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Autore Discussione: Antonio POLITO  (Letto 79440 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Giugno 12, 2013, 05:50:03 pm »

I PARTITI E LA SFIDA DELL'ASTENSIONISMO

L'altra Italia che non vota

Nel trionfo di Ignazio Marino ci sono dodicimila voti in meno di quanti ne ottenne Francesco Rutelli nel tonfo del 2008. I vincitori di questa tornata amministrativa faranno bene a tenerlo sempre a mente: i consensi ottenuti domenica e lunedì sono pochi. Non sarebbero bastati per vincere un anno fa e potrebbero non bastare tra un anno. L'improvvisa impennata dell'astensione meriterebbe anzi qualche riflessione un po' meno rozza di quelle che circolano. C'è chi l'attribuisce alla crisi economica, ma altrove l'apatia elettorale è cresciuta piuttosto in periodi di prosperità, quando cioè le cose andavano troppo bene per cambiare (Blair e Clinton ne approfittarono), e si è ridotta in tempi difficili (vedi Obama). Dire che è segno di sfiducia nella democrazia rappresentativa è d'altronde un truismo, se non si spiega perché.

È probabile che l'era del «deficit zero», la chiusura cioè dei rubinetti della spesa pubblica, abbia colpito al cuore la politica tradizionale basata sullo scambio tra consenso e risorse. Senza soldi, consiglieri e sindaci non possono fare niente che abbia davvero rilevanza nella vita della gente, e gli elettori lo sanno. Forse la sinistra regge meglio nei Comuni proprio perché lì si presenta come partito della spesa (mentre rende meno quando in ballo c'è il governo nazionale, dove è vista come partito delle tasse).

In ogni caso è evidente che meno gente vota e meglio va il Pd. Stavolta il fenomeno è più macroscopico, ma è sempre stato così nella storia di quel partito e dei predecessori. Si tratta ovviamente di un bel problema per i suoi dirigenti, perché quando si tornerà a votare per il governo nazionale le percentuali di affluenza saliranno e i voti del Pd si diluiranno. Ma, a saperla leggere, è anche una buona notizia.

La maggiore fedeltà dell'elettorato democratico, anche di fronte a quello che mestatori interni e nemici esterni avevano definito il «tradimento» delle larghe intese, dovrebbe infatti indurre a liberarsi dell'ossessione della «base». Quante volte, di fronte a scelte necessarie o semplicemente sagge, si è levata la voce di chi vi si opponeva minacciando: «Il nostro popolo non capirebbe». Invece il popolo del Pd capisce benissimo. Magari soffre, ma capisce. E al suo partito chiede di governare, di fare, anche a costo di compromessi; non di strillare dalla riva del fiume mentre il Paese naufraga. Per questo il governo Letta non ha provocato il previsto rigetto nella base democratica, mentre quella grillina s'è squagliata.

Se così stanno le cose, il futuro leader del Pd dovrebbe finalmente preoccuparsi un po' di più del resto degli elettori, di quelli da conquistare, di coloro che alle elezioni politiche hanno finora votato qualsiasi cosa pur di evitare la sinistra al governo e senza i quali non si vince quando l'affluenza sale. Alle ultime primarie, pur di fermare Renzi, questa operazione fu respinta dalla leadership del partito come una «contaminazione».

E invece solo identificandosi con gli interessi dell'intero Paese e non di una mitica «base», governando con pazienza e stabilità, producendo risultati e cambiamenti reali, il Pd può trasformare questo effimero successo (una non sconfitta, per dirla alla Bersani) in un radicamento elettorale finalmente più ampio. Le vie della vocazione maggioritaria sono infinite, ma il governo Letta al momento è la migliore di cui il Pd disponga.

Antonio Polito

12 giugno 2013 | 8:03© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_12/polito-altra-italia-che-non-vota_e0290b9a-d31b-11e2-b757-6b1a3e908365.shtml
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« Risposta #46 inserito:: Luglio 03, 2013, 07:12:42 am »

L'assurdo tiro al bersaglio

Il meglio è nemico del bene. E invece in Italia la maggioranza parlamentare, anche più dell'opposizione, pullula di autorevoli esponenti che pur di avere un governo migliore minacciano di eliminare l'unico governo che abbiamo. Non che abbiano torto, nel sostenere che si può fare di più. Si vede che il governo Letta ha seri limiti congeniti, non disponendo di un programma votato dagli elettori, bussola di ogni esecutivo che si rispetti. E si vede anche che finora ha pensato più a rinviare i nodi fiscali lasciatigli in eredità dai governi precedenti che ad affrontare l'azione di tagli alla spesa pubblica che nessun governo precedente gli ha purtroppo lasciato in eredità. E però anche nella polemica politica dovrebbe vigere il principio alla base dell'istituto tedesco della «sfiducia costruttiva»: chi dice che se Letta non cambia marcia se ne va, dovrebbe anche dire per andare dove, per fare quale governo, e perché sarebbe migliore. Al momento, le due ipotesi più probabili in caso di caduta dell'esecutivo sono infatti nuove elezioni con la vecchia legge, un bis in idem , o nuova maggioranza basata sui trasformisti in uscita dal Movimento di Grillo. Chi pensa che per l'Italia una delle due soluzioni sia migliore della condizione attuale, alzi la mano.

L'ultimo aut aut è venuto dal senatore Mario Monti, che pure conosce così bene il sistema tedesco da aver chiesto al governo un Koalitionsvertrag , e cioè un vero e proprio contratto scritto come quello che regge le grandi coalizioni a Berlino. La sua iniziativa ha sorpreso tutti perché proviene da un uomo che ha prestato il suo servizio allo Stato, anche pagando un prezzo personale in termini di popolarità, proprio per garantire la stabilità politica interna e la conseguente credibilità internazionale. Ciò non di meno ha prodotto un «vertice di maggioranza» convocato per giovedì, che in Italia è sinonimo solo di maggiore confusione. Sono infatti proprio le tensioni e le divisioni dei partiti l'elemento di maggiore fragilità del governo. È da lì che nascono surreali assi tra Brunetta e Fassina, o inedite convergenze tra i falchi del Pdl e Mario Monti, oppure ancora lo stillicidio di Matteo Renzi, aspirante leader del Pd, contro i «piccoli passi» del compagno di partito che sta a Palazzo Chigi.

È evidente che il governo non ha avuto una partenza sprint, e che deve ancora trovare la sua missione in politica economica. I governi di grande coalizione servono a moltiplicare le virtù dei due partiti maggiori consentendo loro di fare le scelte dolorose che da soli non potrebbero fare, non certo a sommare le promesse demagogiche di entrambi. Al presidente del Consiglio dunque spetta di indicare al più presto degli obiettivi di riforma della spesa che giustifichino l'ambizione di ridurre la pressione fiscale, unico vero volano di crescita. Ma è altrettanto evidente che chi lo giudica dopo 60 giorni con il metro su cui hanno fallito governi che sono stati in carica per anni, lo vorrebbe balneare proprio mentre fa mostra di preoccuparsene.

La durata non è tutto, per un governo. Ma senza durata non c'è niente, meno che mai le «grandi riforme» che tutti reclamano con urgenza dal governo.

Antonio Polito

2 luglio 2013 | 8:01© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_02/assurdo-tiro-al-bersaglio-antonio-polito_d4e6d82e-e2d0-11e2-a1f9-62e4ef08d60d.shtml
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« Risposta #47 inserito:: Luglio 11, 2013, 10:31:54 am »

L'EFFETTO SU ISTITUZIONI E GOVERNO

Il giorno nero della Repubblica


Se la fissazione della data del processo a Silvio Berlusconi ha prodotto un giorno di stop dei lavori parlamentari, che accadrà il giorno della sentenza? Nonostante alla fine abbiano prevalso quelli con la testa sulle spalle, e l'Aventino minacciato da una parte del Pdl sia stato derubricato a semplice pausa di poche ore, ieri abbiamo assistito alla prova generale di ciò che può accadere al nostro Parlamento nelle prossime settimane. Ostaggio di vicende extraparlamentari, sulle quali né le Camere, né il governo e nemmeno il capo dello Stato possono alcunché. Eppure immediatamente investito, e potenzialmente dissolto, dallo tsunami politico che quelle vicende giudiziarie sono in grado di provocare.

Gli attori visti ieri in scena non rassicurano sull'esito. In troppi puntano a trarre un vantaggio di parte dalla rovina comune. Quelli che nel partito di Berlusconi sfruttano la drammaticità della sua ora per acquisire benemerenze e colpire l'ala governativa. Quelli che nel Pd, per lo piu renziani, non vedono l'ora di affondare Letta magari in nome di una riscoperta purezza antiberlusconiana. E quelli che, stando all'opposizione, pensano che il loro compito sia fomentare il tanto peggio tanto meglio.

Non si spiegano altrimenti la teatralità e al contempo l'incongruenza delle parole e dei gesti cui abbiamo assistito. Beppe Grillo, mentre urla che «l'Italia è un Paese in macerie» e che «non c'è più tempo», chiede come rimedio lo scioglimento del Parlamento e nuove elezioni, perché per un'altra rissa elettorale c'è sempre tempo. I suoi senatori, in un gesto forse inconsapevolmente peronista, si trasformano in descamisados togliendosi in aula la giacca e la cravatta e fischiando come allo stadio la squadra avversaria. I cosiddetti falchi del Pdl, nelle cui mani è rimasto il partito dopo che la sua parte migliore è emigrata al governo, confondono la Cassazione con un Tribunale speciale e invocano il ritorno alle urne come una nuova Resistenza.

Certo, la decisione presa ieri in Parlamento di sospendere i lavori per un giorno, piccolo surrogato concesso al Pdl in rivolta per l'imminenza della sentenza Berlusconi, è fuori dal comune (anche se è prassi per i congressi di partito). Ma purtroppo è l'intera situazione in cui ci troviamo ad essere fuori dal comune, come testimonia la visita serale di Enrico Letta al Quirinale. Comunque la si veda, se ne dia la responsabilità all'imputato Berlusconi che se l'è cercata o ai magistrati che lo perseguitano, la vita e l'operatività del Parlamento e del governo sono infatti costantemente in pericolo. E questo proprio mentre l'Italia arranca, è come schiacciata dal macigno della crisi, tenta disperatamente di rialzarsi, viene di nuovo declassata. Il resto del mondo ci guarda attonito, attendendo di capire se questo grande Paese ha deciso di suicidarsi.

Dal pasticcio in cui si è cacciata la politica c'è una sola via di uscita: assumersi ciascuno una responsabilità collettiva. E c'è solo una bussola: attenersi scrupolosamente alle regole dello Stato di diritto, inventate proprio per tenere separati i poteri. Stiamo camminando sul ciglio del burrone. Per favore, smettetela di spingere.

11 luglio 2013 | 7:44
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Antonio Polito
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« Risposta #48 inserito:: Agosto 04, 2013, 08:11:11 am »

L'EDITORIALE

Siate seri, tutti


La sentenza della Cassazione chiude un lungo ciclo di storia italiana, iniziato quasi diciannove anni fa con un mandato di comparizione della Procura di Milano. Ieri la Corte suprema, le cui decisioni sono definitive, ha sancito la prima condanna senza appello di Silvio Berlusconi: egli deve dunque essere da oggi considerato colpevole del reato di frode fiscale, oltre ogni ragionevole dubbio. È per lui un colpo molto duro, come dimostra il turbamento del suo messaggio di ieri sera; ma lo è anche per l'Italia e per la sua immagine internazionale, perché l'imputato è stato per tre volte capo del governo, e per il tempo restante capo dell'opposizione. Il conflitto di interessi dell'imprenditore che si è fatto politico ha pagato così il suo prezzo più alto: è infatti il suo agire di imprenditore che è stato sanzionato dai giudici, nella convinzione che sia proseguito anche mentre sedeva a Palazzo Chigi. Se è certamente possibile sostenere che nei confronti di Berlusconi ci sia stato in questi diciannove anni un accanimento da parte degli inquirenti, da lui ieri nuovamente lamentato, questa sentenza ci dice che stavolta le accuse sono state provate, e che dunque non erano infondate.

La Suprema corte ha però rinviato a Milano, per una nuova deliberazione in Appello, il calcolo degli anni di interdizione dai pubblici uffici. E questa decisione, seppure presa in punto di diritto, apre un dibattito in Parlamento chiamato a decidere della decadenza dal Senato del leader di uno dei partiti che sostengono il governo Letta. Per Berlusconi non cambia molto, perché l'interdizione comunque arriverà. Ma per l'Italia qualcosa cambia.

Se si escludono infatti le due troppo forti minoranze che si sono aspramente fronteggiate in questo ventennio (rendendo il Paese «aspramente diviso e impotente a riformarsi», come ha detto ieri Napolitano), la grande maggioranza degli italiani (e i mercati, e il resto d'Europa) guardano a queste vicende giudiziarie con un solo metro di giudizio: quanta instabilità porteranno, quanta influenza avranno sul governo, quali conseguenze produrranno sullo sforzo collettivo che stiamo facendo per tornare con la testa fuori dall'acqua, dopo anni di crisi durissima.

La condanna di Berlusconi non può essere certo considerata un fatto «privato». È anzi un fatto pubblico e politico al massimo livello. Produrrà dunque certamente conseguenze politiche. Per esempio metterà il Pdl di fronte alla realtà di una leadership menomata, impedita o agli arresti domiciliari, aizzando quelli che non aspettavano altro per rinchiudersi nel bunker e dare l'ultima battaglia e forse allontanando, invece di avvicinare, il tema della successione.

Per esempio obbligherà il Pd a fronteggiare un nuovo attacco del partito giustizialista, il quale pretende che sia Epifani a rendere esecutiva la sentenza aprendo una crisi di governo. Ma proprio chi ha strillato, da un lato e dall'altro, che la giustizia deve essere indipendente dalla politica e viceversa, dovrebbe oggi dimostrare coerenza accettando il principio della separazione dei poteri, l'invenzione su cui si basa lo Stato di diritto. Non sarà affatto facile. La sorte del governo resta precaria. L'unico modo di ammortizzare il colpo micidiale subìto ieri dal sistema politico italiano sarebbe quello di seguire l'invito rivoltogli dal capo dello Stato ad accettare la realtà, a tracciare una linea nella sabbia, a mettere un punto a capo e ripartire, anche affrontando finalmente il grande problema dell'amministrazione della giustizia. D'altra parte chi propone soluzioni diverse avrebbe il dovere di spiegare anche che cosa ci si guadagnerebbe a ricominciare oggi da dove partimmo 19 anni fa.
Avrebbe il dovere di spiegare a chi e a che cosa servirebbe una crisi di governo.

2 agosto 2013 | 7:42
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ANTONIO POLITO

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_02/siate-seri-tutti-antonio-polito_cb30974c-fb2c-11e2-be12-dc930f513713.shtml
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« Risposta #49 inserito:: Agosto 14, 2013, 11:18:25 pm »

Una via ragionevole

Prendendo carta e penna, nel modo pubblico con cui ha finora sempre motivato ogni sua decisione, il capo dello Stato ha tratteggiato ieri una linea di divisione tra i poteri. Se i protagonisti di questa torrida estate politica, in primis Berlusconi, uniranno tutti i trattini come in quel gioco della Settimana Enigmistica, potranno trovare l'uscita dal labirinto, evitando all'Italia di «ricadere nell'instabilità e nell'incertezza» e di pagarne il salatissimo prezzo.

La prima cosa che deve essere chiara è che di «una sentenza definitiva, e del suo obbligo di applicarla, non può che prendersi atto».
Vale innanzitutto per il condannato. Non c'è nessun modo di sovvertirla in uno Stato di diritto, l'unico grado di giudizio superiore non è di questa Terra, dunque sarebbe saggio accettarla. Il che non implica rinunciare a criticarla o a dichiararsi innocente. Ma implica smetterla di minacciare ritorsioni sulla vita delle istituzioni, anche perché le ipotesi di scioglimento delle Camere che vengono agitate sono «arbitrarie e impraticabili», oltre che potenzialmente «fatali».

Dentro questa cornice, che respinge seccamente ogni pressione per un intervento al di fuori o al di là dei suoi poteri costituzionali, Napolitano indica la strada che può seguire la politica, nell'ambito della sua autonomia. La questione formalmente sollevata dai capigruppo del Pdl, l'«agibilità politica» del leader di un grande partito cruciale per la governabilità, è presa sul serio perché rilevante. Può essere affrontata in due modi: con misure di applicazione della pena che, essendo escluso il carcere, siano modulate sul caso specifico; e con la libertà di Berlusconi stesso e del suo partito di decidere sul futuro di quella leadership, che non è competenza di nessuna condanna penale (non è stato forse casuale che proprio ieri, poche ore prima della nota del Quirinale, Marina Berlusconi abbia nettamente escluso una successione).
Eventuali atti di clemenza non possono oggi neanche essere considerati dal capo dello Stato, visto che non sono stati neanche debitamente richiesti. Se e quando lo saranno, diventerà obbligatorio valutarli alla luce delle leggi e della prassi. Perché, per l'appunto, di clemenza si tratterebbe e non di impossibili riparazioni o di compensazioni. Non è insomma in corso alcuna trattativa Stato-Pdl.

Quelli che pretendevano che Napolitano si trasformasse in un deus ex machina per assolvere il condannato, o che al contrario volevano una nuova sentenza per estrometterlo dalla vita politica, oggi non saranno contenti. Ed è un bene. Rassicurati dovrebbero essere tutti quegli italiani, la maggioranza, i quali davvero non capiscono perché, proprio ora che lo spread e la recessione sembrano aver esaurito la loro spinta propulsiva, si debba ricominciare daccapo con atti di autolesionismo politico.
La necessità di una fase di «distensione» dopo vent'anni di lotta politica senza quartiere resta la stella polare di Napolitano. Deve esserlo anche di Berlusconi, nell'ora più difficile della sua vicenda, e del partito che esprime il capo del governo.

14 agosto 2013 | 7:21
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ANTONIO POLITO

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_14/una-via-ragionevole-antonio-polito_c4e81992-049a-11e3-a76b-5d1a59729335.shtml
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« Risposta #50 inserito:: Agosto 21, 2013, 07:26:51 pm »

Il precedente del '93

Il Cavaliere, Craxi e quel discorso da evitare

La tentazione di ripetere l'attacco ai giudici che portò alle monetine del Raphael


Se davvero Silvio Berlusconi pronuncerà il suo gran discorso contro i giudici al Senato, prima del voto che potrebbe espellerlo dal Parlamento, allora l'impressionante analogia tra la fine della Prima Repubblica e la crisi della Seconda sarà completa. E non sarà una buona notizia per l'Italia, perché la Storia non dovrebbe mai ripetersi. Una democrazia che vive per due volte in vent'anni il trauma di un collasso politico per via giudiziaria è infatti certamente malata.

Fu proprio un discorso alla Camera di Bettino Craxi a mettere una pietra tombale sull'assetto politico del Dopoguerra. E non mi riferisco a quello più celebre del 3 luglio del 1992, molto evocato in questi giorni, in cui il leader del Psi, ancora solo sfiorato dalle inchieste su Tangentopoli, usò il dibattito sulla fiducia al primo governo Amato per una formidabile chiamata di correo a tutti partiti sul finanziamento illegale: «Se gran parte di questa materia deve essere considerata puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest'Aula che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo». Nessuno si alzò. Ma nessuno ebbe neanche il coraggio di riconoscere che si trattava di un problema politico, da risolvere politicamente. Tutti sperarono che la campana suonasse solo per Craxi. E le cose andarono diversamente.

Dieci mesi dopo, il 29 aprile del 1993, il leader socialista fu infatti costretto a ripetere quelle frasi in un contesto ben diverso: non più per salvare il sistema ma per salvare se stesso, per chiedere all'aula di Montecitorio di respingere le richieste di autorizzazione a procedere della Procura di Milano contro di lui. Ed è a quell'intervento, l'ultimo mai pronunciato da Craxi in un'aula parlamentare, che il discorso cui starebbe lavorando Berlusconi pericolosamente si avvicina.

Fu infatti un attacco ad alzo zero contro i pm di Milano. Una requisitoria contro gli «arresti illeciti, facili, collettivi, spettacolari e perfino capricciosi... le detenzioni illegali che fanno impallidire la civiltà dell'habeas corpus... le violazioni sistematiche del segreto istruttorio... la giustizia che funziona ad orologeria politica... il teorema... le inchieste su di me, sulle mie proprietà, sui miei figli, sui miei amici... ». È difficile che , per quanto possa essere originale, Berlusconi riuscirà a fare di meglio: frasi e giudizi di quel discorso sono da allora diventati il canovaccio di ogni polemica sull'«uso politico della giustizia», per usare il titolo del libro di un altro socialista, Fabrizio Cicchitto, cui si dice che Berlusconi si stia ispirando in queste ore. Ma è anche impressionante che l'uomo che conquistò l'Italia sull'onda di Tangentopoli e della crisi del debito pubblico del '92, chiamandola alla rivolta contro i vecchi partiti incapaci e corrotti, rischi ora di uscire di scena sconfitto sugli stessi fronti, i processi e i mercati, come se in questo ventennio di dominio elettorale non fosse riuscito a cambiare neanche una virgola dell'equazione politica nostrana.

Quell'ultimo discorso di Craxi ebbe un effetto straordinario. Positivo per lui nell'Aula, dove la sera, a sorpresa, e forse con l'aiuto segreto dei leghisti che puntavano a far saltare tutto, la maggioranza dei deputati respinse la richiesta dei pm sotto gli occhi di Giorgio Napolitano, allora seduto sullo scranno più alto di Montecitorio. Ma ebbe un effetto catastrofico, per Craxi e per tutta la Prima Repubblica, fuori dall'Aula. La sera dopo, davanti all'Hotel Raphael a Roma, ci fu la orribile gogna delle monetine, che cambiò per sempre la cultura politica del nostro Paese; il governo Ciampi e l'intera legislatura ne uscirono irrimediabilmente azzoppati; Craxi fu costretto a dimettersi da segretario, perse nel '94 l'immunità parlamentare e prima che potesse essere arrestato fuggì ad Hammamet, da esule secondo i suoi sostenitori, da latitante secondo i suoi persecutori.

Un discorso analogo, non foss'altro che per scaramanzia, sembrerebbe dunque sconsigliabile oggi a Silvio Berlusconi, anche se bisogna ammettere che le differenze, tra tante analogie, non mancano. Craxi infatti, al momento in cui prese la parola in Aula, era già stato condannato dal tribunale dell'opinione pubblica, che aveva individuato in lui l'agnello sacrificale perfetto per liberarsi di una Repubblica da tempo sprofondata nella corruzione e nell'inefficienza, rivelate all'improvviso come all'alzarsi di un sipario dalla caduta del Muro di Berlino. Berlusconi ha invece ancora oggi una consistente parte dell'Italia dalla sua parte, e su quella evidentemente conta nell'ipotesi di un'ultima, forse disperata battaglia elettorale, nella speranza che l'Italia di oggi sia disposta a mettere per molti mesi da parte lo sforzo di ripresa economica per dedicarsi al duello finale tra giustizia e politica.

Soprattutto, la strategia di Berlusconi non può contemplare l'espatrio come extrema ratio. Non glielo consente la vastità degli interessi che sarebbe costretto a lasciarsi indietro, abbandonati a una sorte incerta: le aziende, i figli, le case, un partito. Senza contare che, a differenza di Craxi quando varcò il confine, Berlusconi non ha più il passaporto.

20 agosto 2013 | 9:11
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Antonio Polito

da - http://www.corriere.it/politica/13_agosto_20/il-cavaliere-craxi-e-il-discorso-da-evitare-antonio-polito_da18a916-095a-11e3-90e1-47a539d609c3.shtml
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« Risposta #51 inserito:: Settembre 03, 2013, 09:47:37 am »

LONDRA, WASHINGTON E I LEADER MORBIDI

La rivincita del Parlamento


I due più antichi Parlamenti del mondo si sono presi una storica rivincita. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti il governo ha dovuto riconsegnare nelle loro mani il più sovrano dei poteri, quello sulla pace e sulla guerra.

Né Cameron né Obama vi erano obbligati. Londra dichiarò guerra alla Germania nazista dopo l'invasione della Polonia senza consultare la Camera dei Comuni. La guerra di Corea (Truman) e quella del Kosovo (Clinton) non furono mai autorizzate dal Congresso. Ci troviamo dunque di fronte a una svolta. La democrazia parlamentare, una delle più grandi invenzioni della civilizzazione anglosassone, sembrava ormai sopraffatta dall'emergere di un mondo nuovo, fatto di decisioni globalizzate e sovranazionali, o dettate dai sondaggi e incarnate da leader che ne rispondono solo al popolo. E invece, tra il popolo e il leader, ecco rispuntare il Parlamento.

È una lezione che parla anche a noi italiani, che il Parlamento l'abbiamo degradato oltre misura, trasformandolo in un sinedrio di nominati cui qualcuno vorrebbe ora togliere perfino la libertà dal vincolo di mandato. Democrazia vuol dire «governo del popolo, eletto dal popolo, per il popolo», come ha scandito Obama citando un celebre passo di Lincoln. Ma è un popolo ascoltato attraverso i suoi rappresentanti, secondo la legge, e non manipolato come un oracolo mediatico, nelle piazze o in tv.

Questa novità apre però anche enormi problemi. Il primo è l'indebolimento del potere esecutivo perfino lì dove è più forte. La democrazia americana non è infatti parlamentare, ma presidenziale; assegna al presidente il ruolo di «comandante in capo» delle forze armate proprio per permettergli di difendere la sicurezza nazionale con la rapidità e l'efficacia necessarie. L'affidarsi di Obama al Congresso - lo si capisce dai festeggiamenti dei carnefici siriani - è quindi anche segno di un tentennamento, di un'indecisione. Che cosa accadrebbe se si ripetesse in una crisi più grave? Che ne sarebbe della forza e della credibilità degli Usa, la «nazione indispensabile»? Una potenza smette di essere tale se subordina gli impegni internazionali assunti dal suo governo alle dinamiche del conflitto politico interno. Per questo Westminster da più di duecento anni non votava contro il premier in materia di guerra, e quasi sempre con l'accordo dell'opposizione: perché il Parlamento «speaks for Britain ».

La decisione politica sta certamente rimpatriando all'interno della sfera nazionale, l'unica dove possa esercitarsi il controllo democratico dei Parlamenti. Ma resta da vedere quanto questo processo sia compatibile con gli obblighi di una comunità globale sempre più interdipendente. Non è un caso se la crisi finanziaria, prima in America e poi in Europa, sia stata gestita dai governi, e più ancora dalle banche centrali, tenendo le decisioni il più possibile lontane dai Parlamenti. La stessa Unione Europea, così come è organizzata oggi, potrebbe non sopravvivere a una revanche della democrazia nazionale. Sappiamo tutti che fine farebbe l'euro se il Bundestag tedesco, appellandosi alla Corte costituzionale su ogni decisione europea, rendesse un po' alla volta i Trattati carta straccia.
Festeggiando il ritorno dei Parlamenti, sarà dunque bene non dimenticare che nella forza della democrazia risiedono anche le sue debolezze, e che su quelle hanno sempre contato tiranni come Assad e autocrati come Putin. Anche perché una democrazia indecisa e imbelle smette presto di essere una democrazia.

2 settembre 2013 | 8:08
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ANTONIO POLITO

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_02/rivincita-parlamento_d4435eb8-138d-11e3-b6d8-d9e68bde9db1.shtml
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« Risposta #52 inserito:: Settembre 06, 2013, 11:33:32 pm »

IL CAVALIERE E LA MINACCIA DI CRISI

Il buon senso virtù perduta



C'è qualcosa di irrazionale nel comportamento di Silvio Berlusconi in queste ore, e che solo uno stato d'animo di grande tormento personale può spiegare. Chiuso nella sua villa di Arcore, il leader del Pdl insiste infatti nel pretendere ciò che non può avere, e nel non chiedere ciò che dovrebbe avere.

Berlusconi dice che la sua è una battaglia in difesa dello Stato di diritto, che nella giunta del Senato rischia di essere calpestato da chi vuole liberarsi di lui approfittando della condanna; ma per vincere quella battaglia minaccia continuamente il ricorso alla forza, e cioè la ritorsione sul governo e le dimissioni dei suoi ministri. Diritto e forza sono agli antipodi. Per evitare un giudizio sommario sulla sua decadenza dovrebbe invece chiedere di essere ascoltato, di addurre le sue ragioni, di sostenerle con pareri giuridici. Sfidare i commissari a comportarsi come tali, e non come agit-prop dell'antiberlusconismo. Dovrebbe chiedere di essere trattato come qualunque altro senatore, e avrebbe ragione (anche se Violante è stato quasi linciato per aver ricordato questo semplice principio di legalità). Invece sembra pretendere dal Pd di essere assolto in contumacia e sotto minaccia. D'altra parte i suoi giornali trattano il presidente della Repubblica come se fosse il capo del complotto inteso a farlo fuori, ma nello stesso tempo gli chiedono la grazia. Il che, francamente, non ha senso. Napolitano non può essere insieme l'aguzzino e il salvatore, da lui non ci si può aspettare niente di diverso da quello che ha pubblicamente annunciato nel messaggio di Ferragosto.

Ciò che manca nel comportamento dell'ex premier, ed è una mancanza grave anche per quella parte cospicua di italiani che non vogliono vederlo uscire di scena, è un atto di umiltà. Il tema delle dimissioni dal Senato si porrà comunque quando la Corte d'appello di Milano emetterà la sentenza sull'interdizione dai pubblici uffici, che non potrà essere oggetto di trattativa politica. Ma anche adesso, nel frattempo, ci sono molti altri modi in cui Berlusconi può cercare sul versante politico una riabilitazione che è impossibile sul piano giudiziario.

La minaccia di far pagare al Paese il prezzo della sua condanna non è tra questi. Era stato del resto proprio lui, il Cavaliere, a indicare subito dopo le elezioni questa formula e questo governo come condizione per evitare il collasso. La prima volta che salì al Quirinale propose addirittura di darne la guida a Pier Luigi Bersani, il suo avversario in campagna elettorale. Mandare tutto all'aria oggi non è nell'interesse degli italiani; non è dunque neanche negli interessi delle sue aziende, che del benessere degli italiani e della credibilità internazionale dell'Italia hanno bisogno come qualsiasi altra azienda. E non ha effetti sulla sua situazione processuale, che il giorno dopo le elezioni sarebbe identica.

Ammesso che riuscisse nell'intento di riportarci presto alle urne, una manovra del genere ci esporrebbe alla seguente stravaganza: votare il 24 novembre con una legge elettorale che il 3 dicembre la Corte costituzionale potrebbe dichiarare illegittima, e che in ogni caso non è in grado di dar vita a una maggioranza parlamentare. È vero che la storia politica recente del nostro Paese ha tratti di schizofrenia, ma questo sarebbe veramente troppo. Siamo fiduciosi che Berlusconi ce lo risparmi.

5 settembre 2013 | 7:51
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ANTONIO POLITO

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_05/il-buon-senso-virtu-perduta-antonio-polito_3e1c6e96-15ec-11e3-a860-3c3f9d080ef6.shtml
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« Risposta #53 inserito:: Settembre 20, 2013, 05:11:04 pm »

Stabilità, solo da noi fa orrore


Il governo Letta si è appena salvato da una crisi che già ci si interroga sulla prossima. Berlusconi fa capire che la potrebbe aprire sulle tasse, Renzi che la potrebbe aprire per vincere le elezioni, e il premier fa capire che ha capito e che quindi «giocherà all'attacco». La politica all'italiana è l'opposto del calcio all'italiana: tutti all'attacco, e nessuno che pensa mai a difendere.

Ben diversa è quella tedesca. Nonostante l'incertezza sull'esito del voto di domenica, dal quale nessuno sa che maggioranza parlamentare uscirà, c'è infatti in Germania certezza di stabilità politica: tutti sanno che Angela Merkel sarà per la terza volta Cancelliera, e che la sua politica proseguirà grosso modo immutata.

Questo paradosso meriterebbe una riflessione, soprattutto da parte di chi in Italia lamenta che la stabilità è sì una buona cosa, ma poi non tanto, perché sospende la lotta politica, inceppa l'alternanza, offende i sentimenti identitari degli elettori. C'è invece in Europa un grande Paese dove la gente la pensa diversamente: viva il conflitto e l'identità, ma è più importante ciò che il governo fa, e se lo fa a vantaggio della nazione.
Così se i liberali, attuali alleati della Merkel, resteranno fuori dal Bundestag, la Cdu farà l'alleanza con i suoi avversari socialdemocratici, e sarebbe la terza volta nella storia; d'altro canto la Spd, se pure servisse per vincere, esclude di allearsi con la sinistra della Linke preferendole la Cdu; e nessuno si alleerà mai con il nuovo partito anti euro, qualsiasi sia il suo risultato.
Si può credere che i due maggiori partiti tedeschi siano più indecisi sulle loro radici, meno dotati di un retaggio ideale e culturale, e che per questo accettino di mescolarsi in modi innaturali, a differenza dei nostri, tetragoni, teutonici addirittura nel difendere le loro identità? Difficile: perché i partiti tedeschi esistono da sempre, si chiamano sempre allo stesso modo, e fanno parte delle famiglie politiche europee. Mentre quelli italiani hanno pochi anni di vita, cambiano nome di continuo e in Europa non sanno dove sedersi.

Dunque la peculiarità del sistema politico tedesco deve essere un'altra: e cioè che costringe i partiti a confrontarsi costantemente con il bene comune, e chi non riesce a servirlo paga un prezzo. È la prova che la stabilità, prima ancora che delle leggi elettorali, è frutto di cultura politica. In Germania il premio di maggioranza non c'è, e capita spesso che non ci sia una maggioranza dopo il voto. Ciò non impedisce al nostro sistema, col premio, di essere molto più instabile di quello tedesco.

Capisco che per noi italiani una politica così stabile debba sembrare noiosissima. Basti pensare che i tedeschi chiamano la Merkel mutti , la mamma, per riferirsi a quel suo stile «frugale, sobrio, volutamente sciatto». Un tipo così da noi non susciterebbe l'interesse di un Signorini o di un Briatore. Ma del resto non si può avere tutto nella vita: si vede che i tedeschi hanno rinunciato a un po' di divertimento in cambio di un po' di benessere.

20 settembre 2013 | 7:28
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ANTONIO POLITO

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_20/stabilita-governo-letta_f05a4926-21b2-11e3-897d-ba51c5bbc4c9.shtml
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« Risposta #54 inserito:: Settembre 28, 2013, 04:54:25 pm »

Il falò della servitù

Pare che circolino dei moduli prestampati per consentire ai parlamentari del Pdl di presentare le loro dimissioni senza star lì a perder tempo. Ma poiché la Costituzione dice che il parlamentare è senza vincolo di mandato, e questa assomiglia molto a una servitù di mandato, si precisa che chi vuole può anche scriversela di suo pugno la lettera, con le motivazioni che preferisce, purché la firmi. A questo il Porcellum ha ridotto il Parlamento, e non solo a destra per la verità: a un bivacco di subordinati.

Ma del resto quasi tutto è senza precedenti in questa storia delle dimissioni di massa postdatate. Al punto che il presidente della Repubblica ha sentito il dovere di alzare la voce come non aveva mai fatto prima, condannandola con parole durissime, segnalandone la «gravità e assurdità». Napolitano l'ha interpretato come un atto che porta il gioco politico già estremo di queste settimane oltre il segno, oltre un punto di non ritorno. Le dimissioni dei ministri del Pdl avrebbero sì aperto una crisi di governo; ma le dimissioni dei parlamentari aprirebbero una crisi costituzionale, mettendo in conflitto tra di loro i poteri dello Stato. Esse minacciano, cioè, un atto al limite dell'eversione (la serrata del Parlamento) per protestare contro ciò che si definisce un «atto eversivo» (un voto del Parlamento sulla decadenza).

Berlusconi sembra dunque sperare che la decadenza dell'intero Parlamento possa rendere meno amara la inevitabile fine della sua vita parlamentare. Coinvolgendo le istituzioni nel proprio destino giudiziario, accetta però il teorema dei suoi nemici, che vorrebbero ridurre la sua storia politica ventennale a una vicenda di processi e di condanne. E toglie le castagne dal fuoco a chi nel Pd alimenta da mesi il falò dell'intransigenza, diventando lui il sicario di un governo in realtà mai digerito a sinistra.

Ma tant'è: da oggi si può davvero dire che l'esecutivo Letta è al capolinea. Non avrebbe senso assumere altri impegni di bilancio, per evitare l'aumento dell'Iva o il ritorno dell'Imu, quando non si sa chi potrà rispettarli. Il presidente del Consiglio deve dunque fare la cosa giusta e istituzionalmente corretta: andare alle Camere per verificare se ne ha ancora la fiducia. In questi mesi, anche per gli errori di un governo che ha sommato invece di selezionare le pretese dei partiti, Letta non è riuscito a domare il fronte di chi voleva le elezioni a febbraio e che ha sfruttato la vicenda giudiziaria di Berlusconi per averle. Ora non gli resta che l'ultima carta: rimettere al centro la ragione per cui è nato.

Il 15 di ottobre, infatti, non è solo la data in cui Berlusconi andrà agli arresti domiciliari o ai servizi sociali. È anche il termine per presentare la legge di Stabilità, e cioè il principale strumento di politica finanziaria dello Stato. Senza di quello, l'Italia può tornare nel gorgo dove stava affogando nel novembre del 2011. Due anni di lacrime e sangue vanificati in un istante. Vediamo chi vota per la rovina nazionale.

27 settembre 2013 | 8:08
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ANTONIO POLITO

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_27/falo-della-servitu-polito_59a34cd6-2733-11e3-94f0-92fd020945d8.shtml
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« Risposta #55 inserito:: Ottobre 09, 2013, 04:40:28 pm »

Lo strappo necessario

Non sappiamo ancora se i cinque ministri diversamente berlusconiani vinceranno oggi la sfida senza precedenti che hanno lanciato al loro fondatore. Berlusconi ha sette vite e non è escluso che se ne inventi un’ottava: conosce l’arte della seduzione dei senatori e ha ancora abbastanza agilità per una giravolta dell’ultimo istante. Però sappiamo che i cinque ministri stanno facendo la cosa giusta. Non solo perché, salvando il loro governo, salverebbero anche l’unico governo che abbiamo. È una cosa cui di solito le nazioni tengono. L’Inghilterra, per esempio, se ne tiene stretto uno debole, con una «strana» maggioranza e clamorosamente sconfitto a Westminster; ma nessuno dei maestri che dall’estero danno lezioni di democrazia all’Italia chiede le elezioni anticipate a Londra o storce il naso per una grande coalizione a Berlino.

Il governo Letta non ha fatto miracoli, e non migliorerebbe certo se per sopravvivere si consegnasse a una maggioranza raccogliticcia. Ma potrebbe rinascere su basi programmatiche e temporali nuove se fosse sorretto da una nuova maggioranza politica, temprata nel fuoco di una battaglia parlamentare aperta e senza rete. L’alternativa è del resto un caos cui nemmeno le elezioni potrebbero mettere riparo, perché la legge elettorale è già inservibile e presto sarà incostituzionale. Ma non è solo il governo la posta in gioco del quintetto Alfano. Forse ancor più importante è la riforma del sistema politico che la loro battaglia può favorire. Prima o poi doveva accadere: il declino di Berlusconi rendeva da tempo indispensabile, e urgente dopo la sentenza definitiva che lo priverà del seggio, la definizione di una nuova rappresentanza per il grande popolo dei moderati o, per meglio dire, di coloro che non voteranno mai a sinistra. Il futuro centrodestra avrà il volto di Santanchè e Verdini o le idee di Alfano e Quagliariello? Assomiglierà più alla Dc o al Msi? Si troverà a suo agio nel Partito popolare europeo o ne sarà trattato come il cugino pazzo? Sarà un partito carismatico senza più il carisma o democratico?

C’è chi non crede alla possibilità che uomini e donne nati e cresciuti sotto la stella di Berlusconi abbiano davvero la forza di compiere una simile svolta. È vero, è molto difficile. Ma la politica democratica è parricidio. Non ci sarebbe stato Fanfani senza quello di De Gasperi. Né Sarkozy senza quello di Chirac, o Merkel senza quello di Kohl. Piuttosto, se gli uomini nuovi del Pdl riusciranno ad arrivare fino in fondo sfidando lo strapotere economico e mediatico che già si abbatté su Fini, potrebbero affiancarsi ai giovanotti che stanno prendendo il potere nel Pd. Non è un caso che perfino Renzi, finora apparso ansioso solo di urne, abbia ieri dato via libera a Letta per quella che può diventare una vera e propria rivoluzione generazionale, a destra e a sinistra: quasi la nascita di una terza Repubblica. Tutto dipende dal Parlamento, e tutto ancora può finire male. Ma se questa crisi segnasse il superamento del berlusconismo sarebbe l’esito più imprevedibile del governo di larghe intese, dai miopi accusato di essere nato per salvare il berlusconismo.

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06 ottobre 2013 (modifica il 06 ottobre 2013)
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http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_02/strappo-necessario-88ca3cc4-2b2d-11e3-93f8-88ca3cc4-2b2d-11e3-93f8-300eb3d838ac.shtml
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« Risposta #56 inserito:: Ottobre 13, 2013, 05:18:22 pm »

IL DOPO CAVALIERE E GLI ERRORI DELLA SINISTRA

Come se niente fosse accaduto

I l rischio che una destra radicale conquisti la scena politica in Italia non è certo svanito con la vittoria dei «governativi» nel Pdl. Come dimostrano i Tea Party, capaci di prendere in ostaggio il Grand Old Party repubblicano spingendo l'America fino al limite del default, o i sondaggi di Marine Le Pen in Francia, o l'affermarsi di partiti antieuro in Austria e in Germania, il vento della storia non soffia certo oggi nelle vele dei moderati.
Farebbe bene a tenerlo a mente innanzitutto la sinistra italiana. Molti indizi segnalano infatti che sta ricadendo in un antico errore: quello di considerare Berlusconi un accidente storico, eliminato il quale il popolo tornerebbe a seguire la retta via progressista. È un'illusione perché, come dice il titolo di un bel libro di Roberto Chiarini, alle origini di questa nostra «strana Repubblica» c'è il fatto che «la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra». Ci sono dunque tendenze di fondo della nostra società destinate a sopravvivere al berlusconismo, magari dando vita a nuove e imprevedibili forme politiche (una di queste, già all'opera, è il grillismo).
Invece a sinistra è tutto un fiorire di propositi di rivincita. Dario Di Vico su questo giornale ha già segnalato quanto sventata fosse l'idea di ri-tassare piccoli appartamenti urbani presentandoli come abitazioni di lusso. Ma il contagio si estende. In una recente intervista a La Stampa , Matteo Renzi ha risposto così alla domanda su chi pagherà il costo della sua rivoluzione: «Bisogna toccare i diritti acquisiti. Chi percepisce pensioni d'oro su cui non ha versato tutti i contributi deve accettare che sulla parte regalata venga imposto un prelievo». Poiché in Italia sono state considerate «pensioni d'oro», colpite dal blocco delle indicizzazioni, anche quelle superiori ai millecinquecento euro al mese, potrebbe trattarsi dei «diritti acquisiti» di non pochi italiani. Nella stessa intervista Renzi ha riaperto le porte anche all'idea della patrimoniale: «Molti amici imprenditori si dicono pronti a pagarla». Gli amici imprenditori forse sì. Ma tutti gli altri, i piccoli proprietari di casa, gli artigiani, i commercianti? Domani il futuro leader del Pd presenterà il suo programma: sarà interessante capire se anche lui si propone di tosare i ceti medi per finanziare la spesa pubblica.
Ancor più emblematico è ciò che sta accadendo sul tema dell'immigrazione. È perfettamente lecito per la sinistra sostenere che la Bossi-Fini è da abrogare (non foss'altro perché è vecchia); ed è vero che il reato di clandestinità va superato perché ha prodotto solo dolore ai migranti e inutile superlavoro alle Procure. Ma bisognerebbe al contempo dire con che cosa si vuole sostituire la normativa che fu varata dal centrodestra. Altrimenti si dà al Paese l'impressione che, eliminato Berlusconi, la sinistra si prepari ad aprire le porte indiscriminatamente ai flussi migratori, magari fornendo traghetti e voli di linea. Il che non solo non avviene in nessun Paese europeo, a partire dai più civili; ma potrebbe anche essere foriero di nuove tragedie, perché richiamerebbe sulle coste africane folle di disperati più grandi di quelle che ogni notte consegnano la loro vita nelle mani degli schiavisti.
Non a caso Grillo, smentendo i suoi senatori, si è precipitato ieri a lasciar solo il Pd su questa strada, che giudica molto impopolare. A dimostrazione del fatto che i problemi della sinistra italiana non decadranno insieme con Berlusconi.
11 ottobre 2013
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ANTONIO POLITO

Da - http://www.corriere.it/politica/13_ottobre_11/come-se-niente-fosse-accaduto-editoriale-polito-3342c83a-3234-11e3-b846-b6f7405b68a1.shtml
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« Risposta #57 inserito:: Ottobre 17, 2013, 05:14:00 pm »

LA STABILITÀ SENZA AMBIZIONI

Larghe intese, piccoli segni

Sembra che Letta e Alfano abbiano deciso di lasciare inserito il pilota automatico. Ricordate la metafora? La usò Mario Drag h i s u b i t o d o p o l e elezioni italiane. Non temete, disse ai mercati, i processi di risanamento messi in moto dal governo Monti andranno avanti col pilota automatico. In effetti sta accadendo. Mentre tutti in Italia protestano per il minimalismo della legge di Stabilità, i mercati tirano invece un sospiro di sollievo e buttano giù lo spread. Ormai meno si fa, e più i conti pubblici migliorano. La prova sta nella Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza: nel 2014, per la prima volta da molti anni, il deficit tendenziale (cioè come andrebbero le cose a legislazione invariata) è minore del deficit programmatico (cioè come andrebbero le cose dopo le misure del governo).

Hanno dunque ragione gli analisti di Barclays quando dicono che la direzione dell’aereo Italia è giusta. Il problema è che continua a perdere quota. E se Letta e Alfano, pilota e copilota, non riaccendono i motori, rischiamo di fare la fine dell’Alitalia. Non è infatti saggio traccheggiare in attesa che arrivi la ripresa. Potrebbe anche saltarci. Guardate che è successo alla Fiat nel mese di settembre: le sue vendite sono cresciute nei grandi Paesi europei tranne che in Italia (meno 12%). Avrebbe potuto fare di più il governo per stimolare la crescita, pur rispettando i vincoli europei? Certo che sì. Ma avrebbe dovuto trovare nel bilancio i soldi per finanziare vere riduzioni fiscali sul lavoro e sulle imprese. Invece siamo al punto che ci si congratula per l’inazione sulla spesa pubblica.

Il mancato intervento sulla Sanità, per esempio, è positivo se protegge i servizi essenziali, ma è negativo se conferma gli squilibri e gli sprechi di un settore dove dei costi standard si è persa memoria. Gli unici taglietti, quelli sugli straordinari degli statali, hanno già prodotto una minaccia di sciopero generale dei sindacati: vedrete che in Parlamento si dissolveranno. Perché Letta e Alfano hanno accettato di perdere un anno? Ci si sarebbe aspettato, dopo il voto di fiducia, che i due rinegoziassero da posizioni di forza il patto di governo con i partiti. Invece la legge di Stabilità è il frutto dei soliti compromessi. I due Dioscuri del governo non hanno utilizzato il bonus che avevano appena guadagnato battendo con una spettacolare manovra parlamentare i rispettivi falchi. Anzi, sembrano già tornati in minoranza nei loro partiti. Per usare un gioco di parole di Nino Andreatta, ripreso di recente proprio da Letta, si sono dimostrati bravissimi in «politica» e si sono inceppati sulle «politiche». Ma la politica non può bastare. La maggioranza degli italiani pensa ancora che questo governo sia meglio di nessun governo. Ci metterà però poco a cambiare idea se si convincerà che è un governo inutile perché le larghe intese lo ingabbiano, invece di dagli la libertà di fare ciò che serve. E infatti già ringalluzziscono i nemici di Letta e Alfano: metà Pdl e metà Pd. Se i due piloti non riprendono la cloche, il deficit di politiche si trasformerà inevitabilmente in debolezza politica. E allora anche la stabilità, bene supremo per la ripresa, tornerà a rischio.

17 ottobre 2013
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http://www.corriere.it/politica/13_ottobre_17/larghe-intese-piccoli-segni-f7b73826-36ef-11e3-ab57-6b6fcd48eb87.shtml
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« Risposta #58 inserito:: Novembre 19, 2013, 05:35:09 pm »

PARTITI, CACICCHI E CANTORI

Ognuno per sé senza vergogna

Domani morirà il Pdl. Certo, per rinascere sotto le sembianze di Forza Italia. Ma la nuova-vecchia sigla rischia una scissione prima ancora di nascere. Dobbiamo dunque in ogni caso dare l’addio a un partito venuto alla luce esattamente sei anni fa, il 18 novembre del 2007, su un predellino a piazza San Babila, per diventare il grande partito conservatore che l’Italia non aveva mai avuto. L’idea di riunificare in un unico contenitore tutte le culture (e gli apparati) del centrodestra è miseramente fallita.

Del resto anche il Pd ha così tante volte fallito in questi sei anni di vita la sua missione fondatrice, portare al governo il riformismo italiano, che già è in cerca di un salvatore che lo rifondi, il prossimo 8 dicembre. L’unico partito non ad personam della Seconda Repubblica, ha scritto Mauro Calise nel suo libro Fuorigioco , è morto soffocato dal personalismo di decine di piccoli leader, capaci di dilaniarsi dall’elezione del presidente della Repubblica fino a quella del segretario di Asti, spesso facendo carte false. La rifondazione consiste in questo: diventare un partito personale, sperando che un vero Capo distrugga tutti i capetti.

Bisognerebbe a questo punto parlare di Scelta civica, il partito più giovane; ma lì non si parlano neanche più tra di loro, di che vogliamo parlare? Della Lega, certo, il partito più antico, che si avvia a un congresso fratricida? Oppure dei resti di Alleanza nazionale, il cui conto in banca è sopravvissuto al partito, al punto che forse rifanno il partito per recuperare il bottino?
Ovunque la lotta politica è aspra. Ma in nessun luogo del mondo civile è così intestina, squassa i partiti dall’interno, e produce una tale pletora di cacicchi, cassieri e cantori. I partiti italiani non sono tali perché sono divisi sull’essenziale. Tra le colombe e i falchi del Pdl, per esempio, non c’è una differenza marginale o transitoria: gli uni vogliono stare al governo e gli altri all’opposizione; i primi sognano la democrazia interna, i secondi invocano l’autocrazia. Sono così diversi che se resteranno insieme domani, ricominceranno a litigare dopodomani.

Ovunque la lotta politica non è un pranzo di gala. Ma in nessuna democrazia occidentale i leader non si siedono neanche a tavola. Tra poche settimane nessuno tra i capi dei maggiori partiti italiani starà in Parlamento. Chi volente, chi nolente, Berlusconi, Renzi e Grillo saranno tutti leader extraparlamentari.

Le parole di Giorgio Napolitano, che davanti a papa Francesco ha condannato le «esasperazioni di parte», il «clima avvelenato e destabilizzante», e si è rammaricato di quanto la nostra vita pubblica sia lontana da quella «cultura dell’incontro» che il Pontefice spesso invoca, sono dunque una rappresentazione moderata e perfino generosa dello stato della lotta politica in Italia, nel Parlamento e fuori. Essa in realtà ricorda molto da vicino lo stato di natura descritto da Hobbes, homo homini lupus . Ma si tratta di una danza macabra. Una nazione che perde di vista l’interesse comune prepara la rovina collettiva. L’Italia non ne è distante.

15 novembre 2013
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ANTONIO POLITO
Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_15/ognuno-se-senza-vergogna-36d7f5e8-4dbd-11e3-a50b-09fe1c737ba4.shtml
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« Risposta #59 inserito:: Novembre 22, 2013, 08:01:47 pm »

Gli standard della moralità

Bisognerà mettersi d’accordo sugli standard di moralità pubblica, se vogliamo uscire dall’incubo di questo ventennio. Gli italiani non ne possono più dei livelli record di corruzione, favoritismo e nepotismo; ma il mondo politico è diviso sulle sanzioni. A un estremo ci sono quelli che perdonerebbero tutti per condonare se stessi; all’altro i Torquemada che condannerebbero chiunque pur di guadagnarsi il favore popolare. In mezzo c’è il Pd. Come dimostra il caso Cancellieri, la linea di frontiera passa di lì. E non è solo frutto di tatticismo, Renzi che vuole fare le scarpe a Letta, Cuperlo che vuole farle a Renzi, più una pletora di personaggi minori in cerca di fama. C’è qualcosa di più profondo.
Una deputata democratica confessava qualche giorno fa il suo imbarazzo: «Mia madre mi ha detto che se salviamo la Cancellieri non ci voterà mai più. Mio marito mi ha detto che non ci voterà più se l’abbandoniamo». È questa incertezza sui principi a spiegare perché il Pd assomigli sempre più a un’agorà e sempre meno a un partito, una piazza dove tutti votano a piacere e molti obbediscono a impulsi esterni. In quale altro partito il segretario avrebbe rinunciato a presentarsi con una sua proposta all’assemblea che doveva decidere sulla sfiducia? C’è dovuto andare il presidente del Consiglio, per ricordare a tutti che se un partito al governo vota con l’opposizione contro il governo, non c’è più il governo. Civati l’ha definito un «ricatto», ma è l’Abc della politica.
Bisogna dunque cercare criteri per giudizi rigorosi ma equanimi, sottratti alla faziosità di quella lotta politica che, anche in assenza di atti giudiziari, non esita a sfruttare brogliacci di polizia, fughe di notizie, voci.
La prima regola è che i fatti contano più delle parole. Dopo quella telefonata - durante la quale il ministro non ha parlato come un ministro - la Cancellieri compì atti contrari ai propri doveri d’ufficio? Secondo la Procura, secondo i vertici del sistema penitenziario, e da ieri secondo il Parlamento, non li ha compiuti. Si fanno spesso paragoni con Paesi più virtuosi ed esigenti, dove i ministri si dimettono per non aver regolarizzato una colf o per aver copiato a un esame. Ma in Paesi con telefoni meno intercettati, la sanzione politica riguarda pur sempre atti effettivi, accertati, gli unici su cui può giudicare l’opinione pubblica. Sui peccati compiuti con pensieri e parole si risponde solo in confessionale, o alla propria coscienza. Anche nel diritto penale le intercettazioni sono considerate uno strumento di ricerca della prova, non la prova.
Seconda regola aurea: l’indignazione non può essere a corrente alternata. Faceva ieri un certo effetto vedere Montecitorio che si dilaniava sulle telefonate della Cancellieri e non sulle responsabilità della tragedia in Sardegna. Nei famosi «Paesi civili» sempre invocati, ci si dimette per una mancata prevenzione o un tardivo soccorso. Da noi ormai si accetta un disastro ambientale all’anno come una fatalità. Non è anche questo uno standard inaccettabile di moralità pubblica? Coloro che imputano alla Cancellieri di aver trascurato gli altri detenuti per favorirne una, sono gli stessi che (Grillo e Renzi in testa) si opposero all’amnistia proposta dal ministro per alleviare la scandalosa condizione di tutti i detenuti italiani. Quando avrà finito con i tabulati telefonici, la politica discuterà con la stessa passione del piano-carceri?

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21 novembre 2013

ANTONIO POLITO

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