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Autore Discussione: MASSIMILIANO PANARARI. La scommessa del neoliberismo compassionevole  (Letto 2341 volte)
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« inserito:: Giugno 20, 2011, 05:05:13 pm »

20/6/2011

La scommessa del neoliberismo compassionevole

MASSIMILIANO PANARARI


C’era una volta la Terza Via. Da qualche tempo a questa parte, è la volta, invece, della Big Society, che ne ha rilevato il primato di teoria politica più in voga, riconfermando la Gran Bretagna come laboratorio postmoderno per eccellenza della battaglia delle idee, a partire dagli anni del neoliberismo thatcheriano.

Al posto della Cool Britannia di Tony Blair e dei suoi spin doctor, c'è oggi una nazione percorsa da forti tensioni sociali e alle prese con pesanti tagli di bilancio, dove governa la coalizione tra conservatori e libdem rappresentata dalla coppia - sino a poco tempo fa molto glam - di David Cameron e Nick Clegg, che della visione della «Grande Società» ha fatto la propria ideologia. Anch’essa, per molti versi, postpolitica e trasversale, come lo fu pure la Third Way, impegnata a miscelare spunti e idee provenienti da tradizioni e orientamenti culturali differenti, in un’epoca nella quale le vecchie narrazioni novecentesche sono state in buona parte archiviate, e quelle nuove si fondano sostanzialmente sul bric-à-brac e sulla scelta di vision non necessariamente coerenti da prelevare dagli scaffali del supermarket postdemocratico delle idee.

I suoi teorici sono personaggi come il poco più che quarantenne Phillip Blond, consigliere di Cameron con alle spalle studi di teologia, inventore del «Red toryism» (conservatorismo rosso), il parlamentare Jesse Norman (autore del libro manifesto «The Big Society. The Anatomy of New Politics», uscito l’anno scorso) e Asheem Singh, vicedirettore di ResPublica, il think tank più alla moda di questi tempi.

Il «Red toryism» di Blond, alle radici dell’idea di Big Society, rappresenta l’ultima formula del neocomunitarismo anglosassone, conservatore sotto il profilo sociale ma diffidente nei confronti delle politiche neoliberali, e con una venatura compassionevole fatta discendere direttamente dal pensiero e dall’azione di Benjamin Disraeli, il famoso primo ministro tory dell’Ottocento che si prodigò per mitigare gli «animal spirits» del capitalismo in irresistibile ascesa.

La «rivoluzione culturale» predicata dalla Big Society colloca tra i propri antenati anche il conservatorismo radicale del filosofo settecentesco Edmund Burke, il «Cicerone britannico», acerrimo nemico delle rivoluzioni americana e francese e alfiere di una società fondata sulle famiglie e sulla rete delle associazioni, da cui Cameron fa derivare la legittimazione intellettuale primaria del suo progetto di dimagrimento dello Stato e del settore pubblico e di valorizzazione del ruolo civile del Terzo settore e del volontariato.

Una visione che piace, molto, persino all’«Economist», il settimanale liberale e liberista per antonomasia, il quale ha visto nel mix di sussidiarietà, pluralismo e autogoverno locale propagandato dagli intellettuali cameroniani, la scommessa culturale «più audace» del momento, in grado di contrastare la riscossa (specialmente in Asia) del «Leviatano» statale. E che affascina anche, in nome delle sue contaminazioni (almeno dichiarate), alcuni settori della sinistra italiana, la maggioranza del movimento cooperativo, una rivista come «Formiche» e una parte del mondo cattolico, come mostra l’esperienza umbra raccontata dal volume «Poliarchia e bene comune» (introdotto dal vescovo di Terni Vincenzo Paglia e pubblicato da il Mulino). Ma che comincia (anche se non così paradossalmente) a incontrare crescenti resistenze in Gran Bretagna, come quella, dura e inusitata, della Chiesa anglicana, con l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams che, dalle colonne del settimanale di sinistra «New Statesman», giusto qualche giorno fa, ha liquidato la Big Society alla stregua di una foglia di fico per nascondere la distruzione del Welfare e il ritorno a un modello economico di tipo vittoriano.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8877&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 09, 2011, 05:01:54 pm »

9/7/2011

Londra, le nuove allegre comari dei tabloid

MASSIMILIANO PANARARI


Lo sciacallaggio dei giornalisti-spia e degli investigatori privati intenti a rovistare nei telefonini delle vittime di varie vicende tragiche dell’ultimo decennio, per conto delle pubblicazioni di Rupert Murdoch, è l’episodio finale (ma non necessariamente il capolinea) di una storia di lunga data. La Gran Bretagna, madrepatria di tante cose si è inventata anche lo strapotere del gossip, nella sua valenza economica di industria dall’enorme fatturato, come nella sua dimensione (ebbene sì...) politica.

Dal tardo Rinascimento delle shakespeariane allegre comari di Windsor al Medioevo del domenicale «News of the World», la «perfida Albione» rimane sempre la scena del misfatto, il luogo dal quale il voyeurismo morboso e il tifone della calunnia (altro che venticello...) soffiano irresistibili. Proprio perché quello che un tempo si chiamava pettegolezzo, sia pure con caratteristiche differenti, nel più antico Stato liberaldemocratico d’Occidente (e, in passato, suo maggiore Impero), è divenuto un formidabile combinato disposto di fonte di profitto e di instrumentum regni.

Gli ingredienti, difatti, c’erano tutti, belli pronti e disposti in ordine. La Gran Bretagna è la nazione del Vecchio continente con la struttura sociale più piramidale (quasi castale, si potrebbe dire), dove l’estrazione si riconosce dall’accento, e dove i consumi culturali (o sottoculturali) connotano indelebilmente la provenienza di ceto (o di classe, come un tempo). Già sul finire dell’Ottocento, Lord Alfred Charles William Harmsworth, visconte di Northcliffe, il «Napoleone della stampa», si inventò, con il «Daily Mail» e il «Daily Mirror», il giornalismo popolare (nei temi come nel prezzo, all’epoca mezzo penny), antesignano dei supermarket tabloid. E quando la working class si ritrovò orfana dei piccoli privilegi legati all’essere l’aristocrazia operaia del reame che possedeva colonie in ogni parte del globo, la riduzione della razione di panem che le spettava venne compensata aumentando esponenzialmente la quota di circenses. Del resto, per titillare i sogni e incitare a guardare dal buco della serratura una monarchia risultava ideale, dal momento che, come si sa, i destini regali appassionano moltissimo anche il pubblico delle meno fiabesche repubbliche. Con l’avvento al potere della signora Thatcher, e la correlata sterzata neoliberista, che riduce l’intervento assistenziale pubblico e non risulta certo tenera con le fasce popolari, si incrementa ulteriormente il bisogno di incentivarne gli svaghi e le distrazioni rispetto alla scena pubblica di un Paese che fa da apripista alla finanziarizzazione dell’economia e alla deindustrializzazione. Sempre meno classe lavoratrice, e sempre più agglomerato atomizzato di precari e disoccupati, la «gente» anglosassone trova nella lettura dei tabloid e nella tv trash un rifugio parziale, il quale fa anche da solidissimo ancoraggio al populismo della nazione laboratorio della postdemocrazia. E il pettegolezzo, vista pure la sua utilità a fini di creazione del consenso elettorale, nell’età postmoderna si fa così direttamente gossipcrazia. Gli spin doctors, esperti di quella che l’anglista Roberto Bertinetti chiama la «manipolazione democratica», finiscono quindi per fare a gara nell’accreditarsi presso Murdoch, il potentissimo tycoon globale della stampa gossipara. Il magnate di origini australiane, populista convinto anche per ragioni di avversione personale nei confronti delle élites dell’antica madrepatria colonialista (da lui considerate spocchiose ed esangui), si erge allora, grazie alla potenza di fuoco dei suoi media (a partire dal vendutissimo Sun), ad attore diretto della politica inglese, appoggiando prima Tony Blair e poi David Cameron, con gli esiti che sono poi stati sotto gli occhi di tutti.

Proprio in queste ore, il figlio James ha annunciato la chiusura del domenicale da 3 milioni di copie nell’occhio del ciclone, il cui ex direttore, arrestato ieri per questa squallida faccenda, Andrew Coulson, ha rivestito il ruolo, guarda un po’, di portavoce del premier conservatore in carica, a conferma delle sliding doors che intercorrono tra la comunicazione politica e il giornalismo dei basic instincts nella postdemocratica Gran Bretagna dei nostri giorni. Dove i lettori di tabloid, la cui fiducia è stata tradita, come scriveva su queste colonne Bill Emmott, coincidono con altrettanti elettori, di fronte ai cui comportamenti di voto la teoria politica liberale interessata alla qualità della democrazia contemporanea non può non porsi, con la giusta dose di preoccupazione, alcuni quesiti.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8957&ID_sezione=&sezione=
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