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« inserito:: Settembre 06, 2007, 05:50:51 pm » |
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6/9/2007 (8:22) Io, turco e l'Europa Orhan Pamuk parla del suo rapporto con il Vecchio Continente, in cui si intrecciano ripugnanza e amore
Nel Paese da cui provengo, nel XX secolo, specialmente nel primo periodo repubblicano, l'idea d'Europa non era tanto un concetto da analizzarsi, soppesarsi, svilupparsi in considerazione della storia e dei grandi ideali che l'hanno formata; essa è sempre stata piuttosto un mezzo. Quando la utilizziamo come un mezzo, con tale concezione, con l'idea d'Europa, veniamo a partecipare di un certo tipo di «processo di civilizzazione».
Aneliamo a un qualcosa di assente nella nostra storia e cultura perché esso è presente in Europa, e legittimiamo quel nostro anelito in forza dell'Europa. Nel nostro Paese subentra questa concezione a giustificarne il difficile impiego, i cambiamenti politici radicali, il crudo strappo dalla tradizione. Tante e tante cose, dal miglioramento della condizione delle donne ai diritti umani conculcati, dalla democrazia alla dittatura militare, vengono legittimate per il tramite dell'idea d'Europa e con quella sorta di accentuazione dell'utilitarismo positivista che è l'occidentalizzazione. Questo usava nel XX secolo; ora quel modo di fare potrebbe anche aver perduto d'intensità. Le più disparate abitudini dell'esistenza quotidiana, dai riti a tavola fino alla morale sessuale, in vita mia, e tra l'élite occidentalizzata dominante, hanno subìto critiche e mutazioni solo perché «in Europa si fa così». Una sentenza che mi risuona nelle orecchie dall'infanzia - ripetuta dalla radio, dalla televisione e da mia madre -, e che non rientra in una maniera di ragionare: un assunto che stronca il ragionamento individuale.
E adesso si potrà comprendere meglio ciò che noto di sincero nella grande emozione di Tanpinar in occasione del conferimento del Nobel a Gide: l'intellettuale occidentalista sente la necessità, ben più che dell'Europa in sé, di un ideale d'Europa. Quell'intellettuale, pur soffrendo nell'anima, come Tanpinar, davanti allo smarrimento dei valori della cultura tradizionale, della musica e della poesia di una volta, della «sensibilità dei nostri avi», di uno stile di vita, sarà comunque in grado di portare avanti una profonda critica alla propria cultura, di passare da un nazionalismo conservatore a una moderna creatività, in misura proporzionale alla propria capacità di proteggere e serbare il sogno di un'Europa ideale e favolosa. Perlomeno, tra i due poli, saprà dischiudersi a un nuovo campo d'ispirazione, critico e interessante.
D'altro canto, quell'esigenza di un ideale d'Europa fantastica, scaturita dalle leggende, potrebbe associare persino uno scrittore serio e complesso come Tanpinar all'idea puerile e rozza d'Europa espressa da Gide: la meravigliosa civiltà occidentale di quest'ultimo è la più bella. Ma questo ideale d'Europa può costruirsi solo sognando pure il suo contrario, antitetico e opposto.
Ritornerò ora a una ragione, della quale sembra arduo convincersi, per cui gli intellettuali ottomani e turchi non si sono misurati apertamente con le espressioni grossolane e oltraggiose di Gide sulla loro cultura, e riprenderò il motivo dei loro sensi di colpa e del loro silenzio: in fondo, in un angolino della mente, e forse nascondendolo persino a se stessi, «in privato», essi assecondano le osservazioni di Gide.
Tra l'altro, nemmeno io so quanto sia opportuno dire «in privato». Molte delle osservazioni compiute da Gide durante il viaggio sono infatti condivise dai Giovani Turchi occidentalisti. A seconda dell'indirizzo e della situazione in cui quei sentimenti vengono espressi, si rivela il loro statuto privato, oppure il loro tenore di proclama. E qui ci avviciniamo pian piano al punto in cui l'idea d'Europa s'intreccerà col nazionalismo, e poi, da questo nutrita, prenderà forma. Le opinioni di Gide e degli osservatori occidentali sui turchi, l'Islam, l'Oriente e l'Occidente, non sono state semplicemente fatte proprie dai Giovani Turchi, ma sono andate ad assestarsi nell'idea fondante della Repubblica turca.
E' noto come Mustafa Kemal Atatürk, il fondatore della Repubblica, il padre della nazione turca moderna, durante i primi anni della Repubblica, dal 1923 agli Anni Trenta, abbia realizzato riforme nel segno dell'Occidente. Accanto a cambiamenti formali, quali il passaggio dall'alfabeto arabo a quello latino, l'adozione del calendario «cristiano», lo spostamento alla domenica del giorno festivo settimanale, ne esistono altri che hanno lasciato tracce più marcate nella società, come il miglioramento dei diritti delle donne. Le dispute su tali rivoluzioni, dibattute fra una difesa occidentalista, o modernizzatrice, e la critica nazionalista, o conservatrice, forniscono tuttora la base a molti degli scontri ideologici di fondo in atto nell'odierna Turchia. Una delle prime riforme intraprese da Atatürk a due anni dalla fondazione della Repubblica, è quella relativa all'abbigliamento. È questa una riforma carica di coercizioni - ispirata tanto al sogno occidentalizzante europeo, quanto suggerita dall'obbligo che vincolava le comunità nell'Impero ottomano all'uso di determinati capi d'abbigliamento - che pone in primo piano «gli abiti che portano gli europei».
Esattamente un anno dopo la pubblicazione delle note di viaggio di Gide, oltraggiose nei confronti dei turchi e delle altre civiltà, nel 1925, Atatürk, rivolgendosi al popolo, avrebbe espresso pensieri simili, nel corso di un viaggio in Anatolia durante il quale andava illustrando i divieti imposti all'abbigliamento: «Vedo per esempio davanti a me una persona: in testa il fez, sul fez una fascia verde, sulle spalle un corpetto, sul corpetto una giacca come la mia, e poi da qui non posso vedere il resto… Adesso, ditemi voi che cosa significa vestirsi in questa maniera! Una persona civile si concia forse così, a far ridere il mondo?!». (...)
Gide e Atatürk, nei primi anni del XX secolo, concordano sulla bruttezza dell'abbigliamento dei turchi, conseguenza del fatto di trovarsi al di fuori della civiltà europea. Gide, scrivendo «… e, a onor del vero, una tale razza merita un tale abbigliamento», riassumeva il rapporto nazione/abito. Lineare, Atatürk avrebbe invece dichiarato che l'abito rappresenta in modo sbagliato la nazione. Sempre durante quel viaggio, nei giorni in cui aveva lanciato la riforma dell'abbigliamento, si chiedeva: «Ha senso mostrare al mondo una pietra assai preziosa incrostata di fango? Ed è giusto rispondere che la perla è celata sotto questo fango, ma che è impossibile capirlo? Per esibire la perla, è necessario, è perentorio raschiar via il fango… Un abbigliamento civile e internazionale per noi è molto prezioso, è un abito degno della nostra nazione».
Qui, ciò che Atatürk ha voluto dire definendo l'abbigliamento tradizionale un fango che ricopre la nazione turca, rappresenta un modo di confrontarsi con la «vergogna» davanti alla quale si trova ogni occidentalista. Questo potrebbe chiamarsi uno sfiorare la vergogna, un passarle sul ciglio. Quell'abito, rifiutato da Atatürk (e da Gide, e dall'occidentalismo), distingue lui (e gli altri) da chi invece lo indossa. Egli considera l'abito non come parte di una cultura che va a conformare la nazione, bensì a mo' di macchia che come il fango imbratta la razza. In tal modo, per l'idea «d'Europa», per poter essere «europeo», egli affronta con coraggio l'opera di spogliare la nazione di questo abito e di rivestirla di un altro, nel rigore della legge. Esattamente a settantatre anni da queste parole di Atatürk, la polizia turca, con gli operatori televisivi e i giornalisti, dava la caccia a chi circolava con quegli abiti in un quartiere conservatore di Istanbul.
E adesso parliamo direttamente di un sentimento, la vergogna di fondo che dalle parole di Gide alla reazione di Tanpinar, dall'indignazione del poeta Yahya Kemal nei confronti di Gide al fervore catartico di Atatürk, è proceduta di pari passo con l'idea d'Europa, e che va proseguendo in maniera sotterranea.
L'occidentalista, prima si vergogna perché non è europeo, poi (ma non sempre) si vergogna di ciò che ha fatto per poter diventare tale. Si vergogna perché ciò che ha fatto a quello scopo è rimasto incompiuto. Si vergogna di aver perduto la propria identità inseguendo quel fine. Si vergogna di possedere e di non possedere la propria identità. Si vergogna di queste vergogne, ora esacerbate, ora accettate. E si vergogna che si parli di queste vergogne.
Ecco perché tutte queste vergogne e confusioni mentali trovano raramente il loro spazio nella «sfera privata». E come nell'edizione turca del Diario di Gide sono state censurate le sezioni relative alla Turchia, così restano confinate in un bisbiglio le parole sull'autore. Mentre da un lato la volontà di Gide di rendere pubblico il proprio diario «privato» suscita meraviglia, dall'altro, l'ingerenza dello stato in materia di abiti, vale a dire in una delle pieghe più intime delle persone, è interpretata come fonte di legittimazione.
Other Colours. Copyright Orhan Pamuk All rights reserved.
Traduzione italiana dal turco di Giampiero Bellingeri e Semsa Gezgin © Giulio Einaudi editore S.p.A. Torino
da lastampa.it
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