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Autore Discussione: RICHARD NEWBURY. -  (Letto 2890 volte)
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« inserito:: Maggio 01, 2011, 05:33:41 pm »

30/4/2011

E i Windsor hanno sposato il loro Paese

RICHARD NEWBURY

I Windsor sono sempre stati molto professionali - persino «borghesi» - a proposito di quella che loro chiamano la Ditta, ovvero la Monarchia. E’ una vecchia ditta che fa affari sulla sua antichità e sulla riconoscibilità del marchio, ma deve essere molto flessibile nell’adattarsi a mercati in continuo cambiamento, sia in patria che all’estero. Per fare ciò ha un’invidiabile capacità di comprendere le tendenze del mercato.

Il cambiamento più evidente dall’ascesa al trono di Elisabetta II nel 1952, è che allora il 70 per cento della popolazione si definiva appartenente alla classe operaia e lavorava in fabbriche e miniere, mentre ora il 70 per cento si definisce classe media e o lavora in proprio o è impiegato nei servizi. Così il salto che hanno fatto i Middleton da una classe all’altra è lo stesso fatto dal 40 per cento della popolazione, e se la monarchia è tradizionalmente la Fonte dell’Onore, allora questa larga parte del mercato nazionale dovrebbe essere riconosciuta e premiata.

Solo che, invece del tradizionale invito a Buckingham Palace per ricevere il titolo di baronetto, una medaglia o la partecipazione una festa esclusiva, i Middleton sono stati premiati niente di meno che con la mano di un Principe. Questo è un matrimonio dinastico, non con una potenza straniera, ma con una nuova potenza interna: i self-made Middleton rappresentano le nuove aspirazioni della classe media, che può diventare milionaria abbracciando pienamente l’era di Internet, mentre però concede all’Establishment insieme di rinvigorirlo con sangue fresco e di scimmiottarlo nei costumi, codici e consuetudini.

Il prodotto principale della Ditta è far riflettere su di sé la nazione. In questi tempi di crisi il messaggio di speranza, da fiaba - la morale della favola - delle nozze da fiaba di Will e Kate è che chiunque, di qualsiasi origine sociale, può diventare milionario e sposare un Principe.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/
« Ultima modifica: Giugno 27, 2011, 05:32:25 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 21, 2011, 05:10:34 pm »

21/6/2011

E Londra abbandona l'Europa

RICHARD NEWBURY

All’estero è terribile. Lo so. Ci sono stato», diceva il re imperatore Giorgio V, l’adorato Nonno Inghilterra di Elisabetta II. Non aveva una sola goccia di sangue inglese nelle sue vene e come cugini primi annoverava il kaiser Guglielmo e lo zar Nicola, ma in questo tagliente giudizio reale rifletteva una convinzione profonda dei suoi sudditi.

L’«estero» era «il Continente». Come recitava il titolo di un giornale: «Nebbia sul Canale, il Continente isolato».

Suo figlio Giorgio VI ha espresso questo umore nel giugno 1940, dichiarando: «Finalmente soli. Non siamo più costretti a essere gentili con nessun maledetto straniero». Come diceva il portiere al club Whites di St. James: «Bene, siamo in finale, e giochiamo in casa».

Ma più recentemente la vignetta di un giornale recitava: «Finalmente soli. Tutti noi, 500 milioni». L’Impero e il Commonwealth che comprendevano un quarto del territorio e della popolazione del globo erano i benedetti territori d’Oltremare. Quando recentemente i miei tre figli e i loro amici inglesi, tutti ragazzi, andarono in campi di lavoro in Zimbabwe, Kenya e Singapore, nessun genitore ne fu preoccupato, perché i loro bambini restavano a casa. Ma quando il gruppo si spostò «all’estero», in Francia e in Italia, le famiglie si preoccuparono per la loro incolumità.

La perdita di Calais, ultima proprietà continentale inglese nel 1558, come risultato del matrimonio di Maria I la Sanguinaria con Filippo II di Spagna, aveva chiuso un’epoca, mentre di lì a poco la circumnavigazione di Francis Drake del 1577-80 ne avrebbe aperta un’altra. Il profitto del 4700% ricavato dalla Regina e dalla Corte venne considerato da John Maynard Keynes il capitale di avviamento dell’Impero Britannico, usato per le navi che sconfissero l’Armada spagnola e poi per fondare la Compagnia delle Indie Orientali. L’Inghilterra volse le spalle al Continente e pagò Federico il Grande per tenere occupata la Francia mentre al culmine della guerra dei Cento Anni (1690-1815) con Parigi si prendeva l’India, il Canada e salvava le 13 colonie inglesi in perdita.

L’identità prima inglese e poi anglo-scozzese, o britannica, venne forgiata nell’opposizione alla Spagna e alla Francia, la cui ideologia veniva percepita e temuta come l’assolutismo cattolico. I confini - ancora abbastanza attuali - vennero tracciati in economia tra Colbert e Adam Smith, e tra la rivoluzione industriale e quella francese. L’idea commerciale che nessuna potenza doveva dominare l’accesso ai porti continentali portò l’Inghilterra a farsi coinvolgere, a costi disastrosi in termini di sangue e denaro, nelle avventure imperiali della Germania, militarmente riuscite e politicamente inette. L’incidente non fece che confermare l’allergia britannica verso l’Europa e convinse gli inglesi nel 1941 a rendere l’Impero e la City a Washington e a New York, piuttosto che a Berlino.

L’élite politica degli Anni 70 riteneva invece che la Germania avesse in fondo vinto la guerra e perciò scelse di aderire - nonostante un dissenso che riguardò tutti i partiti - al Mercato comune europeo. Fu la svolta storica più importante della politica estera inglese dal 1558. Venne spacciata per adesione a un libero mercato e non come «un’unione ancora più stretta», e l’opinione pubblica britannica di tutti gli schieramenti politici se ne risente ancora. Ogni decisione di Bruxelles (ormai un insulto nell’inglese contemporaneo) o di Strasburgo non fa che confermare, agli occhi dei britannici, che qualunque «unione più stretta» non può che venire praticata alle spese della «Common law», della sovranità parlamentare e dell’economia di libero mercato. Dai sondaggi appare che per i giovani la «Fortezza Europa» appare troppo provinciale per un’economia globale. Gli inglesi possono comprarsi case nel Continente per farci le vacanze, ma si sentono a casa in Australia o negli Usa, e infatti spesso emigrano in questi Paesi con i quali condividono il sistema giuridico, politico ed economico. Il referendum sull’Ue promesso da Cameron oggi non è praticabile in quanto l’unico partito pro Europa, i LibDem, è anche partner della coalizione di governo.

E la crisi europea? L’unica cosa per la quale viene oggi ringraziato Gordon Brown è l’aver bloccato l’ambizione politica di Blair di entrare nell’euro. Nel 2002 un rapporto della Banca d’Inghilterra sconsigliò l’adesione alla moneta unica se non accompagnata da un’unione fiscale o politica. E prevedeva per la fine del ciclo economico nel 2010 due varianti, la G o la I. La G come Germania prevedeva che Berlino avrebbe sfondato il tetto del sistema euro, la I voleva che l’Italia o un altro dei Paesi dei PIIGS ne sarebbe stato catapultato fuori attraverso un buco nel pavimento.

A dirlo è stata Londra, capitale finanziaria del mondo per 300 anni, con tutta l’ambiguità che questa reputazione comporta. Se il Regno Unito avesse aderito all’euro oggi sarebbe in bancarotta e probabilmente il crac delle sue banche avrebbe provocato una depressione globale. Invece ha fatto quello che ora dovrebbe venire permesso di fare alla Grecia, al Portogallo e all’Irlanda. Abbiamo svalutato la nostra moneta del 20%. Sovvenzionare banche - o Stati - in bancarotta significa mettere tutti a rischio di un «azzardo morale». Il capitalismo mette a rischio i vostri soldi per guadagnare (o perdere). La mobilità sociale di individui e nazioni è il risultato del principio «il denaro si separa presto dagli imbecilli». «Non puoi imbrigliare il mercato»: è una convinzione profonda molto anglosassone, che il Continente non condivide fino in fondo.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8878&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 27, 2011, 05:32:08 pm »

21/6/2011

E Londra abbandona l'Europa

RICHARD NEWBURY

All’estero è terribile. Lo so. Ci sono stato», diceva il re imperatore Giorgio V, l’adorato Nonno Inghilterra di Elisabetta II. Non aveva una sola goccia di sangue inglese nelle sue vene e come cugini primi annoverava il kaiser Guglielmo e lo zar Nicola, ma in questo tagliente giudizio reale rifletteva una convinzione profonda dei suoi sudditi.

L’«estero» era «il Continente». Come recitava il titolo di un giornale: «Nebbia sul Canale, il Continente isolato».

Suo figlio Giorgio VI ha espresso questo umore nel giugno 1940, dichiarando: «Finalmente soli. Non siamo più costretti a essere gentili con nessun maledetto straniero». Come diceva il portiere al club Whites di St. James: «Bene, siamo in finale, e giochiamo in casa».

Ma più recentemente la vignetta di un giornale recitava: «Finalmente soli. Tutti noi, 500 milioni». L’Impero e il Commonwealth che comprendevano un quarto del territorio e della popolazione del globo erano i benedetti territori d’Oltremare. Quando recentemente i miei tre figli e i loro amici inglesi, tutti ragazzi, andarono in campi di lavoro in Zimbabwe, Kenya e Singapore, nessun genitore ne fu preoccupato, perché i loro bambini restavano a casa. Ma quando il gruppo si spostò «all’estero», in Francia e in Italia, le famiglie si preoccuparono per la loro incolumità.

La perdita di Calais, ultima proprietà continentale inglese nel 1558, come risultato del matrimonio di Maria I la Sanguinaria con Filippo II di Spagna, aveva chiuso un’epoca, mentre di lì a poco la circumnavigazione di Francis Drake del 1577-80 ne avrebbe aperta un’altra. Il profitto del 4700% ricavato dalla Regina e dalla Corte venne considerato da John Maynard Keynes il capitale di avviamento dell’Impero Britannico, usato per le navi che sconfissero l’Armada spagnola e poi per fondare la Compagnia delle Indie Orientali. L’Inghilterra volse le spalle al Continente e pagò Federico il Grande per tenere occupata la Francia mentre al culmine della guerra dei Cento Anni (1690-1815) con Parigi si prendeva l’India, il Canada e salvava le 13 colonie inglesi in perdita.

L’identità prima inglese e poi anglo-scozzese, o britannica, venne forgiata nell’opposizione alla Spagna e alla Francia, la cui ideologia veniva percepita e temuta come l’assolutismo cattolico. I confini - ancora abbastanza attuali - vennero tracciati in economia tra Colbert e Adam Smith, e tra la rivoluzione industriale e quella francese. L’idea commerciale che nessuna potenza doveva dominare l’accesso ai porti continentali portò l’Inghilterra a farsi coinvolgere, a costi disastrosi in termini di sangue e denaro, nelle avventure imperiali della Germania, militarmente riuscite e politicamente inette. L’incidente non fece che confermare l’allergia britannica verso l’Europa e convinse gli inglesi nel 1941 a rendere l’Impero e la City a Washington e a New York, piuttosto che a Berlino.

L’élite politica degli Anni 70 riteneva invece che la Germania avesse in fondo vinto la guerra e perciò scelse di aderire - nonostante un dissenso che riguardò tutti i partiti - al Mercato comune europeo. Fu la svolta storica più importante della politica estera inglese dal 1558. Venne spacciata per adesione a un libero mercato e non come «un’unione ancora più stretta», e l’opinione pubblica britannica di tutti gli schieramenti politici se ne risente ancora. Ogni decisione di Bruxelles (ormai un insulto nell’inglese contemporaneo) o di Strasburgo non fa che confermare, agli occhi dei britannici, che qualunque «unione più stretta» non può che venire praticata alle spese della «Common law», della sovranità parlamentare e dell’economia di libero mercato. Dai sondaggi appare che per i giovani la «Fortezza Europa» appare troppo provinciale per un’economia globale. Gli inglesi possono comprarsi case nel Continente per farci le vacanze, ma si sentono a casa in Australia o negli Usa, e infatti spesso emigrano in questi Paesi con i quali condividono il sistema giuridico, politico ed economico. Il referendum sull’Ue promesso da Cameron oggi non è praticabile in quanto l’unico partito pro Europa, i LibDem, è anche partner della coalizione di governo.

E la crisi europea? L’unica cosa per la quale viene oggi ringraziato Gordon Brown è l’aver bloccato l’ambizione politica di Blair di entrare nell’euro. Nel 2002 un rapporto della Banca d’Inghilterra sconsigliò l’adesione alla moneta unica se non accompagnata da un’unione fiscale o politica. E prevedeva per la fine del ciclo economico nel 2010 due varianti, la G o la I. La G come Germania prevedeva che Berlino avrebbe sfondato il tetto del sistema euro, la I voleva che l’Italia o un altro dei Paesi dei PIIGS ne sarebbe stato catapultato fuori attraverso un buco nel pavimento.

A dirlo è stata Londra, capitale finanziaria del mondo per 300 anni, con tutta l’ambiguità che questa reputazione comporta. Se il Regno Unito avesse aderito all’euro oggi sarebbe in bancarotta e probabilmente il crac delle sue banche avrebbe provocato una depressione globale. Invece ha fatto quello che ora dovrebbe venire permesso di fare alla Grecia, al Portogallo e all’Irlanda. Abbiamo svalutato la nostra moneta del 20%. Sovvenzionare banche - o Stati - in bancarotta significa mettere tutti a rischio di un «azzardo morale». Il capitalismo mette a rischio i vostri soldi per guadagnare (o perdere). La mobilità sociale di individui e nazioni è il risultato del principio «il denaro si separa presto dagli imbecilli». «Non puoi imbrigliare il mercato»: è una convinzione profonda molto anglosassone, che il Continente non condivide fino in fondo.

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