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Autore Discussione: Alfredo REICHLIN.  (Letto 16249 volte)
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« inserito:: Settembre 08, 2007, 07:58:26 pm »

Il riformista Trentin

Alfredo Reichlin


Ascoltando in questi giorni tante voci e partecipando al travaglio di una sinistra che vuole uscire dai vecchi confini per costruire una forza nuova capace di ridare al Paese un futuro ho molto pensato a Bruno Trentin. Bruno protagonista della storia profonda dell´Italia repubblicana. Parlo di quel fattore essenziale che spiega lo strano «miracolo» per cui un Paese che ancora sessanta anni fa era popolato da contadini analfabeti e da una piccola borghesia povera, con una classe dirigente prostituita al fascismo, si è trasformata in pochi anni in una delle maggiori potenze industriali del mondo. Sono gli uomini come Trentin che hanno fatto quel miracolo. Ma perché l´hanno potuto fare? È su questo che bisognerebbe dire qualcosa riandando con la memoria a quel mondo reale e a quelle vite. Certo, l´hanno fatto per le loro virtù. Ma io penso anche a qualcosa di cui non è facile oggi parlare senza finire nella spazzatura dove giacciono i «vecchi arnesi» del comunismo. Mi ha colpito che, durante il funerale di Bruno, la parola Pci non è stato nemmeno nominata.

Io sono tra quei vecchi arnesi. Ma mi chiedo come si può parlare di Bruno e della sua singolare figura così «atipica» (è vero) rispetto a una idea deforme e astratta del comunismo italiano.

E mi chiedo come si può parlare di tante altre figure anch'esse tutte «atipiche» come Napolitano o come Di Vittorio o Ingrao o Amendola, o Macaluso o Giolitti senza porsi una domanda che ci riporta al cuore della vicenda italiana. La domanda è questa: essi furono comunisti per caso oppure perché quello fu allora il riformismo italiano, o perlomeno una delle sue matrice essenziali? La verità è che «atipico» era il Pci. Questa strana forza gravata da illusioni e da miti rivelatesi catastrofici ma essenzialmente figlia della frattura profonda che si era creata dopo Porta Pia tra il popolo e lo Stato unitario. Il segreto fu quello. Fu che il Pci - resistendo al fascismo in forme eroiche e rileggendo con gli occhi di Gramsci la tormentata storia dell'Italia unita - riuscì più di altri a raccogliere l'ondata di autentica rivolta e al tempo stesso di speranza in un'altra Italia che covava sia nelle masse povere che nella gioventù e che il fascismo poi aveva esasperato. Nasce così quella forza popolare e di massa - il Pci - la quale - non lo dimentico affatto- porta anche pesanti responsabilità per le successive vicende della sinistra italiana. Ma che una cosa rivoluzionò davvero: il vecchio rapporto tra dirigenti e diretti e in molte regioni la cultura civile degli italiani.

La figura di Trentin sta in quel mondo e in quella storia. È lì che si realizza quel grande salto (non fu riformista?) che modernizzò l'Italia e pose fine alla dicotomia tra il sovversivismo delle plebi e l'elitismo estetizzante degli intellettuali. È questo fenomeno che consentì a personalità straordinarie come Trentin di finalmente esprimersi non più solo come vertici solitari, (a differenza delle generazioni precedenti). E ciò per la ragione che è li che avviene una grande mobilitazione dal basso delle energie popolari mai vista prima così intensa, e l'incontro del popolo con gli intellettuali. E questo perché il terreno dell'incontro è nuovo ed è molto avanzato. Era la costruzione di uno Stato a base di massa, di una Repubblica democratica la cui Costituzione afferma al suo inizio che è «fondata sul lavoro».

Che strana e clamorosa contraddizione. Da un lato il nome di questo partito si riferiva a una ideologia irrealizzabile e clamorosamente fallita (il comunismo). Dall'altro lato, esso continuava, a suo modo, l'opera che il Risorgimento aveva lasciato incompiuta e si collocava lui (molto più del Psi) nel solco aperto dalla grande predicazione socialista dell'inizio del secolo. Portava le masse escluse nello Stato, le trasformava da povera gente assetata di giustizia ma costretta da secoli a togliersi il cappello davanti al padrone in cittadini. Di più: in costruttori di uno Stato certamente liberal-democratico nella sua forma istituzionale ma con una base nuova costituita da quella che chiamammo la «democrazia che si organizza». Senza di che non si capisce nemmeno il sindacato, quel sindacato confederale e unitario concepito da Di Vittorio, autonomo dai partiti ma che a differenza del resto d'Europa non si riduce a una somma di corporazioni e di mestieri ma diventa un soggetto politico. Cioè una forza che non esprime solo una coscienza di classe ma che orienta la lotta dei lavoratori secondo una visione dell'interesse generale. Classe e nazione. Questa è la scelta di fondo. Questo è Bruno Trentin.

Io Bruno l'ho conosciuto, quando lavorava all'ufficio studi della Cgil. Vivemmo insieme quella che nel mio ricordo resta come una immensa felicità. Non parlo della giovinezza (anche) ma della felicità di scoprire la politica come la cronaca che si fa storia e diventa vita; la libertà riconquistata, la lotta, il sangue e la vittoria, la scoperta dei compagni e, al tempo stesso, l'Italia come patria bellissima e la conoscenza di capi che venivano da lontano ed erano anche grandi maestri. E poi i libri fino a ieri proibiti, il dibattito delle idee, e, perché no? gli amori, le ragazze. Non eravamo riformisti? Come mi sembrano sterili certe polemiche di oggi. Trentin non aspettò l'arrivo di Tony Blair che, anzi, considerava quasi un nemico. Il suo riformismo, compresa la sua polemica contro il «leninismo» del Pci, il suo amore per una certa sinistra intellettuale francese era una cosa colto diversa. Il vecchio Pio Galli che era il suo braccio destro alla Fiom e che vive da pensionato a Lecco, nella Brianza leghista, ripensa con enorme stupore agli anni in cui con Trentin eravamo riusciti - mi dice - a convincere quegli operai a scioperare e a perdere giornate intere di paga per chiedere al governo che le fabbriche andassero al Sud. Incredibile. Oggi sembra perfino incredibile che il riformismo italiano (quello reale) abbia espresso cose come queste: veri atti di governo della società pur non disponendo di questo esercito di ministri, sottosegretari, sindaci, assessori, governatori di regione.

Trentin fu il vero inventore dei consigli, cioè di un sindacato nuovo che esprimeva direttamente la volontà di tutti i lavoratori scavalcando il diaframma delle commissione interne e delle correnti politico-sindacali. Fu difeso da Lama e io ricordo bene quella drammatica riunione della Direzione del Pci, al termine della quale i conservatori furono battuti. Ma Trentin fu anche l'uomo (e io credo che qui si misura la sua statura intellettuale) che capì che cosa comportava il fatto che la vecchia Italia contadina si trasformava in un paese industriale. Fu lui il più acuto analista delle nuove tendenze del capitalismo italiani e a rendersi conto di quale cambiamento del lavoro ciò comportava. Ed è su questo che si aprì una grande discussione in cui il suo vero interlocutore e in parte antagonista fu Giorgio Amendola. Come si può far finta di non vedere che la storia della Cgil e quella del Pci per lungo tempo si sono intrecciate? Su questa base si creò il legame profondissimo di affetto, oltre che di amicizia politica con Pietro Ingrao, quest'uomo straordinario di cui nessuno parla. Capisco. I tempi sono questi. Ma posso io dire adesso, dopo tanti anni, che le decisioni (naturalmente) le prendeva la Cgil, ma che fu a casa di Ingrao che noi discutemmo cose grosse: come guidare l'autunno caldo, come preparare le conferenze operaie, come organizzare la grande discesa dei metalmeccanici a Reggio Calabria contro le forze fasciste che l'occupavano?

Bruno non era un gregario. Pensava con la sua testa e comandava. E io credo che la sinistra, compresa quella di oggi più che mai alle prese con problemi che riguardano la sua stessa sopravvivenza deve a Trentin moltissimo. Egli fu se non il solo, il più lucido e il più determinato nel porsi il grande interrogativo che ancora ci assilla: se e quale potesse essere il futuro non solo del sindacato ma della sinistra dopo la grande sconfitta che alla fine degli anni '70 il «lavoro» subì in tutto il mondo. Non si fece illusioni. Capì che cambiava tutto e che la storia del movimento operaio, dei suoi partiti e del sindacato industriale registrava qualcosa di più di una discontinuità: una rottura. Ed era con questo, non solo con Craxi che il riformismo si doveva misurare.

L'amara verità è che la sinistra, colpita nelle sue vecchie certezze, si poneva invece sulla difensiva non comprendendo le straordinarie potenzialità insite nei processi innovativi. Toccò a Trentin, molti anni fa a Chianciano dire alla Cgil che questi processi - di per sé - non erano affatto destinati a rendere il lavoro una merce senza valore; e ciò per il fatto semplice quanto oggettivo, che il lavoratore moderno essendo colui che eroga sempre meno fatica fisica e sempre più sapere e intelligenza, va valorizzato anche come individuo. Certo, non era facile. A parole la nuova destra esaltava il liberismo e l'idea del mercato come legge naturale, ma nei fatti utilizzava il bilancio pubblico e il potere statale per imporre un gigantesco processo di redistribuzione delle risorse per la via di un fisco sempre più ingiusto e di una riduzione della spesa per servizi sociali effettivi. E per instaurare nuove forme di dominio sullo Stato, sulle funzioni pubbliche e anche su tutti quegli strumenti (le istituzioni culturali, i mass-media) che formano le idee, i valori, la coscienza di sé, la visione della realtà, i modi di pensare.

Di Bruno Trentin avremmo oggi un grande bisogno. Perché una riscossa, finalmente, deve essere costruita, ed essa è possibile ma alla condizione di comprendere le nuove contraddizioni che colpiscono non soltanto la parte più debole e sfruttata del mondo del lavoro, dal momento che si aprono problemi più vasti di diritti di cittadinanza, di libertà e di affermazione di sé, di svuotamento degli strumenti della democrazia e della rappresentanza, di rapporto fra governanti e governati. Questo ci ha detto Bruno. Ci ha insegnato che il lavoro intelligente e informato è, in ultima istanza, la vera ricchezza delle nazioni nell'epoca della globalizzazione.

È la sua vera eredità. Fu la sua grande passione. Perciò la sua perdita noi l'abbiamo sentita come una ferita molto profonda.

P.S. Una versione più ampia di questo scritto uscirà su Argomenti Umani

Pubblicato il: 08.09.07
Modificato il: 08.09.07 alle ore 12.44  
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« Ultima modifica: Marzo 08, 2010, 07:06:56 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 25, 2007, 04:37:29 pm »

Dietro la barba di Grillo

Alfredo Reichlin


Non mi piace Grillo ma non mi piace nemmeno come la politica sta rispondendo sia a chi la critica sia a chi la infanga. È vero che il tempo si è fatto breve e che la crisi della democrazia repubblicana rischia di arrivare a un punto di non ritorno. Ma allora è a questo che bisogna dare una risposta, che però sia molto coraggiosa e soprattutto all’altezza di quelle che sono le cause vere della crisi.

Io credo che questa risposta non ci sarà finché qualcuno (penso a Veltroni, ma non solo a lui) non farà al popolo italiano, con chiarezza, nel modo più brutale il discorso della verità.

Grillo lasciamolo stare. Questo guitto è la febbre, non la malattia. La malattia è il vuoto di governo creato dal crollo del grande compromesso politico e sociale sul quale era stata edificata la prima repubblica. E che dopotutto, fu la variante italiana del famoso compromesso democratico tra la socialdemocrazia e il capitalismo nazionale che si affermò nell’Europa avanzata. Quel vuoto noi non l’abbiamo riempito. Questa è la malattia. È il fatto che tutti i tentativi compiuti in questi 15 anni per porre lo sviluppo del paese su nuove basi sono falliti. Le colpe della destra sono pesantissime. Ma noi non siamo innocenti e il prezzo che paghiamo è così pesante perché il paese è cresciuto, ha da molto tempo bisogno di una nuova guida ma ha la sensazione (penso a quella famosa nota di Gramsci che spiega il perché di certe crisi anche morali) che «è troppo grande il contrasto tra ciò che si fa e ciò che si dice».

Perché è vero che la sinistra con Fassino ha conosciuto una ripresa che l’ha portata a notevoli conquiste. Siamo entrati nell’euro, abbiamo evitato la bancarotta, abbiamo governato quasi tutto (comuni, province, regioni, governi nazionali, ASL, imprese pubbliche, comunità montane). Ma è stato molto grande quel contrasto di cui parla Gramsci. Basta dare uno sguardo d’insieme a questi anni per accorgersi che alla chiacchiera infinita sul riformismo è corrisposto, nella sostanza, una brutale e profonda redistribuzione del lavoro e della ricchezza quale da tempo non appariva così ampia. Basti pensare allo sconvolgimento dei prezzi relativi e al divario tra i salari e gli altri redditi. E questi sono stati anche gli anni in cui si è consumata una grande sconfitta culturale ed etico-politica della sinistra democratica.

Il «berlusconismo» non è stato una parentesi, ha permeato il sentire di quella che se non è la maggioranza del Paese poco ci manca.

È vero che ciò non è avvenuto solo in Italia, né per colpa della sinistra. È su scala mondiale che la rivoluzione conservatrice ha imposto la sua ormai lunga egemonia. Le polemiche, le grida, il pettegolezzo giornalistico non spiegano nulla. Le arroganze di una certa «casta» esistono ma il fatto decisivo è che una politica senza grandi ambizioni ideali e con scarsi poteri autonomi perché sottomessa al potere globale della oligarchia economica dominante non poteva che esprimere un sistema politico rissoso e impotente, frammentato in una ventina di partiti. Certo che la sinistra è stata, ed è, diversa e migliore. Ma in quelle condizioni non potevamo che produrre quei «compromessi al ribasso» di cui parlano gli economisti: cioè anche cose buone ma frammiste a mezze soluzioni, rinvii, cedimenti alle corporazioni. È chiaro che questo insieme di compromessi al ribasso non poteva reggere alle nuove sfide del mondo. Le quali - non dimentichiamolo - non sono solo economiche ma culturali e morali. Perché questa, vivaddio, è la mondializzazione; è una cosa che cambia non solo l’economia ma le menti, e perfino l’antropologia frammista com’è alla rivoluzione della scienza. Il che cambia il rapporto con il tempo e la natura e quindi l’idea che gli uomini hanno di sé e del futuro.

Questa è la verità. Ed è ammirevole che i capi dei Ds e della Margherita abbiamo dato una autentica prova di nobiltà e di coraggio sacrificando interessi personali e di partito in nome di un nuovo grande disegno. Il disegno di dar vita a quel «partito nazionale» che la Dc e il Pci furono solo in parte e di cui l’Italia moderna e internazionalizzata ha un disperato bisogno se vuole restare una grande nazione. Si può essere scettici, si può pensare che falliremo ma accusare di moderatismo questo diti giudizi sprezzanti il riflesso di una vecchia cultura che non parte mai dalla analisi delle cose ma dalla difesa della propria identità, per quanto minoritaria essa sia. Per cui ciò che importa è se stessi, è decidere (in attesa del socialismo) se Angius va con Boselli invece che con Mussi e Bobo Craxi si separa da De Michelis e si unisce a Formica. Ho l’impressione che l’Italia non accetta più questo teatrino. E perciò scommetto su partito nuovo, diverso. Certo, vengo da altrove e forse farò fatica a considerarlo la mia casa, ma più vedo questo sfascio e più mi convinco che è la sola risposta al sovversivismo e ai disegni di potere di certe forze che si intravedono dietro i guitti e i demagoghi.

È in questa logica che io sollevo un interrogativo. Che è questo. Il paese ha bisogno di un nuovo ceto politico portatore in qualche modo di una visione del futuro italiano più giusta e più moderna. Ma (ecco l’interrogativo) come è possibile avere questa nuova visione se non si parte dal fatto che il sistema politico messo in piedi 15 anni fa dopo il crollo dei grandi partiti e l’avvento del bipolarismo è fallito non solo e non tanto per ragioni morali (la «casta») quanto perché il suo disegno riformista era debole, meschino? Era incapace di guidare una società in tumultuoso cambiamento perchè non sapeva (o non voleva) contrastare quel drammatico fenomeno, che - attenzione - non è l’estensione del mercato quale strumento essenziale dello scambio economico ma la trasformazione della società in società di mercato: l’Italia dei coriandoli di cui parla De Rita.

Io credo che sta qui la ragione di fondo per cui la politica non è riuscita a governare. Perché era debole? Sì, certo. Ma era debole non perché priva di strumenti (abbiamo governato tutto) ma perché non in grado di garantire diritti e doveri uguali per ogni cittadino (quale che sia il potere di acquisto). Era debole perché non riusciva a far rispettare quei patti non scritti per cui in un qualsiasi paese ci sono i ricchi e ci sono i poveri, ma quel paese può stare insieme perché la legge è uguale per tutti e i ricchi pagano più tasse dei poveri (e non viceversa come in Italia).

È per questo che io sento come cruciali le settimane che ci stanno davanti. La crisi strisciante del governo Prodi complica le cose ma mette ancora più in evidenza il ruolo fondativo di una nuova democrazia che spetta al partito democratico. Si accrescono, quindi le responsabilità delle forze che ne assumono la guida. E io vorrei fosse chiaro che il dovere della politica se vuole parlare agli italiani, a tutti gli italiani (come è necessario in un momento come questo) non è quello di nascondersi sotto le sottane della «società civile». I milioni che il 14 ottobre voteranno i dirigenti del Partito democratico e le 40 mila persone che si candidano in varie liste per farsi eleggere e così partecipare alla costituente del nuovo partito (un fatto enorme) non sono un surrogato della politica, o il trucco a cui ricorre un vecchio ceto politico per non assumersi le proprie responsabilità, la responsabilità di proporre al paese un disegno strategico. Al contrario. È esattamente questa la politica, la grande politica che esce dal Palazzo e si fa popolo e organizza così una riscossa democratica. Perché solo così in questo modo , diventa finalmente possibile affrontare la grande questione finora irrisolta che non è Grillo ma è come adeguare l’agenda politica del paese a una crisi che è profonda perché non riguarda soltanto l’economia ma l’identità della nazione italiana nell’Europa e nel mondo nuovo.

Questa è la posta in gioco. E questa è la speranza. Parole e fatti si possono riunificare. Da un lato, c’è una nuova leadership che propone un diverso patto di cittadinanza agli italiani indicando quelle riforme senza le quali questo paese non «sta insieme». Contemporaneamente si costruisce una forza nazionale e di rango europeo che tende a raccogliere le forze, le energie, le intelligenze oggi disperse o inerti senza le quali quel patto per una nuova Italia non può vivere.

Pubblicato il: 25.09.07
Modificato il: 25.09.07 alle ore 9.19   
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 27, 2007, 10:02:27 pm »

Serve un Partito della Nazione

Alfredo Reichlin


Sto partecipando, come presidente della Commissione incaricata di redigere una «carta dei valori» del Partito Democratico e insieme al relatore professor Mauro Ceruti, a una esperienza nuova e difficile. Cento persone che discutono, ma anche scrivono, mandano testi, messaggi, pensieri. Metà donne, molti a me sconosciuti, un mondo diverso dalle vecchie nomenclature politiche. Il clima generale è quello di una grandissima voglia di cose nuove, la domanda impellente è quella di una politica non politicante, più vicina alla gente, più ispirata a un’etica e ai grandi valori. Il dibattito è serio. Per cui, davanti a certe caricature, io mi scoraggio e mi chiedo se non ci sia niente da fare di fronte all’Italia di sempre: i guelfi contro i ghibellini, la difesa delle proprie bandierine, anche al costo di lasciare che altri decidano del nostro avvenire.

Per quanto mi riguarda, sento acutamente la responsabilità grande che pesa su di noi.

Da quanti anni un partito italiano - sinistra compresa - non tentava di definire, sia pure per sommi capi, non un programma (ne abbiamo fatti tanti) ma una base culturale e morale che giustifichi il suo esistere come partito e non come federazione di forze diverse oppure semplice alleanza elettorale?

Forse questa è solo una velleità. Ma se abbiamo una qualche consapevolezza della situazione in cui ci muoviamo, tra speranze e delusioni, dominata com’è dal rischio che senza una nuova guida la società italiana si disgreghi e lo Stato-nazione non regga alle sfide del mondo, allora c’è poco da fare: l’impresa di dar vita non a un altro partitino, ma a un grande e inedito «partito della nazione» cementato da una comune idea dell’Italia e del mondo del 2000 appare davvero senza alternative che non siano catastrofiche. Questo a me sembra il tema di fondo. È dentro questo grande tema altamente politico, nel senso del presente come storia, che si garantisce il pluralismo e il rapporto tra laicità e religione.

Non voglio entrare nel merito. Dico solo che un partito, sia pure post ideologico e pluralista, se vuole mandare al Paese un messaggio unitario credibile, deve avere una identità e un cemento. Qui sta il compito difficile nostro, di queste cento persone. Da un lato avere ben chiaro che questo partito può nascere solo se tiene insieme in questo passaggio d’epoca laici e cattolici, dall’altro che la ragione dello stare insieme sta non in un elenco astratto di principi ma nelle cose. Le cose nuove, grandissime, perfino sconvolgenti, del mondo perché sono esse che interrogano tutte le vecchie culture, anche quelle laiche e reclamano nuove risposte. Da tutti. Ed è esattamente la necessità di queste risposte che ci impone un impegno comune.

Stiamo attenti a non litigare su niente, il «chi siamo» deriva dal fatto che il Paese capisca a cosa serviamo. E a che cosa io mi chiedo se non a costituire quel partito della nazione che oggi manca, il quale abbia la forza di restituire «lo scettro al principe» cioè ridare alla politica il potere di decidere? Solo così la democrazia si può salvare, in quanto la politica cessi di essere una tecnica per la spartizione del potere, un potere per altro residuo rispetto a quello soperchiante dell’economia mondializzata e ritrovi così la sua fondazione etica, il suo rapporto con la società e con le domande, i bisogni e i pensieri della gente.

Io non credo che sia in discussione il dettato costituzionale e la laicità dello Stato. In ogni caso non lo accetterei. Ciò che è in discussione a me sembra è anche altro. È l’indebolirsi dello Stato come il luogo esclusivo della rappresentanza politica e quindi come il garante dei diritti e dei doveri. La novità è questa: è l’indebolirsi di ciò che finora ha dato base alla democrazia politica e forma alle società moderne fornendo ad esse le ragioni dello stare insieme anche al di là del puro interesse economico corporativo: il sentimento di un comune destino. C’è quindi una ragione se le religioni hanno cessato di essere un affare privato e sono entrate nello spazio pubblico. I valori del laicismo non si difendono se non ci si misura con il fatto che la mondializzazione ha messo in discussione quell’insieme di regole, di corpi intermedi, di relazioni consolidate, consuetudini e identità culturali che formano la società. Aprendo così un enorme interrogativo che emerge ogni giorno dagli orrori delle cronache: una società può esistere se è solo una somma di individui? E, se sì, a quali prezzi? È questo il problema irrisolto ed è la grande contraddizione di cui può farsi carico solo una forza di progresso più larga, che esca dai vecchi confini della sinistra e che voglia aprire una nuova stagione di diritti e di doveri: verso gli altri e verso un mondo a rischio.

Pubblicato il: 27.12.07
Modificato il: 27.12.07 alle ore 8.18   
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« Ultima modifica: Settembre 08, 2008, 12:38:12 am da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 23, 2008, 02:26:16 pm »

A che cosa serve il Pd

Alfredo Reichlin


La cosiddetta «carta dei valori» del Partito democratico è un documento da mettere in archivio oppure può rappresentare il concreto avvio di una riflessione sulle ragioni di una nuova soggettività politico-culturale in cui inverare la grande storia della sinistra in Italia? Oppure di questa storia non resta più niente? Questo interrogativo - lo confesso - è da tempo nella mia testa e credo anche in quella di molti compagni. Stiamo facendo una operazione moderata - come ci accusa l’estrema sinistra - oppure stiamo creando una nuova combinazione di forze riformiste in grado di misurarsi non solo con Berlusconi ma con gli interrogativi del tempo? Possiamo cominciare a rompere il silenzio della sinistra di questi anni e riprendere la parola usando una lingua capace di parlare alle nuove generazioni?

Di per sé il documento presenta evidenti limiti. Ma già il modo come è stato elaborato è un segnale di novità. Esso è nato da un lavoro complesso, non facile ma molto vivo per lo straordinario impegno e la intensa partecipazione di quelle 100 persone, le più diverse e in larga parte tra loro sconosciute, che formavano la Commissione.

Che cosa si doveva intendere per carta dei valori? La risposta non era scontata. Perché che cosa può essere una carta addirittura «dei valori» per un partito non ideologico, pluralista, a largo spettro sociale e culturale e per di più nato dalla confluenza di storie e culture politiche non solo diverse ma che per decenni si sono aspramente combattute? Evidentemente, non si doveva trattare di un semplice programma di governo. Bisognava cominciare a dare un cemento ideale a qualcosa che non è, appunto, una alleanza elettorale ma una forza organizzata che si proietta in un tempo lungo e in un mondo in trasformazione. È vero che c’era una scorciatoia. Potevamo cavarcela con un elenco astratto di grandi principi, sui quali tutti, più o meno, possono essere d’accordo. La nostra scelta è stata un’altra. Lo sforzo in cui ci siamo impegnati è stato quello di dare un fondamento storico-politico a questo nuovo partito. E ciò nel senso di indicare le ragioni reali, effettive, di fondo per cui il Pd si rende storicamente necessario. E non per sé soltanto, secondo una vecchia visione di parte (i partiti «nomenclatura delle classi») ma per il paese. Insomma trovare il nesso necessario tra le ragioni ideali e quelle politiche. Se si vuole il «il chi siamo» definito non in astratto ma in conseguenza del «a che cosa serviamo» e di quale idea dell’Italia e del mondo mettiamo in campo.

Io non so in che misura ci siamo riusciti. Ma è in questa direzione che abbiamo cercato di mettere la prua di un convoglio che deve navigare in mari sconosciuti.

Quindi un lavoro aperto, in progresso, da continuare, il cui risultato è tutto da discutere e ridiscutere ma che ha già - mi pare - una caratteristica e un pregio. Non è più la sommatorio delle vecchie culture di provenienza. È il nucleo di una cultura politica nuova la quale partendo da una visione non banale, e non economicistica, della grande mutazione che è in atto in Italia e nel mondo può rappresentare il terreno sul quale una pluralità di forze politiche e ideali ritrovano non un compromesso al ribasso o un astratto elenco di principi ma le ragioni nuove, reali, del loro «stare insieme». E ciò in quanto (e in conseguenza del fatto che) nessuna delle attuali forze che vengono dal riformismo è più in grado da sola di dare la risposta alle sfide che ci stanno davanti. È incredibile che ci sia ancora chi - col 2 per cento dei voti - pensa di proporre il comunismo.

È sulla base di questo impianto storico-politico che abbiamo affrontato vari nodi problematici, compreso il rapporto tra laicità e religione. Penso che su questo tema abbiamo messo un punto fermo. È fuori discussione il principio della laicità dello Stato garante dei diritti uguali e fondamento del patto costituzionale. Ma la domanda nuova e difficile che ci siamo posti è se la funzione del pensiero laico moderno può essere solo quella di affermare a difendere la pari dignità delle opinioni. Certo, guai se si chinasse il capo di fronte a certe pressioni vaticane. Ma, oggi, la cultura laica è solo un metodo oppure è un valore? Non siamo più ai tempi di Cavour e perciò essa non può restare sulla difensiva di fronte a interrogativi nuovi che chiedono ascolto e non può scandalizzarsi se il pensiero politico, nella sua autonomia, si alimenta anche di nuove idee, valori, ipotesi, dubbi, sia scientifici che religiosi.

Dobbiamo tutti porci in un atteggiamento di ascolto. E questa non è una concessione ai «preti» dal momento che tutti (credenti e non credenti) siamo di fronte a domande inedite che nascono nel profondo di una società inquieta. E io credo - e vorrei dirlo a certi amici - che fondere in uno stesso partito di progresso cattolici democratici ed eredi del socialismo è il più grande contributo che oggi si possa dare alla causa di una Italia libera e laica. Chiedetelo al cardinal Riuni. Laicità non è una parola alternativa alla parola religiosità ma è alternativa alle parole fondamentalismo, fanatismo clericalismo, e sopratutto a tutto ciò che cerca di avvalersi delle leggi e delle istituzioni per imporre le sue verità e i suoi dogmi.

Di qui tutto il ragionare che percorre il documento circa la necessità di un nuovo umanesimo.

Ecco allora perché non un altro partito ma un partito veramente nuovo e diverso. Una forza che prima di tutto sia in grado di misurarsi con il pericoloso vuoto di governo che riguarda il sistema delle relazioni tra gli Stati. Una forza di rango europeo dato che nessun progetto di sviluppo dell’Italia è concepibile e non è realistico se non è parte di un nuovo protagonismo dell’Europa, intesa nella sua unità, e cioè come quella realtà storico-politica che sola può dare risposta ai problemi assillanti del riarmo, del rischio ambientale, delle grandi emigrazioni, dall’avvento di società multietniche e multi religiose.

Insomma, qual è l’idea di progresso da cui partiamo? Come si può pensare lo sviluppo (il tema classico della sinistra marxista, cioè il far leva sullo sviluppo delle forze produttive) se non in rapporto all’esistenza di una nuova umanità, con i suoi bisogni e i suoi diritti e quindi in rapporto al fatto che il mondo è diventato uno, e che «noi» siamo sempre più in «loro» e «loro» sempre più in «noi»? Queste non sono chiacchiere. Forse non si è capito che sta cambiando la stessa natura umana. E che qui sta una delle ragioni fondamentali per cui la politica, intesa come «polis», cioè come capacità di guidare il cammino della società non può più essere quella di ieri. Non può più dipendere da Mastella o da sterili e vecchi estremisti. E io credo che anche per questo acquista un grande significato il nome nuovo che ci siamo dati. Perché la crisi della democrazia dei moderni è il tema dominante. È la rimessa in discussione di quello che è stato il suo fondamento: lo Stato nazione le cui istituzioni e i cui vecchi poteri garantivano non il consumatore ma il cittadino, cioè il titolare di ben altro che un potere d’acquisto: il titolare di diritti universali. Questa è la verità. È in discussione la sovranità popolare, senza la quale le lotte sociali sono sconfitte in partenza.

Non posso riassumere tutti i temi che si affrontano nel documento. Sottolineo solo il fatto che le ragioni di fondo di un partito nuovo stanno nella necessità di portare la risposta politica a questi nuovi livelli. La semplice verità è che i partiti del Novecento non sono più in grado di rispondere alle nuove domande di senso e di futuro.

Questo è un fatto. E le cose stanno così perchè se ripartiamo (come è necessario) non dalle vecchie identità che si formarono nel Novecento ma dalla grande mutazione del mondo e della società umana che è in atto, non basta definire i partiti in base alle vecchie collocazioni tra destra e sinistra. Io non se se è chiaro che un partito politico oggi deve essere in grado di affrontare questioni di carattere culturale e ideale, deve esprimersi ed esporsi in tema di valori, non può più essere un partito che si occupa solo «di politica». Che cos’è oggi la politica se non la libertà delle donne, i diritti delle persone, l’uguaglianza effettiva delle opportunità, il peso del capitale sociale e umano, il ruolo decisivo della cultura e della libertà della ricerca?

Alla fin fine bisogna indicare un’idea diversa di modello sociale. Quello a cui noi pensiamo è una società aperta, dove il lavoro non perde centralità perché l’economia moderna chiede non solo la fatica del lavoratore ma la sua intelligenza. Ma è anche l’idea dell’impresa che cambia, una impresa in cui il padrone non è il solo che conta. In qualche modo ritorna il vecchio tema dei meriti e dei bisogni. In sostanza, l’integrazione sociale e la libertà di scegliere i propri progetti di vita è la trama del documento. Lo sviluppo umano è la nostra idea di fondo.

Pubblicato il: 22.02.08
Modificato il: 22.02.08 alle ore 8.16   
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« Risposta #4 inserito:: Aprile 04, 2008, 05:41:17 pm »

Se l’economia travolge le vite

Alfredo Reichlin


La ragione per cui il libro di Tremonti va preso un po’ più sul serio è che rappresenta la spia di un problema politico molto grosso. La cui novità, in sostanza, è la crisi del modello di sviluppo che i vertici del mondo occidentale (specie anglo-americano) hanno imposto al mondo da oltre 30 anni. Il cosidetto «Washington consensus». Sappiamo di quale autentica rivoluzione (sia pure conservatrice) si è trattato. Finì il compromesso socialdemocratico.

La discussione che mi sembra necessario aprire non riguarda quindi Tremonti ma noi, il nuovo scenario che si apre per la sinistra. E dico subito che l’eterna preoccupazione di non confonderci con l’estremismo e con lo stupido antiamericanismo no-global non può più inibire alle forze progressiste di riorganizzarsi in modo autonomo su scala europea ben oltre i confini della socialdemocrazia. E di cominciare ad assolvere alla funzione sempre più necessaria di pensare un nuovo modello di sviluppo per un mondo che è davvero a rischio.

Dove va l’Europa? Io non confonderei la posizione di Tremonti col vecchio protezionismo di stampo leghista. C’è nella sua posizione il tentativo di riorganizzare le forze di destra europee su una base diversa rispetto al «pensiero unico» liberista di questi anni, ponendosi come una alternativa anche ideale rispetto a quella che Tremonti considera la colonizzazione dell’Europa da parte di forze e popoli nuovi (la Cina) favorita dal modo come la mondializzazione è diretta dall’oligarchia finanziaria anglo-americana, in combutta (?) niente meno che con il defunto comunismo. Qui c’è tutto la demagogia e il cinismo intellettuale di Tremonti. Ma perché egli invoca la difesa delle «radici cristiane» europee? Dietro c’è il fatto che l’America perde influenza e che le religioni in questo mondo a rischio vengono usate sempre più come «instrumentum regni». Mi hanno raccontato dei colloqui in Vaticano del presidente francese Sarkozy. Non si è parlato dei rapporti tra il laicismo e la religione. I cardinali avrebbero sondato la possibilità di riorganizzare le forze di destra europee su una base etico-politica nuova.

L’interrogativo da cui parto è, quindi, il seguente. I problemi emersi con la crisi finanziaria dobbiamo considerarli essenzialmente economici per cui, fatte le somme del positivo e del negativo della mondializzazione i conti, alla fine, tornano? Io penso che bisognerebbe cominciare a cambiare il terreno della discussione. Il tema è il nuovo rapporto tra l’economia e la società moderna. A me sembra che la mondializzazione, nel suo nesso inscindibile con la rivoluzione scientifica e soprattutto con i meccanismi dell’informazione e della conoscenza, ma priva com’è di una guida politica che non sia l’unilateralismo americano, sta provocando mutamenti fino a ieri impensabili non solo nella antropologia umana e nel rapporto tra uomo e natura ma anche nel senso di una metamorfosi del capitalismo. Attenzione. Non parlo solo della evidente tendenza alla finanziarizzazione. Parlo delle conseguenze di esse sul modo di essere del capitalismo intendendolo come la civiltà non solo materiale ma giuridica e intellettuale e morale in cui siamo immersi da almeno 3-4 secoli. Nè parlo solo del mercato, cioè di quel meccanismo dello scambio che esiste da millenni in tutte, o quasi, le società umane. Il capitalismo, come sappiamo, è ben altro. Non è un rapporto tra cose. È la trama (altre, del resto, non si vedono) di una società moderna regolata non dal potere del sovrano o da una qualche morale divina ma dalla combinazione di diritti e di doveri, di libertà individuali e di obbligazioni sociali. Parlo, insomma, della civilizzazione in cui siamo immersi e che ha affermato la sua egemonia non con la violenza o la polizia ma con la capacità di tenere insieme l’egoismo del singolo e quell’altra cosa insopprimibile che è la spinta anche morale e culturale verso l’uguaglianza. Smith e Marx: le due facce che avevano consentito all’Europa di parlare alle èlites di tutto il mondo.

E vengo così al punto. «È proprio questo dualismo -scrive Paolo Prodi sul Mulino a proposito del rapporto tra economia e politica- che è ora messo in crisi (come la stessa democrazia) per la tendenza dell’economia a inglobare in un nuovo monopolio del potere tutta la vita dell’uomo». Dunque, è la vita intera dell’uomo che viene in gioco? Non è poco.

Ecco allora il perché di questi spunti di riflessione da parte di chi non è un economista. Proprio perché il capitalismo non è una «cosa» io rimango molto colpito da certi fatti, quali che siano i ritmi di sviluppo della Cina. Che conseguenze ha il fatto che la cosidetta finanziarizzazione o il cosidetto «turbo-capitalismo» hanno rotto ogni involucro di tipo statale e ogni contenitore capace di svolgere un controllo pubblico, per cui perfino le banche centrali sembrano degli stupefatti osservatori? Lo stesso Prodi (Paolo) parla come di una ovvietà del fatto che le grandi truffe finanziarie di cui sono pieni i giornali «sono soltanto le spie di un sistema costituito da una enorme catena di furti impuniti o quasi legalizzati». E abbiamo letto i libri di Guido Rossi sulla distruzione del diritto.

È vero che un problema analogo si pose con l’avvento delle multinazionali le quali però alla fin fine subirono una certa regolazione. Si sono scritti libri interi sul capitalismo dei manager. Ma poi, alla fine, anche i manager sono stati «colonizzati» dalla finanza: costretti a «creare valore», cioè a valorizzare non le capacità produttive dell’impresa e il suo sviluppo nel medio periodo ma rendere conto giorno per giorno del valore di Borsa ai loro padroni, cioè ai fondi di investimento, emanazioni a loro volta delle banche. Io non so se ci rendiamo conto di quale enorme potere si è costituito attraverso le grandi concentrazioni bancarie. Un potere -ecco la novità- che deriva sempre meno dall’intermediare il risparmio a favore degli investimenti di innumerevoli imprenditori (quello che dovrebbero essere il mestiere delle banche). In realtà i loro bilanci diventano illeggibili perché assistiamo a un enorme trasferimento dei rischi dalle istituzioni finanziarie ai cosidetti «mercati». Dico cosidetti perché in pratica si tratta delle famiglie, le quali essendo sempre meno protette dallo Stato sociale e dalla copertura pensionistica pubblica e sempre più esposte a lavori precari e ad altri bisogni vitali come la casa vengono indotte ad acquistare azioni, fondi, titoli spazzatura indebitandosi fino al collo. Un indebitamento che in USA supera quello dello Stato e che, paradossalmente, è finanziato dal risparmio dei cinesi. Si crea così, nella sostanza un sistema che convoglia il risparmio non verso gli investimenti produttivi ma verso i consumi. Consumi però continuamente esposti al rischio che deriva dai mutamenti del costo del denaro.

È così? So benissimo che la finanza ha svolto e continua a svolgere una funzione cruciale per lo sviluppo. Il fatto su cui vorrei attirare l’attenzione è il ruolo dei consumi. Mi chiedo se la ragione per cui la società si trasforma sempre più in società di mercato non derivi proprio da un fatto essenzialmente storico-politico. Questo fatto è che essendo i bisogni primari ormai largamente soddisfatti ed essendo il plusvalore ricavato dallo sfruttamento del lavoro operaio nel vecchio sistema di fabbrica divenuto ormai «troppo misera cosa» (Marx), si è posta oggettivamente la questione di un diverso rapporto tra una nuova idea dello sviluppo umano e l’economia. Questa è la grossa sfida. Si vuole scartare ogni alternativa che presupporrebbe un diverso rapporto tra dirigenti e diretti? Ecco che allora non resta che trasformare la società in società di mercato. Io penso che da qui, forse soprattutto da qui, viene la trasformazione del cittadino in consumatore. Perché solo su questo terreno più ampio può avvenire un enorme prelievo che scavalca i confini di classe e che fa leva su una gamma vastissima di bisogni umani i quali richiedono nuovi mercati e che sono, almeno in parte indotti in modo artificioso dalle sub-culture dominanti.

Insomma non basta il salario che sottopaga la merce lavoro, occorre creare attraverso il modo di vivere una nuova forma di dominio. Del resto, solo così cominciamo a capire perché la sinistra non ha subito solo qualche sconfitta, è stata messa fuori gioco. Ma qui si apre (se le mie non sono solo fantasie) il grande capitolo su cosa succede se il consumo diventa la cosa essenziale che definisce il bisogno di identità umana.

Questa è la prima parte di un saggio di Alfredo Reichlin sui nuovi rapporti tra economia e società che prende spunto da un libro di Tremonti. La seconda parte seguirà domani

Pubblicato il: 04.04.08
Modificato il: 04.04.08 alle ore 13.27   
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 05, 2008, 05:05:40 pm »

L’economia dell’eterno presente

Alfredo Reichlin


L’articolo precedente si concludeva con il chiedersi che cosa succede se il consumo diventa la cosa essenziale che definisce il bisogno di identità umana. Succede che viene meno il bisogno di futuro. Tutto si risolve nell’eterno presente, nel «carpe diem» di una società di mercato. Questa è davvero la fine della storia. Ma stiamo attenti perché con essa viene in discussione anche il presupposto storico ed etico-politico dello stesso mercato.

Non è strano che un vecchio comunista si domandi cosa succede se viene in discussione il presupposto morale e umano del mercato. Io mi sto chiedendo dove sta andando lo sviluppo umano. Il mercante italiano del Rinascimento rappresentò quel salto di civiltà perché non speculava solo sul divario tra domanda e offerta ma perché scopriva mondi, persone, bisogni, culture e vinceva grazie alla sua superiorità intellettuale. E non per caso con quel profitto costruiva i palazzi rinascimentali e pagava l’opera di Raffaello e Michelangelo. La mercatura era per i tempi di allora libertà, uscita dal Medio Evo. E più tardi, non a caso il liberismo nacque con Adamo Smith che era un filosofo morale. Il mercato moderno, cioè la rottura dei vecchi vincoli corporativi, era anche l’affermazione della autonomia della persona e, quindi, della sua libertà. Infatti è stato quel mercato che ha consentito che si formassero le istituzioni rappresentative e i diritti uguali. Ecco perché io vedo nelle crisi finanziarie in atto ben più che gli «effetti collaterali» di un grandioso processo di sviluppo economico. Vedo un cambiamento di sistema, una metamorfosi abbastanza radicale di ciò che chiamiamo capitalismo. E le conseguenze sono evidenti. La prima è lo stravolgimento della mappa sociale che mi sembra ormai un fenomeno non riducibile all’aumento delle diseguaglianze (tipica conseguenza di certi cambiamenti). Qui si tratta di altro. Della creazione di una oligarchia di super ricchi paragonabili per la follia dei loro lussi alle vecchie aristocrazie prima della rivoluzione francese. E ciò insieme alla perdita di status e di tutele per la gran parte delle classi medie e la formazione di una nuova povertà materiale ma anche morale e culturale. E se penso alle strabilianti conquiste della scienza medica (i trapianti) che solo in cliniche per superricchi si potranno applicare mi chiedo se non vedremo anche la nascita di super-razze. Impressionante mi sembra poi lo svuotamento della democrazia. La crisi della democrazia come fenomeno non contingente ma organico rispetto al fatto che i sistemi politici si sono ridotti a sottosistemi (tendenzialmente clientelari) di una economia finanziaria mondializzata il cui potere supera quello degli Stati. La conseguenza è che le attuali strutture democratiche non sono in grado di prendere le grandi decisioni, e quindi di rappresentare la volontà del cittadino (e non parlo delle sue pulsioni effimere ma di ciò che riguarda la scelta dei suoi destini). È così che la democrazia cessa di essere il luogo della partecipazione. E, infatti, perché partecipare se la democrazia non è più quel luogo dove resta pur sempre aperta la possibilità di cambiare in qualche modo la società attuale? Che cosa resta della democrazia (mi permetto di chiedere ai liberali) se essa perde quella cosa essenziale che consiste nel mantenere viva insieme con le libertà individuali una tensione verso il cambiamento? Il giorno in cui cessa la speranza che sia possibile mutare qualcosa nel rapporto tra dirigenti e diretti la democrazia si svuota. E infine che cosa resta del mercato se esso cessa di essere una struttura aperta? Il mercato non è un suk, per esso non può valere solo la «lex mercatoria» di cui ci parla Guido Rossi. La sua funzione allocativa, insieme alla capacità di misurare costi ed efficienza, viene a sua volta delegittimata se cessa di essere quel luogo aperto dove tutte le persone, almeno in teoria, possano godere di pari opportunità. Di che mercato parliamo se irrompono in esso fondi di investimento pubblici creati da Stati che si chiamano Dubai, Russia, Cina, i quali prima o poi chiederanno contropartite non solo economiche ma politiche. Si crea un nuovo gigantesco capitalismo di Stato su scala mondiale? Può darsi che queste mie considerazioni siano fuori misura. A giustificazione vorrei dire che esse nascono dall’assillo di dare una risposta convincente alla domanda seria che ci viene posta sulla costituzione del partito democratico. Perché l’Italia -questa è la domanda- dovrebbe essere il solo paese europeo senza una sinistra, viste le nuove ingiustizie e i disastri che accadono? È una domanda alla quale io sento il dovere di rispondere anche per il debito che ho con la mia storia. Non facciamo confusione sulle diverse storie della sinistra. Le mie riflessioni e preoccupazioni non sono quelle della sinistra radicale. Io vengo da Gramsci e il suo rovello sulla storia d’Italia, dal marxismo come storicismo assoluto e quindi storicizzazione anche di se stesso, da Togliatti e l’assunzione delle responsabilità nazionale. Ma così come giudico quella della «cosa rossa» (il ritorno alla cultura della sinistra di classe) una non risposta, io sento, al tempo stesso, la debolezza di una posizione la quale sostenesse che il nuovo nome della sinistra storica è semplicemente il partito democratico. Non è così. Ci sono delle nuove ragioni di fondo per cui non è così. E queste ragioni non mi sembra siano quelle che divisero i comunisti dai socialisti, e i socialdemocratici «statalisti» dai liberal di sinistra. Io non so quale partito stia nella realtà nascendo e mi preoccupa il peso che hanno in esso vecchie culture liberiste superate dai fatti: i fatti nuovi accennati prima. Io non voglio commettere l’errore opposto a quello commesso fino a ieri dai troppi entusiasti sostenitori del modello americano. Io sento sempre più la distanza della vecchia cultura classista e qui vedo la grande novità del Pd. Penso questo partito non solo come quella forza nazionale ed unitaria che l’Italia dei guelfi e dei ghibellini, del Nord e del Sud, dei preti e delle massonerie non ha avuto mai e di cui ha un estremo bisogno ma soprattutto come un tentativo, uno strumento una idea circa la necessità di mettere in campo una nuova soggettività politica, un pensiero politico adeguato al fatto che si è aperta una nuova storia. Ciò che vorrei capire è se questa storia è solo la continuazione (con ovvie varianti) di quella precedente oppure se la sua novità sta anche nel fatto che si sta aprendo un conflitto nuovo. Da un lato si sviluppa una diversa presenza delle popolazioni umane sulla terra (non solo come numero ma come presenza di forze attive e di nuove idee di sé) e tutto ciò in un mondo tendenzialmente unificato, e quindi l’acuirsi di un problema che riguarda il destino dell’uomo e la necessità di liberarlo da vecchi vincoli. Dall’altro lato un modello economico-sociale che non essendo in grado di dirigere questo processo si deforma e apre quei problemi ai quali ho accennato. I problemi dello sviluppo umano. Ecco perché la cultura, sia pure aggiornata, della sinistra storica non è più riproponibile. Altri sono i tempi. E altre sono anche le forze che stanno venendo in campo. Noi dobbiamo fare un punto e a capo. Non è possibile guidare un movimento progressista e incontrare le nuove masse giovanili se restiamo intrappolati nella piccola vicenda italiana: un paese in decadenza perché non sa più chi è e non vede un futuro. Cerchiamo di capire perché questo antico paese civile vota in massa e si affida specie al Nord da oltre dieci anni a un imbroglione perfino ridicolo come Berlusconi e perché la sinistra, nel senso più ampio (il paese civile, i democratici) non è riuscita a guidare questo paese sulla via della riscossa. Le ragioni sono tante e ce le indicano le cronache. Ma al di là di queste c’è il fatto che da tempo non riusciamo a prendere le misure di una cosa che chiamiamo destra ma che in realtà è un miscuglio di potenza economica, di controllo di quella inaudita potenza che è la rivoluzione scientifica e tecnologica, di egoismo sociale, di governo delle menti attraverso l’uso dei media e della cultura di massa. Non significa nulla dire capitalismo. Quel nome non definisce la cosa che sto cercando di capire. Perciò la cultura della sinistra storica, al fondo della quale resta l’idea dell’anticapitalismo, non morde. Di che parla? E in nome di quale alternativa: lo statalismo? Esiste ancora l’antitesi Stato-mercato? In più che cosa sono in realtà lo Stato e il mercato? Eppure di un qualche nuovo orizzonte, di un ideale, di una alternativa il mondo ha bisogno: basta vedere con quale rapidità stiamo distruggendo l’ecosistema. Ma è anche chiaro che questa «alternativa» non è il riformismo subalterno alla Tony Blair. Ecco che cosa mi spinge a pensare queste note le quali non hanno altro scopo che ridefinire il nuovo terreno del conflitto: un conflitto diverso ma non meno drammatico di quello che fu il vecchio conflitto di classe nato con l’industrialismo. Se di questo si tratta, allora diventa chiaro il perché di una nuova cultura politica e di un nuovo soggetto politico. E allora così riscopro il futuro di quel partito nuovo che non chiamiamo «sinistra» ma che in realtà potrebbe essere lui il nuovo antagonista. E si creerebbe la possibilità di costruirlo su una base molto larga elaborando l’idea di un governo diverso del mondo e dello sviluppo umano. Io sarò pure un acchiappanuvole ma se agli uomini moderni e alle forze culturalmente sveglie non poniamo questi interrogativi perché facciamo politica?

Pubblicato il: 05.04.08
Modificato il: 05.04.08 alle ore 10.38   
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« Risposta #6 inserito:: Aprile 22, 2008, 03:19:19 pm »

Il voto e il Pd: c'è un vuoto da riempire

Alfredo Reichlin


Con il voto del 13 aprile si è chiuso un ciclo politico. La semplificazione del quadro politico c’è stata, e questo è positivo. È un bene aver prosciugato quella fungaia di 20-30 partitini che avevano ridotto la decisione democratica a un patteggiamento infinito. Ed è fondamentale che questo terremoto, che ha travolto anche una vecchia sinistra che continua a dividersi, non ha invece colpito il cuore vero della sinistra italiana, quel patrimonio politico e morale che è stato e resta il più forte baluardo di una democrazia difficile e quella cultura che ha coniugato sempre il cammino delle classi lavoratrici con l’interesse nazionale.

Anzi. Da questa - che certamente non è stata una bella giornata per la democrazia - il Pd emerge come il partito che con tutti i suoi limiti e le difficoltà della situazione rappresenta quella forza unitaria, riformista e di governo che l’Italia finora non ha avuto.

Adesso questa forza c’è. Ha raccolto un terzo dei voti, si è insediata supratutto nelle città, ha mobilitato e organizzato forze, ha suscitato passioni. Si può dire quello che si vuole ma il fatto è che il Pd non è un fatto mediatico, ha ritrovato un popolo.

Adesso l’attenzione dovrebbe concentrare sulla lettura del Paese quale esso si è rivelato attraverso il voto. La realtà delle cose supera gli schemi dei politologi. Comincerei quindi con l’osservare che quando un personaggio come Berlusconi, sceso in campo nel lontano 1994, torna per la terza volta a Palazzo Chigi, vuol dire che questo non può essere considerato un episodio anomalo. È il segno di un’epoca che come tale va ormai giudicata (per memoria, ricordo che quella che gli storici chiamano “l’età giolittiana” durò meno di 10 anni, e ancora meno il “degasperismo”). È la spia di una condizione del Paese.

Ma stiamo attenti ai luoghi comuni. Berlusconi non ha vinto al Nord. La verità è che nel Nord (senza calcolare l’Emilia) la distanza tra PdL (Forza Italia più An) e il Pd si è ridotta a 32,1 contro il 29,3. Siamo quasi pari. Mentre è nel Sud che il “signore di Milano” trionfa (45.0 contro 31.5). La grande novità del Nord è la Lega che raddoppia i suoi voti. Ma a chi li prende? Quasi tutti (oltre un milione) al partito di Berlusconi. Il fatto vero che fa molto riflettere, al di là dei numeri, è il sentimento della gente (compresi gli operai), è il senso di sfiducia nella sinistra e nei sindacati che si percepisce. E la ragione di ciò, io credo, non sta solo nei nostri errori ma nel fatto che una parte crescente della società non si sente aiutata dal modo attuale di essere dello Stato democratico italiano che non li assiste a reggere alle sfide e ai costi dell’internazionalizzazione. È, quindi, il grande problema della democrazia moderna che ci investe e che in Italia è aggravato dalla particolare inefficienza del nostro Stato. È evidente, quindi, che dobbiamo radicarci nel territorio ma un grande partito deve sapere che la risposta alla sfida del mondo nuovo sta altrove. Non credo, quindi, che la situazione si sia stabilizzata. Il fatto che la Lega i voti li sta prendendo non a noi ma a Berlusconi sta aprendo un serio conflitto nel Veneto, dove le forze del Pdl, della Lega e le nostre quasi si pareggiano. Ma a tutto questo bisogna aggiungere la situazione del Mezzogiorno che è grave perché il sistema clientelare e il malaffare si sono rafforzati. Guardo i nuovi eletti e mi chiedo chi sarà capace di non chiedere solo favori, e di riproporre la questione meridionale non come un problema territoriale ma come la più grande questione irrisolta della nazione. Tutti parlano di competitività. Ma io continuo a chiedermi come gli italiani (anche del Nord) pensano di reggere alle sfide del mondo nuovo e della finanza globale se non hanno uno Stato diverso ma unitario alle spalle.

A me sembra questo il grande tema che emerge dal voto. La crisi della nazione. Se lo è, se il dilemma - intendiamoci bene - non è se l’Italia va nel mondo (accidenti se ci va: le nostre esportazioni aumentano) ma come ci va. Se ci va riorganizzando lei l’immenso patrimonio civile e culturale della nazione, il ruolo dello Stato moderno, le nuove reti della conoscenza, dei servizi e del capitale sociale da Siracusa a Bolzano, oppure se verrà spinta dalle logiche dei “poteri forti” verso una secessione silenziosa; se, insomma, questa è la situazione perché il voto dovrebbe creare smarrimento? I problemi sono ardui ma essi rendono ancora più chiara la ragione storico-politica del Pd. E, quindi, anche la sua capacità espansiva potenziale oltre i confini della somma DS-Margherita. Perché come si fanno le alleanze se non sulle grandi questioni? Noi non andiamo da nessuna parte se non sappiamo in che mondo grande e terribile si recita ormai la politica italiana. Fanno ridere certe polemiche sul moderatismo. Io credo sia molto importante il fatto che c’è sulla scena italiana un partito della nazione. Questa non è una vecchia canzone. Io chiamo partito nazionale una forza che non si chiude nella provincia italiana e non si difende dal mondo ma, al contrario, si considera parte integrante della costruzione della potenza politica sovranazionale europea. E lo è in quanto è in grado di valorizzare l’intera grande penisola che si proietta nel Mediterraneo e verso l’Oriente. Solo su questa base si può riproporre un patto unitario a Milano e a Palermo.

Ben vengano, quindi, le nuove analisi sulla “questione settentrionale”. Si diano al partito strutture federali. Però alla fin fine, solo un forte pensiero storico-politico è in grado di spiegare perché il tessuto identitario della nazione si sta sfilacciando in questo modo e quella che era una società di cittadini, certo divisa tra ricchi e poveri ma tenuta insieme da leggi e diritti uguali e da istituzioni repubblicane rispettate si sta sfarinando. Questo non è un problema economico o territoriale. È da anni che ne discutiamo. È ovvio che la crisi italiana è anche economica ma io continuo a pensare che essa è essenzialmente la crisi di una nazione. La quale perde identità per una ragione molto seria, perché non è riuscita a superare una sfida che riguardava la sua storia. Questa sfida ha una data. È l’ingresso nella moneta unica e nell’economia globalizzata. Il Paese varcava una soglia che metteva in discussione tutto il suo impianto a economia mista e a statualità debole. Attenzione, non solo i deficit della finanza pubblica ma tutta la sua costituzione materiale, tutto ciò che c’è prima e che c’è dopo la produzione delle merci: dai sevizi alla amministrazione pubblica, alla scuola, al tipo di compromesso tra Nord e Sud, tra chi è esposto al mercato e chi è protetto dallo Stato, fino alla politica estera. È lì che abbiamo perso una battuta fondamentale nella lotta per l’egemonia. Bisognava fare riforme grosse, produrre idee originali e non solo varianti del “pensiero unico” imposto dal salotto buono. Parlo di idee come quelle elaborate da personaggi niente affatto sovversivi come Beneduce, Mattei, Di Vittorio, Vanoni, Saraceno. Certo, altri erano i tempi in cui questi uomini operarono. Ma essi non hanno mai creduto che per fare l’Italia del “miracolo” bastasse affidarsi al mercato. Non hanno mai confuso i banchieri con degli statisti.

La verità è che si è creato un vuoto ed è questo che ha aperto la strada sia al leghismo che al voto siciliano. Ma il voto non ha creato una nuova egemonia. Il problema strategico del riformismo italiano è come ridefinire il profilo e la statualità con cui il paese va nel mondo. Questo problema resta aperto. Quindi, è inutile piangerci addosso. Finalmente abbiamo un soggetto politico post-novecentesco in grado di prendere questo problema nelle sue mani. Veltroni ha questa ambizione? Credo, spero, di sì. Altrimenti assisteremo al paradosso che sarà Tremonti e non la sinistra a spiegare alla gente impaurita che il modello liberista del capitalismo globalizzato ha fatto il suo tempo.

Pubblicato il: 22.04.08
Modificato il: 22.04.08 alle ore 9.37   
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« Risposta #7 inserito:: Maggio 07, 2008, 01:03:43 am »

Non si può tornare indietro

Alfredo Reichlin


Tutti diciamo che è tempo di aprire una grande discussione. Ma ciò che la rende difficile e, al tempo stesso, assolutamente necessaria è che non siamo di fronte solo (né tanto) a una avanzata della destra. È emerso dal voto popolare un fenomeno molto più profondo, che viene da più lontano e che pone interrogativi quali la sinistra italiana e le forze democratiche da molto tempo non affrontavano. È evidente che non si può tornare indietro. Cerchiamo di uscire da questa inutile disputa. Le domande che la nostra gente si sta ponendo richiedono risposte serie, pena gravi disorientamenti.

E tuttavia qualunque discussione non può non partire dal fatto che se noi restiamo in campo (12 milioni di voti) è perché in questa Italia, quale è emersa dal voto, c’è una forza nuova che è uscita dai vecchi confini della sinistra e si dichiara di centro-sinistra perché pensa che per guidare un Paese come questo occorre porre il suo sviluppo non solo economico ma culturale su una base nuova. È la difficile europeizzazione dell’Italia che richiede un partito nazionale il quale sia in grado di misurarsi con un universo sociale assillato da problemi che sono diversi ma non meno cruciali dei vecchi conflitti di classe (perciò - almeno così io ho capito - ci siamo definiti a vocazione maggioritaria: non perchè gli alleati non servono ma perchè non si scelgono a prescindere).

La nostra discussione dovrebbe, dunque, partire da qui: dai fatti. I quali fatti confermano che era giusta la scelta che, sia pure in ritardo, abbiamo fatto. È semplicemente impossibile tornare indietro. Stiamo attenti. Questo è un momento molto delicato per la vita del Pd e anche delle istituzioni repubblicane. Non c’entra la paura per un fascismo che non tornerà ma la consapevolezza che difficilmente le cose resteranno come prima. Proprio questo ci dovrebbe dare la ferma consapevolezza che la novità e la grandezza dei problemi, ma anche delle opportunità (sì, ci sono anche queste) dicono che si tratta di pane per i nostri denti. D’altra parte gli stessi fatti ci dicono che la questione dell’unità del partito e della formazione del suo gruppo dirigente non può essere separata dalla necessità di far fare un salto di qualità al nostro pensiero politico collettivo.

La ragione l’ho già accennata. Siamo di fronte a una sconfitta elettorale come tante altre, oppure all’esaurirsi di un lungo ciclo politico e culturale? Parlo di quel lungo tratto della storia dell’Italia repubblicana in cui il quadro valoriale e culturale del Paese fu largamente dominato dalle idee della sinistra. E ciò grazie a quello straordinario moto di popolo per cui non le classi dominanti (complici del fascismo e della tragedia della guerra) ma le forze fino allora escluse o messe ai margini della vita statale elaborarono la base costituzionale della Repubblica. Se questa è la novità, essa è davvero grande. Per dirla con Aldo Schiavone è avvenuto un «riposizionamento del baricentro mentale della nazione rispetto alla tradizione sociale e politica che aveva costruito la Repubblica». Si è aperto così un enorme spazio vuoto per riempire il quale certamente occorre una strategie politica ma, insieme a questa, una nuova “autoidentificazione” culturale, un nuovo collante per gli italiani. Chi lo farà? L’alleanza di puro potere tra Bossi, Berlusconi e Fini? Il ruolo dominante di un cattolicesimo come “religione civile” su cui lavora da tempo la Chiesa di Ruini e che nelle condizioni di una democrazia senza popolo e con partiti impalpabili potrebbe anche fare da supporto anche a una scissione silenziosa e a qualche forma italiana di peronismo? Oppure è a noi che spetta questo ruolo di unificazione dei nuovi italiani, a questa forza nazionale e democratica che è il Pd se non si divide in una federazione di potentati?

Le sconfitte delle sinistre in Europa ci confermano che i problemi sono grossi e vengono da lontano. È chiaro ormai quanto ha inciso quel grandioso fenomeno mondiale che è stato la svolta americana degli anni 70-80 la quale in nome di un “mercatismo” eretto a ideologia fondamentalista ha in realtà posto il governo del mondo nelle mani di un super capitalismo finanziario globalizzato, cioè di un potere immenso che ha tolto alle forze del lavoro, alla sinistra e ai sindacati la capacità di incidere sui processi sociale e di interpretare lo spirito del mondo. Ma noi non siamo innocenti. Cosa è stato il nostro riformismo? Certo, era (ed è) necessario far leva sulle regole di mercato per combattere il grumo tipicamente italiano delle mafie e delle inefficienze ed era giusto valorizzare l’iniziativa individuale e i meriti oltre che i bisogni. Ma non credo sia un delitto pensare che il mercato non bastava. E ciò per la semplice ragione che il fatto grandissimo che sovrastava e condizionava il nostro “buon governo” non era il riformismo europeo (quale?) ma una sorta di maremoto che toglieva il terreno sotto i piedi delle sinistre tradizionali. Noi cercavamo di far tornare i conti dello Stato ma intanto era in atto la più grande redistribuzione non solo della ricchezza ma del potere: i ricchi diventavano sempre più ricchi mentre i salari restavano fermi e il lavoro dei Paesi occidentali diventava sempre più incerto e precario esposto alla concorrenza non solo dei “cinesi” ma, perfino in casa nostra, di forme nuove di lavoro servile. Al tempo stesso i sindacati contavano sempre meno. A me sembra che proprio nel Veneto è emersa tutta la novità e complessità dei fenomeni. Estese fasce operaie molto qualificate, quasi “imprenditori di se stessi”, che, forti di un nuovo rapporto “cooperativo” con l’imprenditore pensano di fare a meno del sindacato. Ma accanto, il lavoro precario e accanto a questo gli emigrati spesso trattati come cani ma di cui il Veneto non può più fare a meno. Qui sta la cinica ipocrisia dei dirigenti della Lega. Essi prendono i voti della paura ma sanno benissimo, come ci spiegano gli esperti, che l’economia veneta per reggere ha ormai bisogno di qualcosa come un 10 per cento di emigrati rispetto alla popolazione.

Naturalmente io so benissimo che era molto difficile difendersi. Mi chiedo però fino a che punto ci siamo resi conto che (in mancanza di una guida capace di esprimere un nuovo disegno per il futuro del Paese) l’Italia era destinata ad accentuare le sue storiche divisioni. Noi abbiamo parlato poco al paese, mentre era sempre più necessario ridefinire la sua agenda vera. Governare significava anche capire meglio quali sconvolgimenti e rotture di vecchi legami stavano avvenendo nella società italiana. La “questione sociale” (uno straordinario impasto non solo di nuove povertà, ma di senso delle ingiustizie, paure, rivolte fiscali, diffusione della droga, crisi della scuola, malaffare) stava diventando esplosiva. E in effetti c’è anche questo nel voto.

Altro quindi che “tornare indietro”. Il Pd ha più che mai bisogno di grandi innovazioni. Bisogna fare i conti, io credo, con la necessità di andare oltre un riformismo troppo debole e troppo datato. Alla fin fine questo è il problema principale: ridefinire il profilo popolare moderno del nuovo partito. Per spiegare cosa intendo mi servo di uno scritto del giovane Colaninno il quale chiede al Pd nientemeno che di «riconciliare Economia e Uomo, dopo più di due secoli di pericolosa contrapposizione, esaltando i valori del lavoro e dell’impresa come elementi fondanti di un nuovo patto tra tutti i protagonisti delle sviluppo». Si può discutere di cose come queste?



Pubblicato il: 06.05.08
Modificato il: 06.05.08 alle ore 11.35   
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« Risposta #8 inserito:: Maggio 22, 2008, 08:39:14 am »

Un Partito contro il Medioevo

Alfredo Reichlin


Una forza e una alleanza che sarebbe potenzialmente in grado (ecco il punto su cui richiamo l’attenzione) di giocare la grande partita che si è aperta non solo in Italia ma in Europa e nel mondo in conseguenza della crisi di quella che è stata dopotutto la destra vera: la oligarchia finanziaria che ha finora guidato la mondializzazione.

Di che cosa parlo? Parlo di quello che leggo non sull’Unità ma sul Financial Times secondo il quale (cito) «La crisi dei crediti facili ha focalizzato l’attenzione sulle oscene iniquità di questa epoca: i 1000 individui più ricchi del mondo hanno un patrimonio quasi due volte superiore a quello dei 2,5 miliardi più poveri. È il ritorno al Medio Evo. Già si vedono i segnali di una rabbia aperta montante nei confronti di questa situazione come abbiamo visto con l’attacco lanciato dal presidente tedesco Horst Kohler al mondo dei mercati finanziari definiti un mostro che deve essere domato». Fine della citazione.

In più lo stesso giornale ci informa che ormai a tal punto il centro di gravità della finanza globale si sta spostando fuori dal vecchio Occidente che i “fondi sovrani”, cioè statali (altro che mercato) di Russia, Cina, Golfo Persico supereranno tra pochi anni i 15 mila miliardi di dollari. Saranno, cioè in grado di comprarsi l’industria europea. Ci rendiamo conto di quali paure si creano e di quali sconvolgimenti tutto ciò sta già provocando? Sono i destini anche personali degli italiani come degli europei che tornano in gioco dopo secoli. Noi non ce ne siamo accorti in tempo, questa è la verità. E tuttora non mi pare che siamo decisi a scendere su questo terreno. Allora non meravigliamoci troppo per certi voti. E non facciamoci nemmeno troppe illusioni sulle virtù dei centri studi. Solo la coscienza delle grandi iniquità genera il conflitto vero e solo i conflitti veri generano nuovi partiti e nuovi pensieri. Le grandi idee e le grandi intelligenze nascono dai grandi sconvolgimenti. Ed è questa la ragione per cui io penso che spetta ormai a una nuova generazione farsi avanti. Non sono un giovanilista, penso però che solo una nuova generazione può ridefinire l’agenda del Paese.

Rendiamoci conto che noi siamo di fronte a qualcosa che non è solo una alternanza di governi: l’On. Berlusconi al posto dell’On. Prodi. Nulla è più come prima. Emerge una nuova destra nei confronti della quale è cambiato lo spirito del tempo. I sondaggisti ci dicono che almeno il 60 per cento degli italiani considerano superate molte delle vecchie barriere valoriali che la vecchia cultura repubblicana aveva definito. Figurarsi se un vecchio antifascista non è allarmato. E io vedo benissimo anche i segni di degrado dell’etica pubblica. Ma, accidenti, io voglio vedere anche altro. Non c’è solo un vuoto di valori. C’è la necessità di capire le ragioni reali, più profonde, della vittoria della destra, in Italia come in Europa. Altrimenti diventa difficile preparare la rivincita. Il punto è che le ragioni interne (che sono cruciali e su cui non torno) non sono più separabili da quelle internazionali. Se il governo dell’Unione è stato giudicato incapace (perché è inutile negarlo: è su questo che la gente ha votato e tanti dei nostri si sono astenuti) di governare questa concreta Italia, i suoi bisogni e le sue paure, le sue eccellenze e le sue miserie ciò è accaduto non tanto a causa di singoli errori. È il suo impasto, è quell’idea di politica, di difesa di vecchi assetti sociali, di concezione della funzione pubblica che non funzionavano più a fronte di qualcosa che era anche più forte della demagogia populista di Berlusconi. Erano messi in discussione da ciò che stava succedendo nel mondo.

Che cosa stava succedendo? Una cosa, in realtà senza precedenti. Qualcosa che, volendo semplificare molto, è il cambiamento (se non il rovesciamento) del modo come il processo di mondializzazione è stato diretto finora. Parlo di quel modello cosidetto neo-liberista (libera circolazione dei capitali, l’idea che i mercati si autoregolano, e in più il “signoraggio” del dollaro e la geopolitica dominata dalla potenza americana) in base al quale le oligarchie occidentali hanno fatto il bello e il cattivo tempo. E ci hanno perfino detto, attraverso il martellamento dei media, quale riformismo era giusto che noi praticassimo sull’esempio dell’Inghilterra. Questo, dunque, sta accadendo. L’Occidente si è accorto che non è più il padrone del mondo.

Naturalmente le cose sono molto più complesse ma un dato di realtà è certo: è che l’affermarsi di nuove potenze (dalla Cina al Brasile, all’Iran) insieme al fatto che interi popoli sono usciti dalla miseria e dall’autoconsumo, tutto ciò non solo ha rotto i vecchi giochi ma ha messo materialmente in crisi la vecchia distribuzione dei poteri, il vecchio controllo delle materie prime, dall’energia alle produzioni agricole e sta provocando nuovi spostamenti delle popolazioni. Altro che “rom”. Gli effetti sono già evidenti. Come si legge sula stampa americana e in qualche articolo su l’Unità sono soprattutto le classi medie e lavoratrici dell’Occidente ad essere colpite in termini di salari, insicurezze, pressioni competitive, perdita di status e di protezione sociale. Da qualche secolo succedeva il contrario (l’aristocrazia operaia di cui parlava Lenin).

Sono cose che ormai è difficile negare ma si continua a parlare come se la politica fosse un’altra cosa: l’eterna disputa tra gli addetti ai lavori. Tremonti sarà pure un poco di buono ma aveva capito prima di altri che questo enorme sommovimento, in assenza di altre risposte, avrebbe gonfiato le vele di una destra che fa leva sulla paura e - mi permetto di aggiungere - su un papato sempre meno ecumenico e sempre più sulla difensiva. Dunque, questa è la loro risposta. E la nostra? Non possiamo limitarci a correggere (giustamente) i decreti di Maroni. Se vogliamo rialzare la testa dobbiamo partire dall’estrema debolezza strategica di una destra che pensa di fermare la Cina, le emigrazioni, l’enorme crescita numerica delle popolazioni di colore con i carabinieri. Ed è proprio partendo da questa stupida illusione di una destra stupidamente feroce che noi possiamo e dobbiamo elaborare una nuova visione dell’Italia e del suo ruolo in Europa e nel mondo. Questo ruolo è grande così come è grande il rischio che corriamo se non ci decidiamo a diventare quella piattaforma mediterranea che consentirebbe all’Europa di dare alla mondializzazione una prospettiva diversa, il senso di una apertura, di uno scambio tra pari, di cooperazione tra popoli. Domando: come può fare una cosa del genere una destra che è invece l’espressione di una rottura dell’unità nazionale, che è la sommatoria della Lega di Bossi, degli ex fascisti, del populismo berlusconiano e di un leghismo meridionale che copre il malaffare con la nostalgia per i Borboni? Così davvero finiamo ai margini. Concludo. Ho accennato solo a una delle grandi sfide che dovrebbe lanciare alla destra un partito che è uscito dai vecchi confini della sinistra novecentesca non per pentirsi del passato ma per affrontare i nuovi problemi del 2000. E quindi per piantare i piedi sul terreno dei nuovi grandi conflitti. Conflitti diversi ma non meno drammatici del vecchio conflitto di classe.



Pubblicato il: 21.05.08
Modificato il: 21.05.08 alle ore 8.19   
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« Risposta #9 inserito:: Maggio 29, 2008, 04:56:16 pm »

Il mondo non aspetta

Alfredo Reichlin


Lo scenario nuovo che si è aperto col voto e gli eventi che stanno dietro la strepitosa vittoria della destra sono tali che dovrebbero indurci a riaprire qualche interrogativo di fondo sulle prospettive politiche della sinistra e del Paese. Il vecchio sistema politico è veramente crollato trascinando con sé anche un insieme di idee identitarie e di valori morali su cui si reggeva la Prima Repubblica. Come si spiega allora questa difficoltà a ragionare insieme (con l’eccezione del ministro Bondi che io ringrazio per la serietà e l’attenzione con cui discute le mie idee)?

Qualcuno potrebbe rispondere che la prima cosa da dire è riconoscere la nuova realtà rappresentata dal Partito democratico. Il Partito democratico ha raccolto un terzo dei voti e può parlare all’Italia come una forza potenzialmente maggioritaria. Non è una piccola cosa. Ma esso è in grado di esprimere, almeno in fieri, una qualche egemonia sui processi che nel bene e nel male (pensiamo al Mezzogiorno) stanno cambiando il Paese? Non possiamo far finta che la risposta sia ovvia. Anche se riteniamo - come io ritengo - che il Pd è stato una scelta giusta e che i fatti confermano che ad esso non c’erano alternative è necessario tornare a confrontare quella scelta con la realtà dell’Italia e del mondo.

Il risultato elettorale ci ha sorpreso. È chiaro allora che qualcosa del nostro modo di pensare dovrebbe essere aggiornato. Qualcosa che prima ancora della tattica o degli organigrammi, riguarda solo le basi storico-politiche su cui poggiamo. Perchè è vero che il Pd è una cosa diversa dalla sinistra nel senso che rappresenta una rottura di continuità, e quindi una “rifondazione” piuttosto che una “reincarnazione”, ma è anche vero che questo partito non può pensare di essere una pagina bianca su cui i suoi capi scrivono quello che vogliono. Dobbiamo avere una idea più precisa di ciò che siamo e del passato da cui veniamo se vogliamo delineare un futuro credibile.

Il carico di questioni irrisolte che ci stanno sulle spalle dovrebbe metterci in guardia da eccessivi semplicismi. E chi come me si è assunta la responsabilità anche morale di molto argomentare sulla necessità della svolta sente il dovere di non alzare le spalle di fronte a certi dubbi. Sia chiaro. Dico subito che continuo a pensare che proprio partendo dall’asprezza dello scontro e dalla novità delle cose viene fuori chiaramente che il grande, irrisolto, problema di come si possa formare una maggioranza democratica e progressista in un paese come l’Italia e di come si possa cominciare a contestare l’egemonia delle forze conservatrici (un problema che è italiano ma è inseparabile dal quadro internazionale) non è più alla portata di quel complesso di forze, di idee, di valori, di lotte che è stata la sinistra occidentale. Aggiungo però che questa mia affermazione regge, può mobilitare forze anche nuove e spingere alla lotta se è sorretta da una visione più realista e complessa delle opportunità ma anche dei rischi in cui siamo immersi. Per affrontare i quali - ecco la mia tesi - la formazione del Partito democratico è una condizione necessaria ma non sufficiente.

Pensiamo al modo come si è chiuso il Novecento. Con una vera e propria cesura. Con l’avvento di fenomeni grandiosi i quali rimettevano in discussione molte cose di ciò che era stato il cammino civile, politico e culturale dell’Europa da almeno tre secoli. Uno straordinario cammino. Perfino la grandezza dell'arte e della letteratura tra Ottocento e Novecento sta nel fatto che essa prendeva le mosse da quel salto della condizione umana per cui le plebi diventavano “popolo”. E ciò nel senso che emergeva una nuova soggettività politica in cui il rapporto tra la sinistra e la nuova borghesia era fortissimo. Ed era sopratutto la sinistra che “creava” una nuova umanità, non tanto (come si crede) con le armi dell’economico corporativo ma con la grande politica, la partecipazione, la solidarietà sociale, lo Stato democratico. Così è stata fondata la democrazia, come potere politico delle masse organizzate e non come libertà del singolo di fare quello che vuole.

Lo ricordo perché solo così, con tutto l’orgoglio del passato, posso uscire dai vecchi confini della sinistra. Posso farlo perchè non dimentico che la sinistra non è un “cane morto” ed è la forza costituente di un nuovo partito perché è stata parte essenziale del lungo, complesso e grandioso processo di emancipazione sociale e umano che l’Occidente europeo aveva avviato fin da prima la rivoluzione francese. E noi siamo stati parte davvero essenziale di quel processo che consentì all’Occidente di parlare al mondo, in quanto Smith e Marx (libertà ed uguaglianza) venivano tenuti insieme. E se vogliamo capire che cosa difficile ma molto avanzata sia fare oggi un partito democratico, non bisognerebbe dimenticare l’estrema drammaticità di questo cammino, cioè di quanto sia stato aspro il confronto tra masse e potere, tra dirigenti e diretti; lo sfruttamento bestiale di donne e bambini da parte della industria nascente; il risveglio di plebi contadine ridotte ancora in vasti territori (Russia, Polonia) a uno stato simile al servaggio; l’imperialismo inglese, germanico, francese che colonizzava i popoli di colore; l’orrore di quel sconvolgente massacro che fu la prima guerra mondiale che cancellava di colpo il modo di vivere e di pensare del “mondo di ieri”; il nazismo con la sua idea mostruosa di sterminio di parte della popolazione dell’Est (non solo gli ebrei) per consentire ai tedeschi di colonizzare quei territori; il fascismo italiano; la dittatura sanguinaria di Stalin.

Solo così si capiscono tante cose, comprese la serietà e difficoltà della nostra impresa, che se ha un futuro è perchè c’è dietro questo cammino. Volendo riassumere direi così: è questo cammino che per andare avanti richiede una forza nuova, più larga, più moderna. Però questa forza deve sapere quali sono i nuovi conflitti che deve affrontare. Deve sapere non solo con chi scende in campo ma contro chi.

È vero che il crollo dell’Urss e l’archiviazione del comunismo ha segnato la fine del Novecento. Ma alla luce di quelli che poi sono stati gli sviluppi della storia mondiale io non credo che quella vicenda si può ridurre alla semplice equazione: fine del comunismo = progresso della democrazia e libertà nel mondo. Perché, in realtà, quel vuoto non è stato riempito ed è accaduto qualcosa di molto inedito e di molto complesso. Non scherziamo, l’America è certamente una grande democrazia. Ma sono stati assai complessi e non tutti democratici gli effetti del fatto che per la prima volta nella storia il mondo intero cadesse sotto il dominio di una sola superpotenza, per la sua forza paragonabile solo alla Roma di Augusto ma non per la saggezza.

Oggi ci rendiamo conto meglio di cosa questo fatto abbia significato. Del resto, lo dicono i candidati democratici alla Casa Bianca. Il mondo è stato sconvolto e la guida del progresso di globalizzazione è stato preso da una oligarchia la quale ha impresso ad esso quei caratteri che sappiamo. E che tante volte abbiamo riassunto nel mettere in rilievo il crescente squilibrio tra la potenza di una economia finanziaria basata sulla circolazione del tutto libera e senza controllo dei capitali e il potere della politica, cioè del diritto degli uomini di decidere del loro destino, essendosi ridotta la politica a sottogoverno locale priva com’è degli strumenti del governo globale, i quali sostanzialmente sono nelle mani di ristrette oligarchie finanziarie.

Cose ovvie e risapute? Fino a un certo punto. Ciò che diventa sempre più necessario è rendersi conto di cosa sta succedendo nell’economia globale, per vedere e valutare quali forze sono in campo e quali dinamiche sono in atto e quale impatto hanno le crisi che stanno investendo l’Europa e l’Italia: la crisi alimentare, la crisi energetica, la crisi finanziaria, le crescenti tensioni geopolitiche. Un impatto che - dice Tremonti - derivando dallo spostamento globale di enormi stock e flussi di ricchezza, può essere potenzialmente distruttivo delle nostre strutture sociali: dalle sofferenze della povertà, alla disoccupazione giovanile, all’impoverimento del ceto medio, per arrivare alla crescente divisione del Paese tra Nord e Sud.

Dunque un nuovo partito, espressione di una nuova grande alleanza di popolo, post-classista è necessario. Ma non è sufficiente. Questo è il punto da cui dovrebbe ripartire la nostra discussione. Se è vero che la destra vince per ragioni non di breve periodo anche il suo antagonista non può ripartire solo dalle piccole cose. Con calma e con fiducia deve ripartire da un qualche nuovo orizzonte di senso e di valori ideali. Del resto è di vere alternative che il mondo moderno ha un disperato bisogno: basta vedere l’assedio all’Europa dei popoli poveri, gli sviluppi della crisi sociale, la rapidità con cui stanno cambiando l’ambiente e il clima.

Pubblicato il: 28.05.08
Modificato il: 28.05.08 alle ore 9.12   
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« Risposta #10 inserito:: Luglio 02, 2008, 06:28:43 pm »

Il Pd al tempo dei barbari

Alfredo Reichlin


Non mi scandalizzano le correnti. Il dibattito e anche lo scontro sulle scelte politiche in una fase di grandi novità come questa è in una certa misura necessario. Ciò che non è chiaro è come questa discussione viene finalizzata alla elaborazione, (questa sì, assolutamente necessaria) di una cultura politica comune capace di tenere insieme forze diverse. Un cemento. Non una nuova chiacchiera in politichese (tutti che fanno la loro Fondazione) ma un progetto anche morale, oltre che politico, il quale parli all’Italia. Allora tutti capiscono che l’opposizione la facciamo noi e non solo Di Pietro. E la facciamo sia quando dialoghiamo, sia quando ci scontriamo duramente. Parlo, insomma di qualcosa che non può ridursi alla difesa delle vecchie identità di ieri ma riguarda il chi sono gli italiani di oggi. Si tratta di un travaglio molto serio, perfino drammatico.

Un travaglio che non riguarda solo la nostra vicenda interna se abbiamo il senso dei pericoli che corre la democrazia italiana e la impossibilità di dare ad essa uno sbocco positivo, nel caso in cui il Pd si disgregasse. Io non sono così pessimista. Negli incontri a cui partecipo ho cominciato a sentire questo assillo e ho notato lo sforzo di far emergere una visione nuova delle cose, delle nuove sfide e dei processi in cui siamo immersi. Perciò non serve una conta affrettata soprattutto se ci andassimo con una caricatura delle posizioni in campo. Il compito di chi guida è capire la parte di verità che c’è nelle varie posizioni. Ma aggiungo che le correnti non servono a nulla se non è chiaro di che cosa esse sono correati. Mi è molto piaciuto un articolo di Umberto Ranieri il quale ricorda Scoppola il quale ci incitava «a spostare in profondità il processo di integrazione delle culture promotrici del Pd». Aggiungerei spostare in profondità per ritrovare la Terra: Anteo, il gigante mitologico che solo toccando la terra ritrovava le forze.

C’è una nuova Terra su cui stiamo camminando. Domandiamoci cosa è successo di non contingente nel mondo che sta fuori dai nostri confini ma che sempre più sta rimodellando la società italiana: i nuovi ricchi e i nuovi poveri, le nuove paure e i nuovi bisogni. Se parto da qui mi appare evidente una sorta di “spiazzamento” rispetto ai processi che da anni stanno gonfiando le vele della destra e che hanno messo in crisi la sinistra in tutta Europa. Non parlo della vecchia, stranota mutazione consistente nella fine (da 30 anni) del cosidetto compromesso keinesiano o socialdemocratico. Lo spiazzamento di cui io parlo riguarda i problemi del tutto nuovi che hanno investito l’insieme della società europea in conseguenza della svolta che ha subito il concreto processo di mondializzazione. A me sembra questa la novità che condiziona tutta la vita politica. Per dirla nel modo più approssimativo è il fatto che il controllo della mondializzazione non è più soltanto nelle mani dell’Occidente. Un evento secolare. È questo che sta cambiando. Sono arrivati i “barbari”. Del resto non è per caso che la crisi dell’egemonia americana, resa evidente dalla catastrofe dell’Iraq e del disegno imperiale sotteso a quella aggressione, è il tema dominante del dibattito elettorale americano. E non è una piccola cosa che il dollaro (qualcosa di più che una moneta) non riesce più a essere il regolatore di ultima istanza del dove vanno i capitali e quindi di come si redistribuisce la ricchezza del mondo.

Questo è cambiato. Un grandissimo fatto politico, estremamente concreto. È venuta in discussione la vecchia distribuzione dei poteri, delle risorse, delle materie prime. E quindi, di conseguenza, ovviamente, sono venuti in discussione i modi di vivere, i modelli di consumo, le idee di sé delle masse europee, comprese le conquiste sociali (diritti e salari) delle masse lavoratrici europee che furono uniche al mondo. Sono anche queste che subiscono le conseguenze di un mercato del lavoro mondiale sempre più affollato dai nuovi operai sottopagati delle officine dell’Asia. È futile che ce la pigliamo solo con i sindacati.

Noi come viviamo questo grande cambiamento? Pensiamo che i problemi del Pd sono altri? Certo, sono anche altri, ma qui non stiamo parlando di massimi sistemi ma della vita quotidiana della gente: i prezzi, i servizi collettivi, la spesa delle nostre donne nei mercati. Ma, parliamo, al tempo stesso, della necessità di misurarsi con la sostanza della vicenda politica: il perché la destra vince e la sinistra perde, e perché questo avviene in quasi tutta l’Europa. E aggiungerei: perché non perde solo voti. Il partito democratico, dopotutto, non ne ha persi. Ma tanto più allora dobbiamo chiederci perché il Pd con quel risultato importante ottenuto al suo primo debutto (un terzo dei voti) perde coscienza di sé, sfiducia nella sua missione e nel futuro. Perché appare perfino smarrito. Solo per colpa dei capicorrente? oppure perché la nostra gente non vede più bene su che terreno teniamo i piedi?

Personalmente io non ho mai creduto alle “terze vie” alla Tony Blair. Ma mi sembra ormai chiaro perchè tutto l’impianto del riformismo di questi anni ha perso quel “realismo” e quella ragion d’essere che derivava dal porsi come redistribuzione del reddito e correzione della sola “forma” concepibile dello sviluppo. Si sono aperti nuovi scenari e salvo che non intervengano catastrofi questa sarà anche una tappa del cammino del progresso. Ma in questo nuovo scenario dove si collocano le forze di quel mondo che viene dalle varie sinistre? Che cos’è un campo riformista se il Pd cessa di avere un orizzonte mondiale? Stiamo attenti. Il Pd non può non essere parte di un campo più largo di forze progressiste, europee e anche non europee, se vogliamo che l’Europa non si trasformi in una sorta di fortezza bianca assediata dai barbari. In questo caso la sinistra non avrebbe futuro e sopratutto in Italia una deriva presidenzialista di tipo populistico e salazariano diventa fortissima.

C’è chi, come Michele Salvati, vive evidentemente in un mondo diverso, sostanzialmente pacifico e normale. A me sembra invece evidente che per rilanciare il Pd occorre prendere le misure di quel che dà forza a questa nuova destra e ne fonda le ragioni agli occhi di tanti europei. Non bastano le analisi sociologiche sul Nord e sul Mezzogiorno. La destra sta occupando un nuovo spazio politico. Fa leva sulla paura e sulle “piccole patrie”, ma ha anche qualche idea di ciò che accade nel mondo che è meno anacronistica di certi nostri “liberal” nobilmente invecchiati nel culto di un mercato come ideologia. In più la destra si fa forte del bisogno sempre più assillante di valori e di significati e su questa base cerca di costruire un rapporto forte, di reciproca convenienza, con il disegno di certi cardinali, che è quello di imporre all’Italia una specie di neo-guelfismo, cioè la egemonia della Chiesa come religione. Perché non diciamo nulla su questo?

Sta qui il banco di prova del Partito democratico. Esso fu concepito non solo come continuazione dell’Ulivo ma come forza nuova capace di dare risposta all’intreccio micidiale tra crisi della democrazia dei partiti e continuo indebolimento dell’unità nazionale. Si è creata così una situazione per cui o noi indichiamo una “grande riforma” oppure i vecchi assetti politici democratici (compreso il Parlamento) diventano sempre meno credibili come strumenti per il governo ma anche per l’opposizione. Quanto regge la democrazia italiana se continua questa deriva tra sfilacciamento del tessuto sociale, crisi della legalità, scontro tra i grandi poteri, divisioni territoriali, indebolimento delle istituzioni capaci di garantire diritti e doveri? Valuterei meglio le ragioni che stanno dietro le varie ipotesi di riforme elettorali. Ma tra queste ragioni non dimenticherei la necessità di favorire la nascita di partiti veri, cioè di strumenti della partecipazione e politicizzazione delle masse e non della loro degenerazioni in partiti finti, “personali” del leader (tutte cose verso le quali non siamo innocenti).

Le responsabilità che pesano oggi sulle spalle dei dirigenti del Partito democratico sono davvero grandi.

Pubblicato il: 02.07.08
Modificato il: 02.07.08 alle ore 8.18   
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« Risposta #11 inserito:: Settembre 02, 2008, 10:06:49 pm »

Il paradosso del Pd

Alfredo Reichlin


Se misuriamo bene la novità e la grandezza dei problemi che incombono sulla ripresa politica autunnale, c’è nella situazione del Partito Democratico qualcosa di paradossale. Da un lato, insieme a segni di vitalità e di ripresa, permane un senso diffuso di sfiducia e si verificano manifestazioni di rivalità personali veramente insopportabili. Sembra che tutti si credono Napoleone. Dall’altro lato, però le prospettive, ma dobbiamo dirci di più: la ragion d’essere, la funzione politica nella vicenda nazionale di un nuovo soggetto politico come lo abbiamo cercato di definire (anche in un programma fondamentale del quale si è persa traccia) a me sembrano più che mai aperte.

Perché la distanza tra il dire e il fare è così grande? So che la risposta non è semplice. Dirò una cosa che può sembrare (ed è) troppo vaga ma che prego di non confondere col populismo.

Penso che noi in questi anni ci siamo distaccati, non dalla cosidetta opinione pubblica, ma dal popolo. Il quale non è una somma di individui ma una soggettività in continuo divenire. Noi non siamo riusciti a leggere lo straordinario travaglio del popolo italiano. Questa è la verità. Un riformismo dall’alto tecnocratico, appunto “senza popolo”, non poteva guidare quella sorta di “riformismo reale”, spontaneo e perverso ma profondo, che consisteva nella risposta difensiva e selvaggia che Nord e Sud, operai e commercianti, imprenditori esposti alla concorrenza mondiale e roditori delle risorse pubbliche davano, ciascuno a suo modo, a uno straordinario processo di trasformazione dell’economia mondiale e degli assetti politici dell’Europa e del mondo che ormai ci investe in pieno. Dov’è la guida? Se la politica non si colloca a questo livello io credo che continueremo a giocare di rimessa e temo che l’attuale confronto tra noi (che è importante e al quale partecipo) non vedrà né vincitori né vinti. È dal basso che bisognerebbe ripartire, dallo sforzo di fronteggiare la scissione sempre più profonda tra dirigenti e diretti (anche nel nostro popolo) tra i territori e soprattutto (mi pare che solo la Chiesa se ne sia resa conto) della vera e propria cesura che si è creata tra le generazioni. D’altra parte per quale ragione si fonda un partito nuovo? Solo per conquistare il premio di maggioranza e tornare al governo? Io credo che siamo entrati in una fase nuova, nel senso che non sarà facile tornare al governo se non alziamo la posta del gioco. Non dice nulla il fatto che i democratici americani propongono un uomo di colore alla presidenza del paese più potente del mondo?

Certi dibattiti estivi mi sono apparsi fuorvianti. Si è discusso sulla “scomparsa dell’opinione pubblica” (il solito cinismo e opportunismo degli italiani? La loro solita mancanza di senso dello Stato?) mentre in realtà era la classe dirigente che parlava dei temi imposti da Berlusconi ma non aveva nulla da dire di fronte al fatto che l’inevitabile avvio del federalismo rimette in discussione in un Paese come il nostro tutto. Cioè l’insieme delle strutture profonde dello Stato: dal rapporto tra i poteri alla funzione della scuola pubblica, al destino del Mezzogiorno. La stessa figura storica, culturale ed etica dell'Italia quale si era configurata dopo Porta Pia e poi ridefinita dopo il fascismo come repubblica democratica. Sbaglierò ma io vivo così questo passaggio. Se non ora, quando il Partito Democratico si decide ad alzare il tono del suo discorso e a mettere sul tavolo tutta la sua ambizione?

Certi dirigenti ci risparmino le prediche sull’unità del Partito. Ad essi (molto amichevolmente) vorrei dire che io conosco una sola cosa che crea un gruppo dirigente e lo rende coeso: è la convinzione di assolvere a una grande missione che riguarda il futuro del Paese: guidare, appunto, quel processo profondo che coinvolge il modo di essere degli italiani e che è imposto dalla irruzione del mondo dentro le nostre vecchie frontiere e i nostri vecchi assetti. È chiaro che non sto scoprendo nulla. Sto parlando però di un processo che se era in atto da tempo, si è molto complicato per il fallimento della transizione, cioè della costruzione di una seconda Repubblica, e adesso viene allo scoperto e chiede decisioni non più riavviabili. Noi che diciamo alla parte più avanzata del Paese, quella che sta nei mercati mondiali e si batte sulle frontiere avanzate dell’innovazione? È vero che cosa non può accettare il costo di un Mezzogiorno che rappresenta il 40 per cento del territorio e della popolazione ma che, a differenza di ciò che sta accadendo in tutta Europa continua ad arretrare e a consumare molto più di quello che produce: qualcosa come il 20 per cento del suo prodotto. I vecchi compromessi fatti quando l’arretratezza del Mezzogiorno forniva alle fabbriche del Nord molte convenienze sono saltati. In più è finita l’epoca in cui la sinistra meridionale era l’emblema delle lotte per la giustizia e il progresso. Adesso larga parte della classe dirigente meridionale, anche se formalmente onesta, è prigioniera di un meccanismo che la spinge a cercare il necessario consenso politico facendosi tramite del fiume delle sovvenzioni statali ed europee. Il risultato è che una parte molto consistente di questi fondi non serve a creare una economia e servizi più moderni. Va ad arricchire i ceti parassitari e mestieri protetti ma largamente improduttivi. La povera gente e soprattutto i giovani pagano un prezzo enorme e crescente. Vengono privati (vedi i dati sulla scuola) della stessa speranza in un progresso futuro. Ecco come la politica, quella vera non le chiacchiere dei giornali, va scomponendo e ricomponendo un popolo.

E così siamo arrivati al dunque. Ed è anche per questo che un vecchio dirigente comunista meridionale aveva sentito la ragione storica, ineludibile, per cui bisognava andare oltre i vecchi confini della sinistra e della sua vecchia cultura politica classista per creare un nuovo grande “partito nazionale”. Ma è proprio questo progetto che adesso è alla prova. Una difficile prova perché non siamo di fronte a un problema amministrativo, da delegare ai sindaci e agli addetti ai lavori. Noi finiremo a rimorchio della Lega se non abbiamo una idea nostra su come sia possibile in uno Stato federale garantire lo stare insieme degli italiani. E' una partita che riguarda la tenuta anche culturale e civile del paese. E dobbiamo comunicarla questa idea non solo a Calderoli ma al Paese il quale deve ritrovare nel Partito democratico la speranza che c'è un futuro nel mondo nuovo per tutti gli italiani, del Nord come del Sud.

Ecco perché io davvero non capisco una disputa politologica del tutto astratta tra il “partito a vocazione maggioritaria” che starebbe in Largo Nazzareno e coloro che tramerebbero per un ritorno alle vecchie alleanze tra vecchi partiti. Ma che cos’è il partito a vocazione maggioritaria? È una formula magica? Al contrario, io penso che sia un contenuto. È la capacità di rispondere a problemi come quelli accennati. Non è il rifiuto delle alleanze, è la più larga delle alleanze, è una nuova idea nazionale ed europea. È la possibilità di mettere in campo una proposta federalista che non subisca una scissione silenziosa ma fondi una nuova articolazione dell’unità nazionale in coerenza con un progetto di europeizzazione dell’Italia. Solo così lo sviluppo del Mezzogiorno può diventare realistico, in quanto diventi funzionale agli interessi del Nord come dell’Europa continentale. E ciò nella misura in cui nessun luogo come il Mezzogiorno sarebbe adatto a diventare la piattaforma mediterranea di una Europa che vuole parlare al mondo.

Si dirà che i problemi sono anche altri. Certo, anche. Ma diventa difficile difendere la centralità di una democrazia parlamentare se i deputati vengono nominati dall’alto e se la risposta al partito “leghista” del Nord (che non è solo Bossi) diventa quella del partito che il governatore della Sicilia sta già creando che consiste in una santa alleanza sicilianista, con relativa rimozione dei ritratti di Garibaldi. Altro che seminari sulla democrazia dei partiti e discussione sulle alleanze del Pd.

C’è un grande bisogno di pensare il Pd in una prospettiva più ampia. La missione del partito riformista è integrare tutti gli italiani in una Europa che parla al mondo in prima persona e accoglie i diversi. Forse non è abbastanza concreto quello che dico. Ma a volte di concretezza si può anche morire.

Pubblicato il: 02.09.08
Modificato il: 02.09.08 alle ore 14.11   
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« Risposta #12 inserito:: Settembre 30, 2008, 11:54:21 pm »

Dalla parte del Meridione

Alfredo Reichlin


Io non vedo nei ceti dirigenti meridionali un allarme corrispondente al destino che ormai sembra incombere su questa parte d’Italia (e di conseguenza sull’insieme della nazione). Non a caso amici seri di Napoli mi chiedono di aiutarli ad aprire un dibattito vero che rompa questo assordante silenzio. Allora bisogna essere molto chiari. C’è una ragione profonda, e anche drammatica, se del Mezzogiorno si parla ormai solo per le gesta della camorra o per il dominio della mafia su intere regioni. E le cose sono arrivate al punto che anche uno come me fa una certa fatica a ricordare che questo è dopotutto il cuore dell’Italia antica - quella greca e romana - e che Napoli è stata tra le capitali europee dell’alta cultura fino al Novecento. Ma questa ragione c’è. Sono passati quasi 150 anni da Porta Pia e un secolo e mezzo di sforzi volti ad affrontare e risolvere la questione meridionale per quello che essa è realmente.

E dunque affrontarla non solo come un problema di ritardo di alcune regioni nello sviluppo economico ma come il nodo della storia politica italiana che bisognava affrontare perché da esso dipendeva la formazione dell’Italia come Stato unitario moderno: questi sforzi non sono andati a buon fine. Certo il Mezzogiorno è enormemente cambiato, si è ammodernato ma quel grumo di problemi per cui la nazione italiana (non il Sud soltanto ma la nazione, lo Stato, la capacità degli italiani del Veneto come della Sicilia di stare insieme e di pesare insieme nel mondo) non è stato sciolto. E così, adesso siamo arrivati a un punto di svolta. Si apre un problema grosso, non più rinviabile. E sta qui la sostanza di ciò che voglio dire con questo articolo.

La mia sensazione è che siamo di fronte a un problema non più rinviabile perché è vero che da tempo, da quando sono cadute le vecchie frontiere economiche dello Stato-nazione e si è aperta la sfida dell’internazionalizzazione, il vecchio compromesso tra Nord e Sud era saltato (in sostanza al Nord le fabbriche, al Sud il ruolo di grande mercato di consumo protetto; il Sud che alimenta con la sua mano d’opera a basso costo le officine di Torino e di Milano ma in cambio ottiene un grande flusso di trasferimenti finanziari). Cose vecchie, ma adesso siamo a un dunque. Le sfide dei mercati globali e degli inevitabili salti culturali non sono più rinviabili. Per cui o noi siamo in grado di pensare (ma dove in quale sede?) un nuovo meridionalismo che sappia elaborare analisi e proposte per il Sud a partire dalla piena consapevolezza della sua nuova dimensione geopolitica euromediterranea. Oppure la parte più avanzata del paese, quella che sta nei mercati mondiali e si batte sulle frontiere avanzate dell’innovazione non può più accettare il costo di un Mezzogiorno che rappresenta il 40 per cento del territorio e della popolazione ma che, a differenza di ciò che sta accadendo in tutta Europa continua ad arretrare e a consumare molto più di quello che produce. Con in più il fatto che è finita l’epoca in cui la sinistra meridionale era l’emblema delle lotte per la giustizia e il progresso. Adesso larga parte della classe dirigente meridionale, anche se personalmente onesta, è prigioniera di un meccanismo che la spinge a cercare il necessario consenso politico facendosi tramite del fiume delle sovvenzioni statali ed europee. Col risultato di non riuscire a creare una economia e servizi più moderni ma di arricchire i ceti parassitari e mestieri protetti e largamente improduttivi. La povera gente e soprattutto i giovani pagano un prezzo enorme. Vengono privati della stessa speranza in un progresso futuro. Secondo la Banca d’Italia un quarto degli adolescenti meridionali non sa svolgere il più semplice calcolo aritmetico. Una catastrofe.

Questo intendo per “punto di rottura”. E resto un po’ confuso quando sento le serafiche dichiarazioni dei Chiti e dei Chiamparino i quali ci assicurano che il PD leggerà con attenzione le proposte federaliste di Calderoli, le discuterà e proporrà pure emendamenti. Caspita! Mi chiedo se ci rendiamo conto che intanto ci stiamo avvicinando a una sorta di scissione silenziosa tra le due Italie. Per tante ragioni ma soprattutto per il fatto che la distanza tra di esse è ormai tale che nemmeno le medie statistiche hanno un senso. Infatti non significa nulla fissare il reddito medio a 100 se gli indici del Lombardo-Veneto hanno raggiunto le punte più avanzate della regione d’Amburgo o di quella parigina mentre il Sud sta scendendo al di sotto del Portogallo. Questo intendo per “scissione silenziosa”. Lo Stato nazionale resta, con il suo tricolore e l’inno di Mameli ma diventa un guscio vuoto. Non è più in grado di garantire che il federalismo (come potrebbe essere) sia strumento di autogoverno e garante di diritti uguali. Io temo che abbia ragione Giorgio Ruffolo quando ci dice che dopo il Nord la febbre leghista può investire il Sud promuovendo perfino progetti separatisti come quelli che emersero non solo ai tempi del bandito Giuliano ma nel pieno della crisi del 1992, quando la mafia tramò per la fondazione di uno Stato del Sud, una sorta di porto franco mediterraneo.

Io forse esagero ma mi stupisce questo strano silenzio sul fatto che se la metà del Paese scivola verso un simile degrado anche il Nord non conterebbe niente sulla scena europea e mondiale. E, poi, noi democratici, che fine facciamo? Al posto di quel grande partito riformista e nazionale che vuole essere il PD assisteremmo impotenti a una nuova proliferazione di partitini locali, privi di ogni orizzonte nazionale. Chi comanderà in Italia? I poteri di fatto passeranno in altre mani. Tuttavia la ragione di questo mio ragionamento così severo sta anche nella convinzione che ridare centralità alla “questione meridionale” significa aprire una nuova prospettiva. Perché è vero che la destra domina la scena non solo in Italia ma in Europa per cui le nostre battaglie sembrano “emendative” piuttosto che alternative. Ma io ritengo che la destra italiana può essere messa con le spalle al muro e battuta se noi non ci limitiamo ad alzare la voce (anche) ma ci caratterizziamo come quella forza che, a differenza della destra, propone agli italiani una visione profondamente innovativa su come il Paese può rientrare nel grande gioco mondiale, occupando il posto che spetta a questa antica penisola nella nuova realtà geo-economica e strategica. Siamo in presenza di fatti straordinari. Il più antico dei mari, quello che fu “nostrum”, il Mediterraneo, è tornato ad avere una centralità nel grande gioco dei commerci e per il controllo delle materie prime (energia, ma non solo). E allora certi errori non sono più perdonabili. Ciò che non si può più perdonare ai meridionali è che non si mettono in condizioni (facendo tabula rasa di tutto lo schifo di inefficienza e di corruzione con cui convivono) di attirare gli interessi del mondo intero per le potenzialità di questo Sud che è il molo europeo nel Mediterraneo. E ciò che non si può perdonare ai settentrionali è il non capire che l’Italia non ha futuro se si arrocca al di quà del Po e si illude che facendo leva sulla parte più “forte” può risolvere problemi che sono sempre più di efficienza e produttività dei sistemi nazionali.

Devo dire che è anche per queste ragioni che io spero nel partito democratico. Almeno spero perché vengo da anni in cui i DS non avendo più una idea nazionale ebbero la geniale idea di affrontare il problema storico dello Stato italiano scoprendo che il Mezzogiorno non esiste perché il vero problema era la “questione settentrionale”. Come mettere la Marcegaglia al posto di Gramsci. Arriverà prima o poi l’ora del risveglio per la grande cultura democratica italiana?

Pubblicato il: 30.09.08
Modificato il: 30.09.08 alle ore 8.34   
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« Risposta #13 inserito:: Ottobre 16, 2008, 11:56:43 pm »

Sta cambiando il mondo

Alfredo Reichlin


Michele Salvati riconosce, sul Corriere della Sera, che non è scoppiata solo una bolla speculativa. È successo qualcosa di molto grosso che segna una data. È arrivato al capolinea un ordine economico. Cambiano i rapporti tra i poteri mondiali. Mi scuso se non sono un economista, ma di questo si deve parlare. Noi abbiamo assistito a una vicenda del tutto nuova nella storia moderna, cioè al fatto che una oligarchia politico-finanziaria ha preteso di governare il mondo sottomettendo al suo potere la politica, intendendo per politica la sovranità dello Stato (moneta compresa) i diritti universali del cittadino, quale che sia la sua capacità di consumo, la società intesa come storie, culture, legami, progetti, non riducibili allo scambio economico. Di questo si è trattato. Ed è tanto vero che il mondo esulta perché gli Stati europei hanno mostrato l’intenzione di restituire il comando al «Sovrano».

Era evidente (almeno per menti libere) che non poteva continuare all’infinito un sistema in base al quale somme immense di denaro (molte volte più grandi della ricchezza reale prodotta) si muovono da un luogo all’altro del mondo in tempo reale prescindendo dai bisogni veri della gente, dalle relazioni umane, dai diritti sociali, dalle risorse reali, dai territori. Il fenomeno è stato, davvero, grandioso e certe polemiche anti-capitalistiche di “rivoluzionari” invecchiati lasciano il tempo che trovano. In questo modo è stata anche favorita l’apertura di nuovi mercati e il finanziamento di cose straordinarie come l’intelligenza artificiale, le medicine (e - perché no? - le armi del 2000). E tutto ciò ha anche reso possibile un salto nello sviluppo dei paesi emergenti. Tuttavia è grazie a questo sistema che il paese più ricco del mondo ha potuto vivere a credito molto al di sopra delle sue risorse attirando, grazie al ruolo imperiale del dollaro l’ottanta per cento del risparmio mondiale. Mentre all’interno (ma non solo all’interno degli Stati Uniti) si sviluppava un enorme gioco speculativo: credito facile, indebitamento di massa, ben al di là dal ricavato del proprio lavoro, creazione di una economia di consumi la quale si è tradotta in un crescente aumento delle disuguaglianze e in una devastante pressione sui beni pubblici e sulle risorse naturali. E mentre ai lavoratori e ai ceti medi si offriva l’eterna illusione che indebitandosi si potevano arricchire all’infinito con l’idea che il denaro si può fare col denaro, avveniva in realtà una impressionante redistribuzione del potere e delle ricchezze a favore delle oligarchie dominanti. Un enorme gioco di specchi che si è rotto quando - come diceva Keines - «lo sviluppo del capitale reale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un “casinò”».

Salvati non lo dice con queste parole. Ma mi è sembrato significativo il suo riferimento al libro di Robert Reich ferocemente polemico con questo sistema. Bene. Ma se è così un problema molto grosso - politico ma anche intellettuale e morale - non può non porsi. E non solo a chi scrive. A me sembra evidente che il cominciare a pensare a un modello diverso per il governo dell’economia mondiale è un compito (ma anche un dovere etico-politico) non più rinviabile. Oltre tutto i governi europei hanno messo sul piatto qualcosa come due o tremila miliardi di dollari (tratti, evidentemente dalle tasche della gente, pensionati e operai compresi) per salvare le banche. Benissimo. Si può almeno cominciare a pensare a un futuro diverso?

Salvati non sfugge a questo problema. Egli non nega che una alternativa sarebbe necessaria e riconosce che i modelli capitalistici possano essere diversi tra loro, anche profondamente, così come il modello keinesiano, cioè il compromesso tra il capitalismo e la democrazia era del tutto diverso dalla svolta ultra liberista degli anni 70. Salvati non è Ostellino. Il problema che lui solleva è un altro ed è il vero problema che sfida oggi la sinistra e giustifica la sua inerzia. Mancano - dice - le condizioni. E le condizioni di cui parla non sono tanto quelle oggettive (la profondità della crisi, la insostenibilità del modello attuale) quanto quei “grandi riorientamenti ideologici, culturali, teorici e, da ultimo, politici altrettanto profondi” che consentirono quei due grandi passaggi (il keinesiano tra gli anni 30 e 40 e il neo-liberismo degli anni 70).
Io ho molto rispetto per Salvati, un vecchio amico che ho sempre ascoltato con attenzione. Ma non resisto al bisogno (anche morale) di ricordare, a proposito di condizioni culturali, che cosa è stata in questi anni la vera e propria distruzione del pensiero politico della sinistra e di una sua qualunque visione autonoma rispetto al pensiero unico dell’oligarchia finanziaria. Un martellamento quotidiano mai visto prima contro i salari, (sempre troppo alti), i sindacati (inutili), la privatizzazione delle pensioni come condizione per lo sviluppo, (se ne accorgeranno i pensionati americani legati ai valori di Wall Street) le imprese che valgono solo per il valore delle azioni e non per ciò che producono. Per non parlare della scala dei valori dominanti: l’ossequio perfino ridicolo per la ricchezza e la genialità dei banchieri, questi nuovi eroi del nostro tempo.

Forse parla in me un vecchio comunista che dovrebbe solo tacere. Parlino allora i liberali. Ci spieghino dove va a finire non la “classe” ma la libertà della persona se la società viene ridotta a società di mercato, se gli uomini sono messi in relazione tra loro non in rapporto alla loro sostanza umana ma in quanto “maschere” dietro alle quali non ci sono creatività e progetti di vita ma individui che si misurano con un solo metro: la capacità di consumo, il denaro. Perché Salvati chiama questo sistema “liberale”?
Mi dispiace, io non sono d’accordo. E non perché non capisca la necessità di una rivoluzione culturale oppure sottovaluti la debolezza della sinistra che paga anche per la sua illusione di ritagliarsi uno spazio (una “terza via”?) nel “casinò” di questi anni. Non c’erano le condizioni: così ci è stato detto. È molto triste sentirlo ripeterle. Certo, anch’io come Salvati non vedo in giro un nuovo Keines e non credo che Obama abbia la statura di Roosevelt. Ma respingo l’idea della politica che c’è in questo modo di ragionare. È esattamente ciò che ci ha portato non al rischio di perdere (si può sempre perdere e poi rivincere) ma di finire nell’irrilevanza. Le condizioni si creano. Questo non si è capito e si continua a non capire: quanto conta, più della ricchezza il cervello della gente. Le condizioni non ci saranno mai se la politica non torna ad essere prima di tutto conoscenza, scoperta della realtà, libertà di pensiero, idee forti e quindi energie nuove rimesse in movimento. La storia di questi anni dovrebbe insegnare qualcosa.

Gli uomini come Salvati hanno l’intelligenza e il livello per contribuire a creare queste famose condizioni, almeno culturali. Troppi di loro in questi anni non lo hanno fatto. Eppure non ci voleva la zingara per capire che questo gigantesco gioco sui debiti era insostenibile. Perciò non mi piace che adesso siano gli stessi a dirci che la crisi è grave aggiungendo però che non ci sono le condizioni per cambiare. So anch’io che non sarà facile cambiare.

Ma anch’io pongo una condizione. È quella di poter dire alla gente che esiste una grande e nobile ragione per cui costruiamo un nuovo partito. E che questa consiste nella convinzione che è giunto il momento di lottare per un mondo più giusto nel quale una nuova sinistra europea sia protagonista.

Pubblicato il: 16.10.08
Modificato il: 16.10.08 alle ore 10.29   
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« Risposta #14 inserito:: Ottobre 21, 2008, 08:35:48 am »

Caro Reichlin, sul capitalismo hai ragione

Franco Giordano


«Non è scoppiata solo una bolla speculativa. È arrivato al capolinea un ordine economico», ha scritto sull'"Unità" Alfredo Reichlin. Di fronte al suo lucido articolo, non saprei dire se prevalga il compiacimento per un così appassionato sfogo contro lo stupidario ideologico neoliberista che da lustri imperversa nel paese e nel mondo oppure la soddisfazione nel veder confermata, pur da posizioni diverse, un'antica condivisione analitica in merito alle distorsioni dell'economia mondiale.

Le voci di quello stupidario sono tante da riempire un'enciclopedia: l'elogio a priori delle privatizzazioni, sfociato in una vera orgia privatizzatrice; il culto delle magnifiche e progressive sorti del capitalismo finanziario; la derubricazione dell'intervento pubblico a fastidiosa somma di lacci e lacciuoli dai quali liberarsi il prima possibile; l' "arricchitevi" come parola d'ordine imposta al paese quale smagliante collante culturale, glissando sul particolare che ad arricchirsi erano in pochi a danno dei moltissimi; gli stentorei incentivi al trasferimento dei Tfr in fondi privati a danno della previdenza pubblica (ed è facile immaginare cosa ne pensino quanti, negli Usa, a quel sistema han fatto ricorso); la furiosa privatizzazione dei servizi pubblici, estesasi sino a invadere l'area dei beni pubblici per eccellenza, a partire dall'acqua; lo smantellamento progressivo e inarrestabile dello Stato sociale.

Tutto questo altro non era che l'imposizione brutale e miope del modello americano. E il bello è che l'esortazione permanente a imbarcarsi in politiche vieppiù restrittive e rigoriste veniva proprio dal paese più indebitato del mondo, quello che più di ogni altro viveva al di sopra delle proprie possibilità incentivando irresponsabilmente l'indebitamento popolare.

Questo sistema assurdo è effettivamente "arrivato al capolinea", ma è a dir poco clamoroso che proprio chi questa crisi la prodotto venga oggi sorretto pubblicamente e possa mantenere inalterata l'abituale arroganza, nel silenzio assordante della sinistra. Non è un adeguamento al presente del keynesismo: è il suo rovescio.

E allora come ce la caviamo? Con una spruzzata di etica economico-finanziaria? Con qualche predicozzo sulla perversione della rendita? Sbandierando il catartico ritorno al primato della produzione contro la finanziarizzazione, fingendo di non sapere che quelle due forme di capitalismo sono in realtà ormai indissolubilmente integrate?

Non può bastare. E non basta neppure invocare l'intervento pubblico, che negli Usa, peraltro, non è mai venuto meno. Se non vuole essere condannata all'irrilevanza, la sinistra deve saper mettere in campo ben altro tema, e cioè la qualità e la finalità dell'intervento pubblico.

La qualità dell'intervento pubblico in economia torna oggi a chiamare in causa i nodi di fondo. Torna alla necessità di costruire un compromesso di tipo nuovo, perché non ci si può svenare senza che nulla cambi, solo per ripristinare la macchina diabolica che ha determinato questa irrazionalità e queste enormi disparità. Se il pubblico interviene elargendo risorse immense, migliaia di miliardi, la contropartita deve essere l'acquisizione di una quota proprietaria degli istituti salvati, deve essere il ritorno in campo di una parola che per decenni è stata considerata la peggior bestemmia: la programmazione.

Se il pubblico deve intervenire in veste di protagonista, tale deve essere davvero. In cambio dell'elargizione di risorse che sono prima di tutto dei cittadini, devono arrivare nuove tutele sociali, nuovi diritti del lavoro, tali contrastare a fondo la precarietà, un diverso potere contrattuale per le retribuzioni e le pensioni, un'alternativa economica sul terreno ambientale.

Ma tutto ciò non può essere limitato nel perimetro, pur fondamentale, dei dibattiti teorici. Impone scelte politiche cogenti e urgenti. Un esempio per tutti: per poter operare politica retributiva adeguata e difendere l'autonomia sociale del conflitto, "una pratica e un punto di vista autonomi delle forze del lavoro", bisogna opporsi subito, qui e ora, alla modifica del modello contrattuale, sostenendo politicamente con determinazione massima la Cgil.

Dal vicolo cieco la sinistra non uscirà senza mettere a punto una nuova politica socialmente connotata. Ma a tal fine non serve né un soggetto neocentrista, tutto confinato nella logica soffocante di queste compatibilità, né un soggetto minoritario e identitario. Occorre ricostruire, in un contesto radicalmente nuovo, i fondamenti e cultura critica della sinistra.

P.S. Caro Alfredo, ho forse ecceduto nel sollecitare il vecchio comunista che è in te?

Pubblicato il: 20.10.08
Modificato il: 20.10.08 alle ore 10.29   
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