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Autore Discussione: MARIELLA GRAMAGLIA.  (Letto 4777 volte)
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« inserito:: Luglio 09, 2011, 05:07:55 pm »

9/7/2011

Se non oggi quando? Riecco le donne

MARIELLA GRAMAGLIA


Se non a Siena, dove? E' nella città toscana che, oggi e domani, il gruppo che ha dato vita a «Se non ora quando» gioca le sue carte decisive, entra nella maturità. Il 13 febbraio scorso oltre un milione di donne nelle piazze d'Italia ha folgorato molte e molti per la sua vitalità sorprendente, di cui da tempo si era dimenticato il sapore. Ad accendere la miccia l'insopportabile claustrofobia da alcova di Stato in cui il presidente del Consiglio aveva stretto il Paese.

Ma molto altro: la fatica, il merito, la fantasia di tante ragazze, enormemente diverse dall'immaginazione sordida e arcaica di non pochi uomini di ogni parte politica. E il loro mancato riconoscimento. La voce delle madri della «generazione 0», spesso mancate malgrado il loro desiderio, e quella delle loro madri. Insomma un nuovo zoom: non sui corpi scolpiti, ma sulle vite vere, magnifiche e dolorose, e sulla voglia di contare senza accontentarsi. Tanto che dalle piazze di febbraio è parso che prendesse il via una nuova stagione politica: quella dei nuovi sindaci di Torino, Milano, Bologna, Cagliari e Napoli e dei referendum del 12 giugno. Le novità del movimento? Molte. «Se non ora quando» non è né risentito verso i maschi, né subalterno. E' autorevole. Per la prima volta decine di migliaia di uomini hanno partecipato a manifestazioni in cui le leader erano donne. E lo hanno fatto con insolita gioia. Pratica un ricambio generazionale mite, senza bisogno di rottamatrici: le più giovani parlano e contano, e si sa quanto siano lontani dal protagonismo i giovani italiani. Ha un'idea di nazione: i comitati di Gela e di Belluno, due tra i centoventi che animano il movimento, non si guardano in cagnesco cercando di strapparsi a vicenda risorse e opportunità, disegnano insieme un mosaico di forza e debolezze. Usa un linguaggio semplice, lontano dai gerghi della politica, anche da quelli femministi. E' politicamente pluralista: Pia Covre, del comitato nazionale delle prostitute, può sedere accanto a una religiosa, la leader sindacale Susanna Camusso si avvicenda al microfono con Giulia Bongiorno, parlamentare di Futuro e libertà.

Ma è proprio sulla questione del pluralismo che si giocheranno gli esiti dell'appuntamento toscano. In una manifestazione è il palco il centro della sacra rappresentazione: figure note si alternano, incarnano ambienti e orientamenti politici diversi e, per il loro essere presenti, garantiscono spicchi di un'opinione pubblica già consolidata. Diverso è il pluralismo del convegno fondativo di un movimento che vuole essere - sono parole delle promotrici - «organizzato, stabile, autonomo, inclusivo». Deve nascere dalla base, dalle differenze geografiche, di età, di esperienza.

A Siena viene promesso uno stile di discussione da parlamento europeo: dieci minuti alle relazioni introduttive, di cui molte saranno tenute in coppia perché emergano subito punti di vista diversi, e tre minuti per tutte le altre (o gli altri) che vogliano discutere, comprese Rosy Bindi e Flavia Perina. Non sembri formalistico dire che, dal mantenimento di questa promessa, dipende molta dell'autorevolezza futura dell'impresa: praticare la democrazia senza se e senza ma, far corrispondere le parole ai fatti è già costruzione della propria autonomia, dal ceto politico e da qualsiasi Opa, ostile o apparentemente amica che sia.

Poi andrà elaborata un'agenda politica. Da presentare, con la forza di una pressione organizzata a chiunque governi o governerà l'Italia domani. Le ottocentomila donne che hanno recentemente perso il lavoro o sono state licenziate per maternità bruciano come una ferita, così come il tasso di disoccupazione femminile fra i più alti d'Europa e la rappresentanza misera, in quantità e qualità, delle donne nelle istituzioni politiche. C'è l'imbarazzo della scelta. Ma occorre scegliere bene. Per evitare i vecchi cahiers de doléances dei sindacati e dei partiti di sinistra. Perché in primo piano ci sia la fierezza e non l'oppressione. Perché è venuto il momento che le donne contino quanto meritano. E non è affatto detto che sia solo il cinquanta per cento.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8956&ID_sezione=&sezione=
« Ultima modifica: Novembre 15, 2011, 12:02:28 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 09, 2011, 06:14:44 pm »

9/10/2011

Per le elezioni ci vorranno regine di spada

MARIELLA GRAMAGLIA

Avete presente la lampo? Due strisce di tessuto diverse munite di dentini che si ingranano per chiudere rapidamente una borsa o un vestito.

E’ un’immagine cara alle promotrici delle pari opportunità nella politica. Lo chiamano zipper system.

Un uomo e una donna si alternano in liste plurinominali in modo da formare un’offerta politica in cui nessun sesso predomini sull’altro.
Se ne discute in tutti i Paesi dell’Unione Europea e in molti si applica, o per legge, oppure perché è previsto dagli statuti interni dei partiti. Oggi per noi in Italia sorge un problema nuovo: la rilevanza dell’aggettivo plurinominale che accompagna inevitabilmente lo zipper system.

Un milione e duecentomila italiani (maschi e femmine) si sono appena entusiasticamente recati a firmare un referendum che ci farà tornare per una quota rilevante dei seggi (75%) al sistema uninominale. Se la Cassazione riconoscerà la validità delle firme, se la Corte Costituzionale riterrà legittimo il quesito, se il Parlamento non cambierà la legge, se non ci saranno le elezioni anticipate, avremo infine il nostro candidato unico di collegio. Ovviamente anche di un unico sesso in base al principio di non contraddizione.

Nel maggio 2003, su iniziativa dell’allora ministro delle pari opportunità Stefania Prestigiacomo, fu modificato l’articolo 51 della Costituzione: per la prima volta non ci si limitava a enunciare la parità fra uomo e donna nell’accesso alle cariche elettive, ma si prevedevano azioni concrete per attuarla. Prestigiacomo non riuscì a trasformare il principio in legge ordinaria perché l’aula, in un’ordalia maschilista, la mise in minoranza fra lazzi e goliardie. Tuttavia da quel momento l’orientamento della Corte Costituzionale è cambiato: non solo ha dichiarato legittime le quote di genere previste dalla Regione Valle d’Aosta, ma si è pronunciata a favore anche della legge regionale campana, assai più eccentrica rispetto alla tradizione giuridica italiana ed europea.

In Campania infatti l’elettore o l’elettrice possono esprimere due preferenze purché la seconda riguardi un candidato di genere diverso dalla prima: insomma, se voglio, posso votare un uomo e una donna. Sorprendentemente la Corte, con una sentenza del gennaio 2010, approva, ma chiarisce anche i limiti delle misure: non devono imporre nulla, non devono essere «coattive» verso i cittadini, ma solo offrire una scelta che riequilibri il peso fra i due sessi. Dunque un eventuale collegio binominale (un uomo e una donna da votare in un’unica offerta), che qualche giurista femminista propone, verrebbe quasi sicuramente bocciato.

Ma torniamo al nostro uninominale. Che problema c’è - si dirà: metà dei collegi agli uomini e metà alle donne. Ma soltanto chi non ha alcuna esperienza politica può crederci. Ci vogliono denti aguzzi da lupo della steppa per battersi in trattative di coalizione dove tutti sanno che i collegi sono di serie A, B e C come le squadre di calcio. Quelli di serie C sono di solito senza speranza e lì naturalmente le candidate sono sempre benvenute.

Eppure nella spinta del popolo del referendum c’è un nocciolo di verità sacrosanta anche dal punto di vista delle donne. Il Parlamento dei nominati e delle nominate, per mano di una classe dirigente priva di senso dello Stato, ha ridotto in coriandoli l’autorevolezza femminile nelle istituzioni: dall’epopea dell’emancipazione alla miseria della cooptazione sospetta o sospettabile.

In più per molto tempo, prima della nascita di «Se non ora quando», si è offuscata un’opinione pubblica femminile appassionata all’idea che la forza politica delle donne possa riformare stile e agenda politica. Per disincanto o per orgoglio molte avevano ripreso l’antica abitudine di tacere. Ma c’è ancora tempo per cambiare rotta in questi mesi e mettere la vela a un particolare incrocio di venti: quello che chiede più controllo e potere ai cittadini e quello che preme perché le donne - quelle capaci e appassionate - possano battersi ed essere scelte.
Nessun sistema è una garanzia a priori, nessuno una sconfitta sicura se in ogni luogo dove si media e si cerca la strada futura alcune donne che contano avranno a cuore le proprie simili. Non si tratta di «quote rosa», che ricordano i grembiulini a quadretti della scuola materna, ma di una battaglia da regine di spada. Dove sono le regine?

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9300
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 15, 2011, 11:57:46 am »

15/11/2011

L'occasione del riscatto per le donne

MARIELLA GRAMAGLIA

Ho deciso di incontrare anche le rappresentanze dei giovani e delle donne. È a questi soggetti che dobbiamo orientarci pensando a chi voterà in futuro». Con una dichiarazione a sorpresa, Mario Monti ha dato ieri sera una curvatura non conformista, viva, vicina alla società, alla parola «scrupolo» cui aveva dichiarato fin dall’inizio di voler informare le sue consultazioni.

Il professore è uomo di cultura europea. Conosce bene i valori che caratterizzano la democrazia nell’Unione. Un monocolore di soli uomini ci confinerebbe ancora una volta nell’anomalia e nell’immaturità. Parte della nostra rinnovata credibilità, in un mondo fatto di Angela Merkel, Christine Lagarde, Hillary Clinton, deriverà anche dal ruolo non accessorio delle competenze femminili. La fotografia di dodici gentiluomini in giacca e cravatta che giurano nelle mani del Presidente sarebbe risultata a troppe, non solo in Italia, insopportabile.

Un governo di tecnici deve essere libero dalle microcontrattazioni di potere, ma non può ignorare le correnti profonde della società civile, cioè la politica nel senso più alto del termine. Molte italiane sono rimaste ferite dalle umiliazioni inferte all’immagine femminile dal governo che si congeda. Acqua passata, certo. Ma, perché davvero non macini più, non basta cambiare stile e linguaggio: si deve fare spazio a donne che lo meritano. Per risalire, dal 46,1% dell’occupazione femminile del nostro Paese almeno fino al 58,2% della media dell’Unione, occorre passione oltre che competenza. Ridare a metà dell’Italia la speranza che studio, impegno, ambizione abbiano valore di scambio nella società, è un fattore fondamentale di quella crescita cui il presidente incaricato ha fatto riferimento nel suo discorso d’investitura.

Forse è per questo che gli appelli a non dimenticare che l’Italia è fatta di due sessi si sono susseguiti dagli ambienti più diversi. Dal «Sole-24 Ore» a «Se non ora quando». Da «Vanity Fair», con una raccolta di firme promossa da Alessandro Rosina, docente di demografia all’Università Cattolica di Milano, all'associazione «Pari e dispari». Dalle reti sociali, che con il fatidico simbolo # che sottolinea l’urgenza del problema - promuovono tra le giovani la parola d'ordine «maipiùsenzadonne», alla assai adulta rete di professioniste che porta il nome di «Armida», al sito bolognese «Orlando».

Spariranno i ministeri senza portafoglio. Quelli che nei tempi fuori dalla tempesta servono ad accontentare molti senza troppo forzo. Dodici ministri, ministri veri, con impegni pesanti. Ma nessuno pensi che per questa ragione non è il momento. Forse meno abili nella passerella del presenzialismo, raramente ammesse a quelle che gli americani chiamano old boys networks, le donne brillano per il senso di responsabilità professionale. E i nomi circolano. Ne cito solo alcuni perché non si pensi a una presa di posizione astratta, mossa da pura ideologia: Anna Maria Tarantola, vicedirettore della Banca d’Italia, Luisa Torchia, docente di diritto amministrativo, Anna Maria Cancellieri, già stimata commissaria del Comune di Bologna, Lucrezia Reichlin, docente della London Business School, Livia Pomodoro, presidente del tribunale di Milano, Maria Teresa Salvemini e Silvia Giannini, economiste, Chiara Saraceno, sociologa, Ilaria Capua, la scienziata che ha isolato il virus dell'aviaria. Non si tratta che di esempi.

Il professor Monti conosce questi curricula e molti altri. Applicherà il suo scrupolo e il suo sentimento della democrazia. Per il bene dell’Italia.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9437
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 30, 2011, 06:05:53 pm »

30/11/2011

Le donne in piazza per un New Deal rosa

MARIELLA GRAMAGLIA

Anche in politica esiste il tempo dell’attesa. Nel nostro caso italiano attesa di misure economiche che presto verranno. Imporranno sacrifici? Torneranno a farci crescere e sperare? Saranno eque? Oppure soltanto severe?

E’ finito il tempo dell’urlo di rabbia contro la dignità femminile calpestata. Le donne di «Se non ora quando» lo sanno e, al prossimo appuntamento dell’11 dicembre, in Piazza del Popolo a Roma e in tante altre città italiane, vogliono dare una coloritura nuova: quella del dialogo, della proposta, dell’impegno ragionato. La considerano la prima manifestazione nazionale dell’era post-berlusconiana. Se non le donne, chi? - dicono, contando sulla potenza dell’enorme manifestazione del 13 febbraio scorso, sul colpo energico che hanno saputo assestare alla vecchia rotta della nave.

Questa volta c’è anche il caso che il governo le ascolti e questo le grava di una responsabilità in più: di essere forti e chiare, di essere in molte e soprattutto di farsi capire da molte. C’è il caso che le ascolti, ma non è detto. Dopo l’entusiasmo per tre ministre in ruoli chiave, la nomina dei sottosegretari raffredda gli animi. Le donne, nell’insieme del governo, sono meno del 12%. Lontanissime dall’esprimere quella democrazia paritaria che già è stata attuata in molte giunte cittadine dopo le elezioni di primavera. Ognuna di loro è così competente da sentirsi al 100% al posto giusto: non solo pari, ma anche superiore ai suoi colleghi. Ma è al 38% che manca che dovrebbero industriarsi a dar voce, considerandolo anche in termini collettivi, come specchio di un’assenza che è di tutto il Paese, nelle professioni, nelle imprese, nelle banche, nelle università. Si lasceranno intimidire dal complesso del Panda e dall’insofferenza per i rituali femministi, oppure capiranno che, nel dire che le donne devono essere il 50% dappertutto, come ha ribadito «Se non ora quando» anche in questa occasione, c’è un’idea di sviluppo dell’Italia?

Già, perché un gruppo di economiste vicine al movimento sta pensando a un programma che, in omaggio all’età rooseveltiana, in cui si uscì dalla crisi moltiplicando le energia impiegate nel lavoro e nella ricostruzione, ha deciso di chiamare «pink new deal». Un nuovo patto in cui il fisco non scoraggi le donne dall’avere un lavoro regolare, in cui le lavoratrici non firmino dimissioni in bianco nel caso restino incinte, in cui l’assegno di maternità sia come un diritto di cittadinanza, disponibile per ognuna, in cui i congedi di paternità obbligatori facciano uscire la condivisione del lavoro domestico dal limbo delle buone intenzioni. E soprattutto un patto di costruzione delle infrastrutture sociali a sostegno delle età più fragili della vita. Grandi e impegnative come sono o dovrebbero essere quelle edilizie e viarie. Del resto, se nel nostro meridione solo tre bambini su cento vanno all’asilo nido, contro i trentatré che ci raccomanderebbe l’Unione europea, è proprio di grandi opere che stiamo parlando, imponenti come il ponte sullo stretto di Messina.

La forza di pressione del movimento, la sua legittimità a battersi per un patto di così profonda trasformazione, viene anche dalla difficoltà a catalogarlo e a costruire un recinto che lo contenga: in un’area politica, in una generazione precisa, persino in un punto di vista femminile alla maniera di un sindacato, dato che molti uomini lo sostengono e lo interpretano come una leva di trasformazione sociale. Il civismo, il senso di responsabilità verso la collettività, il desiderio di aprire il perimetro della cittadinanza anche a chi non è nato in Italia, ne fanno un movimento democratico plurale. «Care donne, italiane per nascita o per scelta» - recita l’incipit della lettera di convocazione della manifestazione dell’11 dicembre prossimo.

Virginia Woolf, nel lontano 1928, per spiegarsi il silenzio, l’assenza, la voce flebile delle donne nella letteratura, inventò un personaggio, Judith, la sorella di Shakespeare: in teoria avrebbe avuto lo stesso talento del fratello, ma non sapeva né leggere né scrivere, scappò di casa, fu sedotta, rimase incinta e non lasciò traccia di sé. Le nostre Judith del ventunesimo secolo sanno leggere e scrivere (di frequente assai bene), se ne hanno la possibilità escono di casa con la benedizione di papà e mamma, spesso sanno anche come non rimanere incinte, ma non contano altrettanto quando hanno lo stesso talento del fratello. E’ per questo che «Se non ora quando» ha ancora per dirla con Monti - tanti compiti da fare per la democrazia italiana.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9497
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 02, 2012, 03:11:33 pm »

2/1/2012

Il diritto di fare figli e lavorare

MARIELLA GRAMAGLIA

A Bologna nella notte del 31 dicembre, da genitori ambedue italiani del piccolo paese di Monterenzio, è nata Linda, la prima cittadina dell’anno che viene. Poco dopo a Roma si è affacciata al mondo Sofia, di mamma vietnamita e di papà italiano. E ancora, a Torino, Takwa, di genitori tunisini, che sarebbe assurdo che restasse straniera nella nostra terra, come ci ha ricordato ancora una volta Napolitano nel discorso di fine d’anno.

Sono 78.000 ogni anno i bambini nati in Italia da genitori stranieri. Uno su cinque, sul totale di 561.900 neonati stimabile anche per l’anno prossimo, avrà almeno un genitore straniero. Una benedizione del cielo, anche per chi il cielo lo vede poco stellato e vuoto di dei. Le mamme italiane, infatti, sono stanche. Se dipendesse solo da loro il tasso di fecondità sarebbe dell’1,29%, uno dei più bassi del mondo. Le straniere non sono delle fattrici senza posa. Semplicemente si adeguano ai tassi degli altri Paesi sviluppati. Arrivano al 2,13, come in Francia e negli Stati Uniti, e ci permettono per ora di tenere il nostro ricambio demografico un po’ più vicino al pelo dell’acqua.

Eppure le donne italiane non sono particolarmente stravaganti. Quando l’Istat le interroga sui loro desideri di maternità rispondono in grande maggioranza di desiderare almeno due bambini. Insomma vorrebbero che l’Italia, anche da questo punto di vista, fosse un Paese normale. Perché lo sia - dicono i demografi - occorrono politiche non estemporanee, di lungo periodo, che permettano alle giovani donne di cogliere una tendenza che cambia e di fidarsene.

Il nuovo governo parla spesso di patto intergenerazionale per rendere il mercato del lavoro meno ingiusto verso i giovani. Non sarebbe male che il patto non riguardasse un sesso soltanto. Le donne attempate si preparano ad andare in pensione più tardi e ad accettare, anche loro malgrado, i vincoli dei tempi più grigi. Ma le giovani madri possibili, tanto coccolate dalla retorica e tanto dimenticate dalla politica? Quasi la metà, per via dei contratti atipici, non ha diritto all’assegno di maternità. Un quinto esce dal mercato del lavoro dopo la nascita del primo figlio, talvolta perché costrette a dimissioni preventive per aggirare il divieto di licenziamento. Pressoché nessuna può contare su un compagno che si prenda cura di un nuovo essere che è caro anche a lui, perché in Italia non esistono congedi di paternità obbligatori per un tempo significativo.

La ministra del Lavoro e del Welfare Elsa Fornero ha rifiutato di ricevere una delegazione di giovani composta solo di maschi: pensava che testimoniassero di una pessima visione del futuro. Speriamo che rifiuti anche di firmare misure «Cresci Italia» in cui gli unici a non nascere e a non crescere continuino ad essere i nostri bambini.

Per cominciare a cambiare rotta non ci vuole molto: l’assegno di maternità per tutte le madri, indipendentemente dal loro contratto di lavoro (ma rispettando i diritti acquisiti dei contratti di lavoro stabili), il ripristino di una legge del 2007 che impediva le dimissioni in bianco attraverso soluzioni tecniche efficaci, l’estensione fino a dodici settimane, anche in momenti diversi della vita del figlio, del congedo di paternità obbligatorio. Costa? Sì, costa. Ma costa di più essere un Paese di vecchi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9602
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« Risposta #5 inserito:: Gennaio 23, 2012, 09:28:07 am »

23/1/2012

Fornero e un articolo di troppo

MARIELLA GRAMAGLIA

Elsa Fornero ha spiegato, in un incontro pubblico, che vuole essere chiamata Fornero e basta. Senza il «la» di prammatica che precede il suo cognome in molti articoli e titoli giornalistici.

Perché nessuno scriverebbe mai «il Monti» o «il Profumo» (sommamente irriverente), mentre a Fornero, Cancellieri e Severino l’articolo determinativo non lo toglie quasi nessuno? Parrebbe un’implicita stupefazione verso una donna che sta là dove non te lo aspetti: nel luogo del potere e dell’autorevolezza. È eccezionale, pressoché unica, parla da un’incongrua tribuna, rendiamola dunque femminile, almeno attraverso l’articolo.

Ai tempi dei licei con i gessetti e i grembiuli neri, l’articolo era egualitario e avvolgeva in una comune coltre di noia autori maschi (tanti) e femmine (poche): «il Manzoni e la funzione della Provvidenza», «la Deledda e la cultura verista». Si masticava la penna e si cominciava a scrivere, rispettando scrupolosamente il determinativo anche nello svolgimento. Nell’età della libertà di leggere gli autori che si amavano l’articolo sparì, almeno per i maschi. Il Fenoglio, lo Sciascia? Nemmeno il più barbogio vecchio professore oserebbe pronunciare un simile orrore. Ma la Lessing, la Ginzburg, la Desai, la Byatt restano in imperitura compagnia del loro articolo.

La salvezza, almeno per le donne politiche, può venire dalla necessità di sintesi dei titolisti. Più donne potenti, più signore nei titoli, più cognomi liberi da lacci e laccioli. La Lagarde potrebbe persino apparire un refuso, una specie di balbuzie grafica. Tuttavia ci sono altri bisticci di parole nei quali non sarebbe male mettere ordine. «Il mio ministro Elsa Fornero», ha detto Monti nel corso di un’intervista. Nel definire la funzione, il maschile ritorna inesorabile. Perché? Perché la funzione di governo è neutra e tale deve restare?

Nel lontano 1987, regnante Bettino Craxi, Alma Sabatini, una femminista della prima ora, scrisse, per i tipi della presidenza del Consiglio, un manuale «Per un uso non sessista della lingua italiana». Nemmeno quelli erano tempi di delicatezze e di fine etichetta in politica, tuttavia nel Partito socialista viveva, in una riserva al margine delle praterie del potere, una piccola comunità femminista che cercò di farsi sentire. E il libro è ancora attualissimo. I consigli erano molti, ma quello più elementare era il più importante. Via il dannato articolo, ma via anche la declinazione al maschile delle funzioni istituzionali. Niente «la Fornero», dunque. Ma sì a Fornero «ministra del Lavoro». Niente «la Camusso». Ma sì a Camusso «segretaria della Cgil». Così penseranno che sia la segretaria del segretario - si obietterà. Ma quanto più spesso ci saranno uomini segretari di segretarie, tanto meno si cadrà nell’errore.

Paritario e semplice, no? Eppure, nella stessa intervista, Mario Monti sopra al «suo ministro», fissa linguisticamente altri due gradini gerarchici. Christine Lagarde, una pari grado chiamata per nome e cognome. E la signora Merkel. Qui entriamo in un altro universo, quello dell’empireo. Di signore, nella più alta delle sfere europee, ne esistono solo due: la signora Thatcher e la signora Merkel, le uniche che hanno scompaginato i giochi dell’immaginazione. E non si dica che è un semplice omaggio allo stile anglosassone (Mr o Mrs per ogni leader politico). Nessuno direbbe mai la «signora Clinton», anche perché Hillary si sentirebbe retrocessa al suo passato di first lady. Ma nemmeno «la signora Rice» per l’indimenticabile Condoleezza. Per le due lady dell’Europa si tratta di deferenza pura.

La Signora, maiuscola e senza aggettivi, nella cultura cattolica è una sola, intercede per noi e sta nei cieli. C’è un’unica Signora terrena per un piccolo popolo oppresso e per chi si batte per i diritti umani. Se in Birmania si dice la Signora con una devozione che risuona, si può parlare solo di lei: Aung San Suu Kyi. Lo merita. Se il popolo Birmano ritroverà libertà e democrazia lo dovrà alla sua abnegazione.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9681
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