L’EDITORIALE
La differenza tra popolo e cittadini
Di Antonio Polito
Ci avete fatto caso? I nostri politici, più che mai in questa campagna elettorale, parlano sempre di «popolo», si rivolgono al «popolo», si dichiarano dalla parte del «popolo». I «cittadini», protagonisti di un tempo della nostra democrazia, quando così vennero chiamati donne e uomini della nuova Italia repubblicana uscita dal referendum del 2 giugno di 70 anni fa, sono spariti. Siccome le parole contano, bisogna stare attenti a certi slittamenti semantici, domandarsi che cosa significano, perché non sono mai casuali. La parola «cittadini» faceva riferimento a una condizione di piena partecipazione al governo della cosa pubblica. Cittadini furono in principio quelli della Repubblica nata dalla Rivoluzione francese, per antonomasia sono individui liberi, informati ed esigenti, che si riuniscono in partiti e organizzazioni «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», come recita la nostra Costituzione, e che usano l’arma del voto per scegliere i propri rappresentanti. Ralf Dahrendorf, il grande sociologo liberale tedesco del Novecento, diceva che «non può esistere una democrazia senza i cittadini». Ma poi, a mano a mano che la Repubblica cresceva, i «cittadini» si assottigliavano, sia in termini di citazioni che di impegno nella vita pubblica del Paese, prova ne sia il costante declino della partecipazione al voto. E al posto dei cittadini, nella retorica dei politici, è comparsa la parola «elettori»: «cari elettori», «il volere degli elettori», «gli elettori hanno sempre ragione».
A differenza di «cittadini», che allude alla condizione civica della cittadinanza, «elettori» ha una connotazione più marcatamente commerciale, perché negli elettori ciò che rileva è il fatto che dispongono di voti, e i voti servono ai politici. E infatti nel linguaggio comune hanno fatto irruzione espressioni tipiche del marketing, quali «l’offerta elettorale», «i desideri degli elettori», e a poco a poco si è cominciato a sondare con metodi sempre più scientifici e sempre più di frequente lo stato d’animo degli elettori per scoprire che cosa i politici potevano vendere loro e come.
Ma già nel decennio passato appare prepotentemente una nuova parola che prende il posto dei «cittadini» e degli «elettori» di un tempo: il «popolo». Lo sdoganatore del termine, ovviamente, è il più grande innovatore della politica italiana del dopoguerra, Silvio Berlusconi, che a un certo punto decide, dopo lungo cogitare, di chiamare la sua nuova forza politica non «Partito della libertà» ma «Popolo della libertà». Partito, come si sa, suonava male dopo la crisi della Prima Repubblica e la sparizione di tutti i partiti tradizionali. Però la parola «partito» aveva, insieme a un carattere fazioso, anche una sua modestia. Un «partito» è infatti quella organizzazione che accetta e riconosce di rappresentare solo una «parte» del Paese, e dunque di doversi confrontare con le altre parti. Quando una parte politica si autodefinisce invece «popolo», vuol dire che ha una tentazione egemonica perché esclude dal popolo tutte le altre parti, e dunque fa un piccolo passo in direzione del «populismo»; che, per l’appunto, vuol dire identificarsi con un mitico «popolo», pretendendo cioè di rappresentarlo tutto, e relegando dunque nel ghetto dei «nemici del popolo» tutti quelli che non la pensano allo stesso modo.
«Popolo», inoltre, è un sostantivo singolare, a differenza di «cittadini» e di «elettori» che sono plurali, e quindi presuppongono il pluralismo, nel senso che ogni cittadino, ogni elettore, la pensa a modo suo. Nel «popolo», invece, non c’è tutta questa libertà, è un termine collettivo, tutti quelli che fanno parte del «popolo» sono considerati uguali, una massa indistinta. Ecco perché i regimi autoritari hanno sempre fatto riferimento al «popolo», mentre le democrazie ai «cittadini».
Quindi, cari cittadini di Napoli, ora che destra e sinistra sono sempre meno riconoscibili e distinte tra loro, ora che Valente e Verdini vanno a braccetto, che Lettieri si candida con Berlusconi ma tifa Renzi, che de Magistris fa il Peron e Brambilla il Brambilla, e tutti insieme vi chiamano «popolo» per chiedervi il voto, imparate a distinguere e ricordate l’aggettivo qualificativo che a questa parola appone la nostra Costituzione: domani non dobbiamo essere un generico «popolo», massa di manovra del demagogo di turno che vuole prendere o tenersi il potere, ma bensì «popolo sovrano», composto di cittadini adulti e consapevoli, e per questo depositario dello scettro in democrazia.
4 giugno 2016 | 10:53
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