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Autore Discussione: EMMA BONINO*, SAAD IBRAHIM** - Il nuovo Egitto non deve nascere sulla vendetta  (Letto 2598 volte)
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« inserito:: Giugno 28, 2011, 05:49:06 pm »

28/6/2011

Il nuovo Egitto non deve nascere sulla vendetta

EMMA BONINO*, SAAD IBRAHIM**

Come dimenticare le immagini di gioia, trasmesse in mondovisione la mattina dell’11 febbraio scorso, di Piazza Tahrir che esultava all’annuncio delle dimissioni di Hosni Mubarak, alla guida dell’Egitto dal lontano 1981, da parte del neodesignato vicepresidente Omar Suleiman? Gli occhi di migliaia di giovani egiziani lasciavano trasparire grandi aspettative per il futuro del loro Paese e profondo orgoglio per il coraggio e la tenacia dimostrati in quei 18 giorni di manifestazioni. Il Consiglio Supremo delle Forze Armate, una volta valutata la convenienza di abbandonare il raìs al proprio destino, assumeva «temporaneamente» il controllo del Paese per avviare il delicato periodo di transizione verso la democrazia. Per un attimo tutti, o quasi, hanno pensato di essere già entrati in una nuova era, in un «nuovo Egitto».

L’esperienza insegna che i processi di democratizzazione non prendono forma con la tenuta di elezioni solamente, né arrivano a compimento nel giro di una manciata di mesi, ma sono il frutto di un lavoro che coinvolge tutti gli strati della società. A dire il vero, di tutte le riforme chieste dai manifestanti, a quattro mesi dalla caduta del regime poco si è visto. E, mentre la transizione procede a tappe forzate verso elezioni parlamentari, quasi tutte le forze in campo chiedono all’esercito di rinviarle in assenza di un quadro costituzionale definito. Fanno eccezione i Fratelli musulmani e quel che resta del disciolto partito di governo, vale a dire le componenti più strutturate e meglio organizzate del frastagliato panorama politico post-Mubarak.

Il momento è dunque quanto mai delicato, contraddistinto da una progressiva polarizzazione dello scontro, spesso violento, tra il fronte liberal-secolare e il fronte islamista ampiamente inteso, e dalla frattura non sempre evidente tra il movimento giovanile e i militari, spesso percepiti non più come garanti delle istanze di libertà e giustizia ma come parte del vecchio regime in lotta per la propria sopravvivenza: dal divieto di manifestare pacificamente al bavaglio nuovamente imposto alla stampa, per non parlare dei «test di verginità» sulle attiviste non sposate arrestate durante la manifestazione del 9 marzo scorso, condotti col pretesto di tutelare l’onore delle Forze Armate per dimostrare che le ragazze, nelle carceri militari, c’erano arrivate non più vergini.

C’è però un altro aspetto del processo di democratizzazione che desta inquietudine e che coinvolge magistratura e vertici militari: quello legato alla «giustizia di transizione», cioè alle procedure adottate per assicurare alla giustizia gli esponenti del vecchio regime accusati di aver commesso crimini di varia natura.

Mubarak, sua moglie, poi rilasciata su cauzione, i suoi due figli, assieme ad una serie di ex ministri e maggiorenti della vecchia classe dirigente, la cosiddetta «cricca di Alessandria», sono stati arrestati con l’accusa di corruzione, peculato, abuso d’ufficio e omicidio. I relativi procedimenti giudiziari sono condotti senza che vi sia alcuna trasparenza, in base a regole ad hoc tutt’altro che certe, con accelerazioni improvvise e giuridicamente inspiegabili. Poiché la democrazia non si costruisce né sull’impunità né sulla vendetta, crediamo che il governo ad interim possa facilitare il lavoro della magistratura chiedendo l’istituzione di una commissione internazionale d’inchiesta indipendente che si faccia carico del processo probatorio.

Sarebbe un passo avanti nella direzione del «nuovo Egitto», oggi ancora troppo simile al «vecchio Egitto», a dimostrazione di quanto articolata e complessa sia la transizione dall’autoritarismo alla democrazia. In questa fase occorre che Piazza Tahrir riorganizzi sé stessa e ri-orienti le sue energie sul cammino verso lo Stato di diritto affinché i cittadini siano messi in condizione di partecipare al processo decisionale nel modo più inclusivo possibile. Anche di questo parleremo al prossimo Consiglio Generale del Partito Radicale transnazionale che si terrà a Tunisi: perché democrazia e Stato di diritto riguardano tutti i Paesi della Primavera araba.

* vice presidente del Senato;
**Fondatore dell’Ibn Khaldun Center for development studies
da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8903&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 23, 2016, 10:27:57 am »

Emma Bonino: “Dominano le agende nazionali. L’Ue trattata come un robivecchi”
L’ex ministro degli Esteri: «Francia e Germania hanno le elezioni, noi il referendum.
Difficile ripartire da Ventotene. Sul burqa ha ragione la Merkel»


20/08/2016
Mattia Feltri
Roma

«Angela Merkel ha ragione quando dice che bisogna regolamentare l’uso del burqa nei luoghi pubblici. Io sono senza fiato, da quanto lo ripeto», dice Emma Bonino, radicale, ex ministro degli Esteri ed ex commissario europeo agli Aiuti umanitari.

Fra il no al burqa di Merkel e il no al burkini del premier francese Valls c’è una differenza. 

«Naturalmente, intanto il burqa e il burkini sono due cose diverse: il burkini lascia scoperto il viso e il burqa no quindi impedisce l’identificazione di chi lo indossa. In Italia una legge che impedisce di circolare col volto coperto è stata varata negli anni del terrorismo. Non è una questione religiosa, sennò se turba l’esibizione di simbolo confessionale poi toccherà vietare i turbanti dei sikh o i payot degli ebrei, cioè i boccoli. La questione è che chi sta in un luogo pubblico, dalle scuole alle strade, deve essere identificabile. La nostra è una società basata sulla responsabilità individuale, peraltro elemento indispensabile per qualunque politica di integrazione».

E col burkini si è identificabili. 

«Esatto. Come impedirne l’uso? Non c’è nessun dettato costituzionale, neanche in Francia, su cui poggi una legislazione di ordine vestimentario, diciamo così. E mi inquieterebbe uno Stato che mi dicesse come devo vestirmi. O svestirmi. Poi possiamo discutere della libertà di cui spesso le donne islamiche non godono. La strada della loro emancipazione sarà lunga, tortuosa, difficile. E segnalerei che per molte musulmane il burkini è un passo importante, che consente loro di stare in spiagge non segregate, cioè insieme con gli uomini. Non per tutte ovviamente, in alcuni Paesi pur a religione musulmana le donne sono già più avanti».

 Difficile che si discuta di questo nel vertice di lunedì a Ventotene. Renzi ci punta molto, anche per la suggestione del posto, dove Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi hanno scritto il loro Manifesto. Ma non pare esserci un’agenda sull’integrazione. 

«In politica i simboli sono importanti se sono seguiti da iniziative politiche e l’impressione è che per Hollande, Merkel e Renzi domineranno le agende nazionali. Del resto in Francia e in Germania si vota e in Italia c’è il referendum, e questo non mi sembra un periodo in cui le spinte all’integrazione federalista europea siano particolarmente popolari. Temo sia inevitabile che la ripartenza del progetto europeo di cui parla Renzi rimanga ai margini, o sia ulteriormente ritardata ma l’importante è che non venga archiviata come un robivecchi, e rimanga l’obiettivo per cui lavorare».

Lei ritiene che un giorno si potrà ricominciare a lavorare per l’integrazione, su cui oggi siamo così indietro? 

«Per come vedo il mondo, non credo che gli Stati nazionali possano essere all’altezza delle sfide. Ma io rimango fedele alla straordinaria sintesi di Adenauer: Ventotene fu la visione di pochi, è diventata la realtà per molti e diventerà una necessità per tutti».

C’è stata la Brexit a complicare le cose. 

«E sarà una difficoltà non da poco, anche perché Francia e Germania hanno idee diverse su come gestirla, più drastica quella francese, mi pare appoggiata dall’Italia, e più soft quella tedesca. E ricordo quando uscì la Groenlandia, cioè due pesci e due pescatori, e ci si mise tre anni. Figuriamoci stavolta».

E intanto il mondo brucia. Come trovare un’azione unica in Libia? 

«E’ un problema enorme che dimostra come le capitali europee abbiano e perseguano interessi diversi. La Francia più vicina a Tobruk, e dunque all’Egitto e agli Emirati Arabi, altri più vicini al governo nazionale. Aggiungiamo che negli ultimi anni nel Mediterraneo sono nati Stati e sono emerse aree geografiche con obiettivi contrastanti. Aggiungiamo che le monarchie del Golfo sono contro i Fratelli musulmani per questioni non certo religiose ma di predominio economico. Che in Siria c’è una vastissima coalizione in cui ognuno segue obiettivi e strade proprie. Insomma, è un groviglio di cui non si vede neanche un’ipotesi di soluzione».

 

Inutile così sperare in passi avanti nella sicurezza. 

«E’ quello che sto dicendo. Nel 2015 ci sono stati 11 mila attentati di matrice islamica, soprattutto in Afghanistan, Pakistan, Sudan e Somalia, con sconfinamenti europei. Per ora non c’è possibilità di soluzione, anche in Europa, visto che tutto è affidato agli Stati nazionali che non mettono in comune neanche le liste dei sospettati. La sicurezza è affidata agli Stati, i confini esterni agli Stati, le politiche dell’integrazione dei migranti pure. Non so che cosa debba ancora capitare perché si cambi direzione».

Un’ultima domanda: Aleppo non rischia di diventare una nuova Sarajevo, il punto dove i civili muoiono e un nuovo disastro si annuncia? 

«Lo è già, basta guardare le cifre. Aggiungo che oggi il Kosovo e la Bosnia, e soprattutto Sarajevo, la città simbolo della secolare convivenza religiosa, sono brulicanti di donne in burqa, prima inesistenti, e sintomo di un’islamizzazione interna finanziata dai sauditi. Un’altra minaccia che continuiamo a non vedere».

 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/08/20/italia/politica/emma-bonino-dominano-le-agende-nazionali-lue-trattata-come-un-robivecchi-2aO8RDGgm0yyFIzsO5xF9O/pagina.html
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« Risposta #2 inserito:: Aprile 22, 2017, 05:00:18 pm »

Emma Bonino: “Senza Europa siamo 28 paeselli alla deriva”
«Macron è il solo a sventolare la bandiera Ue. Perché devono essere gli americani a ricordarci che mettere insieme 28 Stati, 24 lingue e 19 Paesi con la stessa moneta è il progetto politico più ambizioso e meglio riuscito dei nostri tempi? »

Emma Bonino, nata a Bra nel 1948, è stata ministro degli Esteri nel governo Letta, dal 1995 al 1999 è stata membro della commissione europea guidata da Jaques Santer

Pubblicato il 22/04/2017 - Ultima modifica il 22/04/2017 alle ore 11:38

FRANCESCA SFORZA
ROMA

Un attentato che arriva a pochi giorni dal voto come quello di Parigi solleva inevitabilmente il fantasma del cui prodest: a chi conviene? Chi ne trarrà i maggiori vantaggi elettorali? L’impostazione, però – avverte Emma Bonino, con cui abbiamo cercato di analizzare l’accaduto – potrebbe essere fuorviante, «perché la prima conseguenza di queste azioni sanguinarie, per non dire l’obiettivo, è creare un clima non favorevole al ragionamento, tanto più alla vigilia di un voto».
 
Emma Bonino, Marine Le Pen per prima cosa ha proposto la chiusura delle frontiere? 
«Peccato che l’attentatore sia nato e cresciuto in Francia, e non era nella lista di potenziali terroristi. La sicurezza, di per sé, non è né di destra né di sinistra, è un compito dello Stato e dipende quali strumenti si scelgono per garantirla il più possibile».
 
Donald Trump ha commentato l’attentato dicendo che «avrà un grande effetto sulle elezioni presidenziali». Un endorsement a Le Pen? 
«Non so cosa voglia dire Trump, è anche difficile interpretarlo, visto che negli ultimi tempi abbiamo assistito a molti cambi di direzione rispetto alle promesse fatte in campagna elettorale, dall’isolazionismo, alla guerra alla Cina, alla posizione nei confronti della Russia». 
 
Salvini è stato più esplicito: «Con Le Pen più protezione contro il terrorismo». Che ne pensa? 
«Penso che un’integrazione corretta – non certo le banlieue francesi – sia un modo per garantire la sicurezza, ma ovviamente sembra più facile dire “buttiamoli fuori tutti”, senza capire, tra l’altro, che è irrealizzabile».
 
Merkel ha detto che «la collaborazione con la Francia sarà buona con qualsiasi vincitore delle elezioni”. Ma lei se lo immagina un asse franco-tedesco con Marine Le Pen presidente? 
«Capisco i toni diplomatici e l’esigenza della Merkel di non inserirsi in modo divisivo nei dibattiti nazionali, ma non credo che sarebbe la stessa cosa con ognuno dei quattro candidati. E’ vero che – Trump insegna – una cosa sono le piattaforme elettorali e un’altra quello che si riesce a fare dopo, e normalmente le due cose non coincidono…».
 
Secondo Juncker «Anche se Le Pen vincesse, il progetto europeo non finirebbe». Possibile? 
«Dipende molto se Le Pen, ammesso che vinca, avrà anche la maggioranza parlamentare alle prossime politiche per fare quello che dice. Per adesso credo che in tema di Europa l’ancoraggio più serio, meno tradizionale e meno intergovernativo l’ha espresso Macron, che non si vergogna, anzi, di fare una manifestazione con Cohn-Bendit piena di bandiere europee. Non ne ho visti altri, e non so neanche se in Italia li vedremo più».
 
Brexit ha dato l’impressione che una rottura sia possibile. Vede il rischio di un effetto-domino? 
«Credo che Brexit non abbia fatto felice nessuno, perché se il vecchio ordine è moribondo, il nuovo non si vede ancora. E poi basta guardare a ciò che avviene di là dell’Atlantico, in Africa e in molta parte dell’Asia: io penso che dobbiamo tenerci l’Europa ben stretta, smettendola di dileggiare e sputare ogni giorno su questo progetto politico, e ricordando invece a tutti che sessant’anni fa i nostri Paesi erano in ginocchio e oggi siamo il continente più ricco al mondo. Poi non ci piacerà, si può migliorare, ma le critiche servono per andare avanti, non per tornare indietro».
 
La gente ce l’ha con la burocrazia, i vincoli, le limitazioni… 
«Nella campagna dei radicali “Tutto quello che sai sull’Europa è falso”, ricordiamo, tra le altre cose, che il numero dei funzionari di Bruxelles (55 mila) è inferiore a quello della città di Roma (62 mila con le partecipate). E comunque a tutti questi che vogliono uscire bisognerebbe chiedere: uscendo dall’Europa quali problemi risolviamo? Il terrorismo? Non mi pare. L’immigrazione? Dubito. La competitività economica? Non risulta. Ventotto Paeselli alla deriva di fronte a giganti come Cina, Russia e Stati Uniti. L’unica a rendersene conto è la Germania. Mi torna in mente la frase di un diplomatico: “L’Europa è fatta di due tipi di Stati: quelli piccoli, e quelli che non si sono ancora accorti di essere piccoli”». 
 
Vede i margini per un’inversione di rotta? 
«Rilevo piuttosto che sono stati americani come Obama e Kerry a ricordarci che mettere insieme 28 Stati, 24 lingue e 19 Paesi con la stessa moneta, sia stato il progetto politico più ambizioso e meglio riuscito dei nostri tempi. Peccato che non ci sia più un leader europeo che abbia la forza e il coraggio di fare questo racconto al suo popolo».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/22/esteri/boninosenza-europa-siamo-paeselli-alla-deriva-ggC2SPxFdnaFC8vnw6q4ZI/pagina.html
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