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Autore Discussione: DANIELE MARINI. Le idee sbagliate sul mercato del lavoro  (Letto 2085 volte)
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« inserito:: Maggio 26, 2011, 05:55:01 pm »

26/5/2011 - L'INCHIESTA

Le idee sbagliate sul mercato del lavoro

DANIELE MARINI

La rissosità che caratterizza la discussione pubblica nel nostro Paese coinvolge anche il lavoro. A fronte della oggettività dei dati, scattano le interpretazioni politiche. Sminuendo, così, i fenomeni reali che invece aiuterebbero a formulare iniziative più rispondenti alle difficoltà.

Il problema in più è che, anziché essere una priorità dell’agenda politica, il tema del lavoro si affronta di fronte alle emergenze: e nell’emergenza la discussione prende una piega ideologica. Si guarda alle relazioni industriali con un approccio fordista, più che post-fordista. Si pensa che il lavoro tipico sia quello della grande impresa, mentre poco si conosce la maggioranza delle imprese, le Pmi.

Si ipotizza che la relazione fra impresa e lavoratori si legga solo sotto la lente del rapporto fra capitale e lavoro, quando sono altre le modalità di relazione prevalenti.

In definitiva, sul tema c’è uno strabismo diffuso. Una ricerca sui dipendenti in Italia, presentata all’assise dei piccoli di Confindustria, getta una luce interessante e stempera stereotipi diffusi. Vale la pena sottolineare almeno due aspetti relativi ai giovani e alle relazioni fra lavoratori e imprese. Come l’Istat ha evidenziato nel suo Rapporto, una parte consistente dei giovani vive nel limbo: fuori dal mercato e dalla formazione, in attesa di un’opportunità di lavoro. I motivi sono molteplici.

Alcuni strutturali: l’assenza di un sistema di orientamento che aiuti famiglie e giovani a indirizzarsi verso percorsi di formazione più prossimi alle esigenze del mercato, così che ci sono imprese disponibili ad assumere e non trovano personale. Un sistema produttivo che tende a non differenziare sotto il profilo salariale un diplomato da un laureato, complice il sistema fiscale che penalizza il lavoro. Altri motivi, cui si dà poco peso, riguardano invece le rappresentazioni del lavoro: l’idea prevalente in Italia è che il lavoro sia scarso e sempre più precario. Poco importa che i dati ufficiali testimonino che, in Europa, abbiamo un tasso di lavoro flessibile inferiore alla media. Ciò nonostante, quasi tre lavoratori su quattro (72,5%) ritengono il lavoro «precario», una quota analoga a quanti hanno un lavoro a tempo indeterminato. Dunque le percezioni sovrastano la realtà dei fatti. La difficoltà di messa a fuoco delle condizioni oggettive ha diverse cause.

Una di queste consiste nel fatto che alle riforme del mercato del lavoro (Pacchetto Treu, Legge Biagi), non è seguito un riordino degli ammortizzatori sociali. Un’altra causa è ascrivibile alle condizioni d’ingresso sul mercato del lavoro. Solo un terzo (38,4%) di chi ha meno di 24 anni ha un contratto a tempo indeterminato. Bisogna attendere la soglia dei 35 anni perché la maggioranza degli occupati possieda un contratto a tempo indeterminato (83,5%). Questo lungo e oneroso percorso non può non avere effetti negativi sulla costruzione dell’immagine del lavoro, rendendolo precario ben oltre l’effettiva realtà. Spingendo i giovani a rimanere (fin che le risorse familiari lo consentono) in attesa che qualche spiraglio si apra. In ogni caso, sono i giovani a sopportare il peso prevalente dell’incertezza: sono i meno tutelati, quelli inseriti nelle piccole imprese del terziario (più che nell’industria), distanti e meno intercettati dal sindacato. Soprattutto, vivono una contraddizione pesante: hanno investito in un percorso formativo medio-lungo (diploma e laurea), ma sono proprio loro a vivere in misura maggiore la flessibilità e la precarietà.

Un secondo aspetto riguarda gli occupati ed è legato all’idea che gli interessi e le relazioni fra imprese e lavoratori siano all’insegna della contrapposizione. In realtà, la questione è ben diversa. Nelle Pmi i lavoratori sono disponibili ad accettare flessibilità nell’organizzazione del lavoro (63,7%); e accetterebbero di buon grado di partecipare a formulare idee per l’innovazione e a rendere una parte del proprio reddito variabile in relazione ai risultati dell’azienda (57,5%). Come nascondere, poi, il prevalere di un’idea di giustizia sociale dove l’orientamento merito-solidale è il criterio centrale: pari opportunità per tutti all’inizio, ma poi sono le capacità individuali a dover essere premiate. In definitiva, si conoscono ancora poco gli orientamenti effettivi dei lavoratori. Al punto che, per la maggioranza dei casi, si potrebbe sostenere che siamo di fronte a lavoratori imprenditivi, disponibili a un diverso rapporto con l’impresa. Senza disconoscere la distinzione di ruoli, responsabilità e interessi, questo è il momento di riscrivere un nuovo orizzonte condiviso per uno sviluppo inclusivo, che coinvolga più direttamente il mondo del lavoro. Un patto che ridia valore al lavoro e affermi i valori della co-responsabilità e dell’imprenditività.

(*) Università di Padova
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