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Autore Discussione: Cinquanta miliardi di euro abbondanti. Meno di quanto vale ...  (Letto 9163 volte)
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« inserito:: Giugno 28, 2011, 05:52:40 pm »

Cinquanta miliardi di euro abbondanti. Meno di quanto vale ...


    Cinquanta miliardi di euro abbondanti. Meno di quanto vale in Borsa, da solo, un gruppo come l’Eni. Qualcosa in più del valore dell’Enel, una volta e mezzo banche come Intesa Sanpaolo. Oggi che tanto si parla di Borsa e di finanza in tema di moda — dopo la vendita di Bulgari ai francesi di Lvmh per una cifra che rappresentato l’apice di queste operazioni, dopo le accuse di Giorgio Armani sul sistema «in mano alle banche», dopo l’approdo alla Borsa di Hong Kong di Prada venerdì 24 giugno e il prossimo arrivo di Ferragamo al listino di Milano, solo per citare i casi più importanti dell’ultimo periodo — abbiamo provato a fare un calcolo.
    Con l’aiuto di Pigoli Consulenza, abbiamo guardato i principali marchi della moda e del lusso a capitale italiano, circa una novantina di aziende e provato a calcolare quale sarebbe il loro valore complessivo se fossero tutti quotati. Come unità di misura abbiamo preso gli utili e li abbiamo moltiplicati per 20 volte, media tra i multipli delle diverse tipologie di aziende. Per alcune società si è usato il bilancio 2009, non essendo ancora disponibile su Cerved il 2010. Diverse sono le società in perdita. Nel conteggio è compresa anche Bulgari che, tecnicamente, dovrebbe passare sotto il controllo di Lvmh a luglio. Sono, invece, escluse tutte le griffe già controllate da soggetti esteri, da Gucci, Bottega Veneta e Sergio Rossi (gruppo Ppr), a Fendi e Pucci (Lvmh), a Ferrè (famiglia Sankari), a Belstaff (Labelux)...
    Comprese le società già quotate, il valore complessivo arriva a poco più di 50 miliardi di euro. «Anche volendo largheggiare non si arriva a 60 miliardi — dice Sergio Pigoli, presidente di Pigoli Consulenza —. La moda e il lusso sono settori che si vedono molto perché fondano la gran parte del loro successo sull’immagine e sulla comunicazione e sono un grande strumento di immagine e comunicazione per il Paese, ma se li si guarda nelle loro dimensioni la percezione cambia. Sono aziende che devono crescere e che devono affrontare il passaggio generazionale, altrimenti rischiano di essere acquisite». Va sottolineato che l’analisi riguarda le società che hanno marchi di una certa notorietà e non tutta la grande rete del tessile-abbigliamento che si snoda dalle filature e tintorie fino appunto alle aziende di confezione e commercializzazione.
    Il caso Luxottica
    Quasi 10 miliardi è la capitalizzazione di Borsa della sola Luxottica, principale produttore e distributore di occhiali al mondo, 9,2 quella di Prada nel primo giorno di quotazione. Luxottica è l’unica società del settore che ha saputo crescere anche attraverso acquisizioni. Gli altri che ci hanno provato hanno dovuto rivendere ciò che avevano acquistato, come Prada, se non addirittura cadere sotto il peso del debito, come It Holding, Mariella Burani, Finpart.
    Nel grafico pubblicato ci sono le società con fatturato maggiore. Dopo di loro c’è una pletora di aziende di medie dimensioni dal punto di vista numerico, anche se magari con nomi importanti come Valentino Fashion Group (dopo lo scorporo di Hugo Boss), Versace, Roberto Cavalli, Loro Piana, Brunello Cucinelli, Blumarine, Etro, Furla, Pomellato, Canali, Brioni, Missoni, Trussardi, Krizia, Ratti, Mantero... E il gruppo dei «nuovi», da Liu Jo a Patrizia Pepe, da Pinko a Nero Giardini, da Meltin’pot ad Harmont & Blaine, da Original Marines a Betty Blue, da Miss Sixty a Carpisa e Yamamay.
    Oltreconfine
    Da questa analisi nascono due osservazioni. La principale riguarda, appunto, le dimensioni. Francesco Trapani quando la famiglia ha deciso di accettare l’offerta (non rifiutabile: 110 volte gli utili netti!) di Bernard Arnault di Lvmh ha detto che nel mondo globale di oggi con un miliardo di euro di ricavi si è piccoli. Una tesi che è poi stata confutata sia da Giorgio Armani che da Renzo Rosso (Only The Brave-Diesel).
    Se, però, si guarda oltre confine il dubbio resta: Inditex, la società spagnola che controlla Zara, in cinque anni è passata da 8,2 miliardi di euro di fatturato a 12,5; la svedese H&M nello stesso periodo da 7,4 a 11,8 miliardi; l’italiana Benetton da 1,9 miliardi di euro a 2,053, pur producendo una buona dose di profitti. L’americano Polo Ralph Lauren fattura quasi 5 miliardi di dollari (3,5 miliardi di euro al cambio di venerdì); Gucci Group 4 miliardi di euro, di cui quasi 2,7 con il solo marchio Gucci. Il francese Hermès, che non fa parte di gruppi, 2,4 miliardi. Negli ultimi anni in Italia il caso è stata Calzedonia, la catena di biancheria cui fa capo anche il marchio Intimissimi, di proprietà di Sandro Veronesi, che è arrivata nel gruppo di testa.
    Anche per questo sempre più società italiane stanno avvicinandosi alla Borsa. «Quotandosi, le imprese diventano meno dipendenti da questioni personali ed emotive, danno un valore oggettivo all'azienda e possono attrarre manager con più facilità — diceva lo scorso 6 giugno in un articolo su CorrierEconomia Guido Corbetta, docente in Bocconi ed esperto di aziende familiari —. Le aziende della moda in particolare hanno importanti fabbisogni di investimenti nel retail e in mercati geografici lontani; e hanno competitori già quotati. Tutto questo spinge a ulteriori quotazioni, favorite dal fatto che i brand consentono valorizzazioni importanti».
    «Oggi queste aziende hanno bisogno di profili manageriali con una competenza dei mercati, dei nuovi canali distributivi e del consumatore molto vasta. Il modo di fare business è completamente cambiato in breve tempo — aggiunge Giovanna Brambilla, amministratore delegato di Value Search, società di executive search molto attiva nella moda e nel lusso —. Le dimensioni, però, spesso limitano la possibilità di accedere a professionalità di questo tipo, che prediligono gruppi nei quali ci sono maggiori possibilità di crescita interna».
    Il secondo punto che emerge guardando i dati sono i grandi utili realizzati da parecchie aziende «medie». Nel 2009 Luisa Spagnoli ha realizzato 20,5 milioni di profitti netti su 133,8 milioni di fatturato, la Bag spa (marchio Nero Giardini) 9,5 milioni su quasi 200 di ricavi, Betty Blue (Celyn B) 11,5 su 64 di ricavi, Liu Jo 21,2 milioni su 217,7; nel 2010, Terranova 24,9 su 340,8 e Cucinelli 17,41 su 203. Vanno fatte crescere.

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da - http://www.corriere.it/edicola/economia.jsp?path=TUTTI_GLI_ARTICOLI&doc=APRE1
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