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Autore Discussione: Alfonso Gianni. Chi ha paura di John Maynard Keynes?  (Letto 1883 volte)
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« inserito:: Aprile 28, 2011, 06:27:35 pm »

Alfonso Gianni*,   26 aprile 2011, 17:40

Chi ha paura di John Maynard Keynes?

Politica     

Il Ministro Tremonti, in una conversazione con Massimo Giannini riportata ieri da Repubblica, annuncia una nuova modifica costituzionale, quella all'articolo 81, in modo tale da introdurre nella Carta il vincolo della disciplina di bilancio


La propensione del governo Berlusconi a mettere mano alla Costituzione formale per farla assomigliare il più possibile a una poco edificante costituzione materiale è nota da tempo. Anche se finora si è trattato più di velleità che di capacità di realizzazione, i progetti annunciati in questo senso sono diversi. Alcuni hanno padri famosi, altri carneadi di turno. Si spazia dalla riforma dell'articolo 1 che vorrebbe ipocritamente ridare centralità al parlamento, in realtà mortificato dall'esecutivo e dalla pessima legge elettorale in vigore, alla più volte annunciata, ma non ancora presentata, riscrittura dell'articolo 41 che dovrebbe sollevare l'impresa da ogni tipo di responsabilità sociale. Da ultimo si vocifera persino di una modifica tale da incidere sul diritto di sciopero, in modo, per intenderci, da costituzionalizzare quanto contenuto nei recenti "accordi" Fiat, ossia che lo sciopero non può mettere in discussione gli obiettivi produttivi dell'impresa (il che equivale ad abolirlo).

Non soddisfatto di ciò il Ministro Tremonti, in una conversazione con Massimo Giannini riportata ieri da Repubblica, annuncia una nuova modifica costituzionale, quella all'articolo 81, in modo tale da introdurre nella Carta il vincolo della disciplina di bilancio.
A onor del vero non è una novità. Il proposito era scritto a chiare lettere nella perentoria premessa al lungo Documento di Economia e Finanza, deliberato dal Consiglio dei ministri il 13 aprile scorso ma fino ad oggi passato quasi inosservato. Nel documento si fa ovviamente esplicito e insistito riferimento al nuovo Patto per l'Euro approvato dal Consiglio europeo del 24/25 marzo, che "è molto di più di quello che sembra. E' in sostanza un ‘Trattato nel Trattato', destinato a modificare radicalmente la struttura costituzionale europea".
Peccato, ma di ciò Tremonti non si cura, che non vi sia stata alcuna assemblea costituente che abbia varato simili impianti istituzionali, né tantomeno alcuna validazione popolare su cui fondare la loro autorevolezza.

Ma ciò non intacca le marmoree convinzioni del Ministro secondo cui "la politica di rigore fiscale non è temporanea ... non è imposta dall'Europa, ma è invece la politica necessaria e senza alternative per gli anni a venire". Siamo dunque tornati a una nuova versione del "pensiero unico", quello che ci ha portato alla crisi economico-finanziaria più grave degli ultimi ottanta anni. Per imporre questo pensiero bisogna uccidere ogni tentativo di ritorno, anche nelle forme più timide, del keynesismo, fino a lasciarsi andare ad affermazioni prive di qualunque fondamento storico e contenuto di verità, come quella secondo cui "le memorie storiche che ci vengono dal ‘900" dimostrerebbero la validità del dogma del rigorismo fiscale. Con il che, oltre a Keynes, il Nostro pensa di avere sistemato anche la ricostruzione storica di un Karl Polanyi.

Purtroppo però non si tratta di una disputa storico-dottrinaria, ma del futuro dell'Europa e del nostro paese. Quello che l'esperienza storica del secolo andato ha effettivamente dimostrato è che ogni fondamentalismo è privo di fondamento reale, se si passa il bisticcio di parole. Nel nostro caso significa che non si può togliere allo stato, addirittura per vincolo costituzionale, la facoltà di finanziare la crescita dell'economia, pena la cancellazione di qualsiasi possibilità di una politica economica. Certo dipende da cosa si intende per crescita e dalla natura e dalla misura del deficit e del debito accumulato.

Proprio perché la crescita non può avvenire continuando sugli stessi binari che hanno portato a un'evidente crisi di sovrapproduzione ( e di sottoconsumo a causa della diminuzione del valore reale delle retribuzioni negli ultimi lustri in tutti i paesi industriali); proprio perché è indispensabile per uscire dalla crisi immaginare e implementare un nuovo modello di sviluppo e di società, puntando prevalentemente sulla produzione di beni che soddisfino i bisogni maturi, ovvero i diritti sociali, che tutelino l'ambiente e creino coesione sociale; proprio perché il capitale privato, per giunta nell'epoca della sua massima finanziarizzazione, si dimostra disinteressato a impegnarsi in investimenti a redditività differita; proprio per tutte queste ragioni vi è bisogno di un intervento del pubblico, a livello sovrannazionale come nazionale.

Se per questo è necessario fare deficit e debito, non solo non è un dramma, ma può essere un bene, cioè la dimostrazione che la collettività investe e scommette su sé stessa. Il debito pubblico infatti non è la stessa cosa del debito privato, anche se il primo non è più a prevalenza domestica come un tempo. Il problema non sta nella quantità in astratto del deficit o del debito (i parametri del 3% e del 60% sono del tutto arbitrari e difatti sono stati ripetutamente violati), ma nella sua sostenibilità, ovvero nella possibilità di fare fronte agli interessi grazie a un adeguato tasso di crescita. Il governatore della Banca d'Italia - e tra poco forse della Banca centrale europea - Mario Draghi ha affermato che i nuovi vincoli europei (che ci costringerebbero a tagli di spesa di 35 mld di euro all'anno!) non sono drammatici se l'Italia cresce a un tasso del 2%. Ma ora non arriviamo che all'1% e a fatica. Per fare un salto in avanti bisogna operare quelle scelte di politica economica che ho prima richiamato e che non si fanno se il mantra è il rigore fiscale, che non è la fine della storia, ma della politica economica di sicuro.

*publicato su il Riformista in data 27 aprile 2011
da - paneacqua.eu/notizia.php?id=17596
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