sono enormi: Europa sì o no, Italia unita o divisa, distribuzione del reddito vergognosa, ingiustizia sociale, corruzione, la legge. Questi sono i problemi. E nessuno sente la necessità di un grande partito di sinistra che occupi la scena, dato che la destra si è rivelata incapace? Chi dirige questo paese? Io ho bisogno di una nuova forza nazionale che dia risposte a questi interrogativi, gli italiani non sanno più chi sono, non hanno più il senso del loro futuro, in ballo non c’è più soltanto la vecchia questione destra- sinistra. E’ per questo che io sono critico con i nostri dirigenti.

Bersani non mi sembra un genio, però ha una fortuna: è una persona seria. Non vedo alternative, teniamocelo buono.
Io sarei per fare un grande appello unitario, questo è il momento in cui il paese ha bisogno di un Cavour che dica “Mi unisco a Garibaldi”…i due si odiavano!

Gramsci mi ha insegnato una cosa semplicissima, l’identità di un partito è la sua funzione storica e politica, non è la sua ideologia,
l’Italia non regge più come è stata finora, il vecchio patto tra nord e sud è saltato, lo dobbiamo ricostruire, cose grosse! Non piccole polemiche come chi comanda e chi fa il ministro…

Così deve essere il partito democratico: il nuovo partito della nazione, il nuovo partito dell’unità. Quale altra forza puo farlo? La destra non lo può più fare. L’Italia ha bisogno di riprogettarsi, un nuovo modello, non piccole riforme. Io sono un sostenitore di Bersani, però vorrei che alzasse il tiro.

Veltroni ha polemizzato aspramente perchè Bersani aveva creduto all’alleanza con Casini… Beh, mi pare che ieri ha detto il contrario, si è aperto a tutti e ha fatto una fondazione in cui ha invitato tutti!

L’importante è che il partito sia padrone di sé stesso e che prenda le sue decisioni non per l’imposizione di un giornale o dell’opinione pubblica.

12 maggio 2010
http://www.unita.it/news/italia/98592/laquodobbiamo_ricostruire_il_paese_bersani_alzi_il_tiroraquo
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« Risposta #21 inserito:: Novembre 07, 2011, 09:08:06 am »

Rottamare dinosauri? No, è l'ora dei ricostruttori

di Alfredo Reichlin

Peso le parole e spero di sbagliare. Abbiamo ormai pochissimo tempo per evitare all’Italia una catastrofe finanziaria e quindi di forte impoverimento. Un salto indietro di molti anni della sua storia.

Non intendo polemizzare con nessuno. Dico solo che vedo anch’io i «dinosauri».


Sono tutti coloro (politici, giornalisti, famosi economisti e conduttori televisivi) che non si rendono conto del perché siamo giunti a questa prova. Di che programmi si sta parlando? I programmi sono spot televisivi e non si misurano col problema che ha posto di recente Alberto Melloni, lo storico del Cristianesimo, il quale rivolgendosi alle gerarchie cattoliche le invitava a rendersi conto «che la svolta storica che ci sovrasta è di proporzioni superiori al panico che produce» e che quindi «lo stile di vita tenuto dall’Occidente, nel quale il debito aveva sostituito altri sistemi di dominio, è finito. Per sempre. Come il colonialismo in India e come il bolscevismo in Russia. Non è la fine del mondo: è la fine di un mondo».

Penso anch’io che se non siamo proprio alla fine, è al tramonto di un ordine mondiale che stiamo assistendo: quello del neoliberismo. Il quale però non finirà da solo e non senza molti dolori, soprattutto per l’Italia che è nell’occhio del ciclone. E aggiungo che sta proprio qui la speranza, la grande speranza, che ripongo nelle nuove generazioni. Parlo del complesso e difficile mondo giovanile, non dei «narcisi» che occupano la scena televisiva.

Parlo dei giovani non per compiacerli ma perché sono loro a pagare il prezzo più pesante a un sistema che - come ha scritto domenica Romano Prodi - provoca crescenti ingiustizie tra ricchi e poveri e sposta tutto il reddito verso il capitale e non verso il lavoro. Un sistema che impoverisce l’intera economia mondiale togliendo immense risorse al cammino produttivo dell’economia. Un sistema in cui i cervelli migliori vengono impiegati nelle banche d’affari per scommettere e non nelle imprese o nei laboratori. E così concludeva Romano Prodi: se queste risorse fossero dirette verso investimenti produttivi faremmo molto presto ad uscire dalla crisi.

Eccolo secondo me in poche parole il cuore di un grande programma: canalizzare le risorse che esistono e sono grandi perché sono le risorse umane, le conoscenze, il capitale sociale verso l’investimento produttivo, cioè le cose vere e soprattutto i beni pubblici, la difesa del meraviglioso ambiente italiano e i nuovi bisogni umani. Ma come? Nel solo modo possibile, mettendo in campo non un uomo ma una forza reale. Uno strumento pubblico, una soggettività organizzata, una forza politica, capaci di combattere anche duramente.

Questa è la grande responsabilità che pesa su di noi. Ma qui sta anche il grande spazio che si apre per un partito come il Pd. È lo spazio nuovo che la crisi del vecchio ordine ultraliberista dovrà per forza restituire alla politica. È l’enorme bisogno di guida, di garanzie, di valori. È il bisogno di luoghi dove si possa costruire uno stare insieme e un nuovo alto compromesso sociale tra gli italiani. Questi luoghi non sono i set televisivi, sono i partiti.

Tutto ciò comporta una lotta dura, aperta, e impone il rifiuto di scorciatoie e demagogie. Ai giovani va detto con assoluta chiarezza che essi non hanno altro futuro che non sia l’europeizzazione dell’Italia, vincoli compresi. Anche se l’Europa di domani non fosse più dominata dalle attuali oligarchie finanziarie e dai rottami della destra, la condizione per l’Italia per non finire ai margini è che una nuova generazione faccia il lavoro che i padri non hanno fatto: le grandi riforme. Per farle non serve a nulla inveire contro le banche che sono assolutamente necessarie. Occorre porre fine allo spreco enorme delle risorse del Paese.

Sbaglierò ma il problema che domina tutta la scena attuale e futura dell’Italia è che il Paese invecchia sempre più con le conseguenze enormi che vediamo. A noi quindi spetta - io credo - porre come esigenza prioritaria di un programma di sviluppo, quella di come favorire il passaggio generazionale in tutti i settori compreso quello della politica. Il che significa che essenziale diventa lo scontro con quel grumo di rendite, di privilegi, di ostacoli alla mobilità sociale che stanno scaricando sulle nuove generazioni tutti i costi del sistema.

Il punto centrale è che il sistema italiano non può tornare a competere con un’economia aperta dove ciò che decide è la produttività totale del sistema se non si rompe questa sorta di gabbia in cui sono intrappolate le risorse fondamentali del paese.

Stiamo attenti quindi a non sbagliare. È del tutto fuori dalla realtà pensare a un ritorno al vecchio statalismo, così come sarebbe del tutto illusorio sfuggire alla necessità di politiche di rigore e di risanamento finanziario. La linea più realistica e soprattutto la sola che può costituire la base per una nuova alleanza tra le forze produttive è l’affrancamento dell’individuo dalle vecchie appartenenze e dei vecchi vincoli sociali. Ma le conseguenze possono essere molto diverse. Da un lato precarietà, insicurezza, esclusione sociale, aumento dei rischi della vita. Dall’altro lato una spinta potente a realizzarsi, a essere autonomi, ad affermare i nuovi diritti. Da un parte disgregazione sociale, egoismo, sfiducia nella democrazia, delega al Capo. Dall’altra parte riscoperta dell’impegno sociale, voglia di sapere, volontariato, impegno comunitario.

Gli esiti di questo contrasto sono aperti. È chiaro allora che la nostra elaborazione politica e programmatica deve puntare alla creazione di un soggetto capace di guidare società come queste valorizzando tutta la potenzialità di progresso che ci resta. Nel mondo delle interdipendenze delle grandi reti non si può essere liberi da soli, senza gli altri o contro gli altri, ma soltanto in dialogo con gli altri. Perciò un programma vero non può essere fatto dai «rottamatori». È l’ora dei ricostruttori.


2 novembre 2011

da - http://www.unita.it/italia/dinosauri-altro-che-rottamare-br-e-l-ora-dei-ricostruttori-1.348217
« Ultima modifica: Aprile 15, 2012, 11:10:14 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #22 inserito:: Aprile 15, 2012, 10:53:50 pm »

Le oligarchie contro il Pd, chi non vuole l'alternativa

di A. Reichlin


Ci risiamo? Ciò che io mi chiedo è se non stiamo chiudendo gli occhi di fronte ai rischi (o forse solo le tentazioni) di uscire dalla crisi del Paese e dal collasso dei due partiti della destra (l’asse di governo Berlusconi-Bossi) con una avventura antiparlamentare. Molte cose spingono in questa direzione.

Una crisi economica che getta nella disperazione milioni di persone al punto che si moltiplicano i suicidi e il fango gettato ossessivamente, ogni giorno e ogni ora, sui partiti politici dipinti come tutti ladri e tutti uguali, sta creando una miscela esplosiva. È evidente ed è sacrosanta l’indignazione per i fatti di corruzione. Ma è solo di questo che si preoccupa un certo establishment che nuota nell’oro? Mi colpisce molto il fatto che per questa gente e per i loro giornali non va più bene nessuna riforma sul finanziamento pubblico ai partiti. Vogliono altro.

Che cosa? Che vuole l’oligarchia, parola troppo vaga di cui mi scuso ma con la quale intendo non tutto ciò che esercita il potere e che continua a garantire l’ordine democratico (compreso, sia ben chiaro, il governo attuale), ma quell’intreccio di cose e di consorterie, compreso il controllo pressoché esclusivo del circuito mediatico? Io ho la spiacevole impressione che la storia italiana e della sua classe dirigente si ripeta. Parlo della storica incapacità di questa di accettare come normale un possibile ricambio democratico a fronte del collasso del suo vecchio strumento di governo.

Ciò che è avvenuto in altri passaggi (ricordate l’atteggiamento del vecchio Corriere della Sera di Albertini di fronte alla crisi dello Stato liberale nel primo dopoguerra?). Al fondo è di questo che si tratta oggi in Italia. Si tratta del crollo impressionante in un mare di vergogna dell’asse di governo Berlusconi-Bossi al quale non i cosiddetti «politici» (noi almeno no) ma l’oligarchia politica-affaristica-mediatica dominante, avevano affidato il compito di governare. Si tratta del mondo «loro», non nostro. No, cari signori, i partiti non sono tutti uguali ed è l’asse politico che ha governato il Paese che ha fatto vergognoso fallimento.

No, i partiti non sono tutti uguali. È il partito della destra che ha comprato i deputati necessari alla maggioranza, ha corrotto i giudici, ha dichiarato che pagare le tasse è un furto, ha detto che col tricolore «ci si puliva il culo». Ha imposto alla maggioranza parlamentare di votare solennemente, nell’aula storica di Montecitorio, che la signorina Ruby era effettivamente la nipote di Mubarak. Hanno insomma portato l’Italia sull’orlo del baratro. È vero, perfino il Corriere della Sera ha storto il naso, ma alla fine. Per anni il sostegno fu pieno, certo con il distacco dei grandi professionisti. All’inizio di tutto resta la frase lapidaria con cui l’avv. Agnelli incoraggiò la «scesa in campo» di Berlusconi: «Vada pure, perché se perde perde lui, se vince vinciamo noi».

E infatti si sono coperti di soldi. Più del Trota, più delle spese personali di Rosi Mauro. Figurarsi se io non penso che la gente ha ragione di indignarsi. È giusto. Ma c’è qualcosa che non torna. Ed è questa la questione che sollevo. Perché la sola ipotesi che il partito di Bersani (questo pericoloso sovversivo) possa vincere le prossime elezioni sta creando tanta paura e tanta agitazione in un certo mondo? Mi permetto di ricordare a giornalisti e a persone che pure stimo che il Corriere di Albertini sparò a zero su Giolitti ma, di conseguenza, si beccò Mussolini. Io non chiedo sconti per gli errori e del debolezze del Pd.

Chiedo però a un certo mondo in cui, ripeto, ci sono tanti che stimo, qual è oggi, per loro il nemico? I partiti? Ma quali partiti? La fungaia di partiti e partitini personali che si moltiplicano di giorno in giorno, da Beppe Grillo a De Magistris, trovano simpatia. Allora è il partito che non va, cioè quello strumento reale che bene o male organizza la gente, dà anche ai poveracci una voce e una volontà collettiva, consente che anch’essi possano contare ai massimi livelli della vita statale. È questo che non va? Non va che il Pd sia ormai il solo partito che vive nella società tutti i giorni e tutto l’anno, che vota al suo interno, che ha degli organismi dirigenti e che il suo segretario sta lì, al vertice, ma pro-tempore?

Sottopongo queste mie considerazioni a tutti, anche a uomini come Rodotà e Zagrebelsky, a Umberto Eco e Amato, come a Scalfari, Tronti, Claudio Magris, e tanti altri. Cioè a quelli che fanno le opinioni democratiche. Forse io esagero ma non facciamo l’errore di svegliarci troppo tardi.
E poi teniamo ben presente il mondo in cui viviamo. Si è rotto un ordine europeo e mondiale. La crisi e al tempo stesso la potenza e la ferocia distruttiva della ricchezza finanziaria senza limiti che sconvolge il mondo, comprese le nude vite delle persone, è impressionante.
La mente corre agli anni ’30. L’analogia è evidente. Quella crisi e quel passaggio vide una doppia soluzione: da un lato il compromesso democratico e il grande patto sociale con Roosevelt in America e le socialdemocrazie in Europa; dall’altro la stretta autoritaria, Mussolini, Hitler, la guerra. La crisi della politica è gravissima, è reale, ma viene da qui. Stiamo attenti alla risposta che diamo.

da - http://www.unita.it/italia/oligarchie-contro-il-pd-chi-non-vuole-l-alternativa-1.401445
« Ultima modifica: Aprile 15, 2012, 11:01:41 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #23 inserito:: Aprile 15, 2012, 11:12:50 pm »


Reichlin a Macaluso

di Alfredo Reichlin


Caro Macaluso,
è vero. Io scrivo tra i 20 e i 25 articoli all’anno e l’argomento è quasi sempre il Pd. Ma non per farne l’apologia quanto per cercare di dire quello che, a mio modesto parere, dovrebbe fare per rafforzare il suo ruolo. Lo so, è un vecchio vizio. Io non penso che basti essere un elettore della sinistra ma che è necessario militare. Sentirsi parte dell’esercito che -bene o male - sta in campo. Tu invece scrivi tutti i giorni, ma ogni tuo articolo (piuttosto belli, in verità) finisce - quale che sia l’argomento - con una critica pesante, anzi sprezzante verso questo povero partito. È nel tuo pieno diritto, e io non lo contesto affatto. Noto solo che non guasterebbe un po’ meno di supponenza da parte di chi in tutti questi anni non è stato un distaccato osservatore ma un protagonista politico. Il quale si è dannato l’anima per fondare e rifondare e poi fondare ancora nuovi partiti socialisti (la costituente di Bertinoro, ecc. ecc.). Però senza successo. Mentre, con tutti i suoi errori, tutte le sue divisioni e tutte le sue pochezze, il povero Pd è diventato il primo partito italiano. Io quindi qualche interrogativo, fossi in te, me lo porrei. E la risposta la cercherei non tanto nei nomi quanto nelle cose, le grandi cose che stanno sconvolgendo il mondo.
I fatti di cui io parlo da anni (anche troppo), sono ormai talmente evidenti per cui diventa un po’ ridicola certa ironia contro gli “acchiappanuvole” come il sottoscritto. Perché vedi, caro Emanuele, ciò che è in discussione non sono le glorie del movimento socialista alle cui radici, e alla cui storia, io come te appartengo. Non è nemmeno in discussione il fatto che non il Komintern ma la socialdemocrazia europea ha fatto quella cosa grandiosa che fu lo Stato sociale e il compromesso democratico con il vecchio capitalismo industriale. Il fatto è che la base storica materiale di quel grande compromesso (una civiltà) è stata spazzata via dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione dell’economia. Dobbiamo quindi porre su basi nuove il riformismo, il suo necessario ridefinire il “con chi, contro chi, e come”, la sua capacità reale di schierare le forze di progresso. È il problema che si pone il Pd e che si stanno ponendo, in modi diversi, i partiti socialisti europei. Per cui è fuori luogo il tuo pesante sarcasmo. Siamo diversi. Il Pd nasce anche da altre forze e intende rappresentarle. Ma questa barriera tra il Pd e i socialisti europei non esiste. Hollande, che spero diventerà presidente della Repubblica francese, è venuto a Roma ma ha incontrato Bersani e ha discusso con lui, non con Macaluso. Quindi, calma ragazzi. Può darsi che le forze progressiste falliranno nel loro disegno europeo unitario. Ma questo è il nostro sforzo. È con sfide molto grandi che ci dobbiamo misurare. Tutti. E sta qui, semplicemente qui, la ragione per cui io parlo tanto di nuove alleanze, nuove culture politiche, nuovi strumenti e soggettività politiche. Perché credo non basti agitare le vecchie bandiere. Del resto, tu ed io siamo stati dirigenti di un partito, che si chiamava comunista. Non credo (io no, certamente) che abbiamo tanto lottato perché volevamo dare all’Italia un regime comunista. Il nome non corrispondeva alle cose. Il programma del Pci era - ci spiegò Togliatti - la Costituzione. È anche per questo che io molti anni dopo accettai di cambiare il nome di quel partito.
Non per opportunismo o per cancellare una storia, ma perché il Pci era stato una grande cosa in quanto era quel luogo, quel complesso di cose, di uomini, di culture, di speranza, di strumenti organizzativi che inveravano il bisogno del cambiamento. Ma a un certo punto non lo era più.
Ma non lo era nemmeno Craxi. Dov’è oggi quel luogo? Vedo tutti i limiti enormi del Pd. Ma non vedo altri luoghi. Di ciò sarebbe utile discutere.
Con la vecchia amicizia Alfredo Reichlin
 

sabato, 18 febbraio 2012

DA - http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/422225/
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« Risposta #24 inserito:: Aprile 15, 2012, 11:13:46 pm »

Macaluso a Reichlin

di Emanuele Macaluso
da Il Riformista

Date: 18 feb 2012


Caro Reichlin,
grazie per la tua replica a un mio articolo in cui ti chiamavo in causa. Vorrei anzitutto darti un’informazione: io non ho mai fondato e rifondato partiti socialisti, né a Bertinoro (dove ero ospite) né altrove. Ho fatto per 15 anni una rivista, Le nuove ragioni del Socialismo, molto impegnata a capire cos’è oggi il socialismo europeo, e ora scrivo sul Riformista seguendo quella ispirazione. Per la verità, un tentativo di fare un partito socialista nel 1997 lo fece D’Alema con il contributo di Giuliano Amato e altri autorevoli esponenti socialisti ed ex comunisti, fra cui tu. In quella occasione io, un pò scettico, scrissi un libretto con Paolo Franchi, Da cosa non nasce cosa. L’altro tentativo fu fatto da Piero Fassino al Congresso di Pesaro, sempre con Giuliano Amato, che svolse un grande intervento sull’attualità del socialismo democratico. Dopo pochi anni quel socialismo viene definito vecchiume del secolo scorso. Non io ma il gruppo dirigente dei Ds e tu, che l’hai autorevolmente e onestamente sostenuto, vi siete impegnati a fare un partito socialista. E dovresti spiegare le ragioni per cui, come scrisse Scalfari, i Ds si sono trovati al capolinea con la Margherita e insieme fondarono il Pd. Sul quale, caro Alfredo, non ho mai avuto una posizione distruttiva, ma seriamente critica. Sulle ragioni per cui, dopo la svolta della Bolognina e la crisi esistenziale del Psi, non è stato possibile fare un partito socialista, ho scritto molto. L'ultimo tentativo lo feci con Giorgio Napolitano e tutta l’area riformista, insieme a Rino Formica e tanti socialisti, promuovendo il “movimento per la sinistra di governo”: alla grande assemblea del Capranica venne anche Antonio Giolitti. La crisi del Psi determinò anche quella di quel movimento. Riassumo in poche righe la mia posizione di oggi. Non credo che il Pd così com’è, non come dovrebbe essere, possa assolvere alla grande, necessaria funzione che tu gli assegni. Mi sbaglierò, ma il Pd, lo si capisce da cos’è in ogni luogo e da come opera, può invece attraversare una crisi profonda. Ho già scritto che in questo caso spero che si tratti di una crisi virtuosa, non distruttiva, che sposti il Pd in avanti, e con i caratteri che ha segnato la storia della sinistra italiana, si ritrovi nella grande famiglia del socialismo europeo. Tutto qui. Caro Alfredo, che Hollande incontri Bersani e non me, che rappresento nessuno se non me stesso, è nell’ordine delle cose. Considero quell’incontro importante. È importante, per quel che mi riguarda, non soffrirne e non soffrirne anche se non sono a fianco di Bersani. La vecchiaia può essere una risorsa se vissuta combattendo ma serenamente. Infine, sono d’accordo con te, il tema è grande, ed è un bene continuare a discuterne. 

DA - http://www.domanisocialista.it/mioweb13/_disc5/0000018e.htm
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« Risposta #25 inserito:: Aprile 15, 2012, 11:14:37 pm »

Le oligarchie contro il Pd, chi non vuole l'alternativa

di A. Reichlin


Ci risiamo? Ciò che io mi chiedo è se non stiamo chiudendo gli occhi di fronte ai rischi (o forse solo le tentazioni) di uscire dalla crisi del Paese e dal collasso dei due partiti della destra (l’asse di governo Berlusconi-Bossi) con una avventura antiparlamentare. Molte cose spingono in questa direzione.

Una crisi economica che getta nella disperazione milioni di persone al punto che si moltiplicano i suicidi e il fango gettato ossessivamente, ogni giorno e ogni ora, sui partiti politici dipinti come tutti ladri e tutti uguali, sta creando una miscela esplosiva. È evidente ed è sacrosanta l’indignazione per i fatti di corruzione. Ma è solo di questo che si preoccupa un certo establishment che nuota nell’oro? Mi colpisce molto il fatto che per questa gente e per i loro giornali non va più bene nessuna riforma sul finanziamento pubblico ai partiti. Vogliono altro.

Che cosa? Che vuole l’oligarchia, parola troppo vaga di cui mi scuso ma con la quale intendo non tutto ciò che esercita il potere e che continua a garantire l’ordine democratico (compreso, sia ben chiaro, il governo attuale), ma quell’intreccio di cose e di consorterie, compreso il controllo pressoché esclusivo del circuito mediatico? Io ho la spiacevole impressione che la storia italiana e della sua classe dirigente si ripeta. Parlo della storica incapacità di questa di accettare come normale un possibile ricambio democratico a fronte del collasso del suo vecchio strumento di governo.

Ciò che è avvenuto in altri passaggi (ricordate l’atteggiamento del vecchio Corriere della Sera di Albertini di fronte alla crisi dello Stato liberale nel primo dopoguerra?). Al fondo è di questo che si tratta oggi in Italia. Si tratta del crollo impressionante in un mare di vergogna dell’asse di governo Berlusconi-Bossi al quale non i cosiddetti «politici» (noi almeno no) ma l’oligarchia politica-affaristica-mediatica dominante, avevano affidato il compito di governare. Si tratta del mondo «loro», non nostro. No, cari signori, i partiti non sono tutti uguali ed è l’asse politico che ha governato il Paese che ha fatto vergognoso fallimento.

No, i partiti non sono tutti uguali. È il partito della destra che ha comprato i deputati necessari alla maggioranza, ha corrotto i giudici, ha dichiarato che pagare le tasse è un furto, ha detto che col tricolore «ci si puliva il culo». Ha imposto alla maggioranza parlamentare di votare solennemente, nell’aula storica di Montecitorio, che la signorina Ruby era effettivamente la nipote di Mubarak. Hanno insomma portato l’Italia sull’orlo del baratro. È vero, perfino il Corriere della Sera ha storto il naso, ma alla fine. Per anni il sostegno fu pieno, certo con il distacco dei grandi professionisti. All’inizio di tutto resta la frase lapidaria con cui l’avv. Agnelli incoraggiò la «scesa in campo» di Berlusconi: «Vada pure, perché se perde perde lui, se vince vinciamo noi».

E infatti si sono coperti di soldi. Più del Trota, più delle spese personali di Rosi Mauro. Figurarsi se io non penso che la gente ha ragione di indignarsi. È giusto. Ma c’è qualcosa che non torna. Ed è questa la questione che sollevo. Perché la sola ipotesi che il partito di Bersani (questo pericoloso sovversivo) possa vincere le prossime elezioni sta creando tanta paura e tanta agitazione in un certo mondo? Mi permetto di ricordare a giornalisti e a persone che pure stimo che il Corriere di Albertini sparò a zero su Giolitti ma, di conseguenza, si beccò Mussolini. Io non chiedo sconti per gli errori e del debolezze del Pd.

Chiedo però a un certo mondo in cui, ripeto, ci sono tanti che stimo, qual è oggi, per loro il nemico? I partiti? Ma quali partiti? La fungaia di partiti e partitini personali che si moltiplicano di giorno in giorno, da Beppe Grillo a De Magistris, trovano simpatia. Allora è il partito che non va, cioè quello strumento reale che bene o male organizza la gente, dà anche ai poveracci una voce e una volontà collettiva, consente che anch’essi possano contare ai massimi livelli della vita statale. È questo che non va? Non va che il Pd sia ormai il solo partito che vive nella società tutti i giorni e tutto l’anno, che vota al suo interno, che ha degli organismi dirigenti e che il suo segretario sta lì, al vertice, ma pro-tempore?

Sottopongo queste mie considerazioni a tutti, anche a uomini come Rodotà e Zagrebelsky, a Umberto Eco e Amato, come a Scalfari, Tronti, Claudio Magris, e tanti altri. Cioè a quelli che fanno le opinioni democratiche. Forse io esagero ma non facciamo l’errore di svegliarci troppo tardi.
E poi teniamo ben presente il mondo in cui viviamo. Si è rotto un ordine europeo e mondiale. La crisi e al tempo stesso la potenza e la ferocia distruttiva della ricchezza finanziaria senza limiti che sconvolge il mondo, comprese le nude vite delle persone, è impressionante.
La mente corre agli anni ’30. L’analogia è evidente. Quella crisi e quel passaggio vide una doppia soluzione: da un lato il compromesso democratico e il grande patto sociale con Roosevelt in America e le socialdemocrazie in Europa; dall’altro la stretta autoritaria, Mussolini, Hitler, la guerra. La crisi della politica è gravissima, è reale, ma viene da qui. Stiamo attenti alla risposta che diamo.

da - http://www.unita.it/italia/oligarchie-contro-il-pd-chi-non-vuole-l-alternativa-1.401445
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« Risposta #26 inserito:: Agosto 13, 2013, 11:48:49 am »

La Destra dopo Berlusconi?

Riguarda il Pd che però... primarie partito democratico

Di Alfredo Reichlin

12 agosto 2013


Ne vedremo delle belle ma anch’io sono convinto che con la condanna di Silvio Berlusconi si chiude una lunga pagina della vicenda italiana. Si aprono nuovi scenari. Penso al bisogno crescente di una forza politica capace di porsi come garante della tenuta e ricostruzione del sistema democratico e parlamentare. Cresce quindi lo spazio per un partito come dovrebbe essere il Pd. Il passaggio è molto stretto, e per affrontarlo non basta la fermezza sui principi. Occorre anche una visione più complessiva degli interessi nazionali e delle conseguenze che comporterebbe il collasso del sistema politico.

Ammetto che la mia cultura politica è vecchia. Non posso però fare a meno di ricordare agli amici diventati ultra-protestatari e ultra-sinistri che la lotta intorno alle istituzioni non è un fatto che riguarda il Palazzo, ma è «il concentrato della lotta di classe»: mi pare lo dicesse Lenin.

Guardiamo le cose italiane così come stanno. Dopotutto non è per caso che il Cavaliere ha dominato la politica per tanti anni. Complicità? «Inciuci»? Quante sciocchezze e stupide accuse. Non è la polemica, anche la più aspra, contro quest’uomo ciò che è mancato. Non si è parlato d’altro e c’è un mondo intero di giornalisti e intellettuali che è campato su questo. Allora che cosa ha fatto la forza di quest’uomo? È su questo punto che ormai bisognerebbe riflettere meglio, se vogliamo aprire davvero un pagina nuova.

La risposta si trova, secondo me, in una analisi più ampia e più severa della crisi che tormenta l’Italia da almeno venti anni, cioè anche da prima di Berlusconi. Detto in breve, al fondo c’è la straordinaria pochezza delle classi dirigenti italiane, l’incapacità di affrontare le riforme che diventavano ineludibili a fronte della prova, l’inedita prova di un vero e proprio State building, cioè inserire questo antico Paese nel nuovo ordine europeo e mondiale.

Ci siamo difesi arretrando, cedendo alle logiche del mercato e spesso dell’economia sommersa, delle rendite e dell’egoismo sociale. La sinistra ha resistito ma non molto efficacemente, spesso non ha capito. In parte si è trasformata nel «popolo viola» o nella gestione dell’esistente. Intanto Berlusconi costruiva sul degrado del tessuto sociale la sua straordinaria narrazione della realtà. In base alla quale era lui che liberava gli italiani dai lacci e laccioli di uno Stato inefficiente e oppressore perché su questa base si era costruito il «potere dei comunisti».

Il bilancio è stato catastrofico. Parla da solo. Una crisi economica di natura mondiale subìta nel modo più irresponsabile, gettando il peso maggiore sui salari e sulle forze produttive. Ma il prezzo più pesante è il degrado ulteriore dello Stato. Il problema fondamentale è questo. Proviamo a guardare con freddo distacco al sistema politico e a quell’insieme di regole, leggi poteri, parti sociali e scambi politici che rappresentano la trama di una compagine nazionale in cui convivono persone, culture, storie così diverse come i veneti e i siciliani. Lo Stato italiano, insomma.

Mi pare che sia qui la spiegazione fondamentale del problema italiano in base al quale la nostra democrazia, anche dopo il fascismo, resta una democrazia «difficile» (Aldo Moro). Una Repubblica retta dal «governo delle leggi», ma fino a un certo punto. Fino a quando non subentra il cosiddetto «governo degli uomini», ovvero la concentrazione del potere nelle mani di un capo carismatico che si pone al di sopra della legge.

Siamo ancora una volta di fronte a una simile stretta drammatica? Io spero di no. Ma se guardo alla frammentazione delle forze democratiche tutto mi spinge a dire che dobbiamo parlare più apertamente al Paese con un tono più alto ed egemonico, e quindi con un animo non partigiano. Il problema che poniamo non è quello di una vendetta su una persona ma di dove va lo Stato, «la casa di tutti», ove si cedesse al ricatto del Cavaliere. In quale angolo dell’Europa e del mondo l’Italia finirebbe? È su questo terreno che si gioca la carta delle nuove generazioni. Chi scommetterà su un Paese nel quale non si sa chi comanda ed è incerta la divisione dei poteri? Un Paese senza regole che verrebbe commissariato come la Grecia e dove diventerebbe sempre più difficile lavorare, pensare, intraprendere.

È con questo animo che il Pd deve parlare agli italiani, a tutti gli italiani. A cominciare dalla destra. Dove va la destra? La questione riguarda tutti. Perché una destra in un Paese come l’Italia esiste e continuerà ad esistere. Ciò che è decisivo per le prospettive democratiche è che la destra non si riduca a quelle scene, francamente pietose, che abbiamo visto sotto il balcone dell’ex «unto del Signore». C’è un gran bisogno di un’altra destra, una forza seria, moderata, che possa isolare quello fondo sovversivo razzista e fascista che esiste da sempre. Una destra con la quale sia possibile un confronto aperto e responsabile sul terreno democratico e che possa riprendere la parola in Europa senza essere dileggiata. Molto dipende da noi: ma da noi chi?

Assisto con sofferenza al modo come una sinistra confusa, divisa, non riesca a fare serie analisi. Nessuno fa più analisi: si lanciano solo accuse moralistiche, spesso menzognere e vergognose. Mi viene alla mente un interrogativo terribile che si pose Antonio Gramsci, ormai rinchiuso nel carcere, sul perché il fascismo avesse vinto. Noi - egli si chiese parlando del suo partito - fummo un elemento positivo nella lotta contro il fascismo oppure fummo di fatto un fattore che contribuì alla dissoluzione della democrazia?

da - http://www.unita.it/italia/la-destra-dopo-berlusconi-pd-partito-democratico-reichlin-epifani-renzi-governo-politica-italia-news-1.515682?page=2
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« Risposta #27 inserito:: Maggio 30, 2014, 07:18:01 pm »

IL COMMENTO |
Con Renzi ha vinto il partito della nazione

di Alfredo Reichlin
29 maggio 2014

Non c’è nessuna esagerazione nel dire che il risultato del 25 maggio è un evento di grande portata che oltrepassa i limiti della cronaca politica. Esso fa molto riflettere su questo passaggio cruciale della vicenda italiana ed europea. Ci obbliga finalmente ad alzare il livello del dibattito politico e culturale uscendo da un pesante clima di sfiducia, dalla stupidità delle risse televisive e da quel micidiale senso di rassegnazione secondo cui la politica è solo un gioco di potere per cui le idee non servono a niente.

Non è vero. Il voto ci dice un’altra cosa, rivela la vitalità di un Paese che non si rassegna ma soprattutto rende molto chiara la grandezza della posta in gioco.

Ragioniamo un momento: che cos’è un voto che in certe zone, soprattutto le più avanzate, supera il 40 per cento e si avvicina alla maggioranza assoluta? Di questo si è trattato. Di qualcosa che va oltre il voto per un determinato partito ma che non può nemmeno essere assimilato a certi plebisciti per un uomo solo al comando. A me è sembrato il voto per una forza che è apparsa agli occhi di tanti italiani (anche non di sinistra) come un argine, una garanzia. Contro che cosa? Ecco ciò che ha commosso e colpito un vecchio militante della sinistra come io sono. L’aver sentito che il Partito democratico veniva percepito come la garanzia che il Paese resti in piedi, che non si sfasci, che abbia la forza e la possibilità di cambiare se stesso cambiando il mondo.

Un Paese che si europeizza ponendosi il grande compito di cambiare l’Europa.

Si è trattato di una parola d’ordine molto alta e molto difficile che è gran merito di Renzi aver posto con tanta semplicità e chiarezza. Una scelta molto grossa, davvero cruciale. Non restare sulla difensiva e respingere l’assalto sovversivo contro l’organismo nazionale e contro uno Stato (sia pure pessimo) ma che rappresenta tuttora un «ordine» (leggi, istituzioni, rapporti internazionali) che non può essere travolto da una folla inferocita senza finire nel nulla e senza travolgere gli interessi anche immediati dei lavoratori.

Grillo rappresentava questa minaccia. La protesta va capita e rispettata ma quella di Grillo non era solo un movimento antieuropeo di protesta come quella di tanti altri Paesi. Non era nemmeno come la signora Le Pen (il peggio di quella vecchia cosa che è lo sciovinismo francese). Esprimeva un oscuro sentimento di odio per la democrazia che in Italia ha radici profonde, il rifiuto dell’ordine civile, la rabbia contro tutto e tutti. Era un attentato allo stare insieme pacifico degli italiani.

Io ho sentito molto questa minaccia, forse perché sento molto la fragilità dello Stato e ormai anche della nazione italiana. Sentivo che se Grillo si permetteva questo modo di essere e di parlare non era per caso. Era perché la crisi italiana era giunta a un punto estremo. Non era solo una crisi economica e sociale. Era diventata una crisi morale, di tenuta della democrazia repubblicana e parlamentare. Questo era il tema delle elezioni. E qui io ho misurato il grande merito di Matteo Renzi. Non è vero che faceva il gioco di Grillo scendendo sul suo terreno, come qualcuno mi diceva. Egli ha avuto l’intelligenza e la forza di affrontare quella che non era affatto una sfida sui «media» e nel salotto di Vespa. Era il dilemma reale tra speranza o sfascio. Certo, ha contato moltissimo anche la singolare figura di quest’uomo di cui non spetta a me fare l’elogio. Dico però che il suo straordinario successo personale non è separabile dal fatto che Renzi si è presentato come il segretario di quel «partito della nazione» di cui discutemmo a lungo ma senza successo anni fa con Pietro Scoppola al momento della fondazione del Pd.

Il problema di adesso è che allo straordinario successo deve corrispondere la consapevolezza delle responsabilità enormi che pesano sul Pd e in particolare sulle spalle di Renzi il quale - tra l’altro - è diventato, di fatto, il leader della sinistra europea. Renzi lo sa. Egli stesso ha detto che adesso non ci sono più alibi per non fare le riforme. Ma bisogna smetterla con la vergogna di chiamare «riforme» l’austerità e il massacro dei diritti del lavoro. È il modo di essere della società italiana che va messa su nuove basi, anche sociali. Si tratta davvero di dar vita a un «nuovo inizio». So benissimo che i margini sono strettissimi e certi vincoli vanno rispettati. Ma un nuovo inizio (lo dico anche a certi amici del Partito democratico) è reso necessario dal fatto che è finita l’epoca dell’economia del debito e del mercato senza regole. Anche per l’Europa.

Il cuore della questione sta qui, sta nel fatto che la partita, oggi, si deve giocare attorno alla capacità dei sistemi socio-economici di integrare la crescita economica con un nuovo sviluppo sociale e umano. Io penso che sta qui il banco di prova dei nuovi dirigenti del Pd. Sta nella necessità di costruire un partito e non solo una organizzazione elettorale, un partito-società, un luogo dove si forma una nuova classe dirigente e dove si possa elaborare un disegno etico e ideale. Senza di che ce le scordiamo le riforme.

Io ho vissuto la catastrofe dell’8 settembre del 1943. Ho visto come allora un gruppo di politici giovani (meno di 40 anni) si rivolsero a un popolo che allora era ridotto a una massa di profughi in fuga dalla guerra e dal collasso dello Stato. Quei giovani riuscirono a unire quel popolo sotto grandi bandiere, bandiere politiche e ideali, non tecnocratiche. So bene che tutto è cambiato da allora. Ma l’Italia di oggi è ancora uno dei Paesi più ricchi del mondo e al governo ci siamo noi. Non basta sostenere il governo in Parlamento.

Occorre spingerlo verso nuove scelte di fondo partendo dal paese, dai bisogni e dalle sofferenze della gente. La prudenza, il realismo vanno benissimo, sono virtù che servono anche nelle situazioni «eccezionali». Ma non bastano. L’Italia è in un pericoloso stato di «eccezione». Il voto di domenica è consolante ma esso ci chiede un messaggio forte che dia un senso ai sacrifici e al rigore. Stiamo attenti. La crisi sta intaccando il tessuto stesso della nazione, e io uso questa grande parola quale è «nazione» perché è di questo che si tratta. Non solo dell’economia e nemmeno solo delle Istituzioni. Si tratta di un oscuramento delle ragioni dello stare insieme. Sono troppi, non solo tra i giovani, quelli che vogliono andare a vivere all’estero.

È una crisi «morale», di sfiducia nel Paese, aggravata dalla latitanza delle elite e dalla pochezza delle classi dirigenti politiche. Tutta la questione del Pd e di chi lo guiderà ruota intorno alla capacità o meno di dare una risposta a una crisi di questa gravita.

Da - http://www.unita.it/politica/elezioni-2014/voto-renzi-vinto-partito-nazione-evento-italia-europa-argine-garanzia-sinistra-grillo-protesta-stato-1.572042?page=2
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