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Autore Discussione: CHIARA SARACENO  (Letto 11615 volte)
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« inserito:: Settembre 07, 2007, 11:25:00 pm »

Chiara Saraceno: «Un passo avanti, ma non confondiamo disagio e illegalità»

Eduardo Di Blasi


Sicurezza e Sinistra. Per la sociologa Chiara Saraceno anche se il termine «Sinistra» è diventato negli anni «un termine così vago», sulla sicurezza la vecchia «Sinistra» ha sempre fatto la sua parte: «All’epoca del terrorismo è stata fortemente dalla parte della legalità e della sicurezza, al punto che qualcuno ci ha rimesso le penne».

Poi è accaduto qualcosa...

«Di fronte a certi tipi di illegalità in cui le valutazioni si mescolano con il disagio sociale e con il timore di essere giudicati razzisti, la sinistra ha avuto atteggiamenti molto ondivaghi. All’inizio è andata avanti con gli occhi chiusi, perché non vedeva l’avvicinarsi di un problema. Non vedeva, ad esempio, i rischi della ghettizzazione abitativa. Ha considerato le proteste un fatto razzista. È un errore commesso anche all’epoca dell’edilizia popolare: concentrare tutti i disagiati in un posto solo. Rendendo infernale la vita a loro ma anche a quelli che gli abitavano attorno».

Quella era un’idea di sinistra...

«Sì. Un errore. Sono anni che parlo con amiche che dicono: “Io non voglio che mio figlio vada a scuola qui”, e da prima degli immigrati... Oggi si confonde disagio con illegalità. Sono fatti diversi ma che vanno monitorati. C’è un’abitudine all’illegalità che alla fine esplode. Sia perché da questa illegalità di sopravvivenza si passa a illegalità più forti, sia perché il cittadino che ha accettato il pizzo, o i soldi per il parcheggio dell’auto a un certo punto esplode».

Le risposte che la sinistra ha dato in questi anni, come il muro di via Anelli a Padova, le condivide?

«Il muro di via Anelli io l’ho vissuto malissimo, però poi ho parlato con dei padovani anche di sinistra e mi hanno detto che sta funzionando. Se il muro vuole dire “svuotiamo il ghetto” e non “separiamo i cattivi dai buoni”, allora io sono a favore. Perché non bisogna proteggere solo il cittadino normale. Anche l’assistito che viene messo lì si trova in una condizione di fortissimo disagio. Quello che invece mi ha un po’ sconcertato è tutta questa campagna sui lavavetri. Perché non ce la prendiamo con quelli che vendono per la strada e occupano suolo pubblico? Perché non ci preoccupiamo di quelli che chiedono la carità col bambino appresso?».

Su questo però la sinistra non ha elaborato una visione politica...

«No, perché oscilla. Ha la sua anima che si dice di sinistra che dice che non si deve fare solo pulizia. Siamo d’accordo. È chiaro che non si deve fare soltanto pulizia. Non bastano prigione e multe. È chiaro che ci voglia anche integrazione. E però se non si fa anche pulizia, se non si dà ai cittadini, inclusi quelli che arrivano, l’idea che lo Stato è dalla loro parte e che, per quanto non possa fare miracoli, non ignora che ci sono strade dove non si può camminare la sera. Che non ignora che ci sono abitazioni in cui pochi rimasti si chiudono dentro sperando in Dio. È un discorso lungo questo: non a spot. Non è che adesso facciamo la multa ai lavavetri e abbiamo risolto. E poi di volta in volta allunghiamo la lista: i lavavetri, i professori fannulloni, i rom».

Nel piano Amato ci sono anche i writers...

«Appunto, ma c’è criminalità e criminalità. I writers direi che potrebbero essere condannati a ripulire, però non possono mettere sullo stesso piano quello che ruba, che stupra, che non mi lascia entrare in casa con quello che scrive sui muri».

Amato afferma che la sinistra non dovrebbe usare le parole della destra, come «Tolleranza zero»

«Questo lo dice per salvarsi la coscienza. Prima mi deve dire perché si decide di seguire la destra, oppure spiegare in cosa siamo diversi. Discriminando, ad esempio, tra i writers e gli stupratori».

Alla fine non si darà una medesima risposta agli uni e agli altri...

«Sì, però se li metto nello stesso elenco di “illegalità”... E poi le leggi ci sono già: è vietato rubare, scrivere sui muri, usare violenza. Il problema sono le risorse di controllo, la sistematicità del controllo. Confesso che non riesco a comprendere l’utilità del “pacchetto”. Quindi da un lato sono contenta che non sia più un tabù parlare di sicurezza, ma mi pare un discorso ancora fatto in modo muscolare».

Pubblicato il: 07.09.07
Modificato il: 07.09.07 alle ore 9.24   
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« Ultima modifica: Agosto 27, 2008, 10:17:21 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 24, 2007, 10:58:50 am »

24/12/2007
 
Famiglia, gli affetti pericolosi
 
CHIARA SARACENO

 
I delitti e le violenze famigliari che ci hanno accompagnato lungo tutto l’anno, ricordandoci che la famiglia può essere a seconda dei casi il luogo più sicuro e più insicuro in cui stare, non cessano solo perché si avvicina il Natale, che nella retorica pubblica, ma anche privata, è la festa famigliare per eccellenza. Sembra anzi che costituiscano un inesorabile e drammatico contrappunto a quella retorica e soprattutto alla grande enfasi sulla insostituibilità della famiglia (naturalmente solo quella eterosessuale e fondata sul matrimonio) come fondamento della stabilità sociale e dei valori.

La violenza, così come l’indifferenza e l’ostilità, nei rapporti famigliari non sono fenomeni recenti. Per certi versi erano addirittura iscritti come norma nei rapporti famigliari - tra i sessi, tra le generazioni - del passato e in alcune culture ancora oggi. Essi ci appaiono meno accettabili oggi, nella nostra società, ove ci aspettiamo che i rapporti famigliari siano basati sulla scelta e sull’affetto: ci si sposa, si sta insieme, per amore, e se l’amore cessa ci si può lasciare. Si fa un figlio perché lo si desidera.

La manifestazione di violenza o sopraffazione nella famiglia ci sembra vuoi un retaggio di modelli del passato (o di altre culture), vuoi una manifestazione di follia. E con ciò ci rassicuriamo: a noi non può succedere. Tuttavia anche nella famiglia affettiva e basata sulla scelta i rapporti non sono sempre simmetrici; non tutti possono scegliersi (i figli, ad esempio, non possono scegliersi i genitori, così come non si scelgono i cognati e i suoceri); e non sempre si può, o si è capaci, di andarsene. Si parla tanto, infatti, anche giustamente, della necessità di imparare a stare assieme, di lavorare sui rapporti, perché fare famiglia è un lavoro paziente, quotidiano. Ma si parla meno della necessità di imparare anche a prendere le distanze e persino, se necessario, ad andare via, o a lasciare andare via: nella coppia, ma anche nei rapporti tra genitori e figli. Soprattutto, il fatto che l’affettività sia diventata la cifra delle relazioni famigliari le rende molto più importanti di un tempo per la costruzione del senso di sé, dell’identità, ma anche, proprio per questo, così vulnerabili. E più ancora rende ciascuno di noi vulnerabile entro e da parte della famiglia. Niente di drammatico, nella misura in cui questa vulnerabilità è il necessario scotto di ogni relazione significativa. Ma può diventare drammatico quando tutta l’identità, il senso di sé, il proprio stare nel mondo sono affidati a quella relazione. La famiglia esclusiva può diventare un luogo non solo soffocante, ma anche pericoloso.

Le relazioni famigliari, quindi, lungi dall’essere date per scontate, vanno trattate con cautela e delicatezza, possibilmente anche con un po’ di (auto)ironia. Soprattutto di quest’ultima, insieme a molta pazienza e nervi saldi, c’è bisogno in questi giorni. Proprio per la sua carica simbolica, per le attese che suscita, per la full immersion sulla scena famigliare che provoca, il clima natalizio può infatti funzionare da detonatore per conflitti e tensioni che solitamente vengono tenuti a bada con la lontananza o gli impegni quotidiani. Può succedere, quasi ce lo si aspetta e lo si mette nel conto come un prezzo più o meno lieve da pagare per il piacere di stare assieme, anche nelle famiglie più affettuose e solidali. Ma in alcuni casi la messa in scena del rito famigliare è una forzatura da cui si vorrebbe fuggire a tutti i costi, perché troppo grande è lo scarto con l’esperienza dell’indifferenza, o ostilità, o anche peggio, che si sperimenta in quelle relazioni. E in altri casi apre a dilemmi dolorosi. Per molti figli di genitori separati il Natale può presentarsi come un incubo, se i genitori e i nonni non sono stati capaci di trovare alternative vivibili, in cui non ci siano vincitori e sconfitti e in cui i figli non debbano sentirsi in qualche modo sleali verso uno dei due genitori e una delle due parentele. Anche per molte coppie «clandestine» il Natale è l’occasione in cui viene rimarcata la loro non esistenza sociale e famigliare. Perché la «messa in scena della famiglia» che avviene in questi giorni è anche l’occasione per ribadire gerarchie di rilevanza tra parenti e tradizioni (dove si fa il pranzo di Natale e secondo quale tradizione), definire appartenenze, ma anche esclusioni. C’è chi, per non perdere nulla e non offender nessuno, si imbarca in una lunga serie di pranzi-cene; chi non ha dove andare e si sente escluso; chi fugge. C’è chi appartiene con agio, chi appartiene troppo e chi nulla.

da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Maggio 07, 2008, 11:53:00 pm »

7/5/2008
 
La politica non capisce la violenza
 
 
CHIARA SARACENO
 
Giovinastri che nascondono dietro un’ideologia demenziale la propria voglia di controllare il territorio e di menare le mani hanno picchiato a morte un coetaneo; altri che in nome del diritto a divertirsi (e a occupare lo spazio pubblico come gli pare) tentano il linciaggio dei vigili che danno le multe mentre molti altri guardano e fanno il tifo. Che cosa fanno i politici di fronte a questi segnali di uno stato diffuso d’inciviltà, d’incapacità ad abitare spazi comuni, di non avere con gli altri solo rapporti di sopraffazione, di dimostrazione muscolare su chi è il più forte? Litigano tra di loro sulla gerarchia di gravità in cui collocare i fatti, tra l’altro attribuendo rilevanza (e quindi dignità) politica a azioni che sono semplicemente criminali. Se il neo-presidente della Camera un po’ imprudentemente e superficialmente dichiara che il bruciare bandiere è peggio che picchiare a morte qualcuno, subito dal centrosinistra gli ribattono che no, è peggio la seconda cosa, ma non perché ci sia il morto e perché si è fatta violenza sulle persone, ma perché i colpevoli sono naziskin. Che ideologia politica avranno gli allegri e violenti festaioli di Piazza Vittorio a Torino? Forse perché non gliene si può attribuire con certezza una, non entrano nella graduatoria.

Ciò che è del tutto assente in questo penoso «confronto politico» è anche solo il cenno di una consapevolezza della violenza sotterranea che attraversa gli spazi pubblici e lo stare in pubblico: dai cortili e corridoi scolastici testimoni di quotidiano bullismo che emerge solo quando un fatto grave per una volta lo fa vedere (il ragazzino che brucia i capelli al compagno, ma anche la mamma che aiuta la figlia a picchiare l’insegnante), alle strade e piazze delle città. Qualche volta la miccia che fa scattare la violenza è l’insofferenza verso il diverso, qualche volta solo la voglia di far valere la propria forza, qualche volta il rifiuto di essere disturbati nei propri divertimenti o nelle proprie faccede, anche se quei divertimenti e faccende disturbano altri. Ne esce un’immagine della nostra società fatta di gruppi e individui totalmente autoreferenziali, che contano sugli altri solo per farsi forza nel far valere la propria prepotenza.

Naturalmente non siamo tutti così e si possono citare molti esempi opposti. Ma una politica che si comporta in modo puerilmente reattivo come nell’ultimo episodio non aiuta, al contrario. E non basta certo a (ri-)costruire un ormai fragile tessuto sociale connettivo invitare le scuole a cantare l’inno di Mameli almeno una volta la settimana, come un po’ pateticamente ha suggerito il ministro della Difesa Parisi.
 
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Maggio 20, 2008, 05:51:32 pm »

20/5/2008
 
Il caro prezzi per qualcuno è più caro
 
CHIARA SARACENO
 

Nell’ultimo anno i prezzi al consumo sono aumentati di circa il 3,3%, oltre un punto in più rispetto all’inflazione programmata. Un aumento d’identica entità si rileva considerando solo i prezzi dei consumi tipici delle famiglie di operai e impiegati. A prima vista, il peggioramento ha colpito tutti in modo uniforme. Ma se si va a vedere dove sono avvenuti gli aumenti, si scopre che hanno riguardato più i consumi di uso corrente, quotidiano, che non quelli che avvengono più raramente, o che non riguardano beni di prima necessità. Gli incrementi tendenziali più elevati si sono infatti registrati per abitazione, acqua, elettricità e combustibili (più 5,6% su base annua, cui si aggiunge un più 3,2% nel settore mobili e servizi per la casa), prodotti alimentari e bevande analcoliche (più 5,5%) e trasporti (più 5,1%). Sono aumenti che non possono essere compensati, soprattutto nei bilanci delle famiglie a reddito più modesto, dalla stabilità dei prezzi di alcolici e tabacchi e dei servizi ricreativi e culturali e neppure dalla diminuzione dei prezzi nel settore «comunicazione», in cui non sta solo la bolletta del telefono, ma il prezzo di cellulari e computer: beni che non si comperano tutti i giorni e che nel caso dei computer, non sono ancora presenti in oltre la metà delle famiglie.

Questa concentrazione degli aumenti dei prezzi nei beni di uso quotidiano può in parte spiegare perché nella percezione diffusa l’inflazione è molto più alta di quella rilevata in media. Chi fa la spesa tutti i giorni ha un costante monitoraggio del prezzo della pasta, del latte, del detersivo per lavare i piatti, del biglietto dell’autobus, del litro di benzina e così via. Sa quanto occorreva per fare la spesa un mese, un anno o anche due anni fa. Ciò non avviene per il prezzo del cellulare o del televisore, tanto più che di questi ultimi prodotti cambiano velocemente modelli e contenuto tecnologico.

Quindi il confronto è più difficile. Ma non si tratta solo di percezione. Aumenti dei prezzi così concentrati sui consumi quotidiani e di prima necessità colpiscono in modo sproporzionato le famiglie a reddito più modesto, con un bilancio già in partenza largamente impegnato per far fronte ai bisogni essenziali e quotidiani, con poco spazio per quei consumi culturali e di tempo libero che pure fanno parte della idea condivisa di «buona vita» e anche poco spazio per il risparmio.

Certo, questi aumenti potranno innescare processi virtuosi di razionalizzazione e contenimento degli sprechi. Ma taluni strumenti di contenimento dei costi non sono sempre alla portata di chi ne avrebbe più bisogno: i discount non sono sotto casa, una dieta nutriente e poco costosa richiede più lavoro di una bistecca veloce, chi vive da solo, come molti pensionati a basso reddito, non può beneficiare degli sconti 3x2. In generale, per far fronte agli aumenti, le famiglie con bilanci compressi dovranno tagliare dove possono nei consumi di base: imponendo ai figli di non fare le scuole superiori fuori Comune, perché il costo dell’abbonamento all’autobus è troppo elevato; non andando dal dentista (non disponibile nel sistema sanitario nazionale) se non quando è troppo tardi; non mandando il bambino alla gita scolastica e così via. Inoltre avranno ancor meno capacità di risparmio, divenendo ancora più vulnerabili a un’emergenza imprevista.

Nell’indagine Istat 2006 sulle condizioni di vita il 14,6% delle famiglie ha dichiarato di non farcela ad arrivare a fine mese. E una percentuale doppia - 28,4% - ha dichiarato di non essere in grado di far fronte a una spesa imprevista di 600 euro. La questione dei prezzi, non solo dei salari, sta divenendo una questione nazionale. E benché fenomeni simili avvengano anche in altri Paesi, l’Italia partiva già da una situazione di prezzi mediamente più alti. Eliminare l’Ici sulla prima casa ha un forte impatto simbolico. Intervenire sui meccanismi di formazione dei prezzi avrebbe un impatto fortissimo sulle condizioni di vita.
 
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Maggio 24, 2008, 10:27:16 pm »

24/5/2008
 
Le badanti non salvano la famiglia
 
 
 
 
 
CHIARA SARACENO
 
E’difficile individuare un preciso disegno di politica della famiglia nell’elenco delle priorità del governo (e anche nel programma con cui la maggioranza si era presentata alle elezioni). Eppure, se si vuole davvero fare uscire il Paese dalla fase di stagnazione in cui si trova, occorre affrontare alcuni nodi cruciali che riguardano proprio la famiglia. In particolare due: il sostegno all’autonomia dei giovani, perché possano mettere su famiglia se lo desiderano; il sostegno all’occupazione delle donne, in particolare di quelle con responsabilità familiari. In entrambi i casi, si faciliterebbe la libera scelta di avere un figlio (in più) e si contrasterebbe il fenomeno della povertà che è particolarmente concentrato tra le famiglie con figli e tra le famiglie con un solo genitore occupato. Per raggiungere questi obiettivi occorrono interventi sia sul mercato del lavoro e sulle forme di protezione sociale, sia dal lato dell’offerta e dei costi dei servizi. Nessuno di questi interventi sembra presente nell’agenda delle priorità del governo. Al contrario, alcune delle priorità dichiarate e delle misure prospettate sembrano contrastare proprio quegli obiettivi. Se ne rendono conto le ministre Meloni e Carfagna?

La detassazione generalizzata dell’Ici sulla prima casa, misura di grande impatto simbolico e sicuramente popolare, non solo produce risparmi tanto più elevati quanto più alto è il valore della casa, quindi redistribuisce di più a chi ha meno bisogno mentre non dà nulla a chi è in affitto. Di fatto sottrae risorse che i Comuni avrebbero potuto destinare sia all’edilizia pubblica, aprendone l’accesso anche ai giovani, sia ai servizi alla persona (asili nido, tempi pieni scolastici, assistenza domiciliare agli anziani), che sono lo strumento principe per conciliare responsabilità familiari e partecipazione al lavoro delle donne. Si dice che lo Stato compenserà i Comuni per la perdita di gettito dell’Ici. Ma, a parte ogni considerazione sul colpo inferto all’unico strumento di federalismo fiscale finora disponibile, per operare questa restituzione i soldi dovranno essere presi da qualche altra parte.

Anche la detassazione degli straordinari non appare uno strumento particolarmente favorevole a giovani e donne con responsabilità familiari. Perché i primi sono spesso assunti con contratti atipici che non prevedono straordinari, o meglio che non hanno orari. Le seconde, dovendo sommare lavoro pagato e non pagato, non hanno tempo per fare straordinari. Si acuirà così l’ingiustizia per cui le donne con responsabilità familiari, sommando lavoro pagato e non pagato, lavorano in media quasi un mese lavorativo in più dei loro compagni, ma guadagnano meno (e costruiscono una ricchezza pensionistica inferiore). Per sostenere il reddito familiare sarebbe meglio aiutare l’occupazione femminile abbassandone il costo per le lavoratrici: offrendo più servizi e introducendo sostanziose defiscalizzazioni degli oneri specifici di produzione del reddito che sostiene una donna con responsabilità familiari: costo di asili nido, baby sitter, badanti. Il bilancio delle famiglie ne trarrebbe beneficio in modo probabilmente più esteso che nel caso della detassazione degli straordinari; si incoraggerebbe l’emersione di servizi e lavoratori informali; e si eviterebbe di aumentare le già troppe asimmetrie tra lavoratrici e lavoratori e tra uomini e donne in famiglia.

Anche l’introduzione del quoziente familiare, di un sistema di tassazione basato sul numero di componenti della famiglia, proposto in campagna elettorale dall’attuale maggioranza e caro a parte dell’associazionismo cattolico, avrebbe un effetto di disincentivo del lavoro femminile, specie nei ceti più modesti e tra le persone a più bassa qualificazione, proprio quelle più vulnerabili alla povertà. Con il quoziente familiare, e ancora di più con il sistema di splitting tedesco, sono avvantaggiate le famiglie in cui è occupato un solo coniuge, o in cui vi è una forte asimmetria nei redditi dei due. Proprio per evitare questo effetto di disincentivo, ma allo stesso tempo tenere conto dei carichi familiari, in alcuni Paesi che, come il nostro, sono basati sul principio della tassazione individuale si preferisce agire sul lato delle detrazioni fiscali e degli assegni per i figli (oltre che sull’offerta di servizi).

Non si può contemporaneamente affermare che va sostenuta l’occupazione femminile e incentivata la fecondità e poi mettere in atto politiche che vanno nella direzione opposta. Non vorrei che l’unica politica della famiglia si risolvesse nel chiudere gli occhi sulle badanti «irregolari».
 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 18, 2008, 04:31:30 pm »

18/8/2008
 
Cattolici e alleanze spregiudicate
 
 
 
CHIARA SARACENO
 
Non ci si dovrebbe sorprendere che Famiglia Cristiana critichi il governo per la mancanza di una politica di contrasto alla povertà e più in generale per una diffusa indifferenza, quando non criminalizzazione dei poveri. O che denunci una diffusa indifferenza per le difficoltà quotidiane delle famiglie con redditi modesti. Queste alla ripresa autunnale si troveranno alle prese non solo con gli aumenti degli alimentari di base, delle tariffe della luce e del gas, ma anche delle rette nei nidi e nelle scuole materne e magari di qualche taglio alla già scarsa assistenza domiciliare per le persone non autosufficienti. Le ristrettezze di bilanci locali falcidiati, tra l’altro, dall’eliminazione dell’Ici possono infatti essere compensate solo fino a un certo punto dall’eliminazione di sprechi e inefficienze. La difesa dei più poveri e dei più fragili dovrebbe essere la prassi normale di una rivista d’ispirazione cattolica. Ciò che sorprende è che lo faccia solo ora. Dopo mesi e mesi in cui il tema più caldo su cui l’autorevole rivista ha battuto con una sistematicità e un vigore (spesso anche livore) degni di miglior causa è stato la difesa della «famiglia tradizionale», tout court definita come naturale. E la denuncia della pericolosità dei pochi difensori di una cultura laica che ancora osano parlare nel nostro Paese. Chi oggi si stupisce e si offende per la violenza delle accuse era ben contento quando dagli stessi pulpiti, e talvolta dalle stesse persone, chiunque avesse una visione meno univoca della famiglia e dei rapporti tra le persone, meno apodittica sulle questioni che riguardano la vita e la morte, veniva e viene tacciato d’immoralità e malafede. Quando non veniva identificato come pericoloso per gli stessi fondamenti del vivere sociale.

Sul ruolo di defensor fidei e defensor ecclesiae della destra si è giocata, da ambo le parti, una partita non limpida in cui ciascuno ha pensato di usare l’altro. Subito dopo la formazione del governo, c’è stata la delusione per la mancanza di «ministri riconoscibilmente cattolici», espressa anche da Famiglia Cristiana. Le corrisponde specularmente oggi la delusione dei politici al governo per le critiche della rivista. Essi si vedono sfuggire una legittimazione che avevano creduto di aver conquistato durevolmente con la promessa (esplicitata formalmente anche da Berlusconi all’atto della sua prima visita in Vaticano) di non toccare il diritto di famiglia e di «compiacere la Chiesa» in tutte le norme che riguardano i temi di bioetica.

In realtà, ciò che i politici italiani di destra, sinistra e centro non sembrano capire è che le istituzioni cattoliche in Italia, con tutte le loro anche importanti differenze, condividono la pretesa del monopolio di definizione dei valori e delle norme appunto sulle questioni che riguardano la famiglia, la sessualità, l’origine e la fine della vita. Su questo sono disposti anche alle alleanze più spregiudicate e a giustificare ogni forma di doppia morale, oltre che a far cadere governi. Sul resto, si tengono le mani libere e possono far valere le proprie differenze.

Proprio perché la Chiesa cattolica ha vinto nella partita più importante, quella della famiglia e dei temi bio-etici, per altro anche con la connivenza di un centro-sinistra impaurito e afono, Famiglia Cristiana può oggi dare voce alla sua anima più sociale. Meglio questo che nulla. Ma non facciamone una sorta di paladino della libertà e della democrazia, neppure quando usa parole forti e forse fuori luogo, come l’accusa di fascismo. Soprattutto spero che l’opposizione non la usi per cercare di (ri-)legittimarsi. Sarebbe ben triste e rischioso per la nostra democrazia che, dopo aver di fatto delegato alla Chiesa e ai cattolici (in primis a quelli del Pd) la definizione dei limiti della laicità, ora l’opposizione delegasse a Famiglia Cristiana la critica all’azione del governo.
 
da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Agosto 27, 2008, 10:07:25 am »

27/8/2008
 
Prof e sesso si può anche dire "no"
 
 
CHIARA SARACENO
 

Si può anche dire di no e si può anche chiedere aiuto. Non è vero che una donna sempre e comunque non ha altra scelta che accettare le richieste e i ricatti sessuali di chi è in qualche posizione di autorità. Della triste vicenda di ricatti sessuali che sembrerebbe aver coinvolto un concorso nell’Università di Torino ciò che colpisce di più non è la possibilità che tali ricatti esistano, che taluni professori possano richiedere alle allieve prestazioni sessuali in cambio di voti o promozioni. Ciò è triste, la dice lunga su come molti uomini confondano rapporti di sesso e rapporti di potere; ma non è sorprendente. Colpisce di più il fatto che siano stati accettati senza aver cercato altre soluzioni: dalla denuncia al preside o al comitato pari opportunità fino alla ricerca di un altro professore meno impropriamente esigente con cui laurearsi e fare la specialità. Ancora un volta, in una mescolanza di fatalismo e opportunismo, si accetta una «regola del gioco» senza provare a contestarla e ad andare a vedere se sia poi così consensualmente accettata e salda. È un atteggiamento che non giova alle donne: alle singole coinvolte e anche a quelle che «non ci stanno», ma che non per questo sono esonerate dal sospetto - maschile e femminile - viceversa di aver accettato un qualche scambio se per caso fanno carriera, senza distinzioni tra veline e docenti universitarie.

Per non indurre equivoci chiarisco subito che io ritengo sempre moralmente reprensibile un professore - come chiunque sia in posizione di autorità - che fa anche solo proposte a una studentessa che da lui dipende, anche senza ricatti e anche se questa è consenziente. Trovo anche, se non moralmente riprovevole, inopportuno e un po’ sconsiderato che accetti eventuali proposte di una studentessa (perché, va detto, anche questo avviene) o comunque di qualcuno che è in posizione subalterna. Non solo perché si espone a possibili denunce e ricatti futuri se qualche cosa va storto, ma perché si tratta sempre di rapporti asimmetrici.

Ciò detto, le donne, le studentesse nel nostro caso, che si trovano di fronte a richieste improprie non sono (non sono più) proprio prive di risorse e alternative, se mai lo sono state. Oltre al loro senso di dignità e a una valutazione squisitamente soggettiva di ciò che sono disposte a pagare per quello che vogliono ottenere, possono anche ricorrere a strumenti che la lunga storia e battaglia del movimento delle donne ha sollecitato a costruire. In particolare l’Università di Torino è stata la prima ad approvare, su sollecitazione del suo comitato per le pari opportunità, un codice deontologico che tutti devono rispettare e che riguarda un ampio spettro di situazioni e possibili discriminazioni, non solo sessuali. Ha anche istituito, prima e forse unica in Italia, la figura della consigliera di fiducia, una «figura terza», avvocato, cui ci si può rivolgere in tutta segretezza. Questa può consigliare, sentire le parti, allertare le autorità accademiche, verificare la possibilità di risoluzione extragiudiziale (a protezione soprattutto della presunta vittima) ed eventualmente anche aiutare a ricorrere in giudizio.

Non è facile, certo, intraprendere questa via. Richiede fiducia nelle proprie ragioni e nella capacità dell’istituzione di proteggere chi denuncia, ma anche di negoziare una soluzione accettabile e condivisa. Certo però è meno umiliante che accettare «le regole del gioco», salvo eventualmente denunciarle quando non funzionano più o si ritorcono contro. Soprattutto contribuisce a rompere queste regole, a creare un clima di diffusa delegittimazione culturale e istituzionale per chi ancora le pratica, a indurre una riflessione, tra gli uomini e le donne, sui confini e gli intrecci rischiosi di sesso e potere.
 
da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Settembre 13, 2008, 11:57:03 am »

13/9/2008
 
La buona vita non è solo un asilo in più
 
 
 
 
 
CHIARA SARACENO
 
A fine luglio il ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali ha pubblicato un libro verde sul futuro del modello sociale italiano, La vita buona nella società attiva. Esso è proposto come un documento di discussione. Associazioni, istituzioni, anche privati cittadini possono mandare osservazioni fino al 25 ottobre.

Delineare il futuro del modello di welfare mentre è ancora in discussione il modo in cui si attuerà il federalismo rischia di essere una scrittura sull’acqua. A meno di tentare di definire regole di cornice entro cui discutere di autonomie locali per quanto riguarda da un lato il sistema di governance delle politiche sociali - chi è responsabile di che cosa e attraverso quali meccanismi decisionali -, dall’altro i livelli essenziali dei servizi. Ma i secondi sono solo evocati, aspettando ancora una definizione a ormai otto anni dall’approvazione della legge quadro di riforma dell’assistenza. Solo due punti sono chiaramente e giustamente ribaditi: non si può partire semplicemente dalla spesa storica per definire l’attribuzione di risorse; le differenze regionali nella efficienza della spesa e nel costo delle prestazioni non sono accettabili. Il paragrafo sulla governance è quanto di più confuso e imbarazzato ci sia nel documento, con maggiore attenzione per i soggetti altri (i sindacati, le imprese, l’associazionismo, le famiglie e via discorrendo) che non per i rapporti, appunto tra i diversi livelli di governo in uno stato federale.

Quanto alle proposte di contenuto, esse sembrano fortemente concentrate sulla partecipazione al mercato del lavoro e poco altro: un po’ di nidi in più, un po’ di integrazione socio-sanitaria per gli anziani non autosufficienti. Il tema della conciliazione tra responsabilità famigliari e partecipazione al mercato del lavoro, quindi di come soddisfare i bisogni di cura di piccoli e non autosufficienti in una società in cui tutti gli adulti sono al lavoro per un tempo più lungo, è pressoché ignorato. Per questo non si vede che il problema della bassa partecipazione al mercato del lavoro nel nostro Paese non deriva innanzitutto, come invece si sostiene, da un uso distorto degli ammortizzatori sociali e dall’esistenza di un welfare troppo generoso, ma dal fatto che per le donne è molto difficile conciliare tutto in assenza di servizi, di orari di lavoro più amichevoli, di uomini più collaborativi. Siamo un Paese in cui l’intero sistema di welfare è retto, prima che sulle pensioni, sul lavoro gratuito delle donne e sulla solidarietà famigliare. Gli stessi estensori del documento non considerano neppure la spesa per le famiglie come uno degli elementi che dovrebbero avere più peso nella spesa sociale e viceversa evocano «la famiglia» continuamente come risorsa potenzialmente inesauribile, ancorché messa in pericolo «dalla crisi dei valori».

La cecità nei confronti dell’effettivo funzionamento delle famiglie emerge chiara anche quando si parla di politiche per gli anziani non autosufficienti. Sembra di essere in un altro Paese: non si parla della soluzione privata delle badanti immigrate ed eventualmente di come regolarla nel rispetto dei diritti di tutti. Del resto, gli immigrati e l’immigrazione come tale sono del tutto assenti da questa visione della «buona vita». Ci sono invece i poveri, «meritevoli» purché «estremi», o «ultimi». Si enuncia, meno male, che per questi qualche cosa bisognerà pur fare; anche se subito si dichiara che la sperimentazione del reddito minimo di inserimento è fallita. Facendo finta di ignorare che la sperimentazione doveva, come ha fatto, segnalare i problemi da risolvere per mettere appunto a regime uno strumento che esiste in quasi tutti i paesi europei, incluse Inghilterra e Germania evocate come benchmark nel documento.

da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Settembre 25, 2008, 11:58:43 am »

25/9/2008
 
Le nuove famiglie e diritti Doc
 
CHIARA SARACENO

 
La famiglia è un luogo denso di norme, di conflitti sulle norme e tra soggetti che rivendicano la propria legittimità a definire quali rapporti la costituiscano, quale forma essi debbano assumere, quali doveri e diritti ne derivino. Verrebbe da dire che la famiglia è l’istituzione più intenzionalmente costruita, meno «naturale» che ci sia. Normare la famiglia non è solo il modo per regolare i rapporti privati tra gli individui, i sessi e le generazioni, definendo quali sono legittimi e socialmente rilevanti e quali no ed entro quali forme di dipendenza, interdipendenza, autorità. Costituisce anche la base per regolare molti altri rapporti sociali: dalla modalità di trasmissione dei patrimoni alle forme di accesso alle istituzioni di protezione sociale (pensione di reversibilità, assistenza sanitaria, ad esempio) fino all’accesso alla cittadinanza. Per questo vi è stato sempre e dovunque un forte interesse sociale e politico nella regolazione della famiglia. Ciò è particolarmente evidente nelle società più autoritarie, ove lo stesso controllo della sessualità e l’attività riproduttiva entro la famiglia sono oggetto di prescrizioni e divieti, in nome del superiore interesse dello stato. Ma è evidente anche in società più democratiche e liberali, ove l’accesso allo status di coppia, alla possibilità di sciogliere la coppia, allo status di figlio legittimo e così via sono oggetto di regolazione; perché da queste forme di riconoscimento o non riconoscimento derivano conseguenze sociali.

Ciò che cambia da una società all’altra sono i soggetti cui è riconosciuto il potere normativo e l’interesse da difendere: parentele, chiese, stato, etnie, i singoli individui. In particolare, nelle società occidentali democratiche i diritti degli individui e la loro capacità di definire le loro relazioni familiari hanno trovato crescente riconoscimento. Nella maggior parte dei Paesi occidentali il rispetto della volontà e della capacità degli individui di definire quali sono per loro le relazioni famigliari, per le quali si assumono pubblicamente responsabilità, oggi costituisce l’interesse prevalente, ancorché non esclusivo, nelle norme giuridiche che regolano la famiglia. Ciò non è, ovviamente, senza problemi, perché gli interessi in gioco possono essere in conflitto. Per questo le norme dovrebbero sempre prevedere tutele per chi nella relazione è più debole, in primis i figli minori. Ciò che non avveniva, e in Italia in parte ancora non avviene, ad esempio nel caso dei figli naturali. Ancor più nel caso di figli di coppie lesbiche, che nel nostro Paese sono di fatto condannati per legge ad essere privi di un genitore.

Le norme che regolano la famiglia e i rapporti di sesso e di generazione continuano a rimanere molto diverse anche solo all’interno dell’Unione Europea su punti cruciali: le obbligazioni tra parenti, il riconoscimento delle coppie di fatto etero ed omosessuali, le norme sull’adozione e quelle sullo scioglimento del matrimonio, la regolazione della fecondazione assistita. Per questo i diritti famigliari sono tra i meno «portabili» entro l’Unione Europea. Un Pacs fatto in Francia, l’adozione di un bambino da parte di una persona non sposata fatta in Romania, sono carta straccia in Italia. E quando una coppia con nazionalità diverse si separa, l’affidamento dei figli può divenire una questione intricata di rapporti internazionali.

Non è comunque casuale che i paesi che lasciano più spazio alla diversità dei modi in cui gli individui «fanno famiglia» sono quelli in cui è più leggero il ruolo dell’appartenenza famigliare come mediatrice di una serie di diritti sociali e i diritti individuali sono più consolidati. In un Paese come il nostro, in cui alla famiglia è affidato un ruolo pesante di mediatrice di diritti e di fornitrice di risorse, allargare i confini giuridici di che cosa è famiglia può avere effetti ben al di là dei rapporti interpersonali, fino ad incidere sul bilancio pubblico (si pensi alle pensioni di reversibilità). Ma ciò che è in gioco non è né la natura né la moralità, piuttosto la regolazione della divisione delle responsabilità tra diverse istituzioni sociali.

Sintesi della relazione su «Le nuove famiglie» che Chiara Saraceno terrà domani a Piacenza, al Festival del diritto
 
da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Novembre 05, 2008, 08:14:28 am »

5/11/2008
 
Più disoccupati allarme povertà
 
CHIARA SARACENO

 
Un tasso di povertà inchiodato da anni attorno all’11% delle famiglie e al 13% degli individui. Una distribuzione della povertà altrettanto inchiodata alle caratteristiche di sempre: concentrata al Sud, tra le famiglie numerose, ma anche tra le persone sole anziane, specie donne, tra le famiglie in cui la persona di riferimento è a bassa istruzione, e se è disoccupata. È il quadro che emerge dai dati diffusi ieri dall’Istat. Certo meno sparati e drammatici di quelli presentati un mese fa dal Rapporto Caritas, che stimava, con qualche eccesso d’immaginazione statistica, che un quarto della popolazione fosse a rischio di povertà.

È proprio questa persistenza e immodificabilità ad apparire sconfortante e a segnalare il fallimento delle politiche sia del lavoro che del sostegno alle famiglie con figli, che del sostegno all’occupazione femminile soprattutto tra i ceti più modesti, che infine del sostegno a chi si trova disoccupato senza appartenere alle categorie protette dagli ammortizzatori sociali. Si stima che siano in queste condizioni circa un milione e mezzo di lavoratori «atipici». E il loro numero è destinato ad aumentare nei prossimi mesi, dato che saranno i primi a essere licenziati («non rinnovati»), mentre le aziende affronteranno la recessione. Aggiungiamo che tutti i confronti internazionali, ultimo quello del rapporto Ocse di qualche settimana fa, segnalano che l’Italia non è solo uno dei paesi sviluppati più disuguali, ma anche quello in cui chi è povero lo è più a lungo, proprio per la scarsa efficienza, quando non assenza, delle politiche che dovrebbero contrastarla: sostegni al reddito dei poveri e di chi ha carichi familiari, investimento nella istruzione mirato a migliorarne la qualità e a contrastare le disuguaglianze dei punti di partenza, politiche di sviluppo locale e così via.

Accanto al dato della stabilità, un altro dovrebbe far riflettere alla luce di quanto è successo quest’anno (i dati infatti si riferiscono al 2007) e di ciò che succederà nei prossimi mesi. Si notano infatti piccoli segnali di peggioramento proprio nei gruppi sociali e nei tipi di famiglie che tradizionalmente presentano tassi di diffusione della povertà molto più bassi della media: le coppie con un solo figlio, le famiglie con persona di riferimento alle soglie della età pensionabile, con un’età compresa tra 55 e i 64 anni, tra le famiglie con due o più anziani. L’inflazione ha eroso i redditi modesti, ma prima adeguati. La perdita del lavoro quando si ha un’età matura, nonostante la retorica sul prolungamento della vita attiva, rende difficile ritrovarlo e continuare a costruirsi la pensione. La precarietà dei redditi dei giovani adulti che costringe le famiglie a integrare come possono. Questi fenomeni gettano le loro ombre anche sulla modesta sicurezza di gruppi finora relativamente protetti e si fanno tanto più minacciose nella congiuntura attuale. Si deve anche tener presente che l’Indagine Istat su cui questi dati si basano, essendo campionaria, non riesce a cogliere ciò che succede a tra le famiglie immigrate, anche di quelle regolari e che pagano le tasse, che in media hanno meno riserve su cui contare.

È difficile mettere mano a un profondo mutamento di rotta in un momento di crisi. Soprattutto sono difficili politiche di grandi, radicali investimenti. Ma si dovrebbe evitare di fare interventi di piccolo cabotaggio, dispendiosi quanto inutili e a rischio di produrre nuove disuguaglianze. Meglio razionalizzare la spesa esistente per renderla più efficiente ed equa. Davanti al rischio d’un forte aumento della disoccupazione occorre almeno eliminare gli steccati tra garantiti e non garantiti, con la riforma degli ammortizzatori sociali che è annunciata da anni. Invece d’inventarsi detassazione di straordinari o della tredicesima, occorre intervenire in modo sistematico ed equo sul fiscal drag e sul credito d’imposta per i più poveri. E invece d’inventarsi un qualche nuovo bonus bebé, sarebbe il caso di pensare a una riforma seria degli assegni al nucleo famigliare.
 
da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Novembre 08, 2008, 09:12:12 am »

8/11/2008
 
Vite sospese da burocrati sciatti
 
CHIARA SARACENO

 
In una provincia toscana una giovane coppia decide d’investire non nella carriera, ma in un progetto di miglioramento della qualità della vita, per sé ma anche per l’ambiente. Acquista un fondo agricolo lasciato andare in rovina, con un rustico da ristrutturare, e inizia la procedura per ottenere i vari permessi ai diversi enti coinvolti: Comunità montana, Comune, Provincia. Nel frattempo si adatta come può a vivere nel rustico e inizia a ripristinare il fondo agricolo. A un anno di distanza dall’apertura della procedura e 400 pagine di documentazione dopo, è ancora in attesa d’una decisione. L’ultimo ente che deve decidere - la commissione edilizia della Provincia - prima ha perso la documentazione, costringendo a ripresentarla con gli inevitabili costi aggiuntivi, poi non ha ancora trovato il tempo di riunirsi. Informalmente molti consigliano alla coppia di procedere comunque: tanto, nel peggiore dei casi prima o poi arriverà un condono. Ma i due giovani credono nella legalità e non accolgono il consiglio.

Non possono tuttavia neppure presentare proteste formali, per timore di inimicarsi impiegati e architetti responsabili del ritardo. Così il loro progetto di vita rimane sospeso, non sanno se il loro investimento, anche finanziario, potrà andare avanti, e si preparano ad affrontare un nuovo inverno in una situazione di precarietà.

Un’altra coppia decide di avviare le procedure per l’adozione di un bambino. Proprio per evitare l’eccessiva lunghezza dell’iter che porta, prima che all’adozione, al riconoscimento delle capacità dei candidati genitori ad adottare, una norma recente ha stabilito che l’istruttoria territoriale - gli accertamenti da parte dei servizi sociali e dello psicologo - debbano avvenire entro tre mesi al massimo. Dato che a quattro mesi circa dalla domanda nulla ancora si è mosso, la coppia chiede informazioni ai servizi sociali. Solo dopo il sollecito la procedura si mette in moto. Ma a sei mesi di distanza non è ancora conclusa: i risultati non sono stati ancora comunicati né alla coppia né al tribunale dei minori che deve prendere la decisione finale. Anche in questo caso un progetto di vita rimane sospeso a tempo indeterminato. E anche in questo caso la coppia non può protestare, perché teme di inimicarsi coloro che devono stendere la relazione.

Ci lamentiamo, giustamente, della lentezza della giustizia. Ma la nostra vita, i nostri progetti vengono continuamente rallentati e talvolta distrutti non tanto dalla burocrazia in sé, ma dalla trascuratezza dei piccoli, oltre che dei grandi, decisori. Qualsiasi impiegato abbia il più piccolo potere decisionale su una fase qualsiasi di una procedura può ritardarla con la quasi garanzia dell’impunità. Perché le vittime - i cittadini che da quella decisione dipendono - si sentono sotto ricatto. Certo, ci sono gli ombudsman o difensori civici; ci sono le regole che impongono di nominare il responsabile del procedimento. Ma se il cittadino non ha garanzie che la protesta non si ritorcerà contro di lui, difficilmente vi farà ricorso. Piuttosto, mentre gli onesti si vedono costretti a sospendere i progetti, altri possono sentirsi legittimati a intraprendere vie traverse. In entrambi i casi alimentando quell’enorme spreco di fiducia che sembra caratterizzare i rapporti tra Stato e cittadini a ogni livello. Soprattutto, producendo quell’insieme di lentezza esasperante e di anarchia che troppo spesso caratterizza il Paese.

Temo che per ovviare a questa situazione non bastino i tornelli. Esempi al contrario, di certezza dei tempi delle procedure, di rispetto per i diritti dei cittadini ad avere risposte certe in tempi ragionevoli, segnalano che occorre non solo un’organizzazione più efficiente, ma una cultura amministrativa che sia rigorosa nell’applicazione delle norme e consapevole d’essere al servizio dei cittadini, non investita di un potere discrezionale su di loro.

da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Novembre 22, 2008, 12:18:00 pm »

22/11/2008
 
La pensione non ha sesso
 
CHIARA SARACENO

 
Un’età più bassa alla pensione per le donne costituisce non un privilegio, ma una forma di discriminazione che si aggiunge a quelle che le donne devono già subire sul mercato del lavoro per essere, appunto, donne e le maggiori responsabili del lavoro famigliare. È quanto stabilito da una sentenza dalla Corte di Giustizia Europea che ha condannato l’Italia per questo. La pronuncia della Corte riguarda per ora solo il settore pubblico, in quanto la causa a questo si riferiva. Ma il suo effetto inevitabilmente si allargherà anche al settore privato, a meno che non si voglia arrivare a una seconda condanna. In particolare la Corte ha respinto l’argomentazione italiana secondo la quale la fissazione di un’età diversa a seconda del sesso è giustificata dall’obiettivo di eliminare discriminazioni a danno delle donne. Andare in pensione prima, ritengono i giudici lussemburghesi, «non compensa gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici donne e non le aiuta nella loro vita professionale né pone rimedio ai problemi che possono incontrare nella loro vita professionale». In effetti è davvero paradossale il consenso che in Italia si trova - nei diversi governi che si sono succeduti, nei sindacati, ma anche tra molte femministe e tra le cosiddette persone comuni - sull’idea che un’età della pensione più bassa compensi non solo discriminazioni nel mercato del lavoro, ma soprattutto il fatto che le donne si fanno carico della maggior parte del lavoro famigliare e di cura. Andare in pensione prima significa spesso andare in pensione con una minore anzianità contributiva. A causa di ciò, viene ulteriormente compressa una pensione già mediamente ridotta, rispetto a quella dei coetanei maschi, a causa di carriere più corte, quindi salari più bassi, dovute non solo alle discriminazioni sul mercato del lavoro, ma ad una divisione del lavoro familiare fortemente asimmetrica e con pochi sostegni da parte dei servizi. Non a caso l’incidenza della povertà tra le donne anziane che vivono sole è più alta della media.

Per non parlare del fatto che spesso la motivazione implicita dell’età più bassa alla pensione non è una compensazione tardiva della discriminazione e del doppio lavoro - remunerato e non - fatto da molte donne per buona parte della vita adulta, bensì la necessità di avere persone disponibili a soddisfare le necessità di cura lasciate scoperte dai servizi, appunto, mancanti: come nonne di nipotini i cui genitori sono entrambi occupati, come figlie e nuore di grandi anziani fragili, come mogli di uomini spesso più vecchi di loro. Ovvero, in cambio di una pensione più bassa, ancorché fruita per un periodo mediamente più lungo, anche da anziane ci si aspetta da loro che continuino a prestare cura. Meglio, molto meglio, equiparare l’età alla pensione, ma anche i salari e le opportunità di carriera. E contestualmente fare due operazioni sul piano del lavoro di cura: aumentare i servizi e riconoscere l’attività di cura prestata per famigliari non autosufficienti per età o grave invalidità. Oggi per ogni figlio vengono riconosciuti tre mesi di contributi figurativi: un riconoscimento irrisorio (in Germania un figlio «vale» un anno di contributi), tanto più che i mesi di congedo genitoriale non sono coperti da contributi oltre ad essere compensati pochissimo. E nulla viene riconosciuto a chi si occupa intensivamente di un invalido. Anzi Brunetta vuole anche togliere i tre giorni di congedo al mese attualmente disponibili. Riconoscere tempo, denaro e contributi a chi ne ha bisogno perché - donna o uomo - svolge un’attività preziosa sembra più efficiente e più equo che regalare tempo a basso prezzo ex post e in modo generico alle donne in quanto donne. Non si parlerebbe più di «donne» e «uomini», ma di chi fa anche attività di cura e chi no.

da lastampa.it
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« Risposta #12 inserito:: Gennaio 10, 2009, 06:34:31 pm »

10/1/2009
 
Concorsi come foglie di fico
 
CHIARA SARACENO
 

Un merito va riconosciuto al ministro Gelmini: aver provocato una discussione pubblica, all’interno dello stesso sistema universitario, sul sistema di reclutamento e di valutazione della ricerca. Non ci sono mai stati tanti articoli sull’argomento e anche franche contrapposizioni, da parte di docenti. La fretta, la procedura d’urgenza, una certa idea dei professori come tutti tendenzialmente imbroglioni, rischia però di aver prodotto una soluzione non migliore e forse peggiore di quella che si voleva emendare riguardo al reclutamento (per la valutazione viene opportunamente rimandato a una definizione dei criteri). Non si è avuto il coraggio di affrontare i veri nodi del reclutamento: il concorso e la divisione delle competenze in settori disciplinari, la cui logica e contenuto sono spesso frutto di alchimie che poco hanno a che fare col rigore scientifico. Affidare la valutazione a un’estrazione a sorte dei commissari non garantisce dall’arbitrio (o dal clientelismo). Invece del pupillo di X vincerà quello di Y, miracolato dall’estrazione. Il sistema non risponde neppure al problema, ignorato nelle varie riforme dei concorsi, di come far sì che le facoltà che hanno bandito il concorso possano avere, senza dover fare operazioni sottobanco, non la persona che vogliono, ma quella che ha le specifiche competenze di cui hanno bisogno. Una facoltà che ha bisogno di un esperto di metodi quantitativi si può ritrovare un etnometodologo o un esperto di politiche sociali, per il solo fatto che queste competenze sono state raggruppate nello stesso settore disciplinare. Ha solo il diritto di non chiamare uno dei vincitori. Come se un’azienda cercasse un ingegnere aeronautico e si trovasse ad assumere, per decisione esterna, solo tra, bravissimi, ingegneri gestionali.

Nella maggioranza dei paesi europei e anche negli Stati Uniti, spesso evocati come modello da imitare, non esiste il concorso. Le persone sono reclutate - attraverso bandi pubblici - con un sistema che, nelle sue variazioni nazionali, in Italia verrebbe definito non universalistico, localistico, se non peggio. Ma che a differenza di quello italiano garantisce sia trasparenza nei criteri e nelle procedure che efficacia rispetto all’obiettivo di trovare il candidato migliore per la posizione disponibile. Sono le facoltà, e i docenti di un determinato gruppo di discipline, o i gruppi di ricerca, a definire il profilo scientifico e le qualificazioni richieste e a operare una prima selezione sulla sola base dei curricula. I candidati che la superano (un numero raramente superiore a 10) sono invitati a presentarsi per un colloquio in un contesto aperto a tutti gli interessati. Quanto più elevato è il livello, tanto più complesse le prestazioni richieste in questa fase, al contrario di quanto avviene in Italia: oltre al colloquio, un aspirante professore ordinario (o un professore già ordinario che vuole cambiare università) deve tenere un seminario pubblico, per essere valutato anche dagli studenti, oltre che dai potenziali colleghi. Tutto ciò consente di reclutare, con procedura pubblicamente controllabile, non la persona astrattamente migliore, ma quella migliore per quel posto.

Anche con questo metodo possono operare personalismi e relazioni di potere. Ma la pubblicità delle procedure da un lato, il fatto che il prestigio scientifico di una facoltà conti sia sul piano dei finanziamenti che su quello delle iscrizioni degli studenti e sulle loro chances nel mercato del lavoro, costituiscono un potente strumento di controllo e di deterrenza da procedure troppo disinvolte. Non è che negli altri paesi i docenti sono per virtù innata più onesti o più rigorosi degli italiani. Hanno un altro sistema di incentivi. Sono questi da cambiare, eliminando il concorso, foglia di fico di un universalismo nel migliore dei casi astratto, nel peggiore finto. Tutto il resto è inutile accanimento terapeutico.
 
da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Febbraio 03, 2009, 10:27:00 am »

3/2/2009
 
Social card fuori bersaglio
 
CHIARA SARACENO
 

A fronte di una previsione di circa 1.300.000 beneficiari, la social card è stata richiesta e ottenuta solo da mezzo milione di persone, con una forte concentrazione nel Mezzogiorno. Mentre la Lega protesta,si avanza l’ipotesi che la povertà nel Paese non sia affatto così diffusa come indicherebbe l’Istat sulla base dei dati sui consumi (ma se si utilizzassero quelli sui redditi i poveri risulterebbero ancora di più), che parlano di 7 milioni 542 mila individui e 2 milioni 653 mila famiglie povere. In realtà lo scarto tra i beneficiari della social card e il numero di poveri stimato non smentisce affatto l’Istat. Segnala solo come il disegno della social card non sia stato per nulla basato su un’analisi delle caratteristiche dei poveri nel Paese. Solo lo squilibrio a favore del Mezzogiorno corrisponde alla caratteristica saliente della diffusione della povertà in Italia: la sua concentrazione nelle regioni meridionali. Rispetto a una media nazionale di 11 famiglie povere su 100, sono povere 22,5 famiglie su 100 nel Mezzogiorno, 6,4 al Centro, 5,5 al Nord.

Lo scarto tra il numero di social card distribuite e quelle stimate non è spiegabile né con errori nella stima dei poveri né, come sostiene l’opposizione, con le difficoltà delle procedure per ottenerla, che non sono superiori a quelle connesse alla richiesta di qualsiasi sussidio o per definire la quota di pagamento del nido; anche se può esserci una sproporzione tra il lavoro amministrativo richiesto e il beneficio erogato. Non è spiegabile neppure con la riluttanza a chiederla da parte di chi si vergogna: un fenomeno da non sottovalutare quando si tratta di assistenza. Il fatto è che la social card non solo definisce una soglia di povertà più bassa di quella utilizzata per le stime, e quindi individua solo le condizioni di povertà in linea di principio più gravi. È anche largamente fuori bersaglio rispetto alle caratteristiche degli individui e delle famiglie dove si concentra la povertà in Italia: gli anziani soli e in coppia, ma soprattutto, e in maggior misura, le coppie con due e più figli.

È povero rispettivamente il 14 e il 22 % delle coppie con due e con tre o più figli, rispetto al 12 % degli anziani soli e al 13,5% delle coppie anziane. Non è l’età dei figli, ma il loro numero che fa la differenza, anche se la presenza di almeno un figlio minore, a parità di numero complessivo, aggrava la situazione. La social card invece è riservata solo agli anziani ultrasessantacinquenni con un reddito ISE fino a 6000 euro l’anno (8000 se ultrasettantenni) e alle famiglie con un bambino sotto i 3 anni e reddito ISE fino a 6000 euro l’anno. Anche sorvolando sull’importo ridotto della social card (40 euro mensili) e sull’assunto implicito del legislatore secondo cui un bambino piccolo costa meno di un settantenne e soprattutto cessa di mangiare appena compie tre anni, è chiaro che questo disegno della social card manca quasi totalmente il bersaglio. Una stima effettuata da Paola Monti su lavoce.info mostra che, se valessero solo i criteri di reddito e non anche quelli di età, ci sarebbe un 74%, ovvero circa un milione 400 mila famiglie beneficiarie in più, prevalentemente composte da famiglie con figli. A questi dovremmo aggiungere i senza dimora e gli immigrati poveri, che non rientrano nelle stime né tra gli aventi diritto alla social card. I primi perché, non avendo una residenza ufficiale, oltre a non essere rilevati nelle indagini standard, non possono chiedere la social card anche se hanno requisiti di reddito e di età; i secondi perché anche se avessero tutti i requisiti sono esclusi in via di principio.

Sarebbe davvero paradossale se, dopo aver prodotto una misura di sostegno alla povertà d’importo modestissimo e fuori bersaglio, si utilizzasse il parziale fallimento non per ridisegnarla in modo più adeguato alla realtà e al bisogno, ma per legittimare la persistente assenza nel nostro Paese di politiche serie di sostegno al reddito dei poveri.
 
da lastampa.it
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« Risposta #14 inserito:: Febbraio 07, 2009, 03:42:19 pm »

7/2/2009
 
L'arcipelago dei licenziati
 
CHIARA SARACENO
 

Il bollettino quotidiano delle aziende che chiudono o licenziano o mettono in cassa integrazione o non rinnovano i contratti, disegnando un arcipelago drammatico e frastagliato nelle tutele e nelle assenze di tutele, ha messo ancora una volta in evidenza i limiti del sistema di protezione italiano, sia nei suoi aspetti di welfare lavoristico che per quanto riguarda il sostegno del reddito dei poveri. Nessuno più si sente di negare che esiste un problema di tutele su entrambi i versanti: per chi perde il lavoro e per chi non l’ha ancora avuto, o ne trae un reddito insufficiente a mantenere sé e la famiglia. Ciò indurrebbe a sperare che governo e sindacati affrontassero finalmente la riforma degli ammortizzatori sociali di cui si parla da oltre un decennio e su cui si sono esercitate diverse commissioni. Da ultimo anche l’indagine sul lavoro presieduta da Pierre Carniti, che ha concluso i lavori in queste settimane nella disattenzione generale e in particolare del Parlamento, che pure l’aveva istituita.

In Italia una miriade di istituti proteggono in modo molto diverso chi perde il lavoro a seconda del tipo e ampiezza dell’azienda e a seconda del contratto di lavoro. A fine dicembre, quando la situazione ha incominciato a farsi drammatica, uno studio di Berton, Richiardi e Sacchi pubblicato su la voce.info stimava che dei 305 mila lavoratori con contratto atipico (apprendisti, interinali, lavoratori a progetto) cui stava per scadere il contratto, neppure il 38% avrebbe beneficiato della pur modesta indennità di disoccupazione. Nel frattempo se ne sono aggiunti molti altri. Anche tra i lavoratori a tempo indeterminato, a seconda dell’azienda si può accedere alla cassa integrazione straordinaria o alla sola indennità di disoccupazione, di importo e durata inferiori.

Nel documento della Commissione di indagine sul lavoro, dedicato a «regolazione, welfare e politiche attive del lavoro», dopo un’accurata analisi sia di quanto avviene negli altri paesi europei, sia della situazione italiana, viene avanzata una proposta simile a quanto da tempo trova consenso tra gli esperti: l’unificazione dei diversi sistemi d’indennizzo della disoccupazione in un’indennità universale (e d’importo adeguato) per tutti coloro che hanno perso il lavoro superando la frammentazione attuale e anche l’uso improprio della cassa integrazione straordinaria, unitamente all’introduzione di un reddito minimo per coloro che si trovano in povertà. Il tutto accompagnato a politiche attive del lavoro che impegnino i beneficiari dell’una e dell’altra misura ad attivarsi per trovare un lavoro (purché ci sia) o a migliorare e riqualificare il proprio capitale umano.

Ci si potrebbe aspettare che una proposta così sensata e in linea con quanto avviene negli altri paesi europei e coerente con quel modello di flexisecurity che cerca di coniugare mobilità nel mercato del lavoro con protezione del reddito trovasse ascolto. Che, a fronte della crisi in atto, le misure prese andassero nella direzione di facilitarne l’attuazione, almeno per gradi, con l’obiettivo di realizzare una rete di protezione più equa e più efficace. Invece no. Sul fronte della disoccupazione, il governo (ma anche parte dei sindacati) preferiscono procedere con «allargamenti in deroga» degli istituti esistenti, creando ancora nuove categorie con la loro protezione speciale, e nuovi esclusi da quelle stesse protezioni. Sul fronte del sostegno al reddito dei poveri, si sta procedendo tra una tantum (il bonus fiscale) e la social card. Di quest’ultima, che avrebbe potuto prefigurare, nonostante il suo importo risibile, il primo mattone di un reddito di ultima istanza, sono noti i limiti di disegno, che lasciano fuori la maggior parte dei poveri proprio per non aver rinunciato ad un approccio categoriale (gli anziani, i bambini sotto i tre anni). Proprio i momenti di grande crisi, destabilizzando certezze, costituiscono un’opportunità per le riforme. Ma queste sono possibili solo se si abbandonano le tentazioni clientelari che caratterizzano da sempre il nostro sistema di welfare.

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