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Autore Discussione: CHIARA SARACENO  (Letto 10328 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Febbraio 28, 2009, 10:41:57 am »

28/2/2009
 
La sconfitta delle donne
 
CHIARA SARACENO
 

Negli Anni 70 il movimento delle donne lanciò l’iniziativa «riprendiamoci la notte». Contro l’idea che qualsiasi donna si trovasse fuori casa di notte, specie se non accompagnata da un uomo, era potenzialmente una puttana o comunque una preda disponibile, si rivendicava orgogliosamente la legittimità della presenza delle donne nello spazio pubblico, anche di notte. Era un’affermazione del diritto alla libertà di movimento e di azione, il rifiuto della necessità di dover sempre ricorrere alla protezione, quindi alla dipendenza, di un uomo. Era accompagnata da un altro slogan ironico - «tremate, tremate, le streghe son tornate» - che giocava sull’ambivalenze con cui venivano, e vengono, guardate le donne libere e padrone di sé. Non è infatti un caso che l’espressione «donna libera» evochi immagini di trasgressioni e bassa moralità, non di autonomia.

Trent’anni dopo, la richiesta di «riprendere la notte» è sostituita nel discorso pubblico dalla richiesta delle ronde, dei «protettori». Le donne sono tornate nel ruolo di vittime da proteggere, ma anche potenzialmente chiudere in spazi, appunto, protetti. Ma quali? E chi può garantire protezione? Oltre alla notte dovremmo riprenderci anche il giorno, e oltre alle strade e ai parchi anche le case, ove continua ad avvenire il maggior numero di violenze, anche sessuali, contro le donne di ogni età e contro i bambini di entrambi i sessi.

E nessuno garantisce che chi si candida a proteggere in pubblico non sia un aggressore in privato. Al contrario, l’affidamento di un ruolo pubblico di protettore può rafforzare in alcuni l’idea che le donne siano una proprietà privata da difendere dagli altri uomini, anche contro loro stesse. Non sono rare violenze tra uomini motivate da uno sguardo o una parola sbagliata rivolta alla «donna di un altro». E troppo spesso la reazione contro gli autori di violenze in luoghi pubblici è stata l’invocazione di poter fare giustizia da sé, della consegna dello stupratore agli uomini di famiglia della vittima. Attribuire alle donne lo status di vittime potenziali non giova né alla loro sicurezza né alla loro libertà. Il fatto che si autocandidino anche ronde femminili sposta di poco la questione, anche se toglie il monopolio maschile ai «protettori».

Ciò non significa che non si debba fare nulla di fronte alla mattanza che miete vittime di ogni età con ritmo pressoché quotidiano, da parte di italiani come di stranieri, rimandando al, pur necessario, lavoro culturale ed educativo per modificare comportamenti. Non si tratta solo d’inasprire, e rendere certe, le pene. Occorre anche rendere ragionevolmente sicuri, per tutti, almeno gli spazi pubblici tramite un controllo diffuso e costante del territorio con mezzi normali: illuminazione; esercizi pubblici diffusi e aperti; il vigile o il poliziotto di quartiere di cui periodicamente si parla, ma che raramente decolla (e che ora sembrerebbe sostituito dalle ronde di quartiere), con una particolare attenzione per le aree e le ore più a rischio; mezzi pubblici che non abbiano fermate perse nel nulla e che di notte siano non solo più frequenti, ma autorizzati anche a fermate supplementari e che possano collegarsi, come avviene già in alcune città, ad un servizio taxi.

Ma fa parte della sicurezza degli spazi pubblici anche una diffusa coscienza e comportamento civico, per cui ciascuno si sente responsabile di ciò che succede nel proprio spazio, non facendo il poliziotto, ma il cittadino vigile e solidale. Fa impressione che dilaghi la domanda e l’offerta di ronde in un contesto comportamentale in cui si può essere aggrediti a scuola o per strada senza che nessuno muova un dito, perché è meglio farsi i fatti propri; in cui chi assiste a un borseggio in autobus tace, fin che il fatto è avvenuto e il borseggiatore se n’è andato. È l’omertà unita a indifferenza e paura diffuse che rende pericoloso lo spazio pubblico, per le donne, ma anche per tutti coloro che per età o altro appaiono vulnerabili.

da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Maggio 03, 2009, 12:01:23 pm »

23/4/2009


Il metro della miseria

di Chiara Saraceno - da La Repubblica


Come si misura la povertà e come si identificano i poveri? È una questione molto dibattuta non solo dai ricercatori, ma anche dai policy makers. E non vi è un'unica risposta "giusta". Dipende da quale è il livello di disuguaglianza ritenuto accettabile in un dato contesto. Compito degli studiosi e dei tecnici è evidenziare le opzioni possibili e mettere a punto gli strumenti adeguati a ciascuna opzione. Compito dei policy makers dovrebbe essere quello di basare le proprie scelte di contrasto alla povertà non su idee precostituite o soggettive su chi siano i poveri, ma di effettuare una scelta sul livello di povertà che ritengono inaccettabile e poi indirizzare i propri strumenti verso coloro che si trovano sotto quel livello.

Purtroppo in Italia le cose non vanno così. Si mettono in campo misure frammentate, per lo più di entità irrisoria e soprattutto che mancano il bersaglio. Perché i policy makers non tengono in pressoché nessun conto le evidenze empiriche disponibili. L'ultimo esempio sono stati il bonus fiscale e la social card. Soprattutto la seconda, è stata richiesta da molte meno persone di quanto preventivato, al punto che il finanziamento per essa accantonato verrà dirottato a finanziare altre emergenze. Non perché i poveri manchino in Italia, ma perché le categorie individuate dalla social card includono solo una frazione dei poveri.

Da oggi, volendo, i decisori politici dispongono di uno strumento ancora più preciso per stimare chi, nel nostro paese è sicuramente povero e quindi verso chi vanno prioritariamente dirette le misure di sostegno al reddito. Dopo una lunga gestazione, l'Istat ha messo a punto, con la collaborazione di una commissione di esperti, un metodo per misurare la povertà assoluta. Ovvero l' incapacità di acquisire i beni e i servizi che permettono di evitare gravi forme di esclusione sociale: una alimentazione adeguata secondo le indicazioni dell'Istituto nazionale della nutrizione, una abitazione di ampiezza e standard pari a quelli utilizzati dalle Asl per concedere l'abitabilità e dotata degli elettrodomestici di base, la possibilità di far fronte alle spese di base per l'istruzione, i trasporti, il vestiario, la salute e minimi consumi culturali.

Si tratta di necessità che accomunano tutti coloro che abitano nel nostro paese, ma che variano a seconda dell'età (e nel caso dell' alimentazione anche del sesso) delle persone: un adolescente ha necessità maggiori di un bambino piccolo e un anziano ha necessità alimentari più basse sia di un adolescente che di un adulto, mentre forse avrà bisogno di scaldarsi di più e avrà più spese mediche. Il costo, infine, del paniere di beni così individuato varia di molto a seconda di dove si vive. Tenuto conto della dinamica dei prezzi a livello territoriale, ad esempio, un anziano che viveva da solo nel 2007 - ultimo anno per cui sono al momento disponibili i dati - aveva bisogno di 631,23 euro per acquistare quel paniere se viveva in un'area metropolitana del nord, di 465,07 se viveva in un area metropolitana del mezzogiorno, rispettivamente di 560,40 e 415,64 se viveva invece in un piccolo comune del nord o del mezzogiorno.

Questa attenzione sia per la differenziazione dei bisogni pur entro lo stesso paniere di beni essenziali, che per la differenziazione dei costi contribuisce a disegnare una mappa della povertà - assoluta - in parte diversa da quella cui siamo abituati e soprattutto da quella che ispira le scelte del governo. E' certo maggiore al sud; ma, tenuto conto delle differenze nel costo della vita, le differenze Nord-Sud si riducono rispetto a stime basate su una linea della povertà unica. Chi vive in affitto, pur essendo destinatario di pochissime e avare misure di sostegno, ha più del doppio della probabilità di essere povero di chi vive in proprietà, che viceversa è più spesso oggetto di misure di sostegno. Avere un solo figlio minore (anche sotto i tre anni) comporta un rischio di povertà inferiore alla media. Ma averne tre o più, anche sopra i tre anni, lo aumenta più di tre volte. Mentre essere anziano lo aumenta "solo" di meno di una volta e mezza.

Si vede bene quanto sia stata fuori bersaglio una social card dedicata solo agli anziani e ai bambini sotto i tre anni, a prescindere dal numero di fratelli. Uno strumento prezioso per meglio mettere a fuoco le politiche, che offre anche buone ragioni per differenziare l'entità dei sostegni su base territoriale. Occorrerebbe solo che policy makers locali e nazionali ne tenessero conto.

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« Risposta #17 inserito:: Agosto 11, 2009, 11:36:09 am »

ECONOMIA     

Chi gioca con i salari

di CHIARA SARACENO


Dopo i sindacati, anche Confindustria ha osservato che già ora i salari ufficiali sono differenziati per ambito territoriale, anche dopo l'abolizione delle gabbie salariali: perché le aziende più grandi, dove i salari sono in media più alti, sono più diffuse al Nord e perché qui è anche più diffusa la contrattazione aziendale.

Viceversa, aggiungo io, al Sud è più diffusa, soprattutto nelle piccole aziende, la pratica di distinguere tra busta paga ufficiale e salario effettivo, con il secondo più o meno sostanziosamente più basso del primo. Fosse solo per questi motivi, non si capisce la ragione per cui il presidente del Consiglio si accoda a Bossi nell'auspicare la reintroduzione delle gabbie salariali, proprio nel momento in cui si autonomina a capo della riedizione della Cassa per il mezzogiorno.

Ma ci sono altri motivi, oltre a quelli di uno stato davvero liberale che non fissa per legge i limiti salariali e i loro confini geografici, che devono indurre a respingere ogni velleità di re-introduzione di salari territoriali. Il primo motivo è che le differenze del costo della vita non riguardano solo le grandi ripartizioni territoriali. Altrettanto grandi sono le differenze tra aree metropolitane, grandi città e piccoli comuni. Ad esempio, secondo i calcoli dell'Istat, lo stesso paniere di beni essenziali costa circa 195 euro in più al mese in un'area metropolitana del Nord rispetto a una del Sud e isole, ma anche 76 euro in più rispetto a un piccolo comune sempre del Nord. Per motivi di coerenza, occorrerebbe quindi differenziare i salari anche all'interno di ciascuna area territoriale. Il secondo motivo, più importante, è che non basta tenere conto del costo della vita misurato sui consumi quotidiani e abitativi per comparare il valore dei salari nelle varie zone del paese. Occorre tenere conto di almeno due altri elementi. Il primo è la quantità e la qualità dei beni pubblici disponibili nei vari territori: scuola, sanità, infrastrutture, trasporti, sicurezza, efficienza della pubblica amministrazione e così via. Anche questi, infatti, entrano nella valutazione del benessere dei singoli e delle famiglie, integrando le economie famigliari o viceversa, quando sono assenti o di cattiva qualità, rappresentando un costo aggiuntivo.

Il secondo motivo è che il valore del salario non va rapportato solo al costo della vita, ma anche al numero di persone che di esso deve vivere. È noto che nel Mezzogiorno non solo i salari sono mediamente più bassi che nel Centro-Nord (e lo stesso vale per le pensioni), ma devono bastare per famiglie mediamente più grandi, tanto più che, vista la situazione del mercato del lavoro, nel Mezzogiorno sono meno diffuse le famiglie con due o più percettori.

Secondo i dati dell'indagine europea sulla condizioni socio-economiche delle famiglie, tra le famiglie il cui reddito principale è da lavoro dipendente, quelle del mezzogiorno hanno un reddito medio netto, tenuto conto anche del possesso dell'abitazione, del 20,4% inferiore a quelle del Nord. Uno scarto superiore al 16% complessivo di differenziale nel costo della vita rilevato da Istat e Banca d'Italia che ha scatenato la polemica di questi giorni. Gli scarti sono particolarmente accentuati per alcuni tipi di famiglia, per altro più diffusi nel Mezzogiorno rispetto ad altre aree del paese. Una famiglia di quattro persone ha un reddito netto pari al 67,4% di una famiglia analoga del Nord e al 69% di una del Centro. Se ci sono due figli minori, il reddito famigliare è pari al 65% di quelle analoghe del Nord. Non stupisce che l'incidenza della povertà assoluta, misurata tenendo conto del costo della vita, sia più che doppia nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord.

Ma è soprattutto la diversa quantità e qualità dei beni pubblici a fare la differenza. Sappiamo come la scuola abbia sia infrastrutture che prestazioni più basse nel Mezzogiorno. I servizi per l'infanzia sono scarsi e spesso a metà tempo, così come la scuola elementare.

Di conseguenza, anche a fronte dell'esistenza di forti rischi ambientali, molte famiglie a reddito modesto preferiscono mandare i figli ad imparare un mestiere anche a scapito di un impegno scolastico di cui non vedono i benefici. Sappiamo anche che, nonostante alcune eccellenze, il servizio sanitario è spesso così scadente da costituire un rischio per la vita e da incoraggiare, in chi può, un turismo sanitario interregionale, con i costi aggiuntivi che questo comporta. A sud di Roma, i trasporti ferroviari e le autostrade assomigliano spesso a quelli di un paese del Terzo mondo. E l'efficienza della pubblica amministrazione è molto inferiore alla media, pur non eccelsa, nazionale.

Piuttosto che trastullarsi con l'idea delle gabbie salariali il governo dovrebbe intervenire sulla indegnità di "gabbie territoriali di beni pubblici", di cui è non marginale responsabile anche il ceto politico locale, presente e passato, spesso con l'uso improprio (clientelare) della Cassa per il Mezzogiorno. Lo stesso ceto che, in barba non solo alle gabbie salariali, ma anche ad ogni criterio di produttività, si assegna lauti compensi per il proprio malgoverno senza che nessuno pensi autorevolmente di intervenire.

(11 agosto 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #18 inserito:: Ottobre 09, 2009, 12:11:14 pm »

Silvio Berlusconi ha sempre detto di "adorare le donne"

Ma perde il senso del limite non appena lo contraddicono

Nelle offese a Rosy Bindi la"filosofia dell'utilizzatore"

Stupisce il seilenzio delle donne dei partiti di governo che accettano la logica sessista degli uomini del Pdl

di CHIARA SARACENO



 Il premier che "adora le donne", come ha graziosamente risposto al giornalista spagnolo che lo interrogava sulle sue frequentazioni, perde non solo le staffe, ma ogni senso della buona educazione e del limite appena una donna, una sua collega parlamentare e vicepresidente della camera, si permette di criticarlo. Nella cultura da caserma in cui sembra trovarsi a suo agio quando tratta di donne e con le donne, non gli basta insultarla genericamente come comunista mangiabambini, come fa di consueto con gli oppositori del suo stesso sesso.

Non può trattenersi dall'appoggiare il suo disprezzo ad un giudizio estetico. Confermando che per lui - per altro brutto, tinto e rifatto, oltre che piuttosto anziano - le donne si dividono in due categorie: quelle (per lui) guardabili e potenzialmente utilizzabili (se non già utilizzate), la cui intelligenza è eventualmente un optional e comunque non deve velarne il giudizio obbligatoriamente positivo nei suoi confronti, e tutte le altre. Le non convenzionalmente belle e le anziane sono accettabili solo se adoranti. Altrimenti cadono sotto la mannaia del giudizio di non esistenza.

Il leghista Castelli ha offerto un'altra variante della stessa cultura da caserma, scegliendo un altro topos classico, quello della zitella. Come se, tra l'altro, una donna senza un uomo fosse automaticamente una donna non voluta, non desiderata e non una che ha scelto di non avere un compagno (saggiamente, verrebbe da dire, se questi fossero gli unici tipi di maschi disponibili sul mercato). Per i leghisti, apparentemente, le donne non devono coprirsi il volto e il capo per motivi religiosi, ma vale sempre l'esortazione del Veneto profondo, secondo cui la donna "Che la tosa la tasa, che la piasa, che la staga a casa" - un atteggiamento non molto distante da quello degli uomini tradizionalisti mussulmani da cui gli orgogliosi leghisti nordici si sentono tanto diversi.

Con prontezza, Rosy Bindi ha reagito all'insulto osservando che ovviamente lei non appartiene alla categoria delle disponibili e utilizzabili . Ma è stata la sola a reagire alla maleducazione di Berlusconi e Castelli. Nonostante qualche faccia imbarazzata, nessuno dei maschi presenti, incluso il conduttore, ha ritenuto doveroso prendere le distanze da questo tipo di linguaggio e comportamento gravemente sessista, che rende difficile partecipare alla comunicazione pubblica le poche donne cui, raramente, si concede la parola (Bindi era la sola donna l'altra sera a Porta a Porta, in un folto parterre di uomini).

Nessuno dei molti brutti, sfatti e rifatti uomini più o meno anziani che popolano la politica italiana deve temere di essere insultato e delegittimato per questo dai propri interlocutori, per quanto aggressivi. Il silenzio - complice, imbarazzato o codardo - degli uomini sia alleati a Berlusconi che all'opposizione, sia in politica che nei media è una questione politicamente seria che andrebbe affrontata, perché segnala quanto siano profonde le radici culturali del sessismo nel nostro paese. Non dimentichiamo che in Spagna Zapatero è stato attaccato dalla stampa per aver assistito in silenzio allo show in cui Berlusconi ha spiegato come intende le norme di ospitalità quando si trova di fronte una bella donna potenzialmente disponibile.

Ma c'è anche un altro silenzio che disturba: quello delle donne dei partiti di governo, a cominciare dalle ministre. Le loro voci si sono levate solo quando il capo le ha chiamate all'appello perché lo difendessero allorché scoppiarono gli scandali a catena: dalle candidature promesse alle veline a Noemi ai festini di Villa Certosa. Mai nessuna presa di distanza dalla immagine di donna - e di loro come politiche e come ministre - che emerge dalle appassionate autodifese del loro capo.

Particolarmente silente è la ministra delle Pari opportunità, che pure dovrebbe parlare per dovere istituzionale. Qualsiasi siano i motivi per cui è finita lì, cerchi di ricordarsi per favore che le pari opportunità non sono un concorso di bellezza. E che non si può lasciare a dei vecchi mandrilli, per quanto ricchi e potenti, il potere di parola e di giudizio su ciò che sono, sanno e possono fare e dire le donne, a prescindere dall'età e dai canoni estetici. Lasciare insultare una collega, anche della opposizione, con argomenti che nulla hanno a che fare con la politica, ma solo con il sessismo, è un errore grave, di cui paghiamo il prezzo tutte.

© Riproduzione riservata (9 ottobre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #19 inserito:: Febbraio 15, 2011, 04:10:09 pm »

L'ANALISI

Dalla parte dei bambini

di CHIARA SARACENO

I bambini hanno, prima ancora che diritto, necessità che qualcuno assuma nei loro confronti responsabilità e comportamenti genitoriali, ovvero la responsabilità di dare loro un posto nel mondo.

E dove possano stare e crescere con fiducia. Alla maggior parte dei bambini ciò è garantito dai genitori naturali, ovvero da quelli che li hanno concepiti. Ma per molti bambini, perché privi di genitori, o perché questi non sono in grado di fare fronte alle proprie responsabilità, chi si prende questa responsabilità sono altri: uno o più nonni, degli zii, dei genitori adottivi, o anche dei genitori affidatari. Opportunamente la Convenzione dei diritti del fanciullo non specifica la forma istituzionale che devono avere questi "altri": se debbano essere per forza una coppia, e se questa debba essere eterosessuale e sposata. Perché nelle culture e pratiche familiari presenti nei vari paesi la responsabilità genitoriale può essere più o meno condivisa e la coppia avere maggiore o minore centralità. Ciò che conta, per un bambino, è di essere accolto. Tanto più quando è segnato da un'esperienza di abbandono o di perdita.

Bene quindi ha fatto la Corte di Cassazione a consentire, a differenza di quanto era avvenuto qualche anno fa in una situazione analoga, almeno l'adozione speciale nel caso di una donna sola che da anni aveva fatto legalmente (secondo le leggi di altri paesi) da mamma adottiva alla sua bambina. Ci si potrebbe chiedere che cosa sarebbe accaduto in caso contrario: portata in Italia dalla sua mamma questa bambina sarebbe dovuta tornare, per legge, a uno status di orfana ed essere messa in adozione di nuovo? E bene ha fatto anche a segnalare al legislatore italiano l'opportunità di allargare le maglie dei potenziali "adottandi" secondo la normativa standard, non restringendoli più solo alle coppie (eterosessuali) coniugate al momento della delibera di adozione. L'adozione standard, infatti, a differenza di quella speciale (ormai riservata a casi di adozione di adulti, o di minori che hanno ancora rapporti con i genitori) integra pienamente il bambino adottato nella famiglia che lo accoglie, dandogli non solo genitori, ma anche nonni. Ed i genitori sono più pienamente tali, senza dover sottostare alla sorveglianza di un tutore legale. Non si tratta tanto di allargare il diritto ad avere un figlio, quanto, come avviene in molti altri paesi, di allargare il bacino di potenziali genitori, nel pieno rispetto delle procedure italiane di verifica e istruttoria poste a garanzia dell'interesse prioritario del bambino.

Non è sempre detto che due genitori, che siano naturali o adottivi, siano meglio di uno. La capacità genitoriale non è il risultato di un rapporto di coppia (e solo se questo è sanzionato dal matrimonio), ma in primo luogo una capacità che emerge e sviluppa nella interazione con un bambino. Il rapporto di coppia può rafforzare questa capacità nella comune assunzione di responsabilità. Ma può anche configgere con essa, o farvi resistenza. Quindi non può essere assunto come un requisito dogmatico imprescindibile. Soprattutto, quando un bambino privo di genitori incontra l'amore e l'accoglienza di un adulto, è alla capacità genitoriale di questi, e alla sua adeguatezza ai bisogni di quel bambino che occorre guardare. Sapendo che crescendo quel bambino, come tutti gli adottati, dovrà elaborare sia la conoscenza della perdita o abbandono dei genitori, sia l'acquisizione di almeno un genitore.

(15 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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